L'essere straniero per me non è altro che una via diretta al concetto di identità. In altre parole, l'identità non è qualcosa che già possiedi, devi invece passare attraverso le cose per ottenerla. Le cose devono farsi dubbie prima di potersi consolidare in maniera diversa.
Proposta progettuale di intervento nell’area nord occidentale di Napoli Con questo documento i gruppi Chi rom e... chi no e OsservAzione propongono
alle istituzioni nazionali, internazionali e campane il superamento della logica
dei campi rom e la riqualificazione dell'area di Scampia nell'interesse di tutta
la collettività, così come è previsto dalla variante del piano regolatore
generale approvata nel 2004 dalla giunta della Regione Campania.
Siamo venuti a conoscenza di un progetto comunale che, nonostante le richieste,
non è stato possibile visionare. Sembra che il progetto preveda la realizzazione
di 5 villaggi – un nuovo modo per indicare i campi, – “temporanei”, con un
finanziamento di circa 7 milioni di euro.
Secondo alcune voci, l’amministrazione intende iniziare i lavori nell'arco di 15
giorni, mentre nei campi rom proseguono un lavoro attento e partecipato su tutte
le questioni che li riguardano da vicino (scuola, regolarizzazioni, questione
abitativa, ecc.).
La proposta che alleghiamo è parte di questo processo di confronto e riflessione
con i rom e diverse altre parti della città, in particolare il Comitato Spazio
pubblico, il Comitato con i rom, l’associazione Asunen romalen. Il documento
sarà presentato alla prefettura e agli organismi nazionali e internazionali
competenti, con l'auspicio che si possa scongiurare l'ipotesi di agire secondo
la purtroppo diffusa logica dell'emergenza e degli interventi straordinari,
discriminatori e ghettizzanti che nel caso specifico dei rom, li vedrebbe
destinatari di un piano avulso dalle necessarie politiche di sviluppo
(culturale, abitativo, lavorativo...) che dovrebbero riguardare ed essere
attuate nell'interesse di tutti, rom e non.
Chiediamo il vostro appoggio per sostenere questa battaglia culturale, per
dimostrare che queste idee sono patrimonio condiviso da tanti.
Le linee guida progettuali che si propongono nel presente documento partono dal
presupposto che le politiche che riguardano i rom devono tendere ad una
normalizzazione degli interventi, da riportare nell’alveo dell’ordinarietà, in
un’ottica reale di integrazione, nonché essere ispirate a principi di
uguaglianza dei diritti delle persone, così come chiaramente enunciato dal
nostro ordinamento giuridico nazionale – a partire dall’art. 3 della
Costituzione - integrato da quello sovranazionale.
Ciò significa che le politiche rivolte ai rom devono rifuggire la logica
dell’emergenza, della temporaneità e della specialità, soprattutto quando questi
paramentri vengono utilizzate per attuare piani che vedono i rom discriminati,
ovvero vittime di un trattamento sfavorevole o almeno meno vantaggioso rispetto
agli altri cittadini, italiani e stranieri, nella casa come nel lavoro, nella
scuola ecc.
Oltre a ciò, appare quanto mai urgente mettere in evidenza che le politiche
abitative non possono in alcun modo prescindere dall’affiancamento di interventi
volti alla regolarizzazione delle posizioni giuridiche, dall’incentivo al lavoro
e soprattutto da interventi sociali e culturali che permettano la crescita di
consapevolezza delle persone, la partecipazione attiva, l’attenzione verso gli
interessi collettivi, nonché il riconoscimento dei propri diritti così come
delle proprie potenzialità, insieme con gli altri cittadini non rom.
Al fine di rendere concreti i principi di cui sopra, si ritiene, come si esporrà
meglio in seguito che – anche per neutralizzare derive xenofobe, di allarme
sociale, nonché di opposizione delle popolazioni “autoctone”– un progetto che
riguarda gli abitanti rom di Scampia non possa prescindere dal riconoscimento e
dall’assunzione di responsabilità pubblica circa le problematiche della
cittadinanza tutta, anche per quanto riguarda le necessità alloggiative.
In particolare, l’area dove insistono gli insediamenti spontanei dei cittadini
rom, rientra in una più ampia zona territoriale, che deve essere presa in
considerazione in maniera complessiva e unitaria, se si vuole realizzare un
corretto intervento, al fine di restituire alla cittadinanza un territorio
vivibile e funzionale, attualmente senza alcuna destinazione fruibile, evitando
di concentrarsi sui soli rom. Ciò significa che l’area in questione, come da
piano regolatore, deve essere destinata al vantaggio del quartiere e dell’intera
città e deve essere dotata di servizi e strutture necessarie per la crescita e
il miglioramento delle condizioni di vita di tutte le persone, in primis di
quelle che abitano nel quartiere.
Pertanto, la risoluzione della problematica abitativa dei rom di Scampia, così
come ogni intervento che si voglia programmare nell’area in questione, non potrà
prescindere ed anzi si dovrà porre in armonia e in linea di continuità con la
destinazione ultima dell’area così come indicata nella Variante al P.R.G., DPGR
323/04, ovvero predisporre servizi e attività produttive, sociali e culturali,
nonché l’aumento della capacità alloggiativa. Così si legge testualmente all’art
132 com. 1 delle norme di attuazione della Variante al P.R.G.: «Nell’ambito
individuato nella scheda 60, la variante persegue l’obiettivo della
riqualificazione del tessuto urbano, attraverso la formazione di un insediamento
di attività per la produzione di beni e di servizi nell’area in corrispondenza
dell’immobile dimesso originariamente adibito a centrale del latte, al fine di
contribuire al processo di rivitalizzazione socio – economica dell’intera
periferia e degli insediamenti urbani dei comuni contermini».
La questione rom Per quel che attiene in particolare la questione rom occorre evidenziare
alcuni aspetti rilevanti:
1) le linee di indirizzo indicate in ambito europeo delineano come obiettivo
prevalente, in relazione alle politiche di integrazione e miglioramento delle
condizioni di vita delle popolazioni rom, l’eliminazione dei campi nomadi e
delle baraccopoli, così come di ogni progetto segregante e ghettizzante;
2) in tal senso si menzionano in particolare le politiche sociali ed abitative
adottate dal governo spagnolo e dalla Fundación Europea Secretariado Gitano,
così come della maggior parte dei governi europei (Germania, Francia ecc);
3) la mancanza di interventi efficaci e tempestivi, nonché le politiche poste in
essere fino ad oggi in Italia, ispirate alla logica assistenziale e
discriminante con il confinamento dei rom in aree predisposte esclusivamente
alla loro allocazione (campi autorizzati, villaggi attrezzati, campi abusivi,
aree attrezzate, centri di accoglienza e di permanenza temporanea,ecc.), hanno
prodotto gravi danni in termini di aumento di xenofobia, razzismo, degrado e
marginalità sociale, abbandono scolastico, disoccupazione, insicurezza diffusa
ecc;
4) a dimostrazione del fallimento prodotto dalle politiche inefficaci e/o
assenti, vi è l’introduzione, nelle tre maggiori città italiane (Milano, Roma,
Napoli), di una legislazione emergenziale e derogatoria assimilabile a quella
atta ad affrontare catastrofi naturali e simili (art. 5 L.225/92.), che sancisce
ufficialmente lo stato di eccezione delle politiche che riguardano i rom;
5) diversamente esiste da lungo tempo un consolidato orientamento teorico e
pratico – sperimentato e sostenuto da professionisti, cittadini, associazioni,
gruppi, enti, istituzioni pubbliche e private, laiche e religiose – che,
mettendo in pratica metodologie ispirate al modello di intervento della
ricerca-azione partecipata, ha prodotto efficaci risultati in termini di
ricaduta sociale: integrazione, razionalizzazione della spesa pubblica,
diminuzione della criminalità, sicurezza pubblica, inserimento lavorativo di
giovani, crescita culturale, partecipazione attiva, cura degli spazi e degli
interessi collettivi;
6) tale modello ha visto e vede tuttora nel territorio di Scampia un luogo
privilegiato di intervento, in relazione alle sue caratteristiche: allocazione
periferica, altissima percentuale di giovani, presenza di area non utilizzate
ecc.
La messa in evidenza di tali aspetti è finalizzata a rendere chiaro che le
indicazioni progettuali riportate nel seguente documento sono conformi e attuano
le prescrizioni di legge riguardanti le materie in oggetto, si fondano su un’
analisi locale, nazionale ed internazionale di esperienze pregresse e attuali, e
vantano risultati positivi conseguiti in applicazione della metodologica
teorico-pratica di intervento indicata.
Le abitazioni Per quel che riguarda, in particolare, la questione abitativa dei rom è
necessario chiarire che non esiste un unico modello abitativo ma occorre mettere
in campo soluzioni differenti per garantire il diritto alla casa, in linea con
le potenzialità e i bisogni delle persone, evitando di operare scelte basate su
un’ipotetica cultura rom/nomade.
Pertanto si indicano diversi strumenti per sostenere l’abitare autonomo:
inserimento nelle liste dell’edilizia economica e popolare, assegnazione di
alloggio sociale ai sensi della legge 9/07, garanzia e/o integrazione
all’affitto di appartamenti e/o fabbricati da reperire sul libero mercato,
intermediazioni, agevolazioni e predisposizione di sistemi di garanzia per
l’acquisto di beni immobili (terreni edificabili e fabbricati), sostegno alla
ristrutturazione di edifici dismessi e/o abbandonati, ecc.
La proposta Proposta progettuale di intervento nell’area nord occidentale di Napoli -
zone BB, EB, EA, ED e DB - ambito 7 art. 132 variante PRG. In ossequio a quanto
esposto sin’ora, si propone un intervento multi ambito (giuridico,
culturale/pedagogico, lavorativo e abitativo) nelle aree in cui insistono i
campi rom spontanei e zone limitrofi in particolare come da tavole di
zonizzazione : BB, EB, EA, ED e DB - ambito 7 art. 132 variante PRG, ovvero le
aree collocate al confine nord-occidentale del Comune di Napoli all’altezza
dell’Asse mediano - (futuro svincolo Scampia) - area ex centrale del latte (v.
all. 1).
Il progetto prevede l’utilizzo di strumenti urbanistici attuativi, per risolvere
l’attuale condizione abitativa dei rom presenti sul territorio di Scampia e
rispondere in parte alla necessità abitativa in cui si trovano i cittadini
italiani del luogo. In considerazione, infatti, della pressante domanda di
alloggi nel quartiere, nonché della contestuale necessità di individuare
soluzioni integrate che possano rispondere alle esigenze della collettività, la
soluzione proposta è potenzialmente in grado di rispondere alla necessità
abitativa di entrambe le comunità presenti nel quartiere, in modi tempi e
percentuali diverse, e scongiurare il verificarsi di opposizioni violente e
rivendicazioni collettive da parte di chi vive un eguale disagio.
Le soluzioni abitative dovranno rispettare inderogabilmente gli standard
abitativi previsti dalla normativa vigente per l’edilizia economica e popolare
anche in termini di diritto e doveri nell’uso dell’alloggio, con pagamento di
affitto e possibilità di riscatto,il pagamento delle utenze domestiche, ecc.
I siti dovranno essere dotati di opere di urbanizzazione primaria e secondaria
per un’utenza di tutto il quartiere, (scuole, centri culturali, centri sportivi,
aree destinate alla produzione e alla vendita, ecc.).
Il progetto deve preservare le aree agricole esistenti, in cooperazione con i
contadini della zona interpreti della memoria del luogo, nonché tutelare e
valorizzare il principale patrimonio verde dell’area nord di Napoli, di cui
l’area interessata è parte.
La destinazione agricola di questa parte di territorio potrebbe adempiere a
diverse funzioni: lavorativa con la formazione di cooperative agricole di
produzione e vendita, la costruzione di serre per la coltivazione di piante e
fiori e didattica con la creazione di orti didattici.
L’eventuale espansione residenziale sarà preferibilmente ubicata in stretta
relazione con quelle esistenti, in tal modo, con la fascia di rispetto dell’Asse
Mediano potenziata a verde pubblico Parco integrato con la Centrale del Latte,
il valore della restante area si trasformerebbe positivamente. La promozione di
progetti che coinvolgano le maestranze locali (rom e non rom) nella costruzione
degli alloggi e delle relative pertinenze.
Gli obiettivi che il progetto intende perseguire sono: il miglioramento della
qualità di vita dei cittadini; la promozione e il rafforzamento della coesione
sociale, in termini relazioni umane, mutuo aiuto, interessi collettivi ecc;
l’aumento del livello di sicurezza del quartiere e della città, in termini
migliore fruibilità degli spazi e dei servizi, nonché diminuzione dei reati che
generano allarme sociale; la crescita e il miglioramento del livello culturale
delle persone; la creazione di servizi per il quartiere (sportelli legali, asili
nido, foresteria/ostello e residenza universitaria, negozi ecc); il
miglioramento della capacità lavorativa del quartiere; l’individuazione di aree
adibite verde pubblico; la creazione di spazi artigianali e poli produttivi con
possibilità di vendita; la tutela e miglioramento dell’area agricola esistente
anche al fine di preservare e valorizzare il principale polmone verde della
città di Napoli, situato nell’area interessata dalla selva di Chiaiano; il
superamento delle soluzioni abitative e sociali temporanee e ghettizzanti;
l’aumento della capacità alloggiativa nel rispetto della normativa vigente in
particolare in tema di edilizia economica e popolare; miglioramento delle
competenze professionali attraverso percorsi di formazione e avviamento al
lavoro; miglioramento delle condizioni di base per la progettazione di un P.u.a.
e/o di ogni altro strumento urbanistico attuativo avente ad oggetto l’ambito 7,
ai sensi dell’art 132, norme di attuazione della variante al P.R.G. area
ex-centrale del latte Scampia.
Metodologia e ambiti di intervento Tale progettualità deve attuarsi ispirandosi alla metodologia della ricerca
– azione partecipata e deve contemperare i seguenti aspetti:
A - Ambito giuridico. La presenza regolare sul territorio italiano dei
cittadini rom è un aspetto fondamentale e propedeutico al conseguimento degli
obiettivi che il progetto intende perseguire, in assenza della quale qualsiasi
intervento sarebbe un’inutile dispiego di mezzi e risorse. Pertanto, al fine di
regolarizzare la posizione giuridica dei rom è necessario analizzare diversi
aspetti giuridici e trovare gli strumenti idonei per superare gli ostacoli che
frequentemente impediscono l’effettivo esercizio dei diritti. A mero titolo
esemplificativo si indicano le problematiche più frequenti: il mancato
riconoscimento della cittadinanza italiana per l’impossibilità di dimostrare la
residenza legale ininterrottamente dalla nascita sino al compimento dei 18 anni,
le difficoltà di accertamento dello status di apolide, in considerazione della
situazione geo-politica dei territori della ex Jugoslavia a causa di guerre e
ridefinizione dei confini territoriali; le difficoltà di ottenere il rilascio
del permesso di soggiorno per coesione al coniuge, per ricongiungimento
familiare, nonché il rilascio della carta di soggiorno ecc per l’impossibilità
di ottenere dagli organi preposti la certificazione attestante l’idoneità
alloggiativa per chi vive in abitazioni che non rispondono ai requisiti di legge
(es. campi rom).
B - Ambito lavorativo e di sviluppo economico. L’attuazione delle
politiche del lavoro e l’aumento delle possibilità occupazionali rappresentano
un obiettivo prioritario del progetto, in quanto il raggiungimento della
autonomia economica delle persone è elemento essenziale in ogni processo di
autodeterminazione.
Favorendo l’indipendenza economica e lavorativa, inoltre, l’amministrazione
assolverà il proprio ruolo propositivo e incentivatore di risorse, evitando di
cadere nel circolo vizioso dell’assistenza e della dipendenza. Ciò può avvenire
attraverso la messa in atto di una serie di azioni, anche avvalendosi degli
strumenti e dei servizi già attivi, quali ad esempio: il microcredito, la
concessione di licenze per il commercio, l’avviamento a percorsi formativi e
professionalizzanti, il sostegno alla creazione di cooperative. Un’idea molto
interessante riguarda la possibilità di concretizzare degli accordi con
imprenditori locali e finanziatori internazionali disponibili a sostenere
progetti imprenditoriali riguardanti la zona agricola esistente, su cui da
diverso tempo, sulla base delle competenze esistenti e in accordo con i
contadini locali si sta riflettendo.
C - Ambito sociale, culturale e pedagogico. L’area pedagogico culturale
del progetto considera la cultura sia come fattore fondamentale di coesione e
d’integrazione sociale, da cui deriva la valorizzazione delle identità e delle
attitudini territoriali sia come forma di espressione plurale, partecipata e
libera.
In quest’ottica è necessario attivare processi culturali che potenzino e
favoriscano la crescita, la conoscenza e le relazioni tra gli individui e
valorizzino lo scambio tra culture. La musica, il teatro, il gioco, il cinema,
le feste, gli eventi culturali sono strumenti privilegiati e sperimentati per
garantire la convivenza pacifica e armonica tra le persone.
In particolare il progetto ritiene fondamentale la creazione di un centro
culturale-pedagogico per bambini, giovani e adulti inteso quale luogo aperto,
pubblico e fruibile, catalizzatore di iniziative e esperienze innovative
nell’ambito delle arti, della musica, della danza e della cultura considerata
nei suoi molteplici aspetti.
La proposta progettuale in quanto tale, può essere migliorata e rivista sulla
base delle indicazioni e delle riflessioni che vorranno essere proposte e che il
gruppo di lavoro sarà ben felice di accogliere.
Per info e contatti ambito7@gmail.com
A cura di Associazione chi rom e… chi no, Associazione OsservAzione. In
collaborazione con Associazione Asunen Romalen, Comitato Spazio Pubblico,
Comitato con i Rom.
Di Fabrizio (del 25/11/2008 @ 10:13:10, in casa, visitato 2575 volte)
Ricevo da Veniero Granacci
Casilino 900: dice Alemanno che i Rom possono avere l'acqua potabile solo
quando si fissa (meglio se insieme) la data dello sgombero!
Questo Editoriale è un Asino. Quindi c’è poco da dire. E’ un Editoriale
piccolo piccolo, come la cifra dei politici borghesi che governano sulle vite di
milioni di subalterni. Oggi [Domenica 23 Novembre, ndr] Gianni Alemanno ha
visitato il campo rom Casilino 900 (uno dei più vecchi d'Europa) per la
seconda volta da quando è diventato Sindaco di Roma. Ha naturalmente ribadito il
solito clichè del moderno centrodestra secondo cui Roma rispetta tutti purchè
tutti stiano nella legalità (come fanno le Banche, per esempio). Coerentemente
con le sue innovative idee ha quindi confermato che farà sgomberare presto il
campo dell’”illegalità”, seppure attraverso il confronto e l’accordo con il
popolo Rom ( e grazie della concessione!): viene così confermato come nell’era
di Internet i sistemi autoritari preferiscano adottare strategie di prudente
intolleranza partecipata. Quando ad un certo punto ecco lo scatto dell’ex
missino. Alla domanda di una giovane rom che chiedeva se fosse possibile
riavere, aspettando il calcio in culo, almeno acqua e luce staccate da nove mesi
(fosse anche soltanto per lavarsi faccia e mani come si fa tutte le mattine, per
esempio, nella benestante e cattolica famiglia Alemanno-Rauti) cinico il
neogaullista ha chiosato:"il giorno in cui verrà comunicata la data
[forse già la prossima settimana, ndr] procederemo anche al riallaccio di luce e
acqua. ." Applausi. Data vicina o data lontana, nella concitazione
dell'iperbolico momento forse non tutti i presenti hanno fatto in tempo a
cogliere il brodo di coltura della frase detta dal Sindaco, concentràti, come in
realtà si era, sulla vicenda sgombero e sul fatto che mancano (forse!) solo
sette giorni al riallaccio dei servizi. All’ingresso del campo c’è una frase che
più o meno dice così: “oggi tutti i rom sono poveri. E se domani tutti i poveri
saranno rom?”. Sicuramente se succederà con Alemanno sindaco, bisognerà trovare
subito la data dello sgombero sennò questo qui manco lo sciacquone del cesso ci
farà più tirare.
Le Petit Journal(Photo: J.M.) - Jonas Mercier: Bucarest 24 novembre 2008
Tredici Rom sono rimasti per una quindicina di giorni sul tetto di un
hotel abbandonato nel pieno centro di Bucarest. Protestavano per ottenere un
alloggio sociale. Ma le autorità sono rimaste piuttosto passive.
Giovedì 13, mentre la campagna elettorale per le elezioni legislative era in
corso da due settimane, una quindicina di Rom decidono di occupare il tetto
di un hotel in rovina del centro città. Il sindaco del 5° settore tenta di
convincerli a scendere, senza successo. L'immobile nel quale si trovano è di
proprietà di una società immobiliare straniera. Dei guardiani sorvegliano
l'ingresso e non lasciano passare nessuno. "Ne la polizia, ne i Rom sono
passati da lì", indica uno dei due, che riconosce di non avere alcuna idea
su come i Rom siano arrivati lassù.
Laurence Demairé, una francese stabilitasi a Bucarest da più di dieci anni,
guarda la scena dal suo balcone. Afferma che "I pompieri sono venuti diverse
volte con una grande scala, senza mai tentare di svolgerla per montare sul
tetto. Poi, più niente, nessuno si preoccupa di loro (...) Fa freddo, non so
come possano passare la notte". Le autorità avrebbero promesso loro un aiuto
di 1.100 Lei al mese, senza peraltro offrire soluzioni di rialloggiamento.
Sabato, i tredici manifestanti hanno lasciato il tetto, ma per andare dove?
Situazioni che si moltiplicano
In basso, qualche strada più in là, quattro altri Rom hanno installato un
accampamento di fortuna [...] "Siamo lì da sette mesi. Non me ne andrò prima
di aver trovato un alloggio per la mia famiglia", spiega uno di loro. Un
altro spiega che dei poliziotti l'hanno "mandato via" e che non osa più
rientrare a casa per paura che lo picchino. "La Romania non può che essere
solo lo zimbello d'Europa se continua a tollerare questo", conclude un
terzo.
Il rialloggiamento di numerose famiglie rom, che occupano illegalmente
edifici nel centro o nella periferia della capitale, resta problematico. Già
all'inizio del mese, un padre di famiglia era montato sul tetto di un immobile a
Bucarest e minacciava di bruciarsi vivo se non avesse ottenuto un appartamento.
Il giugno scorso, quattro altre persone di origine rom avevano ugualmente
tentato di sensibilizzare le autorità, salendo su un tetto di un altro immobile
del centro.
Nel mese di ottobre, il governo ha realizzato un programma per la costruzione
di 300 alloggi sociali in tutto il paese, destinati alle famiglie rom più
modeste. Ma le associazioni rom stimano che siano poche.
Dieci ragazzini in due stanze
con una voragine nel pavimento
"Quel palazzo poteva crollare".
Nelle parole di un vigile del fuoco, l´epilogo
del salvataggio di due famiglie kosovare nel palazzo di via Chiappara in cui
vivevano. "Poveri bimbi - dice un´anziana donna con le buste della spesa a Ballarò - Passano ore a chiedere l´elemosina". A intervenire sono stati la
polizia - in mattinata una agente aveva trovato in lacrime la bimba di sei anni
da cui nasce tutta la vicenda - i vigili del fuoco e le Emergenze.
Erano circa le 10 di mattina quando la poliziotta dell´ufficio Volanti ha
trovato in via Maqueda la piccola di sei anni in lacrime. La bambina parlava un
italiano piuttosto approssimativo, e non ha saputo indicare con certezza né dove
abitasse né dove fosse finita la madre. L´agente con grande pazienza ha chiesto
in giro e seguito le indicazioni della bambina che si è illuminata all´altezza
dell´Arco di Cutò. A quel punto è stata ritrovata la casa, al civico 45 di via
Chiappara. Gli agenti sono saliti e al primo piano hanno trovato altri due
bambini che venivano accuditi dal fratello più grande, sedicenne, in condizioni
igieniche carenti, tra rifiuti e escrementi di animali. "In questo grande
stanzone c´erano dei tappeti, una stufetta elettrica, e i bambini tutti intorno.
Mobili? Ben poco. C´è un materasso con delle scodelle sopra. "Ha presente il
campo rom della Favorita? Ci metta un tetto sopra e avrà il quadro
dell´appartamento", dirà poi uno dei soccorritori, descrivendo i 40 metri
quadrati in cui la famiglia viveva, con un grosso buco al centro del pavimento.
E se questo era il panorama del primo stanzone, nel secondo c´era un altro
nucleo familiare: altri kosovari, altri bambini. Sono stati dieci i minori
ritrovati: da uno a 16 anni. E mentre finalmente tornava la madre della bimba di
via Maqueda, a coordinare le operazioni c´erano il vice questore aggiunto
Giuseppe Di Blasi per la polizia, e Mariangela Paglino e Paolo Quercia per le
Emergenze sociali del Comune.
Poi l´arrivo dei vigili del fuoco. "Una parte dell´appartamento deve essere
sgomberata. Abbiamo trovato crepe nel muro e problemi anche al pavimento, per i
solai di legno che sono a rischio di crolli". Più tardi il responso della
polizia municipale e dei tecnici dell´ufficio Edilizia pericolante del Comune
sarà ancora più duro: dichiarazione di inagibilità per tutto il palazzo, con
entrambi i nuclei da sgomberare.
Verso le 12, la prima famiglia è uscita da casa: la madre, con al collo un
neonato - "Avrà al massimo un anno", ha detto uno dei vigili del fuoco - e un
secondo bimbo tenuto per mano. Dietro gli altri due, con il sedicenne dagli
occhi bassi. Nessun sorriso da grandi o piccini: sono volti spaventati, scappati
dall´incubo dell´ex Jugoslavia anni fa e di nuovo senza un tetto. Poche povere
cose da portare, mentre i vigili del fuoco venivano fermati da altri residenti
della zona per ulteriori emergenze. "Sono palazzi degli anni Venti, anche ben
costruiti. Il problema è che da troppo tempo manca la manutenzione da parte dei
proprietari e degli occupanti", dice uno dei soccorritori.
Il passaggio successivo è stato all´ufficio Immigrazione: agli adulti sono stati
notificati i provvedimenti di espulsione. Il permesso di soggiorno della madre -
rilasciato per motivi umanitari - è infatti risultato scaduto. Altri due invece
sono risultati in regola. Semplici intimazioni, senza alcun accompagnamento
coatto proprio in virtù dei tanti bambini. Ore di accertamenti anche sui
precedenti penali, mentre il Comune cercava - con qualche difficoltà - una nuova
sistemazione alle famiglie, arrivate in Italia ormai sette anni fa.
Alla fine ha vinto ancora la solidarietà: i due nuclei sono stati ospitati da
parenti a Palermo. Nella mattinata i soccorritori dicevano: "Dobbiamo far di
tutto per non separare le famiglie". Alla fine, in qualche modo, sono stati
ascoltati. Restano quegli occhi bassi, le paure sul volto, i ricordi indelebili
di una guerra neppure troppo lontana nell´ex Jugoslava, la speranza fallita di
un futuro migliore. Palermo come il Kosovo: per quelle famiglie l´obiettivo
resta sempre la sopravvivenza.
CONTINUA...
Parlano i commercianti che conoscevano le due famiglie fuggite dalla ex
Jugoslavia e arrivate in città nel 2001 "Erano venti, chiedevano l´elemosina"
I vicini di casa "Li abbiamo sempre aiutati dandogli da mangiare"
L´edificio è stato sgomberato Gli sfollati si sono sistemati da parenti
"Loro vivono qui in via Chiappara da quattro, cinque anni. Noi li conosciamo
bene". Dai banchi del mercato di Ballarò, i commercianti osservano curiosi
l´andirivieni di poliziotti e vigili del fuoco dal palazzo di via Chiappara, e
raccontano la storia di quelle due famiglie kosovare di etnia rom. "Prima
c´erano almeno venti bambini lì dentro. Li vedevamo andare a chiedere
l´elemosina qui intorno, dalla mattina alla sera. Poi, poche settimane fa, una
delle famiglie se n´è andata e ne sono rimaste due, con una decina di bambini.
Noi li aiutiamo come possiamo: c´è chi gli porta del pane, chi della carne, chi
della frutta, chi della verdura. Ma là dentro pare sia davvero un accampamento".
Furti tra i banchi non ne risultano: "No, qui non hanno mai rubato. Sono bravi,
e noi li
aiutiamo", ribadisce un anziano venditore. Si nota pietà negli occhi e nelle
voci dei commercianti. Nessuno spende parole d´odio verso quelle famiglie. Un
bambino di 10 anni esce dal palazzo e torna con una barretta di cioccolata. "Me
l´hanno regalata qui al mercato", dice sorridente e furbo, mentre se la mangia
con una certa avidità, e per lui è certamente la cosa più buona del mondo.
"Sono bambini simpatici - dicono da un altro banco - che fanno tenerezza. Lo
sappiamo tutti che chiedono l´elemosina nei dintorni di via Maqueda". E cosa
accade se tornano dalle questue quotidiane con pochi soldi? Nessuno sa
rispondere. "Escono la mattina, con i genitori o soli, e tornano la sera. Tutti
i giorni va così", dicono dai banchi, e qualcun altro racconta l´attaccamento
dei genitori ai propri bambini: "Non hanno mai dato problemi, ma guai a toccare
o trattar male i bambini. Diventano belve".
Dalla terrazza del secondo piano si nota persino una parabola satellitare, e
anche pezzi di muro pronti a cedere. Ma pare che quella zona del palazzo a
rischio di crollo sia disabitata da tempo. "Si vede che avevano cominciato dei
lavori, ma non li hanno mai terminati", dice uno dei vigili del fuoco. Dal
palazzo esce una donna sulla sessantina, con i capelli tinti di rosso in modo
piuttosto artigianale: "No, non vivo qui. Sono ospite. Io vivo a Gela" e senza
che nessuno glielo chieda, aggiunge: "Ho il permesso di soggiorno. Volete
vederlo?". Su come sia arrivata da Gela e da quale parte del palazzo sia uscita
la signora, resta il mistero, mentre lei si allontana. I bambini usciranno ore
dopo, verso la questura, e da qui verso le case di amici e parenti. La loro
odissea non è ancora finita.
Mentre i consigli promettevano l'impossibile ma non facevano niente per
fornire un sito alla sua famiglia, Kate Brazil è in cerca di risposta.
Jake Bowerssegue questa donna zingara nella sua missione.
Intanto che si avvicina Natale, si stima che 4.500 famiglie Rom e Viaggianti
in tutta la Bretagna non avranno un posto legale dove vivere. Ma nell'East
Sussex, una donna zingara, suo marito e loro figlio disabile si sono confrontate
con un consiglio che dice che sono seduti su 1,2 milioni di sterline dei
contribuenti per risistemare un sito. Una settimana dopo il consiglio ha deciso
di iniziare i lavori "nei prossimi giorni".
Soltanto una buona sincronizzazione o pura coincidenza? Decidete voi.
I nomadi (28 minori – 26 adulti ) che appartengono alla stessa famiglia, sono
residenti regolarmente, con permesso di soggiorno e lavoro nei campi come
braccianti.
L’affittuario del terreno accanto, faceva lavorare gratuitamente al nero
alcuni Rom e voleva anche obbligare alcune donne a concedergli rapporti
sessuali. Davanti i continui rifiuti ha cominciato una campagna di
disinformazione tra Tv, giornali, denunce inviate alle istituzioni etc... Una
formale denuncia è stata depositata in Procura anche per accertare la
correttezza dei Vigili del fuoco.
Nel frattempo, una vecchietta ha causato intenzionalmente un piccolo incendio
causando ustioni al figlio che è stato ricoverato in ospedale.
L’ACSI si è adoperata a organizzare il rimpatrio volontario di tutta la
famiglia continuando a reperire locali da affittare. Purtroppo, in città,
nessuno voleva concedere un locale. Nel mese di luglio, metà del campo ha fatto
rientro in Romania.
19 bambini continuano a frequentare la scuola. Il rimpatrio delle persone
restanti è programmato per l’Epifania. Di tutto questo sono stati informati:
assessore all’immigrazione, il capo di gabinetto del sindaco, ed il comando dei
VV UU.
Mercoledì 10 c.m. alle ore 12.00 i VV.UU. si sono presentati per informare le
donne presente assieme ai loro bambini che il loro campo sarà sgomberato tra 24
ore c.a.
Immediatamente l’ACSI ha chiesto l’intervento del Capo di gabinetto del
sindaco, il Presidente del gruppo Partito Democratico al Consiglio Provinciale
ed al Segretario cittadino del PD, chiedendo loro in presenza dell’’assessore
all’Immigrazione di aspettare il pullman che arriverà il 6-7 gennaio per
rimpatriare le 33 persone rimaste (di cui 5 neonati e 3 donne che hanno
partorito con cesareo).
Non interessava nessuno la situazione di donne e bambini che da domani non
troveranno collocazione abitativa. Questo è il Centro Sinistra di Foggia chi
parla di solidarietà e fratellanza.
Questa amministrazione ha in conto questo secondo sgombero per via della
campagna elettorale e per insensibilità.
Prof. Habib SGHAIER Presidente
Associazione Comunità Straniere in Italia (A.C.S.I.)
Via Federico Spera,95 ,97,99 - 71100 FOGGIA
Fax 0881200015 Mobile 3497239108
E.mail com.stran@yahoo.it -
acsi.h@libero.it
Una via di Sulukule, dove molte case attendono la demolizione per
trasformarsi in hotel e centri commerciali. Articolo di Eve Coulon per
TheNational
In una piccola casa di una strada percorsa dal disordine e dalle rovine di
appartamenti i cui abitanti sono già andati, Goksel Gulkoperan aspetta di
essere sgomberato. Al signor Gulkoperan è stato dato il termine odierno per
lasciare la sua casa vicino alle mura antiche della metropoli turca, o viceversa
di essere buttato a forza per strada.
"Non so dove andare," dice il signor Gulkoperan. Casa sua, come il resto del
povero quartiere di
Sulukule,
una parte della vecchia Istanbul che una volta era un popolare centro della vita
notturna e per la predominanza di popolazione Rom, sta per essere demolita per
fare spazio ad appartamenti di lusso, hotel e centri commerciali.
Le autorità cittadine dicono di voler fermare il "decadimento" in questa
parte di Istanbul e dare alloggi sani agli abitanti da qualche altra parte, ma i
residenti e gli attivisti dicono che il piano è parte di un programma
implacabile e guidato-dal-soldo di ristrutturazione che distrugge le vite di
migliaia di gente.
Da quando la Turchia si è arricchita per il boom economico degli ultimi anni,
molte città hanno iniziato programmi di rinnovamento urbano che rifletta questo
nuovo benessere e modernità. Questo è maggiormente visibile ad Istanbul, una
città con 3.000 anni di storia, diventata improvvisamente la "cool Istanbul",
che attrae oltre sei milioni di turisti all'anno.
In diverse parti della città sono spuntati centri commerciali, hotel e
appartamenti di lusso. Ora è il turno della storica penisola sulla parte europea
che ospita l'Hagia Sophia, il Palazzo Topkapi e la Moschea Blu, ma anche
quartieri come Sulukule, che letteralmente significa "torre d'acqua" perché da
qui entrava un'importante tubatura al tempo dei Bizantini.
Una volta ospitava 5.000 persone, ma la popolazione di Sulukule si è
dimezzata dopo il programma di reinsediamento iniziato due anni fa, dice Nese
Ozan, attivista della Piattaforma Sulukule, un gruppo che sta lottando contro
questi piani. "Sono già state distrutte due case su tre," dice la signora Ozan.
Alcune strade nel quartiere sembrano zone di guerra, con molti edifici distrutti
e ridotti a cumuli di macerie, allontanati i vecchi proprietari.
Altre case sono ancora in piedi, ma le finestre e le porte sono state
divelte. Un gruppo di uomini raccoglieva il metallo da una casa distrutta, per
poterlo rivendere come ferraglia.
Ai proprietari di Sulukule è stata offerta una somma di compensazione di 500
lira (Dh1,170) a metro quadro per le loro case. Ma dato che molte delle piccole
case misurano soltanto 60 mq., il denaro offerto non basta per comperare un
appartamento da qualche altra parte, dice Ozan.
Sulukule ed altre zone simili della penisola storica "sono diventate regioni
di decadenza e macerie nel centro di Istanbul" a causa di anni di negligenza,
riporta una dichiarazione del governo municipale di Fatih, di cui Sulukule fa
parte.
Inoltre, possibili terremoti sarebbero un pericolo per gli abitanti a causa
dello stato precario di molte case. "Daremo appartamenti a quelli che vivevano
negli edifici demoliti, si sposteranno lì" in una nuova sistemazione, ha detto
in un discorso dell'anno scorso Kadir Topbas, sindaco di Istanbul. "Credeteci".
Ma in molti a Sulukule rifiutano il programma per una semplice ragione: non
vogliono lasciare il loro quartiere per nuovi appartamenti in un sobborgo remoto
e senza lavoro.
Yilmaz Kucukatasayyar, discorrendo con gli amici di fronte a una casa
sventrata che era della sua famiglia, ha detto che i suoi genitori si sono
spostati in un blocco d'appartamenti a Tasoluk, 40 km. a nord di Sulukule,
vicino alle coste del Mar Nero. "Non potrei starci, è davvero molto lontano. Là
non siamo felici. La nostra casa è qui, nel cuore di Istanbul," dice Kucukatasayyar.
Per il momento alloggia nella vecchia casa di famiglia e sta tentando di
ottenere la licenza di venditore da strada.
Quando gli si chiede cosa farà se la casa sarà abbattuta, uno dei suoi amici, Ercan Ozkulan,
risponde per lui con una risata: "Allora andremo in un'altra casa, finché non
finiranno."
Ma per il signor Gulkoperan nella sua casa vicina a quella di Kucukatasayyar
e dei suoi amici, le cose non sono così facili. Nella sua stretta sala,
Gulkoperan, 47 anni, tiene in mano delle radiografie. Ha un cancro ai polmoni, e
i dottori gliene hanno già asportato uno durante un'operazione.
Quando gli venne offerto un appartamento a Tasoluk come tenutario a Sulukele,
lo rivendette immediatamente per pagarsi le cure mediche e ritornò nel
quartiere, dove vive con i suoi tre bambini e uno zio anziano. Ora il denaro è
andato ed aspetta l'arrivo dei bulldozer.
Lì vicino, un altro proprietario, Adem Ergucel, dice che le autorità volevano
pagargli un compenso per uno solo dei suoi appartamenti, quando lui ne ha due.
"La municipalità è sopra la legge?" si chiede. La signora Ozan dice che gli
attivisti ed i residenti hanno promosso due cause per fermare il progetto, ma
anche se sinora la corte non si è espressa in merito, le demolizioni continuano.
Un gruppo di circa 30 accademici ed esperti è uscito con un progetto
alternativo che hanno chiamato Stop e che dicono renderebbe possibile ai
residenti di Sulukule di rimanere nel quartiere. Mustafa Demir, sindaco di Fatih,
ha promesso di riguardare al progetto.
"Non è troppo tardi" per salvare Sulukule, dice la signora Ozan. Ma i
progressi del progetto, che dovrebbe completarsi nei prossimi due anni,
suggeriscono che i piani cittadini sarebbero duri da fermare. "Le conseguenze
sociali saranno terribili," dice la signora Ozan.
Ci sono anche critiche internazionali. "La popolazione Rom ha affrontato
diverse istanze di demolizione di comunità, sgomberi forzati ed esposizione a
povere condizioni di vita e sanitarie, senza far mai ricorso pubblico," ha detto
questo mese la UE in un rapporto sui progressi della Turchia come paese membro
candidato.
"Le demolizioni dei quartieri rom, in alcuni casi sono diventati sgomberi
forzati," continua. Il rapporto della UE ha notato anche che la commissione per
i diritti umani del primo ministro turco, ha richiesto un'indagine su possibili
violazioni dei diritti umani a Sulukule.
Di Fabrizio (del 14/12/2008 @ 09:09:19, in casa, visitato 4521 volte)
CityRom ha ripreso la presentazione di alcuni campi sosta
comunali del milanese. Oggi si parla del campo di
via Bonfadini, domani di quello di via Impastato.
(@2008 google - Immagini @2008 digitalGlobe, Cnes/Spot image, GeoEye)
L'"area abitativa comunale per cittadini di origine rom e sinti" di via
Bonfadini occupa un triangolo di 5.000 metri quadrati nei pressi
dell'Ortomercato, i cui lati sono definiti dai binari del passante
ferroviario. Vi si accede con una strada cieca che, dopo aver attraversato
un'area di stoccaggio dell'Ortomercato, passa al di sotto della ferrovia e sbuca
in un'isola tra i binari occupata interamente dal campo. Emergendo dal
sottopassaggio – che è l'unico accesso all'"isola" da quando, qualche anno fa,
due passaggi a livello sono stati eliminati – Milano scompare e ci si trova
improvvisamente in un altro continente. Progettato dal Comune nel 1987 come
"area di sosta attrezzata per roulotte e case mobili", per alcune famiglie di
rom abruzzesi che dagli anni sessanta si erano stabiliti in un terreno nelle
vicinanze, il campo si presenta oggi come uno slum costituito da un denso
agglomerato di case mono-famigliari autocostruite, alcune in muratura, altre in
legno e qualche casa mobile e roulotte. Varcato l'ingresso – costituito da uno
spazio libero che interrompe la schiera di case rivolte verso l'interno del
campo che ne recintano il perimetro, - ci si trova in un villaggio brulicante di
vita. Tra le case e le auto parcheggiate i bambini giocano mentre gli adulti si
dedicano alle più svariate attività: chi aggiusta una motocicletta, chi cucina,
chi pialla in un laboratorio di falegnameria a cielo aperto, chi semplicemente
chiacchiera in gruppo seduto davanti a casa. Dappertutto fervono lavori di
ristrutturazione, manutenzione e ampliamento delle casette. Il disegno delle
piazzole di 200 mq originariamente assegnate ad ogni famiglia per parcheggiare
l'auto e la roulotte o la casa mobile non si riconosce più. Come racconta M. A.-
una giovane abitante del campo in attesa di essere riconfermata mediatrice
culturale dal Comune - non appena il campo comunale fu pronto, nel 1987, e
furono assegnate alle famiglie le piazzole in cui dovevano trasferirsi per
liberare l'area dove vivevano da vent'anni, tutti cominciarono a costruire
casette di legno e da allora nel villaggio i lavori per renderle sempre più
confortevoli non si sono mai interrotti. Il Comune aveva predisposto il campo
come un campeggio, con la possibilità di collegarsi alla rete elettrica e con un
blocco di servizi comuni - gabinetti e docce con l'acqua fredda - ma la maggior
parte delle famiglie ha provveduto in proprio ad allacciare la propria
abitazione alla rete fognaria e all'acqua. Ora quasi tutte hanno l'acqua
corrente e il gabinetto in casa. Secondo le informazioni fornite dal Nucleo
problemi del territorio della Polizia locale, la maggior parte delle costruzioni
abusive sono state condonate per “stato di necessità".
Nel campo vivono oggi 25 famiglie, per un totale di circa 120 persone, tra cui
moltissimi minori. Secondo Valerio Pedroli dei Padri Somaschi, l'associazione
che si occupa di assistenza e mediazione sociale nel campo di via Bonfadini, la
posizione e la struttura del campo ne fanno un ghetto destinato fin dalle
origini ad essere un vivaio di disagio e asocialità. Il tentativo
dell'associazione è quello di mettere in comunicazione il campo e il territorio,
soprattutto attraverso progetti che coinvolgono i bambini del campo che
frequentano le scuole del quartiere e i loro genitori.
M.A.: La mia famiglia è venuta dall'Abruzzo negli anni Sessanta in cerca di
lavoro. I genitori di mia madre in Abruzzo vivevano da sempre in casa, quelli di
mio padre si occupavano di cavalli e si spostavano con la roulotte. Noi non
siamo nomadi, siamo sedentari e ci siamo dovuti costruire da soli questa casa,
con il bagno, la cucina e lo spazio per vivere in sei persone. I bambini vanno a
scuola e hanno bisogno di spazio. Abbiamo già ricevuto una denuncia per abuso
edilizio ma siamo stati assolti perché abbiamo fatto i lavori per necessità, per
avere una casa dove vivere. Ora stiamo facendo altri lavori e abbiamo paura di
ricevere un'altra denuncia. Non capisco perché ci denunciano, noi abbiamo reso
la nostra casa a norma, ora i soffitti sono dell'altezza giusta, l'impianto
elettrico è a norma e abbiamo usato materiali a norma per gli incendi. Qui tutti
sistemano continuamente la propria casa, per renderla più comoda. Fanno il bagno
con l'acqua calda, la ampliano perché i figli si sono sposati. In questo campo
vivono le stesse famiglie che c'erano quando è nato, ma i figli sono cresciuti,
si sono sposati e hanno avuto dei bambini. C'è ancora l'abitudine di sposarsi
giovani - questi che si stanno costruendo la casa qui a fianco hanno vent'anni e
tre figli - e per tradizione la nuova famiglia resta a casa dei genitori dello
sposo. A me piace vivere qui perché sto vicino ai miei parenti e perché ora che
abbiamo sistemato la casa mi trovo bene. Ogni tanto c'è qualcuno che va a vivere
fuori dal campo, in una casa normale, come una ragazza che fa la mediatrice
culturale come me. Ma sembra che il Comune non le rinnovi più il contratto
perché da quest'anno solo chi vive nel campo può fare la mediatrice culturale.
Trovo che sia assurdo: lei al campo conosce tutti, viene sempre, non è
necessario abitare nel campo per fare il lavoro di mediazione culturale. Noi rom
abbiamo la nostra cultura e il nostro lavoro di mediatrici coi bambini che vanno
a scuola, i loro genitori e le maestre è molto importante. La mia collega aveva
un lavoro e poteva pagare l'affitto fuori dal campo e ora che le tolgono il
lavoro che cosa fa? deve tornare ad abitare nel campo?
Valerio Pedroni: Il campo si trova ai margini di una zona storicamente
indigente e disagiata di grandi case popolari. Nella zona più decentrata e
marginale di una zona marginale, chiuso tra i binari della ferrovia. Questo
significa che è destinato all'emarginazione. Tra gli adulti c'é una percentuale
impressionante di persone in carcere o agli arresti domiciliari. C'è una
situazione di povertà non certo materiale, perché a nessuno manca da mangiare,
ma immateriale, di disagio sociale. Nel campo ci sono due tendenze opposte: da
una parte una tendenza centrifuga, che riguarda le donne e i minori che
rifiutano fortemente di vivere in campo e che vorrebbero una situazione
abitativa diversa. Dall'altra una tendenza centripeta, di chi cerca di rimanere
nel campo, un po' perché ha paura di quello che c'è fuori, e il campo diventa
una forma di protezione dai pericoli esterni, e un po' anche perché per certi
versi costituisce una zona franca. Il campo sicuramente favorisce il formarsi di
percorsi devianti e rappresenta un ostacolo alla riuscita un percorso positivo
di uscita dall'emarginazione.
Alcuni degli abitanti del campo ora vivono in case popolari – alcuni le occupano
abusivamente, altri invece ne hanno ottenuta una –, altri hanno provato ad
andare a vivere in una casa popolare, non ci sono riusciti e sono tornati al
campo. Sicuramente il campo, sia per quelli che ci vivono, sia per quelli che
abitano nelle case popolari, costituisce ancora il centro nevralgico della
comunità sociale.
Dal momento che il problema è che questo campo è un esempio di esclusione
sociale allo stato puro e non ha nessun tipo di comunicazione con il territorio,
quello che intendiamo fare col nostro intervento è portare il territorio nel
campo e il campo nel territorio. Il territorio è ossigeno e noi dobbiamo fare in
modo che le due realtà, campo e territorio, si parlino. La prima cosa che
abbiamo fatto è stato conoscere molto bene il territorio - i comitati
d'inquilini, le parrocchie, gli oratori, le varie associazioni di volontariato,
le istituzioni – e cercare di portare gli adulti a usufruire dei servizi che
questo offre, creando alcune prime occasioni di conoscenza reciproca. Nello
stesso tempo stiamo cercando di creare occasioni per portare persone del
territorio all'interno del campo attraverso il volontariato, in modo tale che
questo circuito di ossigeno cominci a funzionare. Lavoriamo molto con i minori e
la scuola: ci sono, tra elementari e medie, circa trenta minori iscritti.
Lavoriamo insieme a due mediatrici culturali del campo e gestiamo uno “sportello
scuola" con alcuni insegnanti delle elementari e delle medie, cercando di
proporre ai minori anche attività extra-scolastiche sul territorio, concertate
insieme alle scuole stesse. E gli adulti, in un certo senso, si ancorano alle
traiettorie dei minori. Per cui, se un ragazzo del campo inizia a frequentare il
doposcuola e conosce un altro ragazzo, le due famiglie riescono a parlarsi più
facilmente. Questo moto che abbiamo cercato di innescare sembra dare i primi
risultati, tenendo conto che siamo in questo campo solo da febbraio. Ma il
percorso evidentemente è molto lungo e il lavoro da fare è con tutte le
istituzioni, il Comune di Milano in primis.
(Il sopralluogo al campo è stato effettuato il 17 ottobre 2008, l'intervista a
Valerio Pedroni il 25 ottobre 2008)
Di Fabrizio (del 15/12/2008 @ 09:20:51, in casa, visitato 1750 volte)
Come promesso ieri, CityRom va in
via Impastato a Milano
(@2008 google - Immagini @2008 digitalGlobe, Cnes/Spot image, GeoEye)
Il piccolo campo comunale di via Impastato occupa un "vuoto" di forma quadrata
tra via Rogoredo, la tangenziale Est - nei pressi dello svincolo per
l’autostrada del Sole - e l’anello di prova per i treni del deposito di Rogoredo
della Metropolitana 3.
Il campo è costituito da un piazzale di terra battuta con tre piccole case
prefabbricate e alcuni container ed è situato dietro un terrapieno che ne
nasconde la vista dalla strada. È occupato interamente dai membri di una stessa
famiglia, quella dei Bezzecchi, in tutto una quarantina di persone. Giorgio
Bezzecchi, vice-presidente nazionale dell’Opera Nomadi, che ha lavorato 23 anni
all’Ufficio nomadi del Comune, racconta come la sua famiglia si è dovuta
trasferire in questo campo comunale cinque anni fa dopo vare vissuto per
ventanni in affitto su un terreno demaniale nelle vicinanze. Secondo Pasquale
Maggiore dell’Ufficio nomadi del Comune per la famiglia Bezzecchi essere
spostata in un campo comunale anziché pagare l’affitto per il terreno che
occupavano costituisce una regressione. Goffredo Bezzecchi, patriarca della
famiglia, infatti, aveva scelto di non vivere in un campo nomadi, rifiutando
l’assistenzialismo del Comune e questo era un segno di responsabilità e
autonomia che avrebbe dovuto essere sostenuto anziché frustrato.
Il 6 giugno 2008 all’alba il campo nomadi fu oggetto di un "blitz" della polizia
per effettuare il "Censimento dei rom" voluto da valerio Lombardi, super
commissario per i rom con gli ampi poteri previsti dall’ordinanza della
Presidenza del Consiglio. Fu il primo e l’ultimo effettuato nei campi
autorizzati di rom cittadini italiani, dopo che la vigorosa protesta degli
interessati e dell’opinione pubblica mise in evidenza gli aspetti discriminatori
e anticostituzionali dell’iniziativa.
Giorgio Bezzecchi Siamo rom harvati, cittadini italiani anche se la mia famiglia è di origine
slovena, che vuol dire che fino alla prima guerra mondiale aveva la cittadinanza
austriaca e poi abbiamo scelto di essere italiani. Mio nonno, il padre di mio
padre, era un militare italiano. È andato in guerra e non è più tornato. Mio
padre è stato in campo di concentramento durante il fascismo… Girava con la
giostra ma ha deciso di fermarsi e nel 1966 ha affittato con un regolare
contratto un terreno demaniale, in via Bonfadini, nei pressi di quello che è ora
il campo comunale dei rom abruzzesi, su cui ha posizionato delle strutture
facilmente rimovibili: prefabbricati, case mobili. Pagavamo un regolare affitto,
l’acqua e la luce. Abbiamo dovuto lasciare l’area perché era interessata a
lavori pubblici: doveva passare il Tav, il treno ad alta velocità. Non volevamo
stare nello stesso campo dei rom abruzzesi, che il Comune aveva costruito nel
1987 e abbiamo chiesto un’altra soluzione. Ci hanno dato quest’area di risulta.
L’area non é stata attrezzata e nemmeno pavimentata. L’unico intervento
strutturale fatto dal Comune è stato quello di costruire questa montagna alta
oltre due metri per nascondere il campo alla vista del quartiere. C’è
l’allacciamento all’acqua, alla fogna e all’elettricità e vengono pagate tutte
le utenze, perché ogni famiglia ha un contratto privato con l’Enel e l’AEM, cosa
che non accade negli altri campi. Abbiamo firmato una specie di contratto e il
Comune ha dato un tot di metri quadri a famiglia e alla casa abbiamo dovuto
provvedere noi. Nei campi nomadi c’è il regolamento che vale per il circo e si
possono posizionare solo strutture non ancorate a terra, facilmente rimovibili.
Questa casa dei miei genitori è un prefabbricato. Era in via Bonfadini, è stata
divisa in due, caricata e trasportata coi "trasporti eccezionali". Una casa di
questo tipo quando è nuova si può trasportare anche più di una volta, ma quando
ha trent’anni come questa, nel trasporto, si rompe…vedete le crepe? L’ho detto
anche a mio fratello che ne ha comprata una da poco: se tra quindici anni la
devi spostare, si rompe tutta…
Gli altri stanno nei container perché non possono permettersi queste casette,
che sono a norma ma costano molto. Se si chiede ai Rom dove preferirebbero
abitare, non si ottiene una risposta univoca. In questo campo, alcuni ragazzi
giovani hanno fatto domanda di alloggio popolare; uno o due ha anche occupato
abusivamente un alloggio popolare, come molti italiani. Mio padre vuole
continuare a vivere in questo modo, mia sorella anche, l’altro mio fratello
anche… Una mattina di giugno alle cinque si sono presentati 70 agenti – da
notare che in questo campo vivono 40 persone –: Carabinieri, Polizia di Stato,
Polizia Municipale e furgone della Scientifica. Hanno circondato il campo e
hanno svegliato tutti. In base all’ordinanza di Berlusconi, siamo stati censiti,
fotografati, sottoposti a rilievi dattiloscopici dalla Polizia Scientifica.
Anche i bambini. Si è istituito per noi un archivio speciale in Prefettura,
nonostante siamo cittadini italiani, residenti in via Impastato, regolarmente
registrati all’anagrafe civica. Un intervento istituzionale differenziato.
Sarebbe bastato andare in anagrafe per rilevare le presenze. Per fortuna la
nostra è rimasta l’unica famiglia italiana che è stata censita. Per ora in
questo archivio parallelo ci sono solo la mia famiglia e i Rom stranieri. Siamo
riusciti in qualche modo, sembra, a fermare il censimento attraverso la Procura.
Abbiamo presentato un esposto citando il capo del Governo, il Sindaco e il capo
della Polizia…
Goffredo Bezzecchi O fai lo zingaro e giri o quando ti fermi ti devono dare la possibilità di farti
una casa, comprartela, sennò sei fuori… Prima io giravo perché avevo le
giostrine. Non mi sarei fermato con la mia giostrina, anche se mi avessero
regalato un posto io non ci sarei stato. Andava bene così: mi fermavo due o tre
giorni e non davo fastidio. Poi me ne ne andavo e il posto rimaneva pulito.
Allora era diverso: avevi la giostrina e ci vivevi, non c’erano tante esigenze.
Oggi fare lo zingaro non è facile. Mi sono fermato perché avevo otto figli e ho
preferito per loro la scuola e il lavoro. Mi sono fermato in via Bonfadini. Ero
in affitto su un terreno e non volevo vivere nel campo nomadi. Il funzionario
era una brava persona, adesso è in pensione. Lui e la moglie mi hanno aiutato
molto, anche per il lavoro. Io ho detto "pago l’affitto" e sono andato avanti
per tanti anni, e i ragazzi andavano a scuola. E dalla scuola sono passati al
lavoro: uno ha fatto per 19 anni il portinaio; mio figlio Paolo da 30 anni
lavora sempre sotto lo stesso padrone; Giorgio è stato assunto dal Comune.
Alcuni fanno i lavori che trovano: mia figlia stamattina è partita alle cinque
per andare a lavorare in un’impresa di pulizie… Io sono scappato dal campo e mi
sono accorto che i miei figli hanno una testa, non sono stupidi e possono
farcela. A molti invece il campo fa comodo, specialmente ai furbacchioni. A
molti piace scroccare, ma non solo ai rom. Anche nelle case popolari ci sono i
furbacchioni. Ma se non puoi andare fuori dal campo, dove vai? Se non ti
lasciano, non hai scelta… Io ormai alla mia età non ci andrei più a vivere in
una casa e ci sono alcuni ragazzi che continuano a preferire vivere qui, nella
casetta o nel container, ma con mio figlio Giorgio, che ha sposato una gagia ho
insistito. Gli ho detto "per amor di Dio, tu non devi più stare qui con la tua
signora, lei è abituata a stare in una casa…".
(Il sopralluogo al campo e le interviste a Goffredo e Giorgio e Bezzecchi sono
stati effettuati il 22 ottobre 2008, l’intervista a Pasquale Maggiore il 16
ottobre 2008 )
Di Fabrizio (del 07/02/2009 @ 09:30:09, in casa, visitato 1830 volte)
Questo lungo articolo mi è stato segnalato da Betty un po' di tempo fa.
Per cause non dipendenti dalla mia volontà posso ripubblicarlo solo adesso,
mi scuso con l'interessata.
L'intelligenza che si sporca le mani Francesco Careri e una casa vera per i Rom di Michael Braun
[Architetti pavesi che scrivete lettere firmate in massa per sostenere
colleghi progettisti di brutture senza appello, vi invito a leggere
quest'articolo e valutare un po' quale sia il miglior e più adeguato
contributo che potreste dare a questa città. Anche in termini di civiltà,
dello spazio si intende. E quale occasione sarebbe stata se qualcuno di voi
si fosse fatto vedere alla ex Snia durante quel lunghissimo 2007 (irene
campari)]
Campi nomadi, vecchie fabbriche, casali diroccati. Un architetto romano
studia le aree degradate della città per riqualificarle. Rispettando le
persone che ci abitano.
"Non aspettarti niente di che!”, dice Francesco Careri al telefono spiegando
la scelta del locale. E infatti il ristorante Al biondo Tevere, sulla via
Ostiense a Roma, è uno di quei posti popolari e senza pretese dove si mangia
con pochi soldi. Una scelta adatta – penso tra me e me – a un architetto
che, invece di partecipare ai grandi concorsi, lavora nei campi rom della
capitale. Careri m’incuriosisce proprio per questo. Non avevo mai sentito
parlare di un architetto che andasse nei campi rom, tra misere baracche e
squallidi container, con il progetto di costruire delle case vere, belle,
spaziose e funzionali, spendendo poche migliaia di euro. “Vengo spesso a
mangiare qui”, spiega Careri mentre cerca inutilmente di dare un ordine ai
suoi capelli arruffati, “perché è a due passi dalla sede dell’associazione
Stalker”.
E poi non è un posto qualunque: qui Elsa Morante ha scritto La storia, qui
hanno girato alcune scene di Bellissima con Anna Magnani, qui Pasolini si è
fermato a cena con Pino Pelosi il giorno prima di essere ucciso a Ostia.
Nomi che raccontano un’epoca in cui i grandi intellettuali si interessavano
alle vicende di chi viveva ai margini della società, di chi abitava nelle
baracche, nelle borgate. Oggi gli intellettuali, gli artisti, gli studiosi
guardano altrove. A parte qualche rara eccezione, tra cui Francesco Careri.
Si mette a ridere quando gli chiedo se è vero che come architetto non punta
a costruire niente. Certo, mi spiega, non progetta palazzine per ricchi, non
ha voglia di finire sulle riviste di architettura e non è neanche
interessato a costruire delle “sculture senza significato”, come definisce i
lavori dei grandi architetti. “Ma non m’interessa neanche battermi contro
tutto questo”, precisa.
Un nucleo indipendente
Quando racconta la sua vita da studente cambia soggetto, usando il “noi”.
Per “noi” intende chi ha partecipato al movimento della Pantera nel 1990,
che ha portato alle occupazioni di molte università in tutto il paese: “Il
nostro movimento è stato sottovalutato, ma ha segnato tutta una
generazione”. Pochissimi sono entrati nei circuiti della politica
istituzionale, alcuni sono finiti nei centri sociali, altri – come lui – non
hanno preso tessere di partito, ma hanno continuato a essere critici e a
parlare in modo indipendente. Da questo nucleo di studenti di architettura
nasce Stalker. Careri indica l’altra sponda del Tevere, che vediamo dalla
finestra del ristorante. “Lì, nel 1993, Stalker ha fatto la sua prima
azione”. A quei tempi la riva del fiume era coperta da cespugli, rovi e
spine. I ragazzi di Stalker occuparono il terreno per creare un parco
abusivo, “un parco wild”, dice Careri con gli occhi che gli brillano. Poi,
invitarono degli artisti e
organizzarono delle feste. Una prima esperienza che si ripeterà nel tempo.
Dopo aver capito che c’erano delle parti di Roma ancora da sfruttare, altri
hanno
copiato l’idea. In seguito quel tratto di riva del fiume è stato disboscato
e ci hanno costruito la pista ciclabile: il paesaggio wild amato da Careri
non c’è più. Da allora il collettivo Stalker non si è più fermato, nel vero
senso della parola. Scoprire la città camminando è il motto
dell’associazione. Scoprire quella parte di Roma sconosciuta a molti romani,
ma dove abitano molti emarginati, e fatta di aree abbandonate, di casali
diroccati, di fabbriche dismesse. Il campo Boario, un grande spazio di
fronte all’ex mattatoio di Roma, è vicinissimo al centro, ma nel 1999 era
completamente abbandonato, come “un buco nero nella città”. Questa volta
Careri e gli amici di Stalker non si accontentano di “andare, vedere,
capire”. Decidono di intervenire sul tessuto sociale di quel luogo, dove c’è
già un centro sociale, una baraccopoli di senegalesi e marocchini, e un
grande campo dove i rom kalderash tengono le roulotte. Insieme a un gruppo
di curdi creano il centro culturale Ararat. I romani, così, scoprono il
mattatoio. E il comune ci mette le mani. L’ex sindaco di Roma, Walter
Veltroni, trasforma l’area in una Città delle arti e inaugura, ironia della
sorte, una Città dell’altra economia. Ma prima manda via i rom. “Come se
loro non fossero l’altra economia per eccellenza”, fa notare con rabbia
Careri, perché la comunità di rom istriani era perfettamente integrata nel
quartiere. Veltroni avrebbe fatto meglio a valorizzare quest’esempio
positivo di insediamento rom nella città, invece di cacciare i nomadi in
periferia. Ancora una volta, Stalker e quelli che gravitavano intorno al
campo Boario sono espropriati delle loro idee per trovarle realizzate da
qualcun altro e, allo stesso tempo, snaturate. Il bilancio per Stalker è
negativo: “Siamo stati l’elemento attraverso cui la città è entrata in una
realtà per mandare via tutti quelli che ne facevano parte”. Ma Careri non si
arrende: “Noi siamo già altrove”. Altrove è dalle parti di Corviale, un
palazzone mostruoso lungo un chilometro, dove vivono diecimila persone.
Completato nel 1983, fu presentato come un esempio di “architettura moderna,
sociale, rivoluzionaria”.
Ma fu subito dimenticato da politici e architetti, e lasciato senza servizi.
In poco tempo è diventato sinonimo di degrado urbano. “La gente si
vergognava di
dire che abitava al Corviale perché tutti pensavano che lì vivessero solo
ladri e drogati”, racconta Careri. Con l’aiuto degli abitanti, Stalker mette
su una tv di quartiere per raccontare l’altro Corviale, quello di chi ci
vive, “gente normalissima” ma percepita come lontana dal modello sociale
dominante.
Passeggiata istruttiva
Oggi gli esclusi per eccellenza sono i rom. Careri li incontra di nuovo nel
2005. Nel frattempo è diventato ricercatore del Dipartimento di studi urbani
dell’università Roma Tre. Organizza un seminario itinerante e porta i suoi
studenti sulle sponde del Tevere. Fa camminare i ragazzi per più di
cinquanta chilometri da Ostia a Prima Porta, scoprendo 54 insediamenti
piccoli e grandi. Più di duemila persone vivono in tende o in baracche
poverissime. Tre anni fa “l’emergenza rom” era ancora lontana e il sindaco
Veltroni negava l’esistenza dei campi lungo il fiume. Non sono lontani
invece i piani per risolvere definitivamente il problema della sistemazione
dei rom in città. Careri fa una smorfia quando parla di “campi della
solidarietà”, lasciando intendere l’ipocrisia linguistica che si nasconde
dietro i progetti dell’amministrazione Veltroni. Un esempio è il megacampo
di Castel Romano, fuori Roma: “Milleduecento persone chiuse in container,
intorno a loro neanche un albero, solo ghiaia e polvere”. Da qui nasce
l’idea del Savorengo Ker (“casa di tutti”, in lingua romanes), come
alternativa radicale alla politica che vuole rinchiudere i nomadi in
insediamenti spostati sempre più nelle estreme periferie. Per il suo
progetto Careri sceglie il campo Casilino 900, dove da decenni centinaia di
rom vivono nelle baracche in mezzo al fango. Careri fa i calcoli in un
minuto: un container di 32 metri quadri, che secondo le norme vigenti è
sufficiente per sei persone, costa 22mila euro. La “casa di tutti” può
costare molto meno e offrire molto di più. Una decina di rom e altrettanti
studenti si mettono al lavoro. “Non abbiamo progettato niente”, ride Careri,
“la casa è venuta fuori così”. Stalker si è limitata ad ascoltare. “I rom
sanno costruire le case”, dice Careri, sottolineando la loro capacità di
riciclare i materiali per farne lavandini, finestre, pavimenti. Le foto
mostrano una costruzione in legno a due piani, un ampio terrazzo, una scala
esterna, “un po’ stile Dallas, come una telenovela”, scherza l’architetto.
Comunque è (o meglio “era”) molto più bella del container: è una vera casa
in legno di 70 metri quadri, che è costata solo ottomila euro. Savorengo Ker
potrebbe diventare un modello, se solo qualcuno fosse interessato a
considerare i rom come qualcosa di diverso da un “problema da risolvere”. La
casa ha provocato subito reazioni negative. Nessun rappresentante delle
istituzioni ha partecipato all’inaugurazione e il municipio (il cui
presidente è dei Comunisti italiani) ha fatto fermare i lavori a causa delle
proteste degli abitanti del quartiere.
Alla fine la casa è stata misteriosamente incendiata. “Destra, sinistra…
quando si parla di rom l’odio è trasversale”, afferma Careri. Di Savorengo
Ker è rimasto solo un mucchio di legno annerito. Ma Careri è sicuro che il
progetto ha dimostrato molte cose: “La maggior parte dei rom non è nomade ma
vuole una casa vera. L’integrazione si raggiunge con la cooperazione tra rom
e gagé (i “non zingari”) e non con i progetti che ghettizzano i nomadi. I
campi devono
essere chiusi. E sostituiti da programmi che aiutino i rom a costruirsi le
case da soli”. Il sindaco Gianni Alemanno è deciso ad andare avanti sulla
strada “spianata da Veltroni”, che prevede la creazione di nuovi grandi
campi. “Magari li faranno con le case in legno, costruite dai rom. Ma non
sarebbe la nostra
soluzione”. Careri teme solo una cosa: che, ancora una volta, le sue idee
vengano prese e snaturate.
Michael Braun è il corrispondente dall’Italia della Tageszeitung di
Berlino.
"Internazionale", n. 778
venerdì, 16 gennaio 2009 -
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