Questo lungo articolo mi è stato segnalato da Betty un po' di tempo fa.
Per cause non dipendenti dalla mia volontà posso ripubblicarlo solo adesso,
mi scuso con l'interessata.Tratta dal blog del
circolo
pasolini di pavia che a sua volta lo mutua da internazionale
L'intelligenza che si sporca le mani
Francesco Careri e una casa vera per i Rom di Michael Braun
[Architetti pavesi che scrivete lettere firmate in massa per sostenere
colleghi progettisti di brutture senza appello, vi invito a leggere
quest'articolo e valutare un po' quale sia il miglior e più adeguato
contributo che potreste dare a questa città. Anche in termini di civiltà,
dello spazio si intende. E quale occasione sarebbe stata se qualcuno di voi
si fosse fatto vedere alla ex Snia durante quel lunghissimo 2007 (irene
campari)]
Campi nomadi, vecchie fabbriche, casali diroccati. Un architetto romano
studia le aree degradate della città per riqualificarle. Rispettando le
persone che ci abitano.
"Non aspettarti niente di che!”, dice Francesco Careri al telefono spiegando
la scelta del locale. E infatti il ristorante Al biondo Tevere, sulla via
Ostiense a Roma, è uno di quei posti popolari e senza pretese dove si mangia
con pochi soldi. Una scelta adatta – penso tra me e me – a un architetto
che, invece di partecipare ai grandi concorsi, lavora nei campi rom della
capitale. Careri m’incuriosisce proprio per questo. Non avevo mai sentito
parlare di un architetto che andasse nei campi rom, tra misere baracche e
squallidi container, con il progetto di costruire delle case vere, belle,
spaziose e funzionali, spendendo poche migliaia di euro. “Vengo spesso a
mangiare qui”, spiega Careri mentre cerca inutilmente di dare un ordine ai
suoi capelli arruffati, “perché è a due passi dalla sede dell’associazione
Stalker”.
E poi non è un posto qualunque: qui Elsa Morante ha scritto La storia, qui
hanno girato alcune scene di Bellissima con Anna Magnani, qui Pasolini si è
fermato a cena con Pino Pelosi il giorno prima di essere ucciso a Ostia.
Nomi che raccontano un’epoca in cui i grandi intellettuali si interessavano
alle vicende di chi viveva ai margini della società, di chi abitava nelle
baracche, nelle borgate. Oggi gli intellettuali, gli artisti, gli studiosi
guardano altrove. A parte qualche rara eccezione, tra cui Francesco Careri.
Si mette a ridere quando gli chiedo se è vero che come architetto non punta
a costruire niente. Certo, mi spiega, non progetta palazzine per ricchi, non
ha voglia di finire sulle riviste di architettura e non è neanche
interessato a costruire delle “sculture senza significato”, come definisce i
lavori dei grandi architetti. “Ma non m’interessa neanche battermi contro
tutto questo”, precisa.
Un nucleo indipendente
Quando racconta la sua vita da studente cambia soggetto, usando il “noi”.
Per “noi” intende chi ha partecipato al movimento della Pantera nel 1990,
che ha portato alle occupazioni di molte università in tutto il paese: “Il
nostro movimento è stato sottovalutato, ma ha segnato tutta una
generazione”. Pochissimi sono entrati nei circuiti della politica
istituzionale, alcuni sono finiti nei centri sociali, altri – come lui – non
hanno preso tessere di partito, ma hanno continuato a essere critici e a
parlare in modo indipendente. Da questo nucleo di studenti di architettura
nasce Stalker. Careri indica l’altra sponda del Tevere, che vediamo dalla
finestra del ristorante. “Lì, nel 1993, Stalker ha fatto la sua prima
azione”. A quei tempi la riva del fiume era coperta da cespugli, rovi e
spine. I ragazzi di Stalker occuparono il terreno per creare un parco
abusivo, “un parco wild”, dice Careri con gli occhi che gli brillano. Poi,
invitarono degli artisti e
organizzarono delle feste. Una prima esperienza che si ripeterà nel tempo.
Dopo aver capito che c’erano delle parti di Roma ancora da sfruttare, altri
hanno
copiato l’idea. In seguito quel tratto di riva del fiume è stato disboscato
e ci hanno costruito la pista ciclabile: il paesaggio wild amato da Careri
non c’è più. Da allora il collettivo Stalker non si è più fermato, nel vero
senso della parola. Scoprire la città camminando è il motto
dell’associazione. Scoprire quella parte di Roma sconosciuta a molti romani,
ma dove abitano molti emarginati, e fatta di aree abbandonate, di casali
diroccati, di fabbriche dismesse. Il campo Boario, un grande spazio di
fronte all’ex mattatoio di Roma, è vicinissimo al centro, ma nel 1999 era
completamente abbandonato, come “un buco nero nella città”. Questa volta
Careri e gli amici di Stalker non si accontentano di “andare, vedere,
capire”. Decidono di intervenire sul tessuto sociale di quel luogo, dove c’è
già un centro sociale, una baraccopoli di senegalesi e marocchini, e un
grande campo dove i rom kalderash tengono le roulotte. Insieme a un gruppo
di curdi creano il centro culturale Ararat. I romani, così, scoprono il
mattatoio. E il comune ci mette le mani. L’ex sindaco di Roma, Walter
Veltroni, trasforma l’area in una Città delle arti e inaugura, ironia della
sorte, una Città dell’altra economia. Ma prima manda via i rom. “Come se
loro non fossero l’altra economia per eccellenza”, fa notare con rabbia
Careri, perché la comunità di rom istriani era perfettamente integrata nel
quartiere. Veltroni avrebbe fatto meglio a valorizzare quest’esempio
positivo di insediamento rom nella città, invece di cacciare i nomadi in
periferia. Ancora una volta, Stalker e quelli che gravitavano intorno al
campo Boario sono espropriati delle loro idee per trovarle realizzate da
qualcun altro e, allo stesso tempo, snaturate. Il bilancio per Stalker è
negativo: “Siamo stati l’elemento attraverso cui la città è entrata in una
realtà per mandare via tutti quelli che ne facevano parte”. Ma Careri non si
arrende: “Noi siamo già altrove”. Altrove è dalle parti di Corviale, un
palazzone mostruoso lungo un chilometro, dove vivono diecimila persone.
Completato nel 1983, fu presentato come un esempio di “architettura moderna,
sociale, rivoluzionaria”.
Ma fu subito dimenticato da politici e architetti, e lasciato senza servizi.
In poco tempo è diventato sinonimo di degrado urbano. “La gente si
vergognava di
dire che abitava al Corviale perché tutti pensavano che lì vivessero solo
ladri e drogati”, racconta Careri. Con l’aiuto degli abitanti, Stalker mette
su una tv di quartiere per raccontare l’altro Corviale, quello di chi ci
vive, “gente normalissima” ma percepita come lontana dal modello sociale
dominante.
Passeggiata istruttiva
Oggi gli esclusi per eccellenza sono i rom. Careri li incontra di nuovo nel
2005. Nel frattempo è diventato ricercatore del Dipartimento di studi urbani
dell’università Roma Tre. Organizza un seminario itinerante e porta i suoi
studenti sulle sponde del Tevere. Fa camminare i ragazzi per più di
cinquanta chilometri da Ostia a Prima Porta, scoprendo 54 insediamenti
piccoli e grandi. Più di duemila persone vivono in tende o in baracche
poverissime. Tre anni fa “l’emergenza rom” era ancora lontana e il sindaco
Veltroni negava l’esistenza dei campi lungo il fiume. Non sono lontani
invece i piani per risolvere definitivamente il problema della sistemazione
dei rom in città. Careri fa una smorfia quando parla di “campi della
solidarietà”, lasciando intendere l’ipocrisia linguistica che si nasconde
dietro i progetti dell’amministrazione Veltroni. Un esempio è il megacampo
di Castel Romano, fuori Roma: “Milleduecento persone chiuse in container,
intorno a loro neanche un albero, solo ghiaia e polvere”. Da qui nasce
l’idea del Savorengo Ker (“casa di tutti”, in lingua romanes), come
alternativa radicale alla politica che vuole rinchiudere i nomadi in
insediamenti spostati sempre più nelle estreme periferie. Per il suo
progetto Careri sceglie il campo Casilino 900, dove da decenni centinaia di
rom vivono nelle baracche in mezzo al fango. Careri fa i calcoli in un
minuto: un container di 32 metri quadri, che secondo le norme vigenti è
sufficiente per sei persone, costa 22mila euro. La “casa di tutti” può
costare molto meno e offrire molto di più. Una decina di rom e altrettanti
studenti si mettono al lavoro. “Non abbiamo progettato niente”, ride Careri,
“la casa è venuta fuori così”. Stalker si è limitata ad ascoltare. “I rom
sanno costruire le case”, dice Careri, sottolineando la loro capacità di
riciclare i materiali per farne lavandini, finestre, pavimenti. Le foto
mostrano una costruzione in legno a due piani, un ampio terrazzo, una scala
esterna, “un po’ stile Dallas, come una telenovela”, scherza l’architetto.
Comunque è (o meglio “era”) molto più bella del container: è una vera casa
in legno di 70 metri quadri, che è costata solo ottomila euro. Savorengo Ker
potrebbe diventare un modello, se solo qualcuno fosse interessato a
considerare i rom come qualcosa di diverso da un “problema da risolvere”. La
casa ha provocato subito reazioni negative. Nessun rappresentante delle
istituzioni ha partecipato all’inaugurazione e il municipio (il cui
presidente è dei Comunisti italiani) ha fatto fermare i lavori a causa delle
proteste degli abitanti del quartiere.
Alla fine la casa è stata misteriosamente incendiata. “Destra, sinistra…
quando si parla di rom l’odio è trasversale”, afferma Careri. Di Savorengo
Ker è rimasto solo un mucchio di legno annerito. Ma Careri è sicuro che il
progetto ha dimostrato molte cose: “La maggior parte dei rom non è nomade ma
vuole una casa vera. L’integrazione si raggiunge con la cooperazione tra rom
e gagé (i “non zingari”) e non con i progetti che ghettizzano i nomadi. I
campi devono
essere chiusi. E sostituiti da programmi che aiutino i rom a costruirsi le
case da soli”. Il sindaco Gianni Alemanno è deciso ad andare avanti sulla
strada “spianata da Veltroni”, che prevede la creazione di nuovi grandi
campi. “Magari li faranno con le case in legno, costruite dai rom. Ma non
sarebbe la nostra
soluzione”. Careri teme solo una cosa: che, ancora una volta, le sue idee
vengano prese e snaturate.
Michael Braun è il corrispondente dall’Italia della Tageszeitung di
Berlino.
"Internazionale", n. 778
venerdì, 16 gennaio 2009 -
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