Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Di Fabrizio (del 12/05/2014 @ 09:01:01, in Europa, visitato 3408 volte)
Osservatorio Balcani e Caucaso Nicola Pedrazzi | Tirana 7 maggio 2014 | foto di Nicola Pedrazzi
Sono circa otto milioni i rom europei, la maggior parte dei quali è
concentrata nell'Europa dell'est e nei Balcani occidentali. In Albania, una
delle comunità più numerose è stanziata a Fushë-Kruja, alle porte della
capitale. Un reportage
Prima di arrivare in Albania non mi ero mai interrogato sulla cultura rom, né
sul problema che essa pone al "buon governo". Mi era sempre bastato quanto
descritto in
Khorakhanè , struggente pezzo che Fabrizio De Andrè ha dedicato ai
rom del Kosovo giunti in Lombardia agli inizi degli anni Novanta. In buona
sostanza, mi ero sempre accontentato della poesia. Le parole, supreme, di quella
canzone, lasciano in chi la ascolta un vago senso di mistero, l'indefinibile
sensazione che quei nomadi in grado di "leggere il libro del mondo con nessuna
scrittura" custodiscano nella loro scelta di vita non proclamata un segreto
inesprimibile.
In effetti, la capacità dei rom di frequentare modernità e benessere senza
esserne conquistati genera stupore negli abitanti di tutte le città europee a
cui sono approdati: da un punto di vista filosofico, lo stile di vita di queste
genti incarna meglio di qualsiasi altro sistema culturale la domanda ancestrale,
il dubbio che in tutto il mondo le periferie dell'umanità pongono alle certezze
del mondo civilizzato, alle regole del suo sviluppo.
Purtroppo, nella ben più prosaica realtà di tutti i giorni, una volta che queste
persone varcano le soglie della civitas, si trasformano quasi sempre in piaga
sociale, in problema politico, in emergenza da risolvere: ad accoglierli, nella
migliore delle ipotesi, è un vago relativismo terzomondista ad uso e consumo
delle classi colte. Abitando a Tirana, il quotidiano mi ha fornito per la prima
volta un'alternativa alla poesia di De Andrè: per cercare di comprendere il
problema all'origine, affrontando senza sofismi il dubbio che i rom d'Albania
pongono oggi alle autorità e ai cittadini, ho pensato che potevo muovermi io: da
casa mia a casa loro.
I rom d'Albania
Di lontana origine indiana, provenienti dalla Persia e dall'Asia, popolazioni
rom approdarono nei territori dell'odierna Albania a partire dal XV secolo,
subito prima dell'invasione ottomana. Le comunità più numerose sono oggi
stanziate nel centro e nel sud-est del paese, all'interno o nell'hinterland
delle grandi città: Tirana innanzitutto (solo nei quattro distretti della
capitale vivono più di 5000 rom), ma anche Fier, Argirocastro, Korça e Berat.
Le tribù principali sono quattro, e si distinguono per l'attività
socio-economica che storicamente le caratterizza: i Meckars erano principalmente
contadini e pastori, i Kurtofs artigiani e venditori, i Kabuzis artisti e
musici, i Cegars commercianti nomadi. Lo standard di vita di tutte le minoranze
rom d'Albania ha risentito pesantemente della transizione post-comunista: il
collasso delle industrie statali in cui erano in larga parte impiegati,
combinato al disordine politico-sociale degli anni Novanta, ha contribuito alla
progressiva discriminazione dei rom, che proprio durante il regime avevano
invece conosciuto una sorta di assimilazione - dovuta principalmente
all'occupazione ma anche alla soppressione di tutte le differenze tradizionali e
religiose.
Non esiste una fotografia chiara dell'attuale situazione dei rom d'Albania. La
cinghia di trasmissione tra le raccomandazioni europee sulla tutela delle
minoranze - determinanti per la concessione dello status di paese candidato, al
momento ancora in forse - e le politiche nazionali è rappresentata da una fitta
rete di ONG, enti e organizzazioni internazionali; operatori che a vario titolo
e con diverse risorse implementano progetti su specifiche comunità. Diverse
organizzazioni producono diversi rapporti, e non è detto che le cifre
coincidano. Il documento più onnicomprensivo al momento disponibile sui Rom
d'Albania è stato redatto nel 2012 dal Segretariato della "Fondazione Decade of
Roma Inclusion".
Quest'ultima è un esperimento di cooperazione allo sviluppo
basato sull'impegno a lungo termine di 12 stati europei (tra cui tutti i paesi
balcanici) che per ridurre il gap esistente tra le popolazioni rom ed il resto
dei cittadini hanno accettato di collaborare sia con le organizzazioni
internazionali che con i rappresentanti della società civile rom.
Nel
Civil Society Monitoring Report (CSMR) 2012 dedicato all'Albania, sono
contenuti i risultati di questionari sottoposti direttamente ai rom residenti,
dati interessanti perché alternativi a quelli governativi, i quali non sempre
fotografano il reale livello di integrazione di queste persone. Una prova
evidente delle difficoltà del governo albanese in questo campo è rappresentata
dal censimento che l'Istituto Nazionale di Statistica (INSTAT) ha realizzato nel
2011, secondo il quale risiederebbero in Albania solamente 8.500 persone di
etnia rom, pari allo 0,3% della popolazione: una cifra irrisoria, lontanissima
da quelle indicate da altre fonti internazionali, alcune delle quali arrivano a
stimare 120.000-140.000 unità.
Buone leggi, cattiva applicazione
Come spesso accade in Albania, le carenze del sistema non sono strettamente
giuridiche. Lo stato albanese è firmatario dei più importanti trattati
internazionali che regolano il rispetto delle minoranze - nel 1991 ha ratificato
la Convenzione ONU sui diritti civili e politici, nel 1996 la Convenzione del
Consiglio d'Europa per la protezione dei diritti umani e delle libertà
fondamentali - e sebbene i rom non vengano pubblicamente riconosciuti come
minoranza a sé stante, la Costituzione del 1998 accorda alle minoranze
etno-linguistiche presenti nel paese tutti i diritti di base.
Conformemente ai dettami costituzionali, nel 2010 il parlamento ha approvato una
legge contro la discriminazione, per altro in linea con le quattro direttive
europee in materia, dando poi vita a un gruppo di lavoro interministeriale sui
rom aperto alle ONG operanti sul territorio. A questi impegni legali
corrispondono però scarse politiche effettive e, quel che è più grave, i membri
delle varie comunità non conoscono né godono delle misure che il governo ha
attivato per loro.
La legge del 2010 prevede ad esempio la possibilità di denunciare i casi di
discriminazione alle corti locali: ad oggi nessuna segnalazione è stata
formalmente depositata, sebbene gravi episodi d'emarginazione abbiano avuto
luogo - nel febbraio 2011, ma è solo il caso più eclatante, 45 famiglie
accampate nei pressi della stazione dei treni di Tirana vennero rimosse con la
forza da comuni cittadini, nella totale noncuranza del governo e delle forze
dell'ordine.
Del resto anche sul piano europeo, la distanza tra normativa e realtà appare
drammatica: secondo quanto riportato nel CSMR, gli strumenti finanziari messi a
disposizione dall'Ue per migliorare l'inclusione sociale dei paesi in fase di
pre-accesso sono gestiti senza il coinvolgimento dei rappresentanti delle
minoranze: è opinione diffusa ad esempio tra i rom d'Albania che questi aiuti
non riguardino le loro condizioni di vita, e che gli unici beneficiari siano le
istituzioni: il fallimento del censimento 2011, finanziato e pubblicizzato dalla
stessa Unione europea, ha certamente rafforzato questa percezione.
Ad oggi, secondo le stesse fonti, il livello di povertà dei rom d'Albania è due
volte superiore a quello degli albanesi etnici, il tasso di disoccupazione tre
volte più alto della media nazionale ed il reddito del 37% delle famiglie rom è
inferiore ai 100 euro al mese. Circa l'87% della popolazione rom d'Albania si
dichiara insoddisfatta dei propri diritti ed il 59% non ha abbastanza soldi per
mangiare (solo il 4% degli albanesi etnici dichiara lo stesso).
I Rom di Fushë-Kruja e ADRA Albania
Fushë-Kruja è una piccola cittadina di circa 10.000 abitanti, trenta chilometri
a nord di Tirana. Teatro di una delle storiche battaglie di Skanderbeg, questa
piccola località di provincia è riemersa dall'anonimato grazie alla visita del
presidente americano George W. Bush, era il 10 giugno 2007. In questo comune è
stanziata una comunità rom di circa 1500 persone: una delle più grandi e
problematiche del paese.
Popolazioni rom abitano quelle zone dai primi anni Sessanta: stabilitesi
inizialmente nel villaggio di Halil, nel 1979 si spostano e si concentrano a
Fushë-Kruja. Non è scorretto affermare che questi rom vivono in un ghetto: le
loro abitazioni non sono certo lontane da quelle del resto della popolazione, ma
costituiscono qualcosa di più di un quartiere, fanno "città a sé". A
dimostrazione di ciò, vi è il fatto che non avrei potuto passeggiare nel
quartiere senza Erinda Toska, una guida (e un'amica) che mi ha aperto le porte e
i cuori dei locali, affatto abituati a ricevere visite dall'esterno.
Erinda ha lavorato per tre anni a stretto contatto con la comunità rom di
Fushë-Kruja: come project coordinator di
ADRA Albania, ONG attiva in altri 26
paesi europei, ha scritto e implementato diversi progetti educativi mirati alla
formazione, l'alfabetizzazione e l'emancipazione delle giovani donne e dei loro
figli. Le attività e i risultati di questi percorsi vengono pubblicati in tempo
reale su questo blog .
I problemi dei rom di Fushë-Kruja non sono diversi da quelli di altre comunità
albanesi - dalla mancanza di educazione igenico-sanitaria all'assenza di
istruzione, dal fenomeno delle spose bambine alla disoccupazione endemica -
tuttavia la dimensione, la chiusura e la posizione di questa comunità, alle
porte della capitale ma estremamente conservatrice, hanno contribuito alla sua
reputazione, che di bocca in bocca è giunta alle mie orecchie. "È una delle
realtà più complicate", conferma Erinda che, forse un po' stanca dei miei
interrogativi via WhatsApp, alla fine ha capitolato: "Se ti interessa così
tanto, un giorno ti ci porto".
Nel campo: il cuore rallenta, la testa cammina
È sabato 12 aprile, e il sole brilla sul cemento della capitale. Io, Eri e
Francesco fatichiamo a trovare un furgon - camioncini uso taxi su cui il governo
ha recentemente inasprito i controlli di sicurezza - ma una volta partiti non
c'è troppo traffico, e dopo mezz'ora di sorpassi siamo già a Fushë-Kruja. Ai
confini del quartiere rom ci aspetta la nostra guida. Fatmira Dajlani è una
ragazza rom che ha potuto studiare: collega ed amica di Eri, collabora con Adra
e con altre organizzazioni internazionali, fungendo da tramite tra i membri
della sua comunità e la realtà esterna.
Ci scambio due parole e tre sorrisi, questi ultimi dovuti principalmente al mio
albanese: quanto basta per farmi cogliere l'importanza di figure come Fatmira,
ambasciatrice della propria gente nel mondo e del mondo presso la propria gente.
Eri esce dal bar con due sacchetti di caramelle, ci avviamo su una sterrata in
direzione campagna. Il primo edificio che incontriamo è un mekanik (meccanico).
Intorno, solo uomini e alcuni bambini, che ovviamente corrono in braccio a Eri.
Mi intenerisco, ma vengo distratto dal lavorio degli uomini: gli strani mezzi
che stanno assemblando sono gli stessi che ho visto tante volte scorrazzare per
le strade di Tirana: tricicli a motore, composti da un motorino potenziato cui
al posto della ruota anteriore viene attaccato un carretto. Scopro finalmente il
nome di questo mezzo geniale: si chiama karrocë.
È con i karrocat, dunque, che i ragazzi rom svolgono buona parte delle loro
attività cittadine: dal trasporto frutta alla raccolta della plastica,
incentivata dal governo che paga a peso, ma che, di fatto, spinge i rom a
rovistare nella spazzatura, nel tentativo di recuperare ciò che poteva essere
differenziato prima. Mi fisso sull'oliaggio di una catena, operazione che ho
sempre delegato per laute somme, ma le guide mi chiamano, e interrompono i miei
pensieri. Prima di proseguire mi volto, la giornata è splendida, le montagne
dominano lo sfondo. Scatto una foto e decido in quel momento che non ne farò
altre.
Gli onori di casa li fanno i bambini. Frotte di bambini, spuntati da non si sa
da dove, ci prendono per mano e ci accompagnano verso le loro case. La scena si
ripete più volte: sbucano da in fondo alla strada, riconoscono Eri da lontano e
le corrono incontro con le braccia tese. Eri ci ha lavorato per anni, li conosce
uno ad uno, li chiama per nome, chiede loro se vanno a scuola; è da un po' che
non tornava al campo, e li trova cresciuti. Ci addentriamo nel quartiere. Là
dove mi aspettavo il fango, c'è un selciato perfettamente lastricato - "La
strada è merito di UNDP", sorride Erinda, leggendomi nel pensiero.
A destra e a sinistra si aprono cortili antistanti ad abitazioni colorate: un
cavallo rumina in un angolo, una mucca scuoiata è appesa all'ombra di un albero.
Una vecchia dalle rughe leggendarie ci viene incontro con aria solenne. Le mani
completamente viola, due occhi verdi ipnotici, gesticola con Eri per cinque
minuti e poi si congeda. "Mi ha chiesto le polverine per colorare le uova, ha il
rosa ma le manca il rosso". Trasecolo: ma i rom d'Albania non sono musulmani?
"Non tutti, loro sono ortodossi. In ogni caso per i rom la religione non ha
troppa importanza, mischiano volentieri le tradizioni. L'unico rito che conta
per tutti è la festa di Ederlezi...".
Nonostante non abbia mai sentito parlare il Romanì , la parola non mi suona
nuova, e solo con l'aiuto del telefono capisco il perché: "Ederlezi" è il titolo
di una celebre canzone che fino ad allora
avevo creduto di Goran Bregović,
famosissimo interprete di musica balcanica che in questo caso ha ripreso un
motivo tradizionale rom. Ignara delle mie elucubrazioni musicali, Eri prosegue
la sua spiegazione: " Ederlezi è una festa di origine serbo-ortodossa che è
stata adottata dai rom dei Balcani. Si festeggia il 6 maggio, giorno della
rinascita, della primavera. La festa segna l'inizio del bel tempo: a partire da
quel momento gli uomini della comunità partono per i villaggi dell'Albania,
della Grecia e del Kosovo, per vendere vestiti e scarpe di seconda mano, o per
raccogliere e rivendere metalli. Spesso si muovono con la famiglia, ma poi
ritornano...". Il racconto mi affascina e chiedo i dettagli: "Immaginati una
festa tradizionale: dopo la processione alla Chiesa di Laç le famiglie si
riuniscono, si addobbano le case, ci si veste eleganti, si balla, ma soprattutto
si cucina l’agnello che viene sgozzato e dissanguato giorni prima...".
Una giovane donna viene incontro a Eri, la abbraccia e la bacia. Si chiama
Mimoza, e solo da quattro anni abita a Fushë-Kruja, da dopo il suo matrimonio.
Prima viveva con la sua famiglia, a Tirana, in una casa che rimpiange perché
molto più grande. Ci invita ad entrare e a verificare di persona quanto ci sta
raccontando. La sua abitazione non è in muratura, è un tendaggio allestito nel
cortile di un altro stabile, quello sì in mattoni, probabilmente dei suoceri.
Mimoza ha due figli, e dorme con loro su un letto, su cui ci invita a sedere.
Una prolunga si arrampica sul soffitto, per portare luce a una lampadina
penzolante. C'è anche un TV. Cerco di immaginare come possa essere ripararsi lì
dentro in caso di pioggia, ma non ci riesco. Tuttavia l'odore non è cattivo,
l'ambiente è ordinato e tenuto con estrema cura. Mimoza ci mostra delle
calzature di lana di sua produzione, e invita Francesco a provarne un paio
arcobaleno: è certa che siano della sua taglia, ha ragione, ed esultante gliele
regala. Vista l'eccellente ospitalità, ingenuamente attendo le stesse
attenzioni, ma vado incontro a una delusione: Francesco è il burri (uomo,
marito) di Eri, a lui e solo a lui gli oneri e gli onori.
Ad attenderci fuori da casa ci sono sempre più bambini, sempre più festanti. Io
e Francesco cerchiamo un po' goffamente di farli divertire, di giocare con loro.
Facciamo il piacevole errore di accennare un vola-vola, e scateniamo una vera e
propria competizione. Alzo lo sguardo e noto un uomo in fondo alla strada:
l'ultimo maschio adulto lo avevo visto dal meccanico. Faccio un cenno di saluto
ma non sono ricambiato; Francesco, ben più esperto, anticipa i miei pensieri.
"Non accettare alcuna provocazione, spesso lo fanno apposta. Se ci pensi hanno
più che ragione: facciamo volare i loro figli, veniamo ricevuti dalle loro
donne... Ma noi chi siamo?".
Più ci addentriamo, più l'ostilità maschile risulta palpabile. Fatmira e Eri non
sembrano preoccupate, ma nel dubbio né io né Francesco ci avventuriamo lontano
da loro, esattamente come gli altri bambini. Eri mi spiega che il problema è ben
più profondo della questione territoriale maschile: "Tutte le nostre attività
hanno sempre dovuto vincere le resistenze degli uomini. Tendenzialmente le donne
sono disponibili, ci lasciano i loro figli e desiderano studiare in prima
persona. Molto spesso sono i mariti o le loro famiglie a proibirglielo. Quando
una ragazza si sposa, il che mediamente avviene molto presto, tra i 13 e i 14
anni, questa passa sotto la giurisdizione della famiglia del marito, in
particolare della suocera, che in sostanza ne dispone". I tasselli del mosaico
si ricompongono: capisco finalmente la tristezza della giovane Mimoza, lontana
dalla famiglia in uno spazio che non sente suo. Ovviamente, mi spiega Eri, non
tutte le famiglie hanno lo stesso approccio tradizionale, ma il dovere di
servire nella casa del marito non è discutibile, e quand'anche la situazione
risultasse inaccettabile - come nel caso di violenza fisica sulla giovane sposa
- la stessa famiglia d'origine non approverebbe il ritorno della figlia tra
loro: sarebbe al contrario una grande vergogna.
Centinaia di domande affollano la mia mente, ma le spiegazioni di Eri sono in
italiano, e dunque rapide, per non escludere dalla conversazione le persone che
ci vengono incontro. Suela Rama ha 16 anni e si è appena maritata. Eri mi
informa di questa novità in albanese, e abbozzo un gesto di congratulazione.
"Siamo orgogliosissimi del suo percorso. Suela ha sempre partecipato alle nostre
attività, e nonostante le pressioni della famiglia si è sposata "solamente"
adesso, a 16 anni. Per noi questo è un grande risultato".
Il fenomeno delle spose bambine, mi spiega Eri, è collegato al problema cruciale
di ogni comunità rom: quello dell'istruzione dei bambini. Teoricamente, i
bambini rom hanno il diritto di frequentare le scuole municipali albanesi, ma
raramente le scuole pubbliche rappresentano un luogo accogliente per i ragazzi e
le loro famiglie. La prima discriminazione che quei bambini incontrano è
linguistica: non solo perché il Romanì non è una lingua riconosciuta - nessuna
forma di istruzione è garantita nella lingua dei rom - ma anche a causa della
noncuranza dei genitori, i cui figli spesso crescono senza imparare l'albanese -
una scelta distruttiva, che esclude quei bambini da qualsiasi attività del paese
in cui abitano. Se già è complesso convincere i genitori ad occuparsi
dell'istruzione dei figli, si capisce come far studiare le giovani donne -
sottraendole alle dinamiche famigliari e facendo sì che si sposino un po' meno
bambine - risulti estremamente arduo: per un piccolo risultato, occorrono mesi e
mesi di lavoro e di frequentazione diretta.
Cogitando arriviamo al bar, ovvero "in centro": come in ogni agglomerato umano
del pianeta Terra. Finalmente un ragazzo mi saluta, sembra contento di vedermi.
Mi viene incontro sorridendo, e mi chiede in albanese da dove vengo. Alla parola
"Italia" si illumina, e mi dice che sta andando in Francia, partirà l'indomani
mattina. Gli faccio i migliori auguri e gli stringo la mano. Eri mi spiega che
in molti chiedono asilo politico in Francia, perché è più facile che negli altri
paesi. Ancora oggi, l'asilo politico rimane il miglior passaporto per chi è
disposto a partire: bisogna dimostrare di essere discriminati, il che, per chi
sa leggere e scrivere e mantiene contatto con gli internazionali, non è nemmeno
troppo difficile. A quanto pare in molti partono, ma altrettanti, alla fine,
ritornano.
Il sole splende meno alto su Fushë-Kruja, e per i turisti è giunto il tempo di
andare. I bambini ci hanno accolto e i bambini ci accompagnano fuori, come lo
strascico di una sposa. Mentre volto le spalle a tutto quello che ho visto,
penso a tutto, ma non saprei dire a cosa. Sono domande senza grammatica, in
lingua pensiero. A nulla valgono i libri, i viaggi, le canzoni: a nulla vale
quell'insieme d'informazioni diversamente accumulate che i sistemi educativi
della civiltà qualificano come "esperienze formative".
Caffè, acqua e sapone
Di fronte alla vita vera, il cuore rallenta, la testa cammina: De Andrè aveva
ragione. Ma la poesia omette per definizione la prosa: anche se nessun verso lo
ammetterà mai, al ritorno dalle periferie ci attende, inevitabile, il sapone.
Approfittando di una sosta al bar, sia io che Francesco visitiamo a turno il
bagno. Eri resta seduta e ordina il caffè. Mentre mi sciacquo le mani con cui
avevo fatto volare i bambini, un sottile senso di colpa mi attraversa il cuore:
come me e prima di me, in tanti hanno toccato, e in tanti si sono lavati le
mani. Chissà se, dopo aver scritto quest'articolo, mi occuperò mai più di quelle
persone.
Deutsche Welle -
Autore: Nevena Cukućan.
Redazione: Jakov Leon
Serbia - Richiedenti asilo bugiardi, li chiamiamo così. In Germania, i
conservatori li hanno usati come spauracchio e gli abitanti dei Balcani temono
che per loro si chiuderanno le frontiere. Abbiamo qualche comprensione per le
persone senza il loro "posto al sole"?
Hamit Kurtehi (27), noto come Apu, è apparentemente un ragazzo normale,
attivista nel tempo libero, che ama suonare la chitarra e girare sui
rollerblade. Sarebbe un saldatore ma, come tanti altri suoi coetanei, è
disoccupato e vive coi genitori. Tuttavia, ciò che differenzia Hamit dai suoi
coetanei è la logorante esperienza come richiedente asilo. Lui e i suoi genitori
hanno aspettato 3 anni per ricevere asilo in Belgio. Dopo questo periodo pieno
di gioie e dolori, nel 2013, la famiglia Kurteshi è stata costretta a lasciare
il Belgio per ritornare in Serbia.
Kurteshi ed altri attivisti protestano per ottenere acqua potabile
DISCRIMINAZIONE: la famiglia di Hamit, composta da sei membri, è arrivata a
Zrenjanin dalla città kosovara di Lipljan negli anni ottanta. Lui è l'unico
membro nato a Zrenjanin ed ha subito discriminazioni dovute alla sua origine per
tutta la vita. A causa di scontri frequenti e dei compagni che lo insultavano,
Hamit non ha terminato la scuola primaria e si è ritirato presto anche dalla
scuola secondaria, cosa di cui è pentito. "Questo è uno dei nostri più grandi
errori, come rom" dice "perché così rimaniamo ignoranti e avere una vita normale
non ci è facile. È come quando si ha la febbre e, pur non conoscendone la causa,
si prendono comunque farmaci contro la febbre. Mentre in realtà hai un cancro
che ti uccide, ma non lo sai."
Prima di decidersi a richiedere l'asilo, la famiglia di Hamit aveva tentato di
ritornare in Kosovo, dove un tempo aveva una casa, andata bruciata nel 1999.
L'UNHCR aveva loro costruito una nuova abitazione, nella quale sono vissuti fino
al 2006. Dopo aver passato qualche tempo fuori Lipljan, hanno trovato la casa
bruciata al loro ritorno. Hanno così capito di non essere i benvenuti in Kosovo
e sono tornati a Zrenjanin, dove sono incorsi in un processo a causa
dell'alloggio in cui vivevano.
"Quando lasci la tua città e tutto quello che hai, soprattutto quando è contro
la tua volontà, arrivi in una nuova città e devi ricominciare da zero, ma tutto
ciò richiede tempo" dice Hamit. "Ora tutti dicono, la guerra è stata 15 anni fa,
ma dai, devi recuperare per il periodo in cui hai perso tutto. Nel posto in cui
hai vissuto prima è stato costruito qualcosa di nuovo e, se non l'hanno fatto,
lo faranno tra un anno. Poi tutti cercano di fare qualcosa, ma spesso non può
fare nulla, e fuggono via. Così abbiamo deciso di andarcene e di chiedere
asilo." Ha aggiunto che la situazione finanziaria era critica, perché
attualmente in Serbia "nessuno ha soldi ", ma che è stato soprattutto il
desiderio di una vita normale, nel quale non dovesse temere la reazione degli
altri alla vista della sua carnagione scura o al sentire la lingua in cui parla.
E lui parla serbo, romanes, albanese, olandese, inglese, tedesco e sta imparando
l'italiano.
Hamit di fronte al suo alloggio a Zrenjanin
PARTENZA: La prima tappa del viaggio della speranza della speranza era Aachen,
in Germania, dove Hamit e i suoi genitori hanno incontrato dei parenti, dopo di
che si sono diretti a Bruxelles per presentare la domanda d'asilo. Al colloquio
hanno dichiarato di non avere documenti e di essere arrivati direttamente in
Belgio dalla Serbia. "È stata una bugia giustificabile, a mio parere" dice Hamit
"Se avessimo avuto i passaporti ci avrebbero rimpatriati subito poiché, in
Serbia, ufficialmente non ci sono più violenze. In questo modo siamo stati in
Belgio per tre anni. Abbiamo visto persone richiedere asilo mostrando i
passaporti e sono state rimpatriate immediatamente."
All'epoca non parlava fiammingo ed ha trasmesso la sua storia alle autorità
tramite interprete. Quando ha imparato la lingua ha notato che lo scritto della
sua storia non coincideva con quelli degli altri membri della sua famiglia e
che, pur essendosi dichiarati tutti della stessa etnia, suo padre era stato
registrato come albanese, sua madre come rom e lui come serbo. "Ti rendi conto
troppo tardi che ti va bene solo se sei bravo con questo interprete. Ma quando
arrivi, non capisci nulla, e ti sembra di essere su un altro pianeta. Lui ti
porta a fare un giro, ti controllano i polmoni, ti prendono le impronte, la
prima per controllare se sei sano, poi segue una breve intervista e alla fine ti
danno una scheda con l'indirizzo a cui recarsi e ti mandano fuori " descrive
Hamit.
Così, la famiglia Kurteshi entrò in un campo profughi e vi rimase per quattro
mesi. Il campo si trovava in una vecchia caserma, dove le camerate erano divise
in piccole camere per più persone, le cui pareti prefabbricate non raggiungevano
il soffitto e mancavano molte finestre. Hamit e i suoi genitori erano alloggiati
in una piccola stanza di otto metri quadri. Questa camera era quasi un lusso,
per gli standard del campo. La famiglia era circondato da centinaia di persone
provenienti da tutto il mondo. Le risse, i feriti e i furti erano all'ordine del
giorno. Hamit ha imparato in fretta la lingua e ha iniziato a lavorare come
traduttore per i nuovi richiedenti asilo. Ha visto come tra loro ci fossero
anche quelli che non erano arrivati a causa di circostanze di vita che li
avevano costretti, ma solo per approfittare del sistema sociale belga. "Allora
ho cominciato a capire il motivo per cui belgi, tedeschi e tutti gli altri Paesi
ospitanti odino gli stranieri, perché arrivano, non fanno niente, prendono soldi
e questi ultimi vengono detratti dal tuo stipendio per darli a loro." dice.
Le condizioni di salute di suo padre stavano peggiorando e Hamit insistette che
i genitori si trasferisse nella "casa sociale" a Vorselar durante l'attesa del
verdetto sulla domanda d'asilo . Rimasero lì fino alla fine del 2013, quando
sono stati costretti a lasciarla. " La casa aveva due piani, tre camere da letto
al piano superiore, soggiorno, cucina , bagno e un grande giardino ... è stato
incredibile. Per la prima volta nella mia vita avevo la mia stanza." dice.
Giacché voleva che le cose funzionassero e poter guadagnare soldi per vivere,
Hamit ha presentato una richiesta per permesso di lavoro e l'ha ottenuto, per un
periodo di un anno. Ha trovato lavoro presso una fabbrica di lastre di cemento
prefabbricate dove è stato pagato tanto quanto gli altri lavoratori, salvo
rifiutarsi di ricevere una percentuale data dal suo stato di richiedente asilo.
"Volevo mostrare loro che ero diverso e che non volevo vivere sulle spalle degli
altri." dice, aggiungendo che è stato il suo periodo più bello, rovinato solo
dai problemi di salute di suo padre.
CARCERE: L'idillio non durò, la domanda di asilo fu respinta, e allo stesso modo
tutti i ricorsi e le lamentele presentate. Il permesso di lavoro era ampiamente
scaduto, ricevette un ordine di espulsione e la polizia arrestò i genitori Hamit
in sua assenza. Dopo di che, Hamit andò volontariamente alla stazione di polizia
disse di voler rimanere vicino alla sua famiglia, anche se sapeva che avrebbe
dovuto lasciare il Paese. "Allora vennero gli assistenti sociali e le guardie
del campo e ci hanno riportati lì, insieme con la polizia, ammanettati, come se
fossimo dei prigionieri" ricorda. "Durante le prime due settimane al campo non
ho parlato con nessuno, non volevo mangiare ne bere. Ho perso peso, da 80 chili
a 50. Nel mio file sono stato classificato come 'molto aggressivo', anche se non
ho parlato affatto." Ha lasciato il Paese più tardi del previsto, con una multa
per ogni giorno trascorso nello spazio Schengen, più di tre mesi. Lui e la sua
famiglia hanno vissuto tre anni in Belgio.
La storia di Hamit ha attirato l'attenzione dei media belgi, anche quando gli fu
concesso l'asilo. Nel maggio 2012 il giornale Gazet van Antwerpen disse che
Hamit e la sua famiglia dovevano lasciare il Paese. "Vicini e conoscenti non
capiscono perché debbano andarsene", dice il testo. Sui Somers, giornalista del
settimanale Humo pubblicato in fiammingo ha scritto su di lui chiamandolo
"l'opposto del richiedente asilo." Voleva far capire ai suoi lettori come ci
siano dei giovani richiedenti asilo disposti a guadagnare i loro soldi e a
contribuire alla società belga. "Non ho mai incontrato nessun richiedente asilo
così pieno di energia, così determinato ad avere successo in Belgio, così
disposto a fare. Penso che la sua espulsione sia una grande perdita per la
nostra società" dice Somers su DW. Dati dell'UNHCR indicano che solo il 6 per
cento delle richieste presentate da cittadini serbi vengono accettate in Belgio.
La giornalista Somers
Ricorda anche che, alla fine dello scorso anno, la Corte europea dei diritti
dell'uomo ha condannato il Belgio per la pratica dei rigetti di persone
provenienti da Paesi dilaniati dalla guerra come l'Afghanistan. "Vi è il caso di
due afghani che hanno richiesto asilo, trascorso diversi anni qui, imparato la
lingua, trovato un lavoro, ma a dispetto di tutto ciò sono stati rimpatriati.
Ciò ha causato un putiferio nel Paese e un grosso imbarazzo per il nostro
segretario federale per l'immigrazione, la liberale Maggie De Block." conclude
Somers.
MATRIMONIO: Ma non è tutto. "C'é la mia attuale ragazza, che ho conosciuto
quando ho visitato i parenti in Germania" continua Hamit. "Ho attraversato il
confine, ma i richiedenti asilo in Belgio non hanno il diritto di viaggiare,
dovevo rimanere in Belgio. Stavo passeggiando da solo, e la polizia tedesca mi
ha catturato, ora ho una condanna per questo." Ha detto che non avrebbe voluto
sposare una ragazza solo per risolvere il problema del suo soggiorno, ma che
nella sua attuale fidanzata ha trovato ciò che desiderava. Il matrimonio è stato
programmato, ma era necessario ottenere i documenti in Serbia. "Le ho detto che
torno per certo, e il suo unico commento è stato: " No, tu non vuoi tornare, ma
vuoi tornare da me.'"
Hamit allo skate park di Zrenjanin
Hamit stava progettando di andarsene volontariamente in Serbia e di ottenere i
documenti necessari, ma quei piani sono stati rovinati dall'arresto dei suoi
genitori. Quando, due mesi dopo il rimpatrio forzato a Zrenjanin, ha cercato
tornare in Germania con tutti i documenti necessari, gli è stato concesso di
attraversare il confine serbo ma non quello olandere, dove il suo aereo è
atterrato. Venne a sapere di avere un divieto di ingresso nell'Unione europea
fino al pagamento della multa. Ha trascorso tre giorni in un carcere olandese
per immigrati ed è tornato a casa.
Dal momento del suo ritorno, Hamit è preoccupato per malattia del padre che è
stato ricoverato in ospedale un mese fa. Ha intenzione di assumere un avvocato e
di avviare una richiesta per diminuire la condanna che ha ricevuto, non appena
la salute del padre migliorerà. Si sente ancora con la sua ragazza, lei lo
attende, e non pensa più molto all'asilo. "Fino a quando non superiamo il
passato non possiamo andare verso il futuro. Il mio passato, per me, è il
divieto che mi impedisce di avere indietro la mia amata." conclude. Nonostante
tutto, questo ragazzo non perde ancora non le speranze e dà l'impressione di
essere disposto a combattere tutto il tempo necessario.
Di Fabrizio (del 01/05/2014 @ 09:00:36, in Europa, visitato 2208 volte)
30 Aprile, 2014, Nazzareno Guarnieri su
Fondazione Romanì Italia
Qualche giorno fa ho ricevuto una lettera (vedi
QUI, ndr.) dall'amico di Spagna Juan De Dios
Ramirez-Heredia con alcune personali considerazioni sul recente summit sui rom a
Bruxelles promosso dalle istituzioni europee.
Riporto integralmente la lettera di Juan De Dios e ringrazio il prof. Marco
Brazzoduro per la traduzione in Italiano.
IL SUMMIT DI BRUXELLES SUI ROM E' STATO UN GRANDE INGANNO
Sapevo dal primo momento, e i miei timori sono stati confermati quando ho letto
i contenuti del programma, che ci troviamo ancora una volta di fronte a un
incontro di importanti uomini politici e di gagé "che ci amano tanto" e sono
pronti a parlare per conto nostro privando i presenti al summit della
possibilità di ascoltarci in quanto veri e insostituibili portavoce della nostra
identità e dei nostri interessi.
Per questo motivo ho deciso di non andarci, nonostante che sia stato
personalmente invitato. Non volevo avallare con la mia presenza questa
esibizione di politici che in periodo elettorale dichiarano a turno quanto siano
interessati alla nostra situazione.
Prima di scrivere queste note ho lasciato passare del tempo. Volevo informarmi
sulla questione ricorrendo a fonti rom, oneste ed equilibrate, per capire la
complessità del summit. I miei timori sono stati confermati.
Comunque desidero fare riferimento alla lettera che Rudko Kawczinski, presidente
del European Roma and Travellers Forum ha indirizzato a Viviane Reding,
Commissario alla Giustizia, a Schulz , Presidente del Parlamento europeo. Faccio
mie le sue parole quando ha detto:
"...Questo meeting di un giorno che consiste , prevalentemente, in una serie di
discussioni portate avanti da personalità non rom, crea serie preoccupazioni
riguardo allo scopo, ai contenuti e alla partecipazione".
Il summit è diventato un gioco di discorsi ripetitivi. E noi rom di ciò ne
sappiamo abbastanza perché siamo spesso infastiditi da quelli attorno a noi
dotati di spirito di redenzione e mani piene di euri ottenuti a nostro nome.
Pronti a salvare le nostre vite.
Rudko Kawczinski lo ha detto con grande chiarezza:
"Per noi è difficile capire quale sia esattamente lo scopo del summit e il suo
valore aggiunto in termini di quello che ha conseguito finora. Le piattaforme
tematiche creano politiche inclusive per i rom a livello locale e fanno arrivare
denaro dell'UE alle autorità locali e regionali per aiutarle a integrare i rom.
Fanno diventare l'integrazione dei rom una realtà locale anche negli stati
appena cooptati, tematiche che sono state dibattute in forum nazionali e
internazionali e hanno costituito l'oggetto di numerose raccomandazioni e
decisioni emesse dalla Commissione Europea e altri organismi internazionali. Non
sembra che la serie di discorsi di ministri e viceministri siano in grado di
generare quell'impegno così tristemente carente"
Perciò Rudko Kawczinski ha colto il punto chiave quando ha affermato:
"E' un peccato, per dire il minimo, che dopo anni di affermazioni secondo le
quali il lavoro dovrebbe essere compiuto dai rom e non per i rom, ci viene
offerta un'agenda dove in un elenco di 30 oratori non c'è quasi nessun rom (...)
D'altra parte si suppone che noi dovremmo ammirare le persone che conoscono e
seguono i consigli di un gruppo di partecipanti non rom, alcuni dei quali non
hanno mai conosciuto gli stessi rom o che non hanno mai visitato un insediamento
rom".
Un ampio numero di rom che vivono in Europa hanno alzato la voce per denunciare
la manipolazione cui sono assoggettati. Per la maggior parte delle istituzioni e
per una larga parte di quelli che vivono a spese del nostro nome noi siamo
considerati un gruppo di mendicanti analfabeti e affamati che debbono essere
salvati ad ogni costo. E, sempre in nostro nome, organizzano conferenze,
incontri e giornate come questa che finiscono quasi sempre in completi
fallimenti . E sapete perché ?
Ascoltate Rudko Kawczinski:
"Finora molti degli sforzi della Commissione Europea si sono conclusi con
risultati minimi o inesistenti. Questo accade sempre quando la comunità rom e i
suoi rappresentanti non sono stati né coinvolti e né consultati nella
progettazione dei programmi e delle iniziative".
Non pretendiamo di capire come fanno la signora Reding e il commissario Laszlo
Andor, responsabili per le materie sociali, il lavoro e l'integrazione. Hanno
consentito di essere presi in giro dagli organizzatori di questo spettacolo
volgare. Non é stato portato alla loro attenzione quello che l'European Roma and
Travellers Forum non ha visto, la più elevata rappresentanza dei rom in Europa,
la cui creazione è stata aiutata dal Consiglio D'Europa, dalla Commissione
Europea e dall'OSCE ?
"A peggiorare le cose - continua Rudko Kawczinski - la Commissione Europea ha
ritenuto opportuno invitare come oratore nella cerimonia di apertura del summit,
niente meno che Traian Basescu, Presidente della Romania, che è stato
recentemente condannato dalla Commissione Nazionale di Romania per la lotta alla
discriminazione, per i suoi commenti discriminatori verso la popolazione rom.
D'altra parte hanno invitato in alcuni dei già menzionati tavoli, rappresentanti
di città e regioni che hanno sistematicamente cacciato i rom dai loro territori".
Per concludere faccio mie le parole del Presidente del European Roma and
Travellers Forum:
"In queste circostanze crediamo che la nostra partecipazione in questo summit
sia stata meramente decorativa. Ciò è qualcosa che non possiamo accettare in
qualsiasi caso. Noi rom vogliamo una partecipazione reale ed onesta e non ci
auguriamo di essere usati solo come marionette in uno spettacolo".
Juan de Dios Ramirez-Heredia - Presidente dell'Unione Romanì spagnola
Già deputato al Parlamento europeo
Avvocato e giornalista
Di Fabrizio (del 25/04/2014 @ 09:02:19, in Europa, visitato 2659 volte)
Lo ripropongo per chi si fosse perso l'ultima trasmissione di Assetto
Variabile. Buon 25 Aprile!
Di Fabrizio (del 14/04/2014 @ 09:03:31, in Europa, visitato 1867 volte)
(flickr/
Massimiliano)
-
Daniela Mogavero
8 aprile 2014 su
Osservatorio balcani e caucaso
Il quadro delle politiche sociali romene in un'intervista al commissario per i
diritti umani del Consiglio d'Europa Nils Muižnieks: tutela dei minori,
integrazione delle minoranze e il profilo dell'estrema destra sull'orizzonte
delle prossime elezioni europee
La situazione dei minori, dei rom e dei disabili in Romania ha dei lati molto
oscuri. Passi avanti sono stati fatti, ma "c'è ancora molto lavoro da fare".
Parola di Nils Muižnieks, commissario per i Diritti umani del Consiglio
d'Europa, che la settimana scorsa, durante cinque giorni di visita in Romania,
ha esaminato i dossier con le autorità romene e ha visitato di persona alcune
delle strutture dedicate a orfani e disabili. A preoccupare il commissario sono
soprattutto l'esclusione sociale, le condizioni socio-sanitarie in cui versano
decine di migliaia di minori e i reati d'odio razziale. Ma ci sono anche segnali
positivi, soprattutto nel settore dell'inclusione sociale della comunità rom.
Secondo l'ultimo studio pubblicato dall'Unicef sulla situazione dei minori in
Romania, il paese detiene la terribile maglia nera per il primato di bambini
abbandonati: la principale causa è la povertà che porta con sé disoccupazione,
mancanza di cure adeguate e di un alloggio decente.
Nils Muižnieks
Quello che mi preoccupa di più è come sarà ridisegnato il Parlamento europeo con
l'ingresso massiccio di queste forze estremiste. Ad essere danneggiata potrebbe
essere la stessa Unione europea e il suo lavoro sulle politiche di immigrazione
"In Romania non c'è una sola categoria di minori in pericolo, esistono diversi
sottogruppi. Da un lato gli orfani, i minori disabili, i bambini di strada,
1.000 solo a Bucarest e altri 5.000 nel resto del paese, e poi ci sono i figli
di coloro che hanno dovuto lasciare la Romania per andare a lavorare all'estero
e anche circa 500 che si trovano nelle strutture di detenzione - ha spiegato in
un'intervista a Osservatorio Balcani Caucaso il commissario Muižnieks - tutti
questi sottogruppi sono altrettanto vulnerabili e meritevoli di attenzioni. Un
primo passo molto positivo che è avvenuto appena dieci giorni fa, poco prima
della mia visita, è stata la riapertura dell'Autorità nazionale per la
protezione del bambino, che era stata chiusa nel 2010 per mancanza di fondi. E'
il primo passo, ma c'è ancora molto lavoro da fare".
Nel corso della sua visita il commissario ha visitato anche un orfanotrofio a
Tancabesti, nei pressi di Bucarest. La struttura ospita 50 minori, tra bambini,
adolescenti e in alcuni casi disabili. "Isolare minori con disabilità negli
istituti porta al peggioramento delle condizioni sanitarie e alla loro
esclusione sociale - ha sottolineato Muižnieks - con la reclusione in queste
strutture si continua a stigmatizzarli e emarginarli, in violazione della
Convezione ONU dei diritti dei disabili, a cui la Romania si deve attenere.
Bisogna promuovere l'uscita dalle strutture sanitarie e nel contempo l'autonomia
di queste persone per superare pratiche incresciose".
Gli orfani dell'UE
E poi ci sono "gli orfani dell'UE", così il commissario definisce quei minori
lasciati nel Paese d'origine dai genitori che sono andati a lavorare all'estero,
una categoria non meno vulnerabile e che esce fuori dagli schemi dell'assistenza
dei minori: "Non è un fenomeno solo romeno, anche se nel paese sono 80mila i
minori che vivono senza genitori perché emigrati per lavoro. Hanno problemi
psicologici, un alto tasso di abbandono scolastico e non esistono misure
studiate per proteggerli. Per questo voglio sollecitare le autorità affinché
rafforzino il sostegno a questi bambini che sono fortemente colpiti dall'assenza
dei genitori".
Di questi 80mila, circa 20mila hanno entrambi i genitori all'estero, secondo le
ultime stime del governo romeno e quindi vengono lasciati alle cure dei parenti
o in alcuni casi anche affidati a altre famiglie o a istituti. Alcuni scappano e
entrano a far parte di un altro dei sottogruppi individuati da Muižnieks, quello
dei bambini di strada "che vivono in condizioni di degrado a Bucarest e in altre
città. Per questo ritengo positivo il piano del ministero della Sanità per la
creazione di centri di assistenza medica. Ma per evitare che questi bambini
diventino preda della delinquenza o del traffico di esseri umani è necessario
che Bucarest migliori e velocizzi le pratiche per le adozioni". I minori che si
trovano negli orfanotrofi romeni sono in media 60mila.
La minoranza rom
Un altro dei fronti di interesse e impegno nell'ambito dei diritti umani è
quello legato alla comunità rom, che in Romania è una delle minoranze più
grandi, con circa due milioni di persone, ma anche una delle più discriminate e
emarginate socialmente. "Una parte della comunità rom è ben integrata, ma c'è
una grossa fetta che resta ai margini. Da parte delle autorità romene - ha
assicurato il commissario - c'è un grosso impegno a lavorare per l'integrazione.
Il progresso più marcato è stato realizzato nel settore dell'istruzione: molti
rom finiscono le scuole dell'obbligo e frequentano l'università. E anche se il
tasso di abbandono scolastico è ancora troppo alto, il 36%, e più del doppio
rispetto a quello dei minori non rom, è comunque significativamente diminuito".
Romano Dives
Oggi, 8 aprile, si celebra in tutto il mondo la Giornata internazionale "Romano
Dives" (Giornata di rom e sinti) riconosciuta nel 1979 dall'ONU grazie alle
attività e alle pressioni dell'Unione mondiale di rom e sinti fondata a Londra
nel 1971 (poi divenuto IRU -
International Roman Union). La
Commissione europea
ha avviato fin dal 2010 precise politiche dedicate all'integrazione dei rom e
sinti nei paesi membri, che hanno portato all'approvazione della Risoluzione
denominata 'Strategia europea sull'integrazione dei rom' poi adottata dal
Consiglio. In essa si stabilisce che a tutti i rom devono essere garantiti
standard minimi in materia di accesso a occupazione, educazione, alloggio e
assistenza sanitaria. Nell'Ue vivono circa 12 milioni di rom dei quali la
maggioranza in Romania e Bulgaria.
Inoltre nel 2013 le autorità romene hanno censito 5.000 bambini rom e 30.000
adulti: "Bisogna continuare sulla strada per garantire i diritti di accesso ai
servizi sanitari e d'istruzione, puntando sullo sviluppo dei mediatori
socio-culturali. Un fiore all'occhiello della Romania, ma con la crisi, le
misure di austerità e la decentralizzazione la metà dei mediatori non fa più
questo mestiere, con il rischio di perdere una grande risorsa per il paese".
Muižnieks non vuole tralasciare, però, un punto fondamentale del suo mandato: la
lotta contro i reati d'odio. "Pur apprezzando il lavoro del Consiglio nazionale
per la lotta alla discriminazione, sono molto preoccupato dal fatto che le
autorità romene sembrano sottostimare l'incidenza dei crimini legati all'odio
razziale nel paese e che hanno come vittime principali i rom - ha dichiarato il
commissario - nonostante i media e le organizzazioni non governative denuncino
questi episodi, nel 2013 nessun caso è finito in tribunale, questo non
rispecchia la realtà. Bisogna porre molta attenzione agli incitamenti al
razzismo e ai crimini d'odio e dare la necessaria formazione alle forze
dell'ordine affinché sappiano riconoscere e sanzionate questi reati legati al
razzismo".
Le elezioni europee
Un tema, quello del razzismo e della xenofobia che si lega in modo indissolubile
con le prossime elezioni europee, soprattutto dopo i risultati delle elezioni
amministrative francesi che hanno visto la crescita della destra estremista,
come dimostrano anche i sondaggi condotti in altri paesi UE.
"Più che dai sondaggi sono preoccupato da quello che potrebbe accadere alla
democrazia dopo le elezioni europee - ha sottolineato Muižnieks - con
l'approssimarsi del voto in molti paesi membri la destra estremista sta portando
avanti campagne contro l'immigrazione o i rom: ci sarà un dibattito pieno di
veleni su questo tema. Ma quello che mi preoccupa di più è come sarà ridisegnato
il Parlamento europeo con l'ingresso massiccio di queste forze estremiste e di
come verranno condotti i dibattiti. Ad essere danneggiata potrebbe essere la
stessa Unione europea e il suo lavoro sulle politiche di immigrazione".
Di Fabrizio (del 03/04/2014 @ 09:01:40, in Europa, visitato 1917 volte)
March 31, 2014
di Maurizio Stefanini - nota a margine di Mahalla
Il governo svedese chiede scusa agli zingari per un secolo di discriminazioni,
vessazioni e abusi che sono arrivati fino all'estremo delle sterilizzazioni di
massa, per impedire che crescesse troppo una minoranza classificata come
"incapacitati sociali". Non solo è una bella botta allo stereotipo sulla
multiculturalità e sulla tolleranza scandinava: anche se probabilmente cose
anche peggiori sono accadute e accadono in tanti altri Paesi, senza che nessuno
chieda scusa allo stesso modo. Il dato ancora più spiazzante, appunto dando
retta agli stereotipi, e che è il governo di centrodestra del premier Fredrik
Reinfeldt a chiedere scusa per abusi che furono compiuti soprattutto dai governi
socialdemocratici, secondo i quali l'intervento eugenetico per ridurre il peso
degli elementi "parassitari" era una condicio sine qua non irrinunciabile dello
Stato sociale, per abbatterne i costi.
"La situazione che vivono gli zingari oggi ha a che vedere con la
discriminazione storica cui sono stati sottomessi", afferma il Libro Bianco
sulle violazioni dei diritti di questa minoranza dal 1900 in poi che è stato
presentato a Stoccolma.
"Un periodo oscuro e vergognoso della storia svedese", è stato definito dal
ministro dell'Integrazione, il liberale Erik Ullenhag. Forse non conclusosi del
tutto, visto che una delle testimoni rom invitata a dare testimonianza si è
vista negare l'ingresso dal personale di quell'Hotel Sheraton dove il rapporto
veniva presentato. E lo scorso settembre ci fu lo scandalo della polizia della
Scania che aveva schedato una lista di 4000 rom. Ma il clou fu tra 1934 e il
1974: cioè, quasi l'intero periodo di quel lungo predominio socialdemocratico al
governo che durò dal 1932 al 1976. Non ci sono cifre ufficiali, ma secondo le
testimonianze almeno una famiglia consultata su quattro era a conoscenza di casi
di sterilizzazione o aborto forzato. Inoltre i bambini venivano spesso sottratti
alle famiglie: neanche qui ci sono cifre ufficiali, ma secondo il Ministero
durante i freddi inverni svedesi la pratica era sistematica, con il pretesto di
sottrarre i piccoli ai rigori del clima.
Sempre durante i governi socialdemocratici, fino al 1964 fu proibito agli
zingari di entrare in Svezia. Anche durante quegli anni della Seconda Guerra
Mondiale in cui rom e sinti nell'Europa occupata dai nazisti venivano
sistematicamente mandati nei campi di sterminio. Porajmos, "devastazione", è
chiamata quella versione zingara della Shoà in cui morirono oltre 600.000
persone. Anche per chi risiedeva in Svezia in molti municipi era inoltre
proibito agli zingari insediarsi in modo permanente, nelle scuole i bambini
erano segretati in aule speciali e in generale i servizi sociali erano loro
preclusi. Come ha spiegato il Ministero, "l'idea era di rendere loro la vita
impossibile perché se ne andassero dal Paese". Per il momento, il Libro Bianco
non contempla la possibilità di risarcimenti agli zingari, che in Svezia sono
50.000 su una popolazione di 9 milioni e mezzo di persone. Però l'apertura degli
archivi e le scuse ufficiali ne pongono probabilmente le premesse.
Nota
Occorreva un quotidiano di destra perché sulla stampa emergesse questa
storia. Che è ancora incompleta: non fu soltanto la Germania nazista a
perseguire quelle politiche - i colpevoli sono da tutte le sponde
politico-ideologiche - ci fu la democratica Svizzera tra gli anni '50 e gli anni
'70, ma anche la comunistissima Cecoslovacchia del dopo Dubcek, con processi di
risarcimento che si trascinano ancora oggi. E la Svezia socialdemocratica.
Cosa può legare tra loro regimi così diversi? Direi, il tentativo di
stabilire il primato dello stato, che deve essere non solo forte (anche se ogni
stato intende la forza in una sua maniera diversa), ma deve anche intervenire
nel "plasmare" l'identità dei propri popoli. Qualcuno con la forza, altri con
una sorta di "moral suasion". Facendo valere la forza soprattutto sulle fasce
più deboli ed esposte della popolazione.
Cosa aggiungere sulla socialdemocrazia (svedese)? Che nei medesimi anni,
i Rom e Sinti venivano schedati e i dati raccolti in schedari segreti di cui
solo l'anno scorso si è venuto a conoscenza. Nel frattempo, la Svezia ha virato
a destra, e questi episodi di chiarezza sul suo passato vanno in corto circuito
con pulsioni che prima erano più rare: è di settimana scorsa la notizia,
lanciata dalla testata THE LOCAL e
ripresa anche all'estero, di un ristorante della catena Sheraton ha
rifiutato di servire un proprio cliente perché di etnia rom.
Nel contempo, nella Serbia che per gli "occidentali" rimane un posto
esotico e selvaggio, si è concluso il processo contro un Mc Donald che si era
reso colpevole di un comportamento simile a quello svedese.
Di Fabrizio (del 24/02/2014 @ 09:04:51, in Europa, visitato 1906 volte)
Pericolo dalla pelle scura -
Transitions Online
by Barbara Frye · February 20, 2014 - Un libro da colorare edito dalla
polizia, insegna ai bambini cechi una lezione sulle paure degli adulti
Che aspetto ha un pedofilo? Di solito è maschio, ma oltre ai tratti fisici è
difficile da identificare.
E' probabile, dato che la Repubblica Ceca è un paese a predominanza bianca, che
lo siano anche la maggior parte dei pedofili cechi.
Ciò non ha impedito alla polizia di distribuire un opuscolo da colorare, rivolto
ai bambini, sulla prevenzione dei crimini, dove un pedofilo è descritto con
pelle e capelli scuri. Nella figura, usa un lecca-lecca per adescare una
bambina.
Non occorre specificare quale gruppo etnico possa richiamare alla mente (non
quello cubano, nonostante ciò che volonterosamente il portavoce della polizia
ipotizzava in risposta alla domanda di un giornalista). Anche se probabilmente
sono di più, secondo l'ultimo
censimento soltanto 13.150 - su di una popolazione di 10,4 milioni, si
dichiara Rom. Sono cifre che suggeriscono come il signor Lecca-lecca è più
probabile che sia un bianco.
Nel libro l'unica persona presente di pelle scura appare come pedofilo,
viceversa il poliziotto è un uomo bianco, carino e simpatico sotto ogni aspetto.
Martin Simacek, direttore dell'agenzia governativa per l'inclusione sociale, ha
detto al quotidiano Lidove noviny: "Non ha nessun senso. Di riflesso,
si limita a trasmettere i pregiudizi ai bambini."
Dopo diverse contestazioni al libro, anche da parte di alcuni insegnanti, il
giornale riferisce che la polizia sta lavorando ad una riprogettazione del
libro.
Barbara Frye is TOL's managing editor.
Di Fabrizio (del 08/02/2014 @ 09:08:20, in Europa, visitato 2014 volte)
La popolazione europea e quella Rom - tra le quali non c'è stato un
significativo mescolamento genetico - condividono però un gruppo di geni del
sistema immunitario, assenti in altre etnie, che si sono evoluti in seguito
all'esposizione alle stesse grandi epidemie, in particolare alla Peste Nera (red)
I geni del sistema immunitario di europei e Rom mostrano segni di un'evoluzione
convergente dovuta alla pressione selettiva esercitata dalle grandi epidemie del
Medioevo, e in particolare dalla Peste Nera. A scoprirlo è un gruppo di
ricercatori dell'Universitat Pompeu Fabra a Barcellona, della Radboud University
a Nijmegen, dell'Università "Iuliu Hatieganu" a Cluj-Napoca, in Romania, e del
Dayanand Medical College and Hospital a Ludhiana, in India, che firmano
un
articolo sui "Proceedings of he National Academy of Science".
L'evoluzione dei geni del sistema immunitario sotto la pressione selettiva delle
malattie infettive è un fatto ben noto, ma finora pochi studi hanno analizzato i
meccanismi di questo processo a livello di modificazione del genoma.
Hafid Laayouni e colleghi hanno potuto sfruttare la rara condizione demografica
di due popolazioni con un'ascendenza genetica diversa, europea e Rom, ma che
hanno vissuto nella stessa area geografica senza un significativo mescolamento,
e sono stati esposti a rischi ambientali simili, comprese le infezioni. Studi
linguistici e genetici hanno infatti mostrato che la popolazione rom è
originaria delle regioni settentrionali dell'India, paese che ha lasciato fra il
V e il X secolo, per stabilirsi in Europa nel XI secolo, soprattutto nell'area
dell'attuale Romania.
La popolazione rom ha condiviso per secoli lo stesso ambiente della
popolazione europea rumena, ma geneticamente è più affine a un'etnia che ancora
vive in India, dalla quale si è separata per migrare verso l'Europa, in più
ondate, fra il X e il XII secolo. (Cortesia H. Laayouni et al./PNAS)
I ricercatori hanno effettuato un confronto incrociato fra i geni immunitari
della popolazione rumena, di quella Rom stabilitasi in Europa e dell'etnia
indiana da cui discendono i Rom (poiché la storia delle grandi epidemie in
Europa e in India è differente).
Per un complesso di ragioni non perfettamente chiarito – la quasi aella
popolazione rumena, di quella Rom stabilitasi in Europa e dell'etnia indiana da
cui discendono i Rom (poiché la storia delle grandi epidemie in Europa e in
India è differente).
Per un complesso di ragioni non perfettamente chiarito – la quasi assenza
nell'ambiente indiano di pulci della specie Xenopsylla cheopis, che vi si
sarebbe diffusa solo dal XVII secolo, le barriere geografiche e le difficoltà di
spostamento su distanze quali quella che separano l'Europa dall'India - la peste
risparmiò il subcontinente indiano, dove si diffuse in misura limitata e con una
mortalità non superiore al 5 per cento.
Analizzando il genoma di soggetti dei tre gruppi etnici per saggiare ben 196.524
varianti genetiche (polimorfismi a singolo nucleotide, o SNP), i ricercatori
hanno identificato sul cromosoma 4 un cluster di geni che codifica per recettori
immunitari, e che è presente nelle popolazione rumena e in quella rom, ma non in
quella dell'India settentrionale.
Attraverso una serie di esami i ricercatori hanno poi confermato che questo
gruppo di geni è coinvolto nella risposta immunitaria degli europei al bacillo
Yersinia pestis, l'agente eziologico della peste, e a Y. pseudotuberculosis, un
suo stretto parente.
Grazie a questi risultati la ricerca fornisce una prospettiva unica sugli
effetti dell'evoluzione sul sistema immunitario sotto pressione dalle infezioni.
su Casa Europa; di Paolo Soldini
"La Romania è entrata nell'Unione europea con tutti i suoi Rom". Il capo del
governo di Bucarest Traian Basescu è stato chiarissimo: la Romania non accetterà
discriminazioni etniche nell'accettazione dei suoi cittadini in Germania, in
Gran Bretagna e in tutti gli altri stati dell'Unione. E' caduta così l'assurda
pretesa avanzata da più parti sia a Berlino che a Londra di distinguere
legalmente tra immigrati rumeni (e bulgari, perché il problema è comune)
"normali" e immigrati di etnia rom: sono tutti cittadini con uguale dignità e
uguali diritti, anche quando si recano in altri Paesi. Il principio dovrebbe
essere pacifico, ma - fino alle perentorie parole che Basescu ha pronunciato a
Berlino (e presumibilmente nei colloqui che aveva avuto prima con i dirigenti
tedeschi) - non lo era affatto. L'idea che si possano discriminare i Rom
inventando per loro regole e divieti che non valgono per i loro connazionali è
abbastanza diffusa e il premier rumeno ha ricordato che qualcuno questa politica
ha provato pure a metterla in pratica: l'Italia, al tempo del non rimpianto
ministro dell'Interno Maroni, provò a rimpatriare d'autorità gli "indesiderati"
di etnia rom e cittadinanza rumena. Con l'unico risultato che quasi tutti,
appena scesi dagli aerei su cui erano stati caricati a forza, ripartirono per il
Bel Paese, al cui governo le autorità di Bruxelles ricordarono con una certa
rudezza gli obblighi derivanti dalle regole della libera circolazione
all'interno dell'Unione. Dal 1° gennaio scorso sono caduti i limiti per i
cittadini di Bulgaria e Romania, fissati al momento del loro ingresso in Ue nel
2007.
Timori d'invasione
Proprio questa scadenza ha sollevato in vari Paesi, ma soprattutto in Germania e
nel Regno Unito, una sindrome da invasione del tutto irrazionale e
ingiustificata, o meglio: spiegabile con le pulsioni populistiche delle destre
dei due Paesi. Nella Repubblica federale a cavalcare la tigre è stata ed è
prevalentemente la Csu, la sorella bavarese della Cdu della cancelliera Merkel.
Da settimane è in corso una campagna contro gli "immigrati per povertà", che
arriverebbero in Germania dai due Paesi balcanici con l'unico obiettivo di
approfittare indebitamente delle misure del welfare tedesco: sussidi di
disoccupazione, contributi per la maternità e via elencando. Sui muri di Monaco
e delle altre città del Land compaiono manifesti in cui si minaccia: "Chi
imbroglia vola via". La realtà è molto diversa. Secondo l'Ufficio federale del
lavoro i cittadini rumeni e bulgari che vorrebbero emigrare in Germania sono non
più di 180mila, oltre un quarto dei quali con titoli di studio alti: soprattutto
medici e ingegneri, ma anche informatici, infermieri, operai specializzati.
Secondo i ricercatori dell'Istituto per gli studi economici di Colonia il saldo
tra la spesa per le prestazioni sociali che verrebbero erogate agli immigrati
balcanici e gli introiti per lo Stato in termini di tasse e contributi sarebbe
largamente positivo. D'altra parte, tutti gli istituti di ricerca concordano sul
fatto che l'economia tedesca è in una fase in cui ha un forte bisogno di
manodopera e il governo federale ne è ben consapevole, visto che promuove
continue campagne di richiamo di stranieri, qualificati o meno.
Non si sa quanti dei 180mila in arrivo da Bulgaria e Romania sarebbero di etnia
rom: numerose missioni inviate nei mesi scorsi in Romania per indagare sulla
quantità di Rom intenzionati a partire per la Repubblica federale non hanno
permesso di accertarlo. Certo, nessuno nega che qualche problema di integrazione
delle comunità nomadi rumene e bulgare, comunque, si porrà, come peraltro si è
già posto in altri Paesi, come l'Italia e la Francia, ma anche in Germania e in
Austria, dove un certo flusso migratorio di gitani orientali si registra da
anni. Ma i problemi sono del tutto gestibili e, soprattutto, le autorità dei due
Paesi sono intenzionate a farsene carico. Basescu ha proposto a Berlino un
programma di sostegno alle comunità rom in Germania. Bucarest potrebbe inviare
forze di polizia, medici, assistenti sociali e soprattutto educatori e
insegnanti che si prenderebbero cura degli emigrati di origine rom. Esperienze
simili sono state già compiute, per esempio in Italia per quanto riguarda la
collaborazione delle polizie, e hanno dato buoni risultati.
Approfondimento:
Roma are
EU citizens too, Romanian President says su Euobserver.com
Elena Gorolovà, portavoce del gruppo di donne colpite da
sterilizzazione coercitiva
Il Comitato di Helsinki ceco crea una legge per risarcire le persone
sterilizzate illegalmente - Prague, 14.1.2014 17:18, (ROMEA)
Czech Helsinki Committee, translated by Gwendolyn Albert
Il Comitato di Helsinki ceco (Chesky helsinsky vybor - ChHV) ha completato una
carta da usare come guida per il risarcimento delle persone sterilizzate
illegalmente. La ONG sta ora presentando la bozza di legge redatta al Parlamento
Ceco e al Ministro della Giustizia e chiede ad essi di pensare al più presto ad
un'adeguata soluzione al problema della sterilizzazione illegale.
La pratica di sterilizzare le persone senza il loro consenso informato è stata
eseguita, in passato, nel territorio della Repubblica Ceca. Fino al 1991, tale
prassi era frutto di una politica dello Stato volta a limitare la riproduzione
di gruppi considerati scomodi dal regime cecoslovacco.
Dopo il 1991, la Repubblica Ceca ha continuato ad eseguire la pratica di
sterilizzazione delle persone senza il loro consenso informato non adottando
misure legali atte a stabilire le condizioni entro le quali la sterilizzazione
potesse essere legale per legge, tra cui quella del consenso libero ed
informato. Centinaia di persone hanno perciò perso l'opportunità di avere figli,
cosa che ha portato molti traumi ad individui e persone.
"Dopo che la Repubblica Ceca è stata a lungo inattiva in questo senso nonostante
le ripetute critiche alla sua situazione provenienti sia a livello
internazionale che nazionale dai difensori dei diritti umani, il Comitato di
Helsinki ceco ha deciso di contribuire ad accelerare il processo di adozione di
misure legali atte ad assicurare l'effettiva e rapida implementazione del
risarcimento alle persone sterilizzate illegalmente tramite la presentazione di
questo materiale." ha dichiarato Michaela Tejnorovà, avvocato del ChHV. Una
ricerca statistica sul campo, che ha accompagnato la scrittura della bozza del
ChHV, ha mostrato come alcune donne stiano tuttora ricevendo risposte negative da
alcune istituzioni mediche relative all'ottenimento delle cartelle cliniche
relative alla loro sterilizzazione.
"Alcune donne erano scettiche sul collaborare con noi a riguardo di questa
problematica dato che, per molti anni, avevano provato e fallito
nell'ottenimento di un risarcimento. Riaprire questo tema ha riportato loro
memorie dolorose e ha ricordato loro tutte le diverse conseguenze di ciò che è
stato fatto loro, non solo quelle mediche." dice Elena Gorolovà del gruppo di
Donne colpite da Sterilizzazione Coercitiva che collabora col progetto del ChHV.
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