Di Fabrizio (del 14/12/2010 @ 09:26:55, in casa, visitato 1639 volte)
Il presidente del Tribunale di Busto ha disposto la riunione dei
fascicoli: il processo civile per l'area del campo di via Lazzaretto ripartirà
nel 2011
La causa civile tra Comune e famiglie del campo Sinti di via Lazzaretto
riprenderà a gennaio: il presidente del Tribunale di Busto Arsizio ha disposto
che i fascicoli dei singoli procedimenti (nove, in mano a tre giudici diversi)
siano riuniti e affidati ad un unico giudice. L'udienza è stata fissata per il
25 gennaio: il legale del gruppo di famiglie del campo chiederà probabilmente
l'ammissione di alcuni testimoni, per ricostruire la tesi sostenuta fin
dall'inizio, vale a dire che tra Comune e Sinti non vi fosse un contratto vero,
ma una proposta unilaterale.
Anche se spesso si parla di comunità Sinti, in realtà in via Lazzaretto (nella
foto) abitano nuclei famigliari distinti, per ognuno dei quali è stato avviato
un procedimento di sfratto: da questo è nato l'allungamento dei tempi del
processo. Parallelo al percorso scelto dai 9 nuclei che si sono affidati ad un
avvocato, prosegue l'iter della causa per le altre sei famiglie: la prossima
udienza per questo gruppo è fissata martedì 21 dicembre. Anche in questo caso
probabilmente i procedimenti saranno riuniti e aggregati agli altri. E anche in
questo caso, dunque, è previsto l'ulteriore rinvio a gennaio.
Le famiglie Sinti di via De Magri furono trasferite nel
settembre nel 2007 in
via Lazzaretto, in una zona periferica tra Cedrate, Caiello e Cavaria, sulla
base di un accordo di
durata annuale. L'anno dopo l'affitto non venne rinnovato,
nonostante
non emergessero problemi particolari (la Lega invece
denunciava
degrado legato all'accumulo di rifiuti). Le associazioni cattoliche hanno sempre
criticato l'isolamento eccessivo del campo, poco favorevole a percorsi
d'integrazioni: per questo Acli, Caritas e San Vincenzo proposero anche un
progetto specifico, che però non è stato ritenuto adatto dall'Amministrazione.
Si confidava forse proprio nella possibilità dello sfratto, per cercare di
spingere le famiglie ad abbandonare l'idea della vita in comunità e in case
mobili. I tempi degli sfratti però sono risultati
ben più lunghi di quanto
previsto dall'Amministrazione.
Di Fabrizio (del 26/11/2010 @ 09:17:02, in casa, visitato 2267 volte)
Corriere della SeraFamiglia nomade fa sgomberare gli abusivi:
quell'alloggio era assegnato a noi
MILANO - Rosa quasi non ci credeva più, e invece. Dieci anni di attesa ma
alla fine anche lei e la sua famiglia - marito e quattro figli, sinti italiani
del campo di via Idro - dopo tutta la trafila erano riusciti a scalare la
classifica dell'Aler e ottenere una casa. Peccato solo che quando si sono
presentati a prenderne possesso l'abbiano trovata già abusivamente occupata. Da
una famiglia italiana a sua volta, che solo ieri è stata a sua volta sfrattata:
inizialmente aveva pensato di rivolgersi a sua volta alla Casa della Carità, ma
in serata ha evidentemente trovato il modo di arrangiarsi altrimenti.
«Adesso ci manca soltanto - ironizzava ieri don Virginio Colmegna con amarezza -
che qualcuno scateni la campagna sugli italiani che vengono sfrattati per far
posto agli zingari...».
L'episodio, in verità, rappresenta un capitolo parallelo rispetto al problema
dello svuotamento di quell'altro - più famoso - campo rom di via Triboniano:
quello interessato dalle polemiche degli ultimi mesi sulle famose case Aler che
il Piano Maroni sottoscritto dal Comune destinava, prima che il Comune stesso
cambiasse idea, ai percorsi di uscita dei suoi occupanti. Un'area complessa, una
parte della quale - il vecchio settore bosniaco - si è peraltro già svuotata
quasi del tutto un po' alla volta senza tanto rumore, attraverso gli itinerari
più vari e l'individuazione di alloggi anche sul mercato privato: salvo la
presenza di un'ultima famiglia, attualmente «circondata» dalle altre di origine
romena tuttora in attesa di una soluzione.
Ma la famiglia di Rosa non c'entrava nulla con tutto questo. Quella di
Rosa, come altre famiglie italiane del campo di via Idro, è solo una di quelle
che da molti anni hanno fatto una semplice, regolare domanda in cui segnalare i
propri requisiti per l'assegnazione di una casa popolare. E alla fine Rosa ce
l'ha fatta: presentatevi in via Vincenzo da Seregno - diceva la lettera che le
era arrivata qualche giorno fa - e andate a vivere nella casa che vi è stata
assegnata. Solo che quando ci sono arrivati hanno trovato la porta chiusa e
un'altra famiglia già dentro da anni. Anche in questo caso una donna con un
marito e quattro figli, di origine calabrese. La variazione sul tema è che
questa volta gli abusivi erano loro, e a dover chiedere l'intervento della
polizia sono stati gli «altri».
La polizia è intervenuta ieri. E così nel pomeriggio è stato lui, l'occupante
abusivo italiano, a ritrovarsi in strada con i mobili: le sue proteste davanti
alle telecamere e ai fotografi non sono servite. E oggi la famiglia di Rosa,
salvo sorprese, entrerà nella sua nuova casa.
De Corato (Pdl): "Se cominciamo a dare le case ai Rom, ne arriverà un
milione". Salvini (Lega): "Nessuno fa politica nella Lega per dare privilegi a
chi vive nei campi".
Trascinata fino alle soglie della nuova campagna elettorale per le prossime
comunali, a Milano l'emergenza nomadi stenta a trovare una conclusione.
Nonostante i milioni di euro stanziati dal ministero dell'Interno, la
maggioranza di centro destra litiga sulle soluzioni.
Le ambizioni di Roberto Maroni si infrangono sui muri del più grande campo di
Milano, quello di via Triboniano, dove l'assegnazione di alcune case comunali ha
fatto insorgere Lega e Pdl. Il Comune fa marcia indietro, ma i contratti ci
sono, e i Rom portano Maroni e la Moratti in tribunale.
A proposito:
Nell'ambito della campagna DOSTA! di Milano
12 novembre - ore 18-20.30 Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, via Romagnosi
3 MILANO "Rom: a Milano si può? Politiche abitative (e altro): soluzioni possibili" Saluti: Carlo Feltrinelli presidente della Fondazione Giangiacomo
Feltrinelli
Introduzione: un esponente dell'UNAR; Alfredo Alietti, Upre Roma, docente di
sociologia università degli studi di Ferrara
Testimonianze: don Massimo Mapelli, Casa della Carità; abitanti dei campi;
Interventi: Laura Balbo, docente di sociologia università degli studi di Padova;
Antonio Tosi, docente di sociologia urbana al Politecnico di Milano; Tommaso
Vitale, Scientific Director of the Master "Governing the Large Metropolis" CEE,
Sciences Po Paris
E' stata invitata Mariolina Moioli, assessore alle politiche sociali Comune di
Milano.
(red.) Potrebbe finalmente trovare una soluzione la questione che ha visto
contrapposti comune di Brescia e comunità sinti sulla questione del campo di via
Orzinuovi (leggi
qui,
qui e
qui).
La parola fine potrebbe essere definitivamente messa con il cosiddetto
"Patto di cittadinanza", un documento, approvato da entrambe le parti, che
consente la permanenza temporanea delle famiglie di sinti nel campo alla
periferia della città e obbliga l'Amministrazione a bonificare l'area entro
febbraio 2011.
Secondo quanto previsto nell'accordo, che è al centro di un incontro
promosso da Arciragazzi, Cgil e Fondazione Piccini in programma sabato alle 21
nella Casa del Popolo di via Risorgimento 18, la Loggia "procederà alla chiusura
del campo allo scadere dell'anno di validità del Patto, prorogando eventualmente
i tempi dello sgombero per massimo tre mesi, in funzione del rispetto o meno
delle regole stabilite e dell'impegno assunto nella ricerca di proposte
alternative di collocazione".
Il Patto ha ottenuto il sì anche di Damiano Galletti, segretario della
Cgil di Brescia (leggi
qui) che si era battuta per una bonifica del campo, e da Donatella Albini,
consigliere comunale.
Le venti famiglie attualmente nel campo di via Orzinuovi vi potranno rimanere
fino al completamento dei lavori, al termine dei quali cinque di esse saranno
trasferite in un altro contesto con il supporto del comune.
I sinti, per rimanere nel campo, saranno tenuti a rispettare il
pagamento di alcune quote (leggi
qui).
L'accordo prevede anche che in ogni piazzola possano sostare due caravan,
mentre nell'area attrezzata per famiglie non potranno fermarsi altri mezzi.
Una volta avvenuta la bonifica dell'area, ogni nucleo familiare dovrà
versare al comune 150 euro al mese per i consumi elettrici. 50 euro in più nel
caso in cui nella piazzola fosse presente più di una famiglia.
La spesa per l'acqua, invece, sarà suddivisa in base al numero degli
occupanti, calcolato al 50% per i bambini al di sotto dei 12 anni e secondo i
consumi effettivi.
Inoltre, i sinti dovranno pagare 47 euro mensili per lo spazio occupato. La
manomissione e/o il danneggiamento delle strutture presenti nell'area
comporteranno invece l'allontanamento delle famiglie responsabili.
L'assessore Matteo Sassi propone: "Una casa popolare anche per le
giovani coppie di nomadi, purché lavorino e mandino a scuola i figli".
REGGIO. E se le campine non fossero l'unica soluzione per l'integrazione dei
nomadi? Ne è convinto l'assessore comunale al welfare Matteo Sassi che dopo le
dichiarazioni del sindaco Delrio - "i soldi per proseguire in questo momento non
ci sono e il provvedimento è fermo" - lancia il suo progetto. Un progetto per
molti versi innovativo e che, probabilmente, farà discutere. "Non mi sogno certo
di chiedere a un capo famiglia Sinti di lasciare il campo e le sue tradizioni
per sposare un progetto casa - dice Sassi - ma se noi investiamo nelle giovani
coppie, allora possiamo invitarle a partecipare alle graduatorie per
l'assegnazione degli alloggi popolari. E' un modo per avere un'integrazione vera
che ci possa permettere di ricacciare la paura".
LE CRITICHE. Invitare i giovani nomadi a "gareggiare" per avere una casa
popolare, potrebbe provocare reazioni pesanti, in particolare tra i reggiani. "Sulle giovani generazioni - aggiunge l'assessore - possiamo avviare un progetto
con punti saldi precisi: scolarizzazione, casa e lavoro. Il principio cardine
sul quale deve basarsi il nostro ragionamento politico è il superamento della
logica del campo nomadi. I cittadini forse non lo sanno, ma su una popolazione
nomade residente in città di 800 persone, solo 300 vivono nei campi. I reggiani
non si sono accorti che sono in realtà decine le campine sparse per la città. Il
mio obiettivo è che per il cittadino, il Sinto sia una persona e non un demone.
Ecco perché dove si è realizzato un percorso di integrazione vero, si sono
ottenuti risultati ottimi. Campine sì, campine no? Non mi faccio certo
calamitare da un dibattito che non mi appartiene".
NESSUN PRIVILEGIO. L'assessore poi ci tiene a precisare. "Lo strumento che
propongo - spiega - parte dalle condizioni economiche di una coppia giovane.
Potremo dare loro una casa se ne faranno richiesta e senza alcun privilegio, ma
solo se avranno diritto ad accedervi. Questa è la differenza tra noi e quanto
succede a Milano. Dove una persona, in quanto nomade, non ha nemmeno la
possibilità di accedere ai servizi abitativi". Poi un accenno su quanto
dichiarato dal sindaco in merito ai tagli agli enti locali. "Il sindaco -
aggiunge Sassi - ha riportato al tema attuale degli enti locali. Il tentativo
del governo è quello di destrutturare il meccanismo degli enti locali. La
manovra incide a questo livello. Le campine, al pari delle altre opere
pubbliche, sono progetti congelati. Basta fare un esempio: da aprile ad oggi il
Comune ha speso meno della metà sulle manutenzioni straordinarie. Questo tanto
per dare il senso della crisi economica che incombe anche su di noi".
LE SOLUZIONI. Secondo Sassi per affrontare nel migliore dei modi il "problema"
nomadi, il ragionamento politico da fare abbraccia anche la nascita delle campine.
"Perché fare le campine? - si chiede l'assessore - L'obiettivo vero è
superare i campi nomadi. La campina non è il fine, ma il superamento dei campi è
il traguardo da tagliare. Le microaree sono sempre state uno strumento per
farlo. Non lo strumento, ma uno strumento. Il punto politico è il superamento
del campo che non permette una vera integrazione sociale e culturale. Finché non
si arriva a un punto di incontro, la soglia dei pregiudizi e della paura non si
abbassa".
CONTINUITA'. "Non abbiamo ripensato la nostra politica - ha detto nei giorni
scorsi il sindaco Delrio alla Gazzetta -, la prospettiva di arrivare a chiudere
i campi nomadi è una prospettiva che come amministratori locali abbiamo tutti, e
che si pone all'interno di un programma nazionale di riduzione dei campi nomadi.
Il tema di via Gramsci è da avviare a soluzione, ma va detto che la prima
micro-area è stata allestita con finanziamenti regionali. Oggi, però, hanno
tagliato tutti i fondi. I soldi per proseguire in questo momento non ci sono, e
il provvedimento è fermo. Mancano le risorse: le difficoltà che riguardano i
reggiani purtroppo riguardano anche loro". E' su queste basi che si fonda
un'altra proposta di Sassi. "Per abbassare il livello di paura dei cittadini -
dice - proviamo a rendere più visibili le condizioni in cui vivono i nomadi nei
campi. Allora i reggiani si accorgeranno di quanto avviene in quelle aree.
Conoscendo quella realtà, la si potrà vivere senza paura".
I capi del Pdl e della Lega di Milano, il Sindaco e il Vicesindaco del
capoluogo lombardo e tutti gli altri illustri esponenti delle istituzioni locali
e nazionali, che in queste ultime settimane hanno animato l'incredibile gazzarra
sulle 25 case ai rom di via Triboniano, dovrebbero semplicemente chiedere scusa
ai cittadini e alle cittadine.
Lo farebbero, se gli fosse rimasto ancora un briciolo di dignità, perché la
realtà che sta emergendo, dopo settimane di politica politicante ed urlante,
ci consegna la fotografia di un'ignobile montatura elettorale, fatta da bugie,
prese per i fondelli e violazioni di regole ed accordi sottoscritti.
L'ultimo atto di questa imbarazzante e disgustosa commedia l'abbiamo letto
stamattina su il Giorno di Milano, che accanto al solito ritornello decoratiano
del "verranno sgomberati", riporta le dichiarazioni del Prefetto di Milano, Gian
Valerio Lombardi, il quale dichiara, invece, che il campo di via Triboniano non
verrà sgomberato. Anzi, trattandosi di un campo regolare e non abusivo,
sgomberarlo "sarebbe come intervenire in una casa privata; si commetterebbe
reato". In altre parole, bisogna trovare soluzioni concordate.
E bene ha fatto, dunque, la Casa della Carità a pubblicare sul suo sito web
finalmente la dettagliata e documentata
cronistoria degli ultimi mesi. Nulla di nuovo, beninteso, nel senso che non
rivela certo segreti, ma in cambio mette in fila quei fatti, coperti e nascosti
da settimane di fango.
Infatti, i 25 (venticinque) appartamenti non sono stati sottratti ai milanesi
in graduatoria per una casa popolare, poiché vuoti, abbandonati e bisognosi di
ristrutturazione. E quindi, la Giunta regionale ha deliberato il 5 agosto
scorso, all'unanimità, dunque Lega compresa, di toglierli da patrimonio Erp
dell'Aler. La ristrutturazione sarebbe stata gestita dal Comune di Milano e
finanziata da un apposito stanziamento di 300mila euro del Ministro Maroni.
Riassumiamo. Il Triboniano è un campo comunale e regolare e suoi residenti
sono regolari e quindi non possono essere sgomberati. Quindi, volendo liberare
l'area, visto che si trova sulla traiettoria dell'Expo, il Comune, la Regione e
il Ministero degli Interni, gestiti tutti quanti dalle stesse forze politiche,
cioè Pdl e Lega, hanno deciso di concordare con la Casa della Carità un piano,
al fine di trovare soluzioni alternative e negoziate per le 104 famiglie
riconosciute del Triboniano.
A tal fine, sono già stati firmati, dai rappresentanti del Sindaco e del
Ministro, alcuni accordi, relativi all'ingresso negli appartamenti dei primi 11
nuclei familiari.
Ma poi, qualcuno si è ricordato della campagna elettorale e del bilancio
disastroso dell'amministrazione Moratti e ha pensato bene di riesumare un po' di
campagna razzista contro i rom, che funziona sempre.
A questo punto, però, il re è nudo e non rimangono che due strade. La prima ci
porta fuori dalla democrazia e dalla Costituzione e consiste nel fissare
formalmente il principio che in Italia c'è un'etnia a cui è inibito l'accesso ad
alcuni servizi e diritti. La seconda è quella di porre fine alla gazzarra,
assumersi le proprie responsabilità e trovare delle soluzioni.
La scelta sta unicamente alla Moratti, a De Corato e a Maroni.
GIUGLIANO (5 ottobre) - Un muro traccerà la linea di confine tra le imprese e
le nuove case dei rom. La barriera di mattoni alta tre metri, finanziata dalla Provincia, assieme a una
nuova ordinanza di sgombero, farà scattare a breve il conto alla rovescia per
portare gli ex nomadi fuori dalla zona Asi.
Dopo anni di braccio di ferro tra gli imprenditori e le associazioni, venerdì se
ne discuterà in Prefettura. Sul tavolo le modalità di trasferimento e,
probabilmente, di selezione dei 120 rom – sui quasi seicento presenti da metà
degli anni Ottanta all’interno dell’area industriale - che dovranno alloggiare
nel villaggio attrezzato dal Comune, sempre a pochi passi dall’Asi. Addio
baracche di legno e lamiere, senza acqua e senza luce, ma solo per una parte
delle famiglie, in pratica. Di soluzioni abitative alternative, infatti, finora
non si è mai discusso, né era andato a buon fine il tentativo di
provincializzare - cioè di spostare in altri comuni - i rom in esubero.
Sul destino degli ex nomadi restano vigili le associazioni che già a dicembre
2009 erano scese in campo per strappare la sospensione dell’ordine di sgombero
della Procura, legato all’inquinamento delle aree. Ora, però, i tempi sembrano
maturi per andare avanti. Le condizioni per far scattare il piano ci sarebbero
quasi tutte. Il villaggio attrezzato del Comune potrebbe essere completato entro
ottobre con l’installazione dei 24 alloggi prefabbricati. Mentre si attende che
sia tutto pronto il Comune paga un istituto di vigilanza per proteggere l’area
dai vandali...
La famiglia patriarcale di Dibran Izeir, 12 persone tra figli, nuore e
nipoti, residente a Livorno da sette anni, si è iscritta all'Unione Inquilini
nel 2009 per uno sfratto di morosità con sentenza del giudice, non essendo
riuscita a pagare i 1500 euro al mese richiesti in Piazza Cavallotti.
Nei due costosi appartamenti limitrofi erano stati abbandonati dal Comune
di Pisa, dopo il fallimento e la conclusione di "Città sottili" che ha lascato
in eredità 50 sfratti per morosità a Pisa e dintorni.
A settembre 2009 è iniziata la difficile trattativa tra Unione Inquilini e
assessorato al sociale, coinvolgendo anche la Fondazione Michelucci, al fine di
trovare una soluzione per la famiglia.
Grazie all'impegno dell'ex assessore Maria Pia Lessi e alle nostre pressioni,
l'amministrazione di Pisa, che a settembre aveva dichiarato concluso ogni
impegno nei confronti della famiglia di Dibran, è stata coinvolta ed ha
accettato di dare un sostegno economico, per dare il tempo al comune di Livorno
di reperire una soluzione abitativa alternativa.
A questo fine è stato coinvolto l'assessore Picchi con il suo ufficio casa,
che ha individuato una possibile soluzione in una struttura ex–Asl abbandonato
da 8 anni ma sostanzialmente in buone condizioni.
Tutto bene dunque: nei primi mesi 2010 la delibera è pronta, manca solo la firma
del Sindaco, ma a questo punto salta il banco: l'assessore Lessi si dimette,
Picchi lascia la delega alla casa e per ben 7 mesi il Sindaco non riassegna
queste importantissime deleghe.
E' la fine di un sogno per questa famiglia dopo che per 12 mesi l'Unione
Inquilini è riuscita a mantenerli in casa, grazie anche alla sensibilità
dimostrata nel corso dei quatto picchetti, dall'ufficiale giudiziario e dagli
avvocati della controparte, che hanno seguito insieme a noi l'evolversi della
trattativa. Non c'è stato più niente da fare per l'assenza di interlocutori
istituzionali a Livorno, a garanzia egli impegni presi.
La famiglia è stata costretta a lasciare la dimora di Piazza Cavallotti.
Da parte nostra continueremo a seguire l‘evolversi del caso: i bambini non
devono perdere la scuola, frequentata regolarmente da 5 anni a Livorno, dove
sono ben inseriti con il nonno e la famiglia.
Il giorno 8 ottobre, nell'incontro con il Sindaco intendiamo riaffermare le
nostre proposte e la necessità di concludere il percorso iniziato da Lessi e da
Picchi.
GALLARATE - I sinti sono fiduciosi: "Crediamo che il giudice che segue la
questione si sia messo una mano al cuore e abbia deciso di prolungare i tempi
per trovare una soluzione". Comunque andranno le cose, loro ribadiscono il
concetto: "Noi da Gallarate non ce ne andiamo.
Siamo residenti tutti in questa città e la maggior parte di noi è nata qui.
Invece di spostarci dopo venti anni da via De Magri, per metterci qui, spendendo
soldi, per un anno, potevano mandarci via subito". In realtà, i sinti
"gallaratesi" sarebbero anche disposti a traslocare, "purché si decida per
un'altra area a Gallarate: in quel caso saremmo disposti ad andare via in
giornata, ma non all'interno di mura domestiche, moriremmo. Se, invece,
l'intenzione è di spostarci in un altro comune, allora non ci stiamo. Piuttosto
occupiamo abusivamente uno spazio. Non siamo pedine, ma persone. E' anche
normale che un altro comune dica di no, perché dovrebbe farsi carico dei
problemi di un vicino di casa?"
"ABBIAMO DEMOLITO LE STRUTTURE ABUSIVE"
I sinti del civico 50 si riferiscono ai vari muretti in mattoni realizzati in
più zone dell'area attrezzata. Una volta che gli è stata fatta presente la situazione di abusivismo, li hanno smantellati. "Ciò che c'era d'abusivo non
c'è più", dichiarano.
"VENITE A VEDERE L'AREA ATTREZZATA" Questo è l'invito che lanciano a chiunque fosse scettico. "Questo non è un campo
nomadi – continuano – è una vera e propria area attrezzata. Qui non c'è il
rischio che qualcosa bruci, abbiamo tutti il salvavita. Abbiamo spostato le
roulotte in modo da mantenere una distanza di sicurezza l'una dall'altra. Noi
viviamo qui, ci teniamo alla sicurezza dei nostri figli. Non rubiamo e paghiamo
per l'utilizzo della piazzola. Alcuni campi nomadi di Milano e Roma, che fanno
tanta paura alla gente, fanno paura anche a noi: nemmeno noi ci entreremmo".
Oggi intorno all'ora di pranzo donne, uomini e bambini, hanno invaso il
cortile delle case che devono da tempo essere assegnate. Poiché non tutti
troveranno alloggio all'interno dei nuovi edifici, oggi sono arrivati due
container destinati ai nuclei familiari che rimarranno esclusi. Le famiglie:
"Quei container sono invivibili, chiediamo chiarimenti e risposte al Comune"
Esplode la rabbia e la protesta delle famiglie che abitano al campo di Coltano.
Per le decine di famiglie che aspettano da anni che siano assegnate loro le case
costruite proprio accanto al campo, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è
stata la comparsa intorno all'ora di pranzo di due vecchi container della
Protezione Civile, uno dei quali è stato posizionato all'interno del complesso
delle costruzioni ormai da tempo completate.
Infatti il numero di abitazioni che è stato costruito è inferiore rispetto al
numero di famiglie che abitano nel campo, per cui questi primi container
sarebbero destinati a coloro a cui non verrà assegnata la casa. Gli edifici di
Coltano potranno ospitare 17 famiglie, ma i nuclei familiari presenti nel campo
sono 23 e le abitazioni sono fatte di due o tre vani mentre nella maggior parte
dei casi siamo di fronte a nuclei familiari molto numerosi.
La mancanza di qualsiasi comunicazione preventiva di questa decisione ha fatto
perdere la pazienza alle famiglie, che da anni attendono una sistemazione. Da
qui la decisione di entrare per protesta all'interno dei cortili delle nuove
abitazioni per chiedere chiarimenti all'amministrazione comunale, affinché si
apra un confronto e per non essere rinchiusi in container che risultano essere
anche peggiori delle baracche in cui oggi abitano le famiglie.
La protesta è durate oltre tre ore. Sul posto è giunto in forze il personale
della polizia municipale, della polizia e dei carabinieri. Si è aperto così un
canale di comunicazione tra le famiglie e il capo della polizia municipale,
dott. Massimo Bortoluzzi. Alla notizia che l'amministrazione comunale avrebbe
discusso del problema, data dallo stesso Bortoluzzi alle mamme, ai papà e ai
bambini che hanno "invaso" pacificamente il piazzale, la situazione si è
sbloccata ed intorno alle 16 tutte le famiglie sono uscite dal cancello che
delimita le nuove abitazioni.
"Non vogliamo più essere presi in giro - afferma uno degli uomini che vive nel
campo da oltre dieci anni - Si sapeva da tempo che non c'era il posto per tutti
in quelle case ed ora senza che nessuno ci avesse mai detto nulla prima,
arrivano dei container che sono delle trappole invivibili".
"Sono mesi che aspettiamo - incalza una donna con il suo bimbo al collo - e
ancora non si sa chi verrà fatto entrare e chi no. Noi non vogliamo vivere nei
container ma nelle case come tutti. Lavoriamo, mandiamo i nostri figli a scuola,
è una questione di giustizia".
Con le famiglie era presente Padre Agostino Rota Martir: "Questo episodio
conferma ancora una volta come le vittime siano i rom, che non vengono mai
coinvolti ma devono solo subire le decisioni. Nessuno li aveva mai informati che
alcune famiglie sarebbero state chiuse nei container. Il Comune deve gettare la
maschera ed assumersi le sue responsabilità".
Ad oggi, infatti, nonostante da mesi una commissione lavori ad hoc su questa
questione, non è stato definito chi entrerà nelle abitazioni e quando le porte
di queste case saranno aperte. Nel corso del 2010 l'apertura è già slittata più
volte e non vi è ancora una data precisa.
Le famiglie attendono quindi una risposta dal Comune: "Oggi siamo andati via -
ci spiega uno degli abitanti del campo - perchè vogliamo chiarimenti. Se domani
o dopodomani il Comune non ci spiegherà veramente cosa intende fare,
riprenderemo la protesta, riaprendo questi cancelli".
Uno dei container è così rimasto sul piazzale accanto alle case, l'altro invece
è stato portato via. "Mi chiedo come non si capisca - afferma Padre Agostino -
che portare accanto alle case dei container sia una scelta sbagliata, tanto più
che una cosa simile non era mai stata annunciata. Serve un confronto, ma non
sembra che l'amministrazione sino ad oggi sia stata di questo avviso".
Ricevo inoltre da Agostino Rota Martir
Ci avete rubato anche la festa!
Mentre scrivo a pochi metri da qui, il villaggio Rom è cinturato da un
ingente dispiegamento delle forze dell'ordine, venute per chi? Ce lo chiediamo
in molti, per cercare di capire il motivo di tanta polizia... era evidente lo
scopo di tenere a distanza i Rom per tutelare i "benefattori", asserragliati
all'interno del villaggio, il cancello chiuso e sotto guardia che impedisce
l'accesso ai Rom.
E' l'esatta fotografia del Progetto Città Sottili: molti Rom fuori che gridano
la loro rabbia, altri piangono disperati per le ferite inflitte all'animo, a
volte con arroganza, tutti gli altri smarriti, increduli. All'interno gli
operatori, assistenti sociali, dirigenti, responsabili... Un Progetto che
esclude dei Rom e protegge i suoi "benefattori". E' il paradosso che si celebra
in questa triste giornata, è la parodia del ridicolo vissuta alla luce del sole,
senza alcun senso di vergogna: il villaggio Rom occupato dai "prepotenti", da
coloro che molte volte si sono serviti dei Rom per inseguire i loro interessi e
che non accettano di essere smascherati dai Rom stessi, ecco allora, fare mostra
della loro arroganza e meschinità. Anche chi riceveva la consegna
dell'appartamento, aveva stampato sul volto lo smarrimento e la paura.
Ieri un gruppo di Rom, con le loro famiglie ormai stanchi di non avere una
minima risposta alle loro domande, occupava il villaggio, impedendo di fatto
l'accesso a due container: per chi sono questi container (uno fatiscente, senza
porte e finestre, ammuffito...)? Volevano delle risposte, puntualmente negate
dal responsabile Simone Conzani, così il gruppo, stanco del silenzio, esasperato
dall'ennesimo rifiuto, messo in disparte, come fossero degli appestati, senza
una plausibile ragione, decidono di occupare il villaggio e di chiudersi
all'interno, bloccando di fatto i container fuori del villaggio.
Dopo una trattativa in cui chiedevano garanzie per un dialogo con l'Assessore
alle Politiche Sociali di Pisa, per essere coinvolti nelle decisioni riguardanti
la loro vita e quella delle loro famiglie, ecco la risposta arrivare puntuale
questa mattina: il dialogo è visto come una minaccia per il comune di Pisa, che
finalmente accetta di togliersi la maschera che in questi anni abilmente ha
utilizzato, e mostrare il suo vero volto: quello della forza e della prepotenza.
Il dialogo visto come un istigazione, una minaccia, un intralcio, una perdita di
tempo.
Chi è il vero istigatore in tutta questa vicenda? Sono forse i Rom,
l'Associazione Africa Insieme, il sottoscritto, chi chiede il rispetto verso le
persone e i loro diritti? So solo e lo constato amaramente che quest'oggi il
comune di Pisa di fatto "legalizza" un'ingiustizia! Lo ripeto ancora a distanza
di qualche anno: "Le persone sono più importanti del progetto", ed oggi questa
verità risulta sempre vera e quanto mai provocatoria: le forze dell'ordine
impiegate a difesa del progetto contro persone che hanno pazientato per otto
anni, che hanno avuto forse il torto di fidarsi di tante promesse.
Il Comune di Pisa ci ha rubato la festa. Posso testimoniare che tutte le
famiglie Rom del campo in questi ultimi anni attendevano con ansia e gioia
l'apertura del villaggio, c'era chi risparmiava in vista di entrare nel nuovo
alloggio, era un'attesa carica di timore ma anche di speranza. Poca fa, una
donna del campo che ha avuto l'appartamento, mi disse con un po' di amaro in
bocca: "Quando sono entrata nel villaggio mi tremavano le ginocchia dalla
paura... (non certo a causa dei Rom, come qualcuno vorrebbe far credere!!) con
tutti quei poliziotti attorno." Come leggere questo dispiegamento di forza, del
tutto inutile, se come una prova di "cattiveria", con lo scopo di umiliare la
dignità delle persone e come uno schiaffo all'integrazione?
Quando la forza sostituisce il dialogo è un brutto segno, per tutti! E' un
allarme da prendere in seria considerazione.
A quest'ora, che i "benefattori" e le forze dell'ordine hanno lasciato il
villaggio, i Rom finalmente possono distendere i sorrisi sui loro volti. Gli
altri esclusi, nel vecchio campo discutono ancora sull' immediato futuro, le
donne con le lacrime agli occhi stringono a sé i più piccoli, per
tranquillizzarli e scacciare da loro cattivi incubi.
Don Agostino Rota Martir
Coltano, campo Rom, ai bordi del nuovo villaggio Rom – 2 Settembre 2010
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