Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Di Fabrizio (del 28/04/2014 @ 09:04:49, in lavoro, visitato 1983 volte)
da
Huffington Post
C'è un popolo fra i più negletti della nostra storia millenaria, escluso e
invisibile, spesso dimenticato. Cosa che,
in particolare ai Rom ed ai Sinti,
starebbe anche bene, visto che ogni volta che la storia se ne è ricordata, ha
lasciato loro ferite laceranti e profonde, si pensi allo sterminio operato dai
nazisti o alle 'crociate' (meglio raid) di ignoranti e violenti contro i loro
campi. Nei secoli, milioni di benpensanti li hanno accusati di tutto: dall'aver
fabbricato i chiodi della croce di Cristo ai rapimenti dei bambini; cose fra
l'altro parimenti non dimostrabili. Eppure, raccontava De Andrè, sono uno dei
pochi popoli che nella storia dell'umanità non ha dichiarato mai guerra a
nessuno.
Su questo popolo c'è poi un pregiudizio molto italiano, tanto radicato da essere
divenuto un dogma: "i Rom sono nomadi". Una teoria comoda per chi l'ha
costruita, a volte mascherata da un'idea romantica che cela la voglia di
allontanarli dalle nostre città. La verità sbiadisce e la storia si rischia che
la scrivano solo i più furbi.
A Reggio Calabria,
settima tappa di carovana antimafie 2014, ascoltiamo una
storia diversa confidando in un finale un po' meno triste. Facciamo tappa nella
sede della Cooperativa sociale "Rom 1995", una palazzina adibita a magazzino e
uffici con una luminosissima sala conferenze. Siamo in un bene confiscato alla
'ndrangheta, assegnato nel 2003 alla "Rom 1995". Le foto alle pareti non
lasciano dubbi: si trattava di una struttura fatiscente e decadente completamene
ristrutturata dai soci della cooperativa. I rom nel bene confiscato, già questa
sembrerebbe una buona storia. Le storie tuttavia, per essere belle davvero,
devono cambiare la vita delle persone, altrimenti servono solo ai buonisti che
si nutrono di belle immagini, lasciando agli altri il problema del pane.
Facciamo un passo indietro per scoprire come la "Rom" nel 1995 nasca come
cooperativa sociale. Una scommessa impossibile, che solo i lungimiranti possono
fare: trasformare coloro che raccolgono i materiali lasciati presso i
cassonetti, per guadagnarci qualcosa in capaci e formati professionisti del
settore della raccolta differenziata. Nella città dove i Rom sono additati come
coloro che rubano le auto per restituirle ai legittimi proprietari in cambio del
riscatto (cd. "cavallo di ritorno") e dove sono stati marginalizzati dalle
ultime amministrazioni, c'è stato invece un grande sindaco, Italo Falcomatà, che
ha incoraggiato la scelta di queste persone di abbattere i pregiudizi.
Il rom abile al lavoro legale
nel bene confiscato che si trasforma in isola
ecologica, l'unica della città. La cooperativa si occupa negli anni della
rimozione del materiale dismesso dalle scuole e dei manifesti affissi
abusivamente, del ritiro di vecchi elettrodomestici, conferendoli in un centro
di raccolta autorizzato.
Insomma si occupano del bene comune, rivendicano che "Rom diversi possono essere
lavoratori uguali". Da quattro anni però la cooperativa vive in una condizione
di precarietà a causa di scelte compiute dall'amministrazione, governata
dall'allora Sindaco Scopelliti (di recente condannato a 6 anni di reclusione).
Il 3 maggio 2010 il consiglio comunale reggino vota (all'unanimità) una delibera
con la quale si "dà mandato al Sindaco ed alla Giunta...di attivare e disporre
ogni iniziativa utile per far proseguire l'esperienza della Cooperativa Rom 1995
nell'attività fino ad oggi espletata (raccolta ingombranti e isola
ecologica)..." ma, come racconta il portale la "Filosofia reggina" e gli stessi
responsabili della cooperativa riportano, per una "disattenzione", alla
conclusione della nuova gara di appalto relativa alla gestione dei servizi di
raccolta differenziata, non viene indicato alla società Leonia ("controllata" al
51% dal Comune) e vincitrice della gara d'appalto, di voler esprimere il
consenso di subappalto relativamente alla parte dei servizi storicamente gestiti
dalla Rom 1995". L'epilogo è che nel giugno 2010 le attività della cooperativa
vengono sospese e i lavoratori messi in cassa integrazione. Nel 2011 alla Rom
1995 viene affidata la gestione di due servizi, insufficienti però a dare
continuità lavorativa ai soci e di conseguenza stipendi costanti e sostegno alle
loro famiglie.
Insomma scelte sbagliate che rischiano di affossare un'azienda davvero
"speciale". Una storia straordinaria che rischia di trasformarsi in ordinaria
follia: quella di riportarci indietro, senza considerare che i rom sono parte
integrante della società italiana e non "zingari", destinati a essere nomadi.
Noi carovanieri, viaggiatori per scelta e quindi privilegiati, vorremmo
proseguire il viaggio sapendo che la sosta, per la 'Rom 1995', sia invece
serena.
Di Fabrizio (del 16/04/2014 @ 09:06:37, in lavoro, visitato 1969 volte)
Chiedevo pareri settimana scorsa. Ho raccolto qualche MI PIACE su
Facebook e basta, come va di moda in questi periodi di afasia, in cui tutti ci
sono, ma ancora non hanno capito perché. Più articolato un tweet da U VELTO:
@info_mahalla @Ass_21_luglio noi siamo convinti della bontà del
progetto, ma le questioni poste dovrebbero portarci ad una seria discussione
che comunque non fornisce molti elementi.
Così il sospetto è che queste prime (chiamiamole) risposte, siano il
corrispettivo di un PAT PAT sul testolone: Bravo ragazzo, ma perché non parliamo
delle solite cose trite e ritrite? Facciamo finta di niente, e tra un po'
nessuno si ricorderà niente. PILLOLA ROSSA o PILLOLA BLU?
Allora ci riprovo, che al solito mi tocca da fare tutto da solo. Al mio
autismo aggiungo un po' di peperoncino, quello tipico di Mahalla, vedendo se
qualcuno si sveglia.
Io credo che la questione della mediazione abbia assunto un aspetto MERAMENTE
CULTURALE, e vada riportata coi piedi per terra per evitare fallimenti o
fraintendimenti futuri.
Il primo dato di fatto, era il SOSTANZIALE ESAURIMENTO delle politiche di
mediazione del passato. Tra gli aspetti di questa crisi:
- l'abbandono a se stessi dei mediatori passati;
- lo svilimento del ruolo, che non avendo mai avuto competenze
e orari ben definiti, non si è mai tramutato in una professione,
né tantomeno ha generato introiti interessanti per i mediatori,
che quindi hanno finito per vederlo come una soluzione
(personale) di ripiego.
Il fatto che non sia facile avere un quadro del destino, della storia di
questi mediatori, e nel contempo un bilancio dei risultati ottenuti, mette
un'ipoteca su come continuare.
L'altro aspetto critico è che questi mediatori, chiusi in un ruolo ibrido che
nel mondo del lavoro è difficilmente classificabile, in passato erano
soprattutto persone mature di riferimento per la comunità, oggi vanno
caratterizzandosi come giovani rom e sinti, che potrebbero entrare nel mondo
degli studi (da quelli primari a quelli universitari) e del lavoro.
IMPORTANTE: non è solo un parametro economico. In che ambiti opera un
mediatore? Lui per prima vive la ghettizzazione, nel campo e con i suoi
abitanti, e rapportandosi col mondo esterno solo attraverso figure di
riferimento altrettanto mediate. Un muratore, un facchino, ma anche uno
studente, non solo hanno più possibilità di carriera, ma sono obiettivamente
meno isolati dalla società maggioritaria (e reale).
Però, anche se si ripete che occorrerebbe investire in istruzione e
formazione lavoro, da tempo s'è formata una strana alleanza tra burocrati
europei e autonominatisi rappresentanti di rom e sinti (che questi
rappresentanti siano gagé, come nel passato, o rom e sinti come sta succedendo
ultimamente, non cambia la logica). Un effetto collaterale di questastrana
alleanza, è che la mediazione da luogo a congressi, convegni, tavole rotonde... La mediazione diventa un po'
come l'università nella società nostra: non più un trampolino verso un
miglioramento personale e sociale, ma parcheggio per giovani che il mercato del
lavoro non può e non vuole assorbire (o non sa come farlo).
Tutti questi aspetti mi portano a concludere che l'opportunità non
sta nella carriera di mediatore culturale, ma nell'organizzazione dei corsi e di
tutta la campagna per formare queste figure perché, se ormai abbiamo
imparato che i campi-sosta sono ghetto e business, dovremmo coerentemente dare
un occhio ad altri aspetti similari dello zingarificio italiano ed europeo.
Ciliegina finale: candidata alle elezioni europee troviamo proprio la
responsabile italiana di ROMED2-ROMACT, e allora questa candidatura potrebbe
essere meno folkloristica che nelle tante volte passate, anche se da
scommettitore non sarei sicuro che Tsipras possa essere il cavallo più adatto
alla corsa verso Bruxelles.
Ne riparliamo settimana prossima, se il peperoncino di Mahalla non è
bastato si può sempre aumentare la dose. COME SEMPRE, SENZA OFFESA.
Di Fabrizio (del 09/04/2014 @ 09:01:02, in lavoro, visitato 2585 volte)
immagine da Didaweb-mediazione culturale
Vorrei fare ragionamenti magari antipatici, ma realistici, da continuare
anche in seguito se ci fosse interesse sull'argomento.
Lo scorso gennaio veniva lanciato ANCHE in Italia il programma
ROMED2-ROMACT. Qualche giorno prima, stavo parlando con una romnì,
mediatrice scolastica, già sottopagata e che da qualche mese non riceveva
nessuno stipendio. Forse ingenuamente, mi chiedeva come mai lei non fosse stata
interpellata e chi potesse far valere i suoi diritti.
Partirò da queste due facce della stessa medaglia per alcune considerazioni:
- Cominciando con la mia amica: è mediatrice scolastica (non
mediatrice culturale) da decenni. Per quanto abbia ormai una più
che discreta professionalità, con le sue competenze non saprebbe
ricollocarsi sul mercato del lavoro. Quindi è "condannata" ad un
lavoro magari utile professionalmente, magari persino appagante
per chi altrimenti sarebbe disoccupata.
- Ho conosciuto in passato mediatrici sanitarie (non
mediatrici culturali), che da tempo, per esaurimento delle
convenzioni, hanno smesso di esserlo. Nessuna è mai riuscita a
"riciclarsi" nei campi sanitario - infermieristico -
assistenziale. Incapacità loro, formazione professionale
insufficiente, o il vecchi paradigma che se sei rom ti chiudono
comunque la porta in faccia (al di là della tua preparazione o
della tua motivazione)?
- La somma dei primi due punti da come risultato un
quasi-lavoro, che rischia di mantenerti nel tuo ambito di sempre
(che può essere il campo-sosta, o la consorticola
politico-intellettuale del padrinato socio-assistenziale), e
l'illusione di avere un ruolo sociale attivo nell'emancipazione
del tuo gruppo (o quantomeno personale). Ma col passare del
tempo, quella che potrebbe essere una palestra per affrontare la
società esterna e passare ad un'occupazione che interagisca con
la società maggioritaria, diventa una gabbia autoreferenziale e
parimenti ghettizzante.
Il primo interrogativo è puramente STATISTICO: quanti Rom e Sinti che in
passato hanno svolto ruoli (retribuiti) di mediatori, hanno mantenuto
l'occupazione sino a oggi? Con quali risultati (personali e collettivi)? Se oggi
non lo sono più, cosa fanno? L'attuale rilancio della figura dei mediatori
(culturali o no), tiene conto dei risultati precedenti?
La seconda questione riguarda l'aspetto politico-economico: in queste
politiche
- il gagio (o il rom "gagizzato") è un CONSULENTE;
- il rom o il sinto è un MEDIATORE.
Non è solo un gioco di parole: il CONSULENTE mercanteggia il proprio compenso
(alto o basso che sia), il MEDIATORE no.
Ciò detto, qual è il compenso di un mediatore, quale il suo orario, quali i
suoi compiti? Le ultime due domande, purtroppo, si prestano alle risposte più
varie: i compiti ognuno li interpreta come crede, e anche l'orario finisce per
essere una cosa discrezionale. Quanto al compenso, se torno alle figure
conosciute in passato, per quanto in periodi meno caratterizzati dalla crisi
odierna potessero far gola ad una popolazione il cui tasso di disoccupazione
rimane il più alto in Europa, quanti di loro se la passavano meglio facevano
comunque conto su altre fonti di ingresso. Dal punto di vista economico, la
figura di mediatore non significava in alcun modo l'AUTONOMIA.
Per il momento, non entro nelle questioni dei compiti, della
corresponsabilizzazione e della formazione professionale.
Il mio parere (ma discutendone sono disposto a cambiarlo) è che OGGI
la mediazione culturale è un business per chi la propone, per chi organizza e
gestisce la fase di START UP, piuttosto che un'opportunità lavorativa
che porti all'emancipazione.
Noto anche che l'Italia, arrivando buon'ultima anche in questo caso rispetto
ad altre esperienze europee, può scegliere tra scimmiottare quanto sta già
accadendo altrove o viceversa provare a ribaltare questa deriva propria
dell'Unione Europea.
Soluzioni? Non ne ho, ecco il senso del discutere. A pelle, proprio guardando
quanto sta GIA' ACCADENDO in Europa, ho l'impressione che quei fondi potrebbero
essere spesi meglio se dedicati ad una pragmatica politica di scolarizzazione e
di formazione lavoro. Ma, anche qua, discutiamone.
Se qualche lettore si fosse, a torto o ragione, impermalosito, non avevo
l'intenzione di provocarlo, anche perché quando ho avuto l'occasione pure io ho
partecipato a programmi di mediazione.
Approfondimenti:
#mediazioneculturale #europa
Di Fabrizio (del 13/02/2014 @ 09:05:50, in lavoro, visitato 1975 volte)
08 febbraio 2014 -
La relazione dell'Occhio del Riciclone da il punto sulla situazione dei rom
nelle città italiane, in merito alle attività lavorative collegate al settore:
"Occorre combinare opportunità di formazione e di reddito, creando centri di
riuso e riparazione, aree di libero scambio e sportelli municipali"
ROMA - Il rapporto nazionale sul riutilizzo 2013, presentato dalla rete
nazionale di operatori dell'usato e realizzato dal centro di ricerca economica
e sociale "Occhio del riciclone", con il patrocinio del ministero dell'Ambiente,
fa il punto sulla situazione dei rom, nelle città italiane, in merito alle
pratiche e attività lavorative collegate al settore. "Siamo di fronte ad un vero
e proprio know-how", racconta Gianfranco Bongiovanni, responsabile sociale del
lavoro per l'organizzazione "Occhio del riciclone"- "si deve trovare il modo per
formalizzare soluzioni concrete, combinando opportunità di formazione e di
reddito, basterebbe seguire alcuni semplici passi, creare centri di riuso e
riparazione per la raccolta e selezione dei beni usati, istituire aree di libero
scambio, aprire sportelli municipali per le fasce deboli, far emergere le
microimprese e costituire cooperative sociali".
Come ha fatto il comune di Torino, "che dal 2010 ha creato un'area di libero
scambio dove si ritrovano Rom, comunità straniere, ex-operai, cassaintegrati.
Sono due le zone in questione e una di queste è all'interno dello storico
mercato del Balan, nel quartiere Borgo Dora, ed è un'area gestita
dall'associazione omonima (Balan), l'altra in piazza della Repubblica, ed è
l'associazione Bazar project che se ne occupa".
Riguardo a questa tematica, negli ultimi anni, "Roma ha fatto invece passi
indietro nell'opportunità di includere le economie informali, all'interno di una
gestione virtuosa del ciclo dei rifiuti e nell'inclusione sociale di queste
attività". "Il comparto dell'usato è un ammortizzatore sociale naturale, poiché
chi ha mancanza di capitali la prima cosa che fa è vendere ciò che possiede
oppure gli oggetti non utilizzati della propria rete di conoscenze, questi beni
costituiscono una risorsa economica per il sostentamento del proprio nucleo
familiare", dice Bongiovanni. Con il tempo, questi mercati, dove lavoravano i
Rom, sono stati chiusi, creando così fenomeni di caporalato e taglieggiamento a
operatori Rom, spingendoli tra l'altro a portare le loro mercanzie in aree non
autorizzate, quindi esponendoli ancora di più al rischio di infrazioni e di
ritiro della merce".
Realizzare un area legale di libero scambio in territorio romano potrebbe essere
una maniera interessante per consentire una formalizzazione graduale di questo
tipo di attività. "Nel rapporto sul riutilizzo 2013 ci sono delle indicazioni
che possono aiutare gli amministratori locali a intraprendere dei percorsi per
l'istituzione locale alla creazione di questi spazi anche con una certa celerità
perché le esigenze dovute anche alla crisi economico-sociale sono sempre più
pressanti", racconta Dongiovanni. "Intorno al riutilizzo stanno nascendo realtà
interessanti come quelle della riconversione di spazi lavorativi, come le ex
officine per la manutenzione dei treni di Roma o l'ex Maflow di Milano. Sono
tante le persone che insieme ai figli, attraverso l'attività di rivendita
dell'usato, riescono a mandare avanti la famiglia, come persone che volevano
intraprendere una loro attività, ma che non sono riuscite a emergere a causa
delle difficoltà della normativa attuale". "Senza dubbio, conclude Bongiovanni,
il problema è la mancanza di spazi autorizzati dove commercializzare beni usati,
al fine di poter rendere questa attività un vero e proprio progetto di vita".
© Copyright Redattore Sociale
Di Fabrizio (del 03/02/2014 @ 09:05:44, in lavoro, visitato 1857 volte)
Giovedi 23 Gennaio 2014 "Volevo essere come gli altri"
di Sabine Wagner
E perciò Niza Bislimi ha nascosto a lungo la sua provenienza, sia in Kosovo che
qui in Germania. E' una Rom, per essere precisi: una Romnì. Lei conosce tutti i
pregiudizi contro i Rom. Da quattro anni è avvocato specializzato in diritto
dell'immigrazione. Solo ora Niza Bislimi ha dichiarato la propria origine.
Cosa che, come lei sa, non compiono altri Rom che hanno fatto carriera.
Ora è avvocato, non è stato facile
Attraverso tutti gli ostacoli verso il successo
Lei conosce la discriminazione sin dall'infanzia. [...] La incontro alla Corte
distrettuale di Essen. Il vestito le si adatta perfettamente. [...]. Da quattro
anni Nizaqete Bislimi, detta Niza, parla apertamente della sua provenienza.
[...] In questo tempo è entrata in contatto col razzismo e lo sta contrastando
in occasione di manifestazioni per i diritti umani. Fin da bambina ha nascosto
di essere una zingara. Voleva soltanto essere come tutti gli altri. Da allora la
sua storia è buona come soggetto di un dramma: a 14 anni la fuga da Kosovo verso
la Germania con l'aiuto dei contrabbandieri - la vita in un centro profughi. Per
13c anni la paura costante di essere deportata. Ha avuto una madre e quattro
fratelli e sorelle molto capaci. Una famiglia tedesca l'ha aiutata a studiare
nei momenti iniziali e così nelle più avverse circostanze ha imparato il
tedesco, prendendo poi il diploma. Alla fine, ha ottenuto il titolo di avvocato,
titolo puramente "tollerato" nello stato dello Jura.
Come avvocato, si è specializzata in diritto dell'immigrazione
Un essere umano
Avendo a lungo nascosto qui in Germania il suo essere Rom, ha avuto anche a che
fare con la loro già scarsa posizione di richiedenti asilo. Dice: "Eravamo
tenuti d'occhio perché indossavamo solo abiti della Caritas e vivevamo nelle
baracche alla periferia della città." L'appartenere ad una minoranza etnica
tanto criticata, oltre all'aspetto visivo, spiega la sua riluttanza. Cosa
sarebbe successo se si fosse scoperta la sua origine? Niza Bislimi non ha una
risposta a questa domanda. Quello di cui è sicura, è che senza l'appoggio di sua
madre e la coesione della famiglia non ce l'avrebbe fatta. Impariamo da una
grande donna e dalla sua famiglia cosa può significare per una tedesca, una
kosovara, una romnì "un essere umano". Che in romanés si traduce proprio con
Rom.
[...]
Lettura consigliata da Mahalla
L'Europa che c'è: un giro tra i racconti e i pensieri di
intellettuali e professionisti rom nel nostro continente
Di Fabrizio (del 01/02/2014 @ 09:08:56, in lavoro, visitato 1877 volte)
Come un villaggio ungherese lotta contro la disoccupazione
tra la minoranza rom - da
ETHOCИ
[video in tedesco, articolo tradotto (insomma...) dal bulgaro con Google
translator]
Un gruppo di Rom di un villaggio ungherese non ha altra scelta che lavorare
in agricoltura: raccolta di rifiuti da compostare o la costruzione di serre. Vi
è impiegato il 50% della popolazione rom.
"Abbiamo bisogno di vedere. La mattina, quando ti alzi, la prima cosa che
viene in mente è se funzionerà o no. Carcere o prestazioni sociali non sono la
soluzione al problema della disoccupazione. Abbiamo bisogno di un cambiamento,"
dice il sindaco a "Deutsche Welle".
La soluzione al problema della disoccupazione in questo paese è percepita dal
governo di Viktor Orban come un modello da applicare alla strategia nazionale
epr i Rom. [...] E' raro il successo di simili modelli. In un altro villaggio, a
300 km dalla capitale, la disoccupazione ha raggiunto proporzioni preoccupanti.
Senza programmi per il lavoro i residenti [...] possono scegliere tra morire di
fame o lavorare quasi come schiavi, senza cibo e senza le condizioni sanitarie
necessarie. Chi raccoglie legna, riceve 200 euro al mese e il diritto a portare
a casa un po' di legna da ardere. I Rom in Ungheria potrebbero vivere meglio
grazie ai milioni versati da Bruxelles per i vari progetti, tuttavia i fondi non
sono distribuiti correttamente.
Negli ultimi 25 anni, dice Alada Horvath, deputato del Partito Rom, tutte le
parti hanno concordato su una cosa: l'odio verso gli zingari. Secondo lui, non è
stato fatto nulla per migliorare la loro vita, ed il 90% dei 790.000 Rom
ungheresi è disoccupato. Dei fondi beneficia solo quella parte di Rom vicini al
governo, in questo caso del partito del primo ministro Orban.
Laszlo Bogdan non fa parte di quel partito, i suoi compaesani devono lavorare
duro. Però, i frutti del loro lavoro sono per tutti. Si mostra come un piccolo
villaggio da solo può far fronte ai problemi senza aiuti da parte dello stato.
Di Fabrizio (del 29/12/2013 @ 09:04:03, in lavoro, visitato 1955 volte)
Romedia Foundation - 27 dicembre 2013
Pinze dentali, foto © The Pitt Rivers Museum, Oxford. Per scoprire il
significato dell'immagine, continua a leggere...
Dato che l'immigrazione dei Rom nell'Europa Occidentale continua a causare
panico nei media, Damian Le Bas considera la storia dei traffici romanì e
l'incredibile varietà di lavori che l'Europa e l'Asia hanno af
fidato ai propri
"zingari". Sono scrittore e regista: scrivo e faccio film per
vivere, la scrittura e i film sono ciò che mi danno da mangiare. Cosa che
potrebbe non essere particolarmente sorprendente per qualcuno, per me lo è
ancora.
Da giovane ho provato ad immaginarmi come scrittore, ma era davvero difficile
da credere. Era una vaga aspirazione, non un'ambizione tangibile. E l'ambizione
più sensata che potessi avere non era comunque "un'ambizione": era fare quello
che facevano tutti gli altri, lavorare per mettere del cibo sulla tavola.
Da bambino, "quello che facevano gli altri" significava o la vendita di
fiori, o il lavoro nelle costruzioni o sui tetti. Queste erano le scelte
ragionevoli, ed anche quelli nella mia famiglia che avevano aspirazioni dovevano
seguire strade sensate. Mio madre e mio padre erano artisti, ma l'arte non
pagava le bollette. Tuttora continuano a vendere fiori per arrivare alla fine
del mese. Così pensavo che una volta cresciuto avrei venduto fiori o fatto il
carpentiere. C'erano altre opzioni che sembravano un poco più esotiche, ma
comunque ragionevoli: vendita di cavalli, riparare motori o compravendita di
rottami; ma l'idea di vendere parole scritte da me o di film girati da me, mi
suonava realistica come quella di aprire un negozio di fiori nello spazio
infinito.
Nella cultura romanì è forte l'idea che si debba fare "il proprio lavoro",
"lavoro da zingari" o "romani buki" o comunque si voglia chiamarlo. Perché non
dovrebbe essere così? Possiamo pensare a quanto sia comune in qualsiasi cultura
stabilire un "affare di famiglia", un mestiere per cui tu e la tua Vitsa
siete conosciuti e rispettati. Ma creare un negozio proprio in un lavoro che
valorizza i tuoi punti di forza, non è lo stesso dell'avere un ruolo nel mondo
del lavoro sulla base di ciò che gli altri si aspettano da te, o perché tu non
credi di poter fare qualcosa di differente.
Fuori dalla cultura romanì, l'idea dei "lavori da zingari" probabilmente è
ancora più forte. Allora, quali lavori bisogna fare? Presumo, che possano essere
classificati in diverse maniere. Ci sono lavori che sono lavori, e sono
utili alla società; lavori che sono lavori, e non sono utili alla
società, e lavori che non sono lavori - ma attività criminali. Così,
per esempio, nel primo gruppo abbiamo i lavori agricoli (nelle fattorie), nel
secondo gruppo la chiromanzia e nel terzo il furto. C'è un ipotetico prisma
paradigmatico tripartito generato esternamente nel vedere il lavoro romanì. O,
in inglese, un outsider's way of looking al lavoro romanì.
Perché simili punti di vista continuino a prevalere, quando chiaramente hanno
un effetto negativo sull'autopercezione dei Romanì stessi e del loro potenziale
(come succederebbe a chiunque), e chiaramente non riuscendo a descrivere la
varietà di lavori che svolgiamo e, anche, che abbiamo sempre svolto? Sì, avete
letto bene: che abbiamo sempre svolto.
Nel Pitt Rivers Museum della Oxford University, mia madre incrociò il paio di
forbici dentali mostrate nell'immagine iniziale. Il cartellino che è attaccato
recita:
"Forbici dentali realizzate da ZINGARI locali. In ferro, con un lungo e
sottile manico curvo: le due piccole pinze terminano con due denti su ogni lato.
Popolo: Zingari albanesi.
Località: Scutari, Albania.
Raccolto dalla signora ME Durham, 1911.
Acquisizione: tramite lei stessa, 1933"
Informazioni importanti, ma non così tanto come successivamente ha spiegato
il professor Thomas Acton. Il popolo romanì ("Zingari albanesi") che realizzò
quelle forbici non solo aveva fabbri di talento per realizzare strumenti medici,
ma facevano anche gli odontoiatri. Questo, almeno 80 anni fa, e questi "zingari"
erano dentisti.
Questo è solo un esempio della varietà che menzionavo sopra, ma almeno è un
esempio didattico. Non riesco a spiegare completamente perché questa scoperta mi
fece sorridere così tanto, ma in parte proverò a spiegarlo. Ho sorriso - come
quando lessi per la prima volta di
Helios Gomez, artista e pensatore politico che era anche gitano - perché mi fece
capire che, provenendo da una famiglia romanì e con una buona contezza del mio
patrimonio culturale, c'era ancora moltissimo che non conoscevo, che la maggior
parte di noi non conosce, di tutta la varietà di cose che il nostro popolo ha
fatto per sopravvivere. I libri di storia hanno la cura di sottolineare una
delle ragioni per cui i Rom nel mondo islamico facevano mestieri come il
dentista: in quanto gli altri li consideravano mestieri impuri, informazione per
me del tutto secondaria. La cosa principale è che l'intraprendenza e le capacità
di questi Rom li ha portati su questa strada, e questa storie di flessibilità, e
di abilità, non sono abbastanza valutate nel discorso attuale
sull'immigrazione romanì.
L'artista gitano e pensatore politico di sinistra, Helios Gomez
C'è un altro avvertimento da tutta questa discussione, che prospera sulla
presunzione di pigrizia e irresponsabilità dei Romanì. Nella maniera più
semplice: in un gran numero di angoli di solito nascosti dagli occhi selettivi
della storia ufficiale, l'Europa si è arricchita col secolare lavoro dei Romanì,
il problema è che non sono mai stati riconosciuti, retribuiti o rispettati come
esseri umani. Grandi aziende di successo (voi sapete quali) sono nate in questo
modo e continuano a prosperare su queste radici, ed il minimo che possiamo
chiedere è che questo sia reso palese e rispettato come parte della storia del
nostro continente.
"In ogni fatica c'è profitto, ma la mera parola porta solo alla povertà"
ci dice il libro biblico dei Proverbi. E' una bella citazione con un semplicità
audace, in cui potreste ritrovarvi pure voi. Io l'ho fatto. Poi ho pensato alla
realtà, ad una in particolare: la schiavitù. E' improbabile che l'autore (o il
compilatore) del libro dei Proverbi fosse uno schiavo: gli schiavi istruiti
erano pochi e si trovavano soprattutto in Medio Oriente. Comunque, è nella
fatica della schiavitù risiede il profitto, solo che al profitto non capita di
andare verso chi fatica duramente.
By Damian Le Bas
Di Fabrizio (del 22/12/2013 @ 09:08:00, in lavoro, visitato 2052 volte)
Una Romnì non riusciva a trovare lavoro, ora dirige un negozio suo
-
Bratislava/Liptovsky' Mikulash, 18.12.2013 17:47, (ROMEA)
Romovia.sme.sk, translated by Gwendolyn Albert
Riferisce il news server Romovia.sme.sk la storia di Jana Ferencova', una Romnì che ha vissuto per anni negli ostelli della Repubblica Ceca, prima di
iniziare un'attività propria dopo essere
tornata in Slovacchia (testo in slovacco). Per il secondo anno conduce un
negozio di abiti di seconda mano nella città di Liptovsky' Hradek.
Ferencova' e suo marito hanno lavorato per tre anni nella Repubblica Ceca,
cambiando tre volte l'indirizzo del negozio, ma sempre rifiutandosi di
rinunciare al loro sogno. Racconta: "Mio marito e io volevamo una vita buona per
i nostri figli, per questo andammo in Repubblica Ceca in cerca di lavoro. Qui
[in Slovacchia] non eravamo riusciti a trovarlo."
La proprietaria, 47 anni, viene da una famiglia di nove bambini. Il padre per
dare da mangiare alla famiglia lavorava con una piccola attività in proprio.
Quando lui si ammalò, trovò lavoro nella capitale, Bratislava, per la figlia
più grande, come donna di pulizie. "Per noi i genitori erano un modello, e
abbiamo voluto essere lo stesso per i nostri figli," insiste Ferencova', che
ha solo l'istruzione primaria.
"Non è stato facile, ma ce l'abbiamo fatta," dice. Pur vivendo all'estero,
poco a poco hanno iniziato a migliorare, senza mai considerare di insediarsi lì
permanentemente.
Dice: "Tre anni fa stavamo lavorando a Praga. Mio marito là dirigeva una
squadra di costruzioni, tutti erano in proprio. Il proprietario dell'ostello
dove vivevamo nel quartiere Hloubetín mi offrì un lavoro come donna di pulizie."
Fu il punto di svolta. Lavorò all'ostello per un anno, ma nel frattempo suo
marito perse il lavoro.
Il direttore dell'ostello gli offrì un lavoro come manutentore, ma la donne,
con tre figli, non voleva più che i figli vivessero lì. "C'erano dei bambini di
10 anni che fumavano. Sigarette, lo capisco, ma la marijuana? Temevo soprattutto
per mio figlio Daribor, che allora aveva 13 anni e già abbastanza problemi di
suo," dice.
Quindi, la decisione finale era chiara - il ritorno in Slovacchia.
Riassumendo: "Una volta che ero a casa ho iniziato a spedire curriculum ovunque,
ma tutti mi tornavano indietro."
Impossibile trovare un lavoro con la sua sola istruzione primaria. "Non avevo
referenze, ma sono capace e affidabile. Molte volte c'era una richiesta di
lavoro, ma quando vedevano che ero una romanì, mi dicevano che avrebbero
richiamato."
La famiglia ha campato di lavoretti nei cantieri durante il primo anno di
ritorno a Liptovsky' Hradek. Ferencova' lavorava con gli uomini alla
betoniera, ma poi rinunciò perché lo stipendio non era abbastanza alto.
"Chiesi ai locali affaristi Cinesi se
mi aiutavano, ma non lo fecero." Disperata, la donna andava di porta in porta in
cerca di un impiego.
Ferencova' sapeva che senza un lavoro, avrebbero speso in circa due mesi
tutti i soldi guadagnati nella Repubblica Ceca. Un giorno decise che ne aveva
abbastanza.
Iniziò a comperare ogni martedì coperte e lenzuola, e rivenderle ai Romanì
del posto guadagnandoci qualcosa. Figlio e marito la accompagnava in macchina e
lei negoziava il prezzo coi clienti romanì.
In internet trovò un magazzino di vestiti a Zharnovica (regione di Banska
Bystrica) ed iniziò ad andare lì a cercare merci e contrattare prezzi e
condizioni con i fornitori. "Naturalmente, calcolavo quanto acquistare dai
fornitori e a quanto rivendere e se ne valeva la pena."
Le ci vollero tre mesi per trovare un grossista con cui venire ad un accordo.
Il leasing per il negozio era un altro problema.
Ferencova' non riusciva a trovare spazi liberi in affitto attraverso i
privati, Liptovsky' Hradek o Liptovsky' Mikulash. "Era come quando
cercavo lavoro, ovunque mi dicevano che mi avrebbero richiamato, e questo è
tutto," dice delle sue iniziali esperienze come imprenditrice.
L'ultima possibilità era il Liptovsky' Hradek Housing Office.
L'esperienza le aveva insegnato di parlare solo col responsabile, quindi andò
direttamente dal direttore.
Racconta: "Gli ho detto: direttore, non deve preoccuparsi del colore della
pelle, non deve preoccuparsi dei soldi. Se avete spazi vuoti, metteteli a
profitto dandoli a me, qual è il problema?"
La sua strategia schietta pagò. L'Housing Office le affittò uno spazio come
negozio per un periodo di prova di sei mesi e un affitto anticipato di tre mesi.
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sintologia
Così Gianni Fava intervenendo al convegno sul tema tenutosi oggi a Milano.
L'assessore alla Cultura della Lombardia ha sottolineato: "Il processo attuale
di presidio va sostenuto". Trecentottandadue giostre che servono circa 105.000
persone, per una presenza annua in 8.000 fiere paesane. E', in sintesi, il
ritratto delle piccole giostre in Lombardia, ovvero l'insieme delle attività
dello spettacolo viaggiante, che, oltre alla rivitalizzazione delle piazze
comunali, comprende le tradizionali piccole attività di spettacolo gestite in
particolare da appartenenti alle minoranze linguistiche sinte e destinate in
particolare ai più piccoli, dai tratti fortemente identitari per la tradizione
lombarda.
"Attività di nicchia - ha detto l'assessore regionale all'Agricoltura Gianni
Fava, intervenendo, oggi, in apertura dei lavori del convegno 'Spettacoli
tradizionali delle giostre in Lombardia: sicurezza e valorizzazione delle
attività verso Expo 2015' - e di qualità, frutto di attività che assicurano il
mantenimento di un presidio fondamentale nei piccoli paesi: se le giostre
abbandonano i nostri piccoli centri, le piazze dei piccoli centri rimangono
vuote e perderanno sempre di più il loro carattere di incontro e sicurezza"
...continua su
U VELTO
Di Fabrizio (del 02/12/2013 @ 09:09:06, in lavoro, visitato 1726 volte)
Torino, 19 novembre 2013. Cristian Santauan, ragazzo rom rumeno, ha spiegato
all'incontro "Torino Meno Rifiuti" , organizzato da Eco dalle città, la sua
esperienza di recuperatore, che durante la settimana scandaglia i cassonetti
e poi sabato e domenica tenta di vendere al Balon gli oggetti recuperati: abiti,
scarpe, persino piatti e bicchieri. Commenta questa pratica l'assessore
all'Ambiente del Comune di Torino Roberto Ronco
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