CityRom ha ripreso la presentazione di alcuni campi sosta
comunali del milanese. Oggi si parla del campo di
via Bonfadini, domani di quello di via Impastato.
(@2008 google - Immagini @2008 digitalGlobe, Cnes/Spot image, GeoEye)
L'"area abitativa comunale per cittadini di origine rom e sinti" di via
Bonfadini occupa un triangolo di 5.000 metri quadrati nei pressi
dell'Ortomercato, i cui lati sono definiti dai binari del passante
ferroviario. Vi si accede con una strada cieca che, dopo aver attraversato
un'area di stoccaggio dell'Ortomercato, passa al di sotto della ferrovia e sbuca
in un'isola tra i binari occupata interamente dal campo. Emergendo dal
sottopassaggio – che è l'unico accesso all'"isola" da quando, qualche anno fa,
due passaggi a livello sono stati eliminati – Milano scompare e ci si trova
improvvisamente in un altro continente. Progettato dal Comune nel 1987 come
"area di sosta attrezzata per roulotte e case mobili", per alcune famiglie di
rom abruzzesi che dagli anni sessanta si erano stabiliti in un terreno nelle
vicinanze, il campo si presenta oggi come uno slum costituito da un denso
agglomerato di case mono-famigliari autocostruite, alcune in muratura, altre in
legno e qualche casa mobile e roulotte. Varcato l'ingresso – costituito da uno
spazio libero che interrompe la schiera di case rivolte verso l'interno del
campo che ne recintano il perimetro, - ci si trova in un villaggio brulicante di
vita. Tra le case e le auto parcheggiate i bambini giocano mentre gli adulti si
dedicano alle più svariate attività: chi aggiusta una motocicletta, chi cucina,
chi pialla in un laboratorio di falegnameria a cielo aperto, chi semplicemente
chiacchiera in gruppo seduto davanti a casa. Dappertutto fervono lavori di
ristrutturazione, manutenzione e ampliamento delle casette. Il disegno delle
piazzole di 200 mq originariamente assegnate ad ogni famiglia per parcheggiare
l'auto e la roulotte o la casa mobile non si riconosce più. Come racconta M. A.-
una giovane abitante del campo in attesa di essere riconfermata mediatrice
culturale dal Comune - non appena il campo comunale fu pronto, nel 1987, e
furono assegnate alle famiglie le piazzole in cui dovevano trasferirsi per
liberare l'area dove vivevano da vent'anni, tutti cominciarono a costruire
casette di legno e da allora nel villaggio i lavori per renderle sempre più
confortevoli non si sono mai interrotti. Il Comune aveva predisposto il campo
come un campeggio, con la possibilità di collegarsi alla rete elettrica e con un
blocco di servizi comuni - gabinetti e docce con l'acqua fredda - ma la maggior
parte delle famiglie ha provveduto in proprio ad allacciare la propria
abitazione alla rete fognaria e all'acqua. Ora quasi tutte hanno l'acqua
corrente e il gabinetto in casa. Secondo le informazioni fornite dal Nucleo
problemi del territorio della Polizia locale, la maggior parte delle costruzioni
abusive sono state condonate per “stato di necessità".
Nel campo vivono oggi 25 famiglie, per un totale di circa 120 persone, tra cui
moltissimi minori. Secondo Valerio Pedroli dei Padri Somaschi, l'associazione
che si occupa di assistenza e mediazione sociale nel campo di via Bonfadini, la
posizione e la struttura del campo ne fanno un ghetto destinato fin dalle
origini ad essere un vivaio di disagio e asocialità. Il tentativo
dell'associazione è quello di mettere in comunicazione il campo e il territorio,
soprattutto attraverso progetti che coinvolgono i bambini del campo che
frequentano le scuole del quartiere e i loro genitori.
M.A.: La mia famiglia è venuta dall'Abruzzo negli anni Sessanta in cerca di
lavoro. I genitori di mia madre in Abruzzo vivevano da sempre in casa, quelli di
mio padre si occupavano di cavalli e si spostavano con la roulotte. Noi non
siamo nomadi, siamo sedentari e ci siamo dovuti costruire da soli questa casa,
con il bagno, la cucina e lo spazio per vivere in sei persone. I bambini vanno a
scuola e hanno bisogno di spazio. Abbiamo già ricevuto una denuncia per abuso
edilizio ma siamo stati assolti perché abbiamo fatto i lavori per necessità, per
avere una casa dove vivere. Ora stiamo facendo altri lavori e abbiamo paura di
ricevere un'altra denuncia. Non capisco perché ci denunciano, noi abbiamo reso
la nostra casa a norma, ora i soffitti sono dell'altezza giusta, l'impianto
elettrico è a norma e abbiamo usato materiali a norma per gli incendi. Qui tutti
sistemano continuamente la propria casa, per renderla più comoda. Fanno il bagno
con l'acqua calda, la ampliano perché i figli si sono sposati. In questo campo
vivono le stesse famiglie che c'erano quando è nato, ma i figli sono cresciuti,
si sono sposati e hanno avuto dei bambini. C'è ancora l'abitudine di sposarsi
giovani - questi che si stanno costruendo la casa qui a fianco hanno vent'anni e
tre figli - e per tradizione la nuova famiglia resta a casa dei genitori dello
sposo. A me piace vivere qui perché sto vicino ai miei parenti e perché ora che
abbiamo sistemato la casa mi trovo bene. Ogni tanto c'è qualcuno che va a vivere
fuori dal campo, in una casa normale, come una ragazza che fa la mediatrice
culturale come me. Ma sembra che il Comune non le rinnovi più il contratto
perché da quest'anno solo chi vive nel campo può fare la mediatrice culturale.
Trovo che sia assurdo: lei al campo conosce tutti, viene sempre, non è
necessario abitare nel campo per fare il lavoro di mediazione culturale. Noi rom
abbiamo la nostra cultura e il nostro lavoro di mediatrici coi bambini che vanno
a scuola, i loro genitori e le maestre è molto importante. La mia collega aveva
un lavoro e poteva pagare l'affitto fuori dal campo e ora che le tolgono il
lavoro che cosa fa? deve tornare ad abitare nel campo?
Valerio Pedroni: Il campo si trova ai margini di una zona storicamente
indigente e disagiata di grandi case popolari. Nella zona più decentrata e
marginale di una zona marginale, chiuso tra i binari della ferrovia. Questo
significa che è destinato all'emarginazione. Tra gli adulti c'é una percentuale
impressionante di persone in carcere o agli arresti domiciliari. C'è una
situazione di povertà non certo materiale, perché a nessuno manca da mangiare,
ma immateriale, di disagio sociale. Nel campo ci sono due tendenze opposte: da
una parte una tendenza centrifuga, che riguarda le donne e i minori che
rifiutano fortemente di vivere in campo e che vorrebbero una situazione
abitativa diversa. Dall'altra una tendenza centripeta, di chi cerca di rimanere
nel campo, un po' perché ha paura di quello che c'è fuori, e il campo diventa
una forma di protezione dai pericoli esterni, e un po' anche perché per certi
versi costituisce una zona franca. Il campo sicuramente favorisce il formarsi di
percorsi devianti e rappresenta un ostacolo alla riuscita un percorso positivo
di uscita dall'emarginazione.
Alcuni degli abitanti del campo ora vivono in case popolari – alcuni le occupano
abusivamente, altri invece ne hanno ottenuta una –, altri hanno provato ad
andare a vivere in una casa popolare, non ci sono riusciti e sono tornati al
campo. Sicuramente il campo, sia per quelli che ci vivono, sia per quelli che
abitano nelle case popolari, costituisce ancora il centro nevralgico della
comunità sociale.
Dal momento che il problema è che questo campo è un esempio di esclusione
sociale allo stato puro e non ha nessun tipo di comunicazione con il territorio,
quello che intendiamo fare col nostro intervento è portare il territorio nel
campo e il campo nel territorio. Il territorio è ossigeno e noi dobbiamo fare in
modo che le due realtà, campo e territorio, si parlino. La prima cosa che
abbiamo fatto è stato conoscere molto bene il territorio - i comitati
d'inquilini, le parrocchie, gli oratori, le varie associazioni di volontariato,
le istituzioni – e cercare di portare gli adulti a usufruire dei servizi che
questo offre, creando alcune prime occasioni di conoscenza reciproca. Nello
stesso tempo stiamo cercando di creare occasioni per portare persone del
territorio all'interno del campo attraverso il volontariato, in modo tale che
questo circuito di ossigeno cominci a funzionare. Lavoriamo molto con i minori e
la scuola: ci sono, tra elementari e medie, circa trenta minori iscritti.
Lavoriamo insieme a due mediatrici culturali del campo e gestiamo uno “sportello
scuola" con alcuni insegnanti delle elementari e delle medie, cercando di
proporre ai minori anche attività extra-scolastiche sul territorio, concertate
insieme alle scuole stesse. E gli adulti, in un certo senso, si ancorano alle
traiettorie dei minori. Per cui, se un ragazzo del campo inizia a frequentare il
doposcuola e conosce un altro ragazzo, le due famiglie riescono a parlarsi più
facilmente. Questo moto che abbiamo cercato di innescare sembra dare i primi
risultati, tenendo conto che siamo in questo campo solo da febbraio. Ma il
percorso evidentemente è molto lungo e il lavoro da fare è con tutte le
istituzioni, il Comune di Milano in primis.
(Il sopralluogo al campo è stato effettuato il 17 ottobre 2008, l'intervista a
Valerio Pedroni il 25 ottobre 2008)