Intervista a due operatori sanitari di un'Asl romana che opera nei
campi nomadi. Il pregiudizio, l'amicizia, le cose da cambiare
Dopo la denuncia e la proposta lanciata dal presidente dell'associazione 21
luglio a proposito dei campi rom nella Capitale, cominciamo un viaggio nella
vita quotidiana di un medico pediatra (Riccardo) e di una infermiera (Stefania)
chiamati ogni giorno ad intervenire dentro un contesto sociale poco conosciuto e
che genera incomprensioni e pregiudizi. Per motivi di riservatezza i nomi sono
di fantasia.
E' un mondo, quello dei rom, che sembra da sempre "fuori posto". Al massimo gente
da tollerare...
Riccardo: "È l'approccio peggiore! È come dichiararsi sconfitti in partenza. E
poi non dimentichiamo che "fuori posto" ci sono stati messi. Gli zingari hanno
una storia antica di persecuzioni e deportazioni feroci. Pensate ai tempi del
nazismo. Ma anche recentemente (vedi rom della Bosnia) molti sono dovuti fuggire
dalla loro terra per salvare la pelle: persone che avrebbero diritto allo status
di rifugiati. Comunque sia, è vero che i rom hanno una loro originalità, e si
infilano in genere tra gli spazi di degrado urbano delle nostre periferie. È un
universo parallelo, alternativo, nomade: il them romanò, in effetti abbastanza
allergico alle strutture".
Ma allora come riuscite a dare continuita' al vostro lavoro, vista questa
condizione nomade?
Riccardo: "Forse è utile partire da un po' di storia. La realtà dei rom, dei sinti e dei camminanti
è complessa e antica. Nell'area romana la presenza
zingara risale al XVI secolo, nel rione Monti c'è ancora la lunga via degli
Zingari a confermarlo. Dietro alla parola "nomade" o zingaro o rom in realtà c'è
un universo complesso. Il nomadismo stesso –anche se in realtà i rom sono ormai
una realtà quasi del tutto stanziale, in Italia – non va pensato come una cosa
strana, appartiene alla storia dell'umanità. Un tempo eravamo tutti dei nomadi.
Nell'anima il popolo rom continua a vivere così, giorno per giorno, senza
preoccuparsi del futuro. Di fatto, vive nei campi, ma la stanzialità è, in
genere, gestita male. Il campo è spesso sinonimo di ghetto".
Considerando la loro diffidenza per le strutture, non deve essere semplice
"inquadrare le situazioni sanitarie", come vi muovete?
Riccardo: "L'esperienza di questa equipe partita nel 2006 è stata quella di
partire dai loro bisogni di salute senza imporre schemi rigidi. Anche se è
chiaro che la prima cosa che salta alla vista è la necessità di curare. Di
prevenire. Ma abbiamo capito che per riuscire era importante partire dalle loro
richieste e soprattutto costruire appunto rapporti di fiducia".
Quindi accettano la vostra offerta di cure?
Stefania: "Dopo anni di lavoro, ormai direi di sì. Certo, c'è ancora un grande
percorso da fare, anche come integrazione sanitaria, ma sta andando bene.
Prendete il campo della Cesarina. Dopo 7 anni di presenza continua e rispettosa
della loro identità e diversità cultuale, le risposte arrivano. Il tasso di
vaccinazioni dei rom bosniaci è intorno al 90 per cento, cosa impensabile anni
fa. L'affluenza negli ambulatori dedicati a Stp ed Eni (acronimo dei codici
sanitari per Stranieri temporaneamente presenti o Europei non iscritti) con
richiesta di visite ginecologiche e pediatriche e specialistiche è aumentata".
Che patologie sono riscontrabili in campo pediatrico?
Riccardo: "Fare il medico nei Campi per visitare i bambini rom è un po' come
compiere un balzo spazio-temporale. All'indietro. Si ritrovano patologie antiche
come la Tbc, o altre ancora presenti tra noi, ma più diffuse".
E riuscite a curarle?
Riccardo: "Si tamponano le urgenze come si farebbe per qualunque altro bambino. E
si lavora sulla prevenzione, vedi vaccinazioni a tappeto. Ma il vero nodo
starebbe nel migliorare le condizioni sociali, igieniche e alimentari. Nel poter
fare un'educazione sanitaria continua. Tutte cose che hanno fatto miracoli per i
bambini italiani, dal dopoguerra in poi. La nostra esperienza ci fa dire che
l'unica è partire dalle donne, vero fulcro della famiglia rom, per arrivare ai
bambini, che sono –per loro come per noi- il futuro".
Come va con la scuola nei campi?
Riccardo: "Finché i bambini nei campi vivranno in condizioni sub-umane, è pura
utopia pensare la continuità scolastica. Sapete che al campo della Cesarina,
dove sono stati investiti centinaia di migliaia di euro, adesso non c'è più
nemmeno l'acqua, visto che l'attuale gestione pare l'abbia tolta? Anche l'unica
fontanella del Comune non c'è più. E la gente va a comprare le bottiglie di
acqua minerale non solo per fare da mangiare, ma anche per lavarsi e lavare i
bambini... Condizioni fatiscenti e potenzialmente a rischio epidemia".
Resta prevalente,quindi, l'aspetto sanitario?
Riccardo: "Proprio così! E' chiaro che anche per un sanitario che si impegni a
"diagnosticare e prescrivere", insomma curare, è frustrante se mancano i
presupposti fondamentali della salute, come l'igiene. Come l'accesso all'acqua,
vero diritto fondamentale. Ed è per questo che anche noi non possiamo starcene
zitti".
E come sono i bambini rom?
Stefania: "Sono vispi, acuti, maturano molto presto. Interessati a tutto, hanno
uno sviluppo cognitivo accelerato, con autonomia e intraprendenza incredibili.
Sulla breve distanza avrebbero da dare molti punti ai nostri bambini, cresciuti
nella bambagia".
Riccardo: "Quando li vedi giocare o danzare ti accorgi di tutto un patrimonio
che potrebbe essere valorizzato. Ed esistono moltissime esperienze positive a
riguardo nate dal volontariato, che fa un lavoro preziosissimo nei Campi.
Purtroppo sono talenti che vengono bruciati in fretta perché qui l'infanzia
è
breve, si diventa presto adulti".
Stefania: "Ci dovremmo chiedere: come sfruttare questo patrimonio umano che
abbiamo? Domanda che una società civile dovrebbe farsi non solo per i bambini
rom, ma per tutti i bambini stranieri nati in Italia, e che ancora non hanno
diritto di cittadinanza. Con i rom sarebbero utili offerte di tipo sportivo, o
teatrale, o musicale. E avremmo risultati eccellenti".
L'ExpressIsrael Galvan: "danzare l'impossibile", il genocidio dei
gitani - Par AFP, publié le 13/02/2013 à 09:52
PARIGI - Il sivigliano Israel Galvan danza dal 12 al 20 febbraio al "Théatre
de la Ville" di Parigi "L'impossibile da danzare": il genocidio tzigane da parte
dei nazisti, con il suo nuovo spettacolo "Le Réel, Lo Real, The Real".
Dimenticatevi del flamenco tradizionale, delle balze e degli "olé":
il flamenco di Galvan è aspro, senza concessioni.
E' a torso nudo, dove si disegnano le costole, danzando sulla scena
quasi vuota. Un piano stonato, dal quale verrà fuori il filo spinato dei campi
di concentramento, dei binari cigolanti: ecco, la scenografia è montata. Lo
spettatore trattiene il fiato: si soffre con lui.
Quando una ballerina irrompe, è vestita come una rom, come in segno di
solidarietà con le persecuzioni di oggi.
Silhouette longilinea vestita di una calzamaglia nera, c'è un uomo
dolcissimo, agli antipodi del solito ballerino brillante, il quale si esprime
tramite interviste, attento alle domande, esitante nell'agganciare delle parole
ai movimenti del corpo.
Cascato piccolino nel flamenco - i suoi genitori sono ballerini e suo padre
insegnante in una scuola di flamenco a Siviglia - traccia rapidamente il proprio
cammino, rischiando di sconvolgere i puristi.
"Hanno il loro posto, è importante conservare la tradizione" afferma Galvan,
"ma il flamenco è in costante evoluzione, e mi sento molto libero".
Libero di scegliere un tema scottante come il genocidio dei gitani, e di
introdurvi "anche della gioia", perché conviene celebrare tanto la loro
sopravvivenza quanto la loro sofferenza.
Il genocidio era presente già nella sua infanzia, "se ne parlava molto a
casa, per motivi religiosi", dice Galvan. I suoi genitori appartengono ai
Testimoni di Geova, perseguitati e deportati dai nazisti a motivo dei loro
legami internazionali e della loro opposizione al potere e alla guerra.
Sua madre è tzigana: il genocidio fa doppiamente parte della storia
familiare. Però, Israel Galvan si è ispirato anche da documentari, libri,
canzoni ("Hitler in my heart" del gruppo Antony and the Johnsons) per la sua
creazione. Dice che come sempre, lo spettacolo risponde a "un'esigenza".
Con una dozzina di creazioni in 15 anni, Israel Galvan si è forgiato la
reputazione di un ballerino profondamente innovatore nell'ambito molto
codificato del flamenco. Applaudito a Parigi e nel nord-europeo da molto tempo,
ha visto il suo lavoro riconosciuto per la prima volta a dicembre, dal Teatro
Real di Madrid, che ha prodotto "Il Réel".
Questo "ballerino delle solitudini", secondo il titolo di un libro che gli è
stato consacrato dal filosofo e storico dell'arte francese Georges Didi Huberman
(2006), è stato per la prima volta - per "Il Réel"- affiancato da due
virtuose ballerine, Belén Maya e Isabel Bayon. Una decina di cantanti e musicisti fanno
molto più che accompagnarlo, essendo la vera spina dorsale dello spettacolo.
Tra i suoi progetti, un duo con il ballerino britannico originario del
Bangladesh Akram Khan, la cui danza è ispirata dal kathak, un'arte tradizionale
indiana vicina al flamenco.
Israel Galvan vorrebbe anche "esplorare il suo lato femminile". Osserva che
"Nel flamenco, l'uomo deve danzare da ++macho++ e la donna, in modo femminile". A
lui piacerebbe "cambiare un po'". Butta là sorridendo: "Ho sempre danzato da
uomo, è un po' stancante".
Una trasgressione fedele al suo percorso, che spiega però, senza alcuna
aggressività. La violenza, la morte, onnipresenti nei suoi spettacoli, li
conserva per la scena. In città, è un uomo timido, che parla dei suoi
figli, tra cui c'è una bambina che danza già "il balletto".
Le ParisienIsrael Galvan danza per i rom di Ris-Orangis Publié
le 15.02.2013, 21h24
Nel bel mezzo di un accampamento di Rom a Ris-Orangis, la nuova stella del
flamenco Israel Galvan, batte i tacchi con passione. Habitué delle grandi sale
prestigiose d'Europa, è venuto qui per "confrontarsi con la realtà".
I rom dell'accampamento, autentica bidonville a 20 km al sud-est di Parigi,
hanno terminato la costruzione della scena venerdì mattina, in modo da potere
accogliere il ballerino, attualmente presente sulla locandina del Théatre de la
Ville di Parigi.
All'inizio della serata, la silhouette longilinea d'Israel Galvan, pantalone
colore arancio e piumino marrone, appare nel campo, atteso da circa 70 persone,
abitanti del bidonville e membri di alcune associazioni di sostegno. I bambini,
appena usciti dalla scuola o dal liceo dove alcuni di loro sono scolarizzati, si
spazientiscono in mezzo al fango e alle capanne, costruite lungo la strada N7.
Petto all'infuori, accompagnato da due "cantaores" (cantanti di flamenco) esegue
alcuni passi di danza per alcuni minuti, picchiando il suolo in modo rude e
virile, come un torero atletico.
Ma è soprattutto felice d'invitare gli rom a ballare in mezzo alla piccola
scena, fatta di travi di legno e decorata di ghirlande, che danno al posto delle
arie di parco di divertimenti.
Una donna, la gonna nera della quale sfiora il pavimento, esita, poi finalmente
si lancia nel cerchio sotto lo sguardo benevolo d'Israel Galvan.
Durante la serata, gli rom tirano fuori i propri strumenti: violini,
fisarmoniche e tamburelli colpiti con l'aiuto di bottiglie di plastica.
"E' buono per i bambini, per noi, per la musica", dice Jorge, il quale abita
nell'accampamento da circa otto mesi. "Apporta gioia!"
"Altro tipo di energia"
Figlio di una gitana, Israel Galvan percepisce qui una familiarità con ciò che
conosce.
"Quando guardo la gente, vedo certi volti che potrebbero essere quello di mia
nonna", dice sorridendo, all'AFP.
Aggiunge: "Ciò che mi colpisce, è che nonostante le difficoltà che incontrano
queste popolazioni, riescono a fare venire fuori una gran gioia nel loro modo di
vivere".
Nel suo spettacolo battezzato "Le réel" (il reale), egli evoca senza
concessioni, la sorte tragica – e abbondantemente occultata – che fu riservata
agli tzigani durante la Seconda Guerra Mondiale, perseguitati e sterminati dagli
nazisti.
"Per creare il mio spettacolo, mi sono ispirato a libri e foto antiche di
zigani. Ma venire qui, è la situazione la più reale alla quale mi sono trovato
confrontato" spiega colui che, durante questi ultimi anni, si è tagliato una
reputazione di ballerino profondamente avanguardista e novatore.
Considera: "Non ho mai ballato in questo genere di luoghi prima, ma è importante
per un ballerino, venire a respirare un altro tipo di energia, diverso da quello
dei teatri".
L'incontro, con l'iniziativa della rivista culturale "Mouvement" e
dell'associazione "Perou" che viene in aiuto ai rom, non si ferma qui. Durante
quattro sere, Israel Galvan invita dodici abitanti del bidonville a venire per
assistere al suo spettacolo al Théatre de la Ville, che continuerà fino al 20
febbraio.
Dice che è importante che vengano a vedere lo spettacolo, in quanto questo parla
della loro storia.
"Abbiamo deciso di donare gli organi, così la nostra Natalia rivivrà in altri
bambini". Questa la decisione dei genitori della piccola Natalia, la bimba rom
di 14 mesi caduta nel Tevere giovedì 21 febbraio e morta al Policlinico Gemelli
di Roma sabato 23 febbraio. La piccola stava giocando sulla sponda del Tevere
sotto Ponte Testaccio, dove viveva con i genitori in una baracca di fortuna. É
scivolata nel fiume, il padre l'aveva subito salvata e portata in ospedale, ma
le sue condizioni erano apparse da subito gravissime per problemi cardiaci
legati all'ipotermia. I giovani genitori hanno deciso di donare gli organi. Ora
però non hanno i soldi per il funerale e per riportare il corpo in Romania.
Nessun sostegno dal Comune. L'Associazione 21 Luglio ha lanciato una raccolta
fondi per aiutarli.
Questo l'appello dell'Associazione 21 luglio:
Sabato 23 febbraio è morta presso il Policlinico Gemelli di Roma, Natalia, la
bimba rom di 14 mesi caduta giovedì 21 febbraio nel Tevere, mentre giocava sulle
sponde dove la sua famiglia vive in una baracca di fortuna sotto Ponte
Testaccio. I giovani genitori rom rumeni, colpiti da questa tragedia, hanno
espresso il desiderio che il sacrificio della loro bimba servisse a salvare
altre piccole vite, dando il consenso alla donazione degli organi della figlia.
A distanza di giorni la famiglia, che ancora vive nella baracca lungo il fiume,
non ha ricevuto alcuna assistenza dal Comune di Roma ed è in attesa di espletare
le pratiche per il funerale di Natalia che verrà celebrato in Romania. Il giorno
dopo la morte di Natalia le forze dell'ordine hanno preavvisato la coppia
dell'imminente sgombero dell'area. La loro povera baracca verrà distrutta.
L'Associazione 21 luglio ha deciso di offrire al nucleo assistenza legale. Per
sostenere i giovani genitori nelle spese per il funerale e per il rimpatrio
della figlia l'Associazione 21 Luglio ha lanciato una sottoscrizione. É
possibile aderire alla sottoscrizione tramite Bonifico bancario presso
Bancoposta Codice IBAN: IT48 J076 0103 2000 0000 3589 968 o attraverso il
Bollettino postale al conto n. 3589968 intestato ad Associazione 21 luglio. Sul
sito dell'Associazione
21 luglio è possibile fare un versamento attraverso la carta di credito.
Ogni versamento dovrà avere come causale: Per Natalia.
A Roma il tasso di mortalità infantile dei bambini rom è del 24 per mille contro
il 9 per mille dei minori non rom, come evidenziato nel libro "Roma
Underground. Libro bianco sulla condizione dell'infanzia rom a Roma",
presentato proprio il 19 febbraio scorso a Roma dall'Associazione 21 Luglio. La
ricerca ha analizzato le conseguenze delle politiche capitoline degli ultimi tre
anni, ovvero quelle realizzate in seno al Piano Nomadi, sull'esistenza dei
minori che vivono a Roma in emergenza abitativa.
Di Fabrizio (del 28/02/2013 @ 10:07:03, in Italia, visitato 2860 volte)
6 marzo 2013, ore 18.00 presso Libreria Popolare, via Tadino
18, Milano
Presentazione di SULLA PELLE DEI ROM
Ne parliamo con:
Carlo Stasolla (autore del libro SULLA PELLE DEI
ROM)
Corrado Mandreoli (coordinatore Tavolo Rom di Milano)
Modera:
Fabrizio Casavola (redazione di MAHALLA)
Negli ultimi anni la "questione Rom" è stata agitata con particolare cinismo
per raccogliere un facile consenso elettorale. Nel libro "Sulla pelle dei rom"
un'approfondita analisi delle politiche promosse da amministrazioni di ogni
colore, culminate in un colossale fallimento sociale ed economico...
continua a leggere la prefazione di
Ulderico Daniele
Provengono da un villaggio romeno, non lontano dal confine con la Moldavia.
Da lì, con la loro esuberanza e vitalità, sono partiti per il mondo. Sono i
Fanfare Ciocarlia
"A volte, quando dico alla gente che vengo da Zece Prajini, pensano che venga
dall'altro capo del mondo. Ma qui, all'altro capo del mondo, non lontano dai
confini con la Moldavia, è il giusto posto per fare musica". Sono le parole di Costica "Cimai" Trifan, trombettista di una delle più interessanti realtà
dell'intellighenzia musicale facente capo a Bucarest: Fanfare Ciocarlia.
Fanfare è una parola di origine francese, e indica la classica band balcanica;
Ciocarlia è, invece, un termine romeno con cui si designa un piccolo
passeriforme tipico di gran parte delle regioni europee.
Le radici nella storia
Per introdurre una band di simile spessore è necessario un breve excursus
storico. La Romania, infatti, come molti altri paesi dei Balcani e del Medio
Oriente, è stata soggetta al dominio turco. Gli ottomani misero a ferro e fuoco
mezza Europa e le propaggini occidentali dell'Asia, dal 1299 al 1922: per 623
anni di fila dettarono regole, mode e paradigmi culturali. È per questo motivo
che, ancora oggi, molti paesi che hanno subito la loro influenza, in un certo
senso continuano a "parlare" turco.
Fanfare Ciocarlia, con la sua esuberanza e vitalità, non può, dunque,
prescindere da questo background storico: nel suo sangue scorre ancora ciò che
rimane del mondo e della cultura ottomana. Lo prova l'utilizzo ostentato di
fiati e l'incedere di ritmi che inevitabilmente rimanda alle bande turche che
proposero i loro brani dal Diciannovesimo secolo in poi, in tutta l'area
compresa fra i Balcani e il Caucaso.
Il valore di simili ensemble musicali è, peraltro, provato ancora oggi dal fatto
che l'orchestra militare più antica del mondo è la banda Mehter, fondata a Bursa
(località situata a sud del mar di Marmara, alle pendici del monte Uludag) nel
1326, che per secoli ha affiancato i soldati ottomani imbracciando strumenti
come trombe, oboi, timpani, grancasse, cimbali...
L'universo musicale della Fanfare Ciocarlia, però, non riguarda solo il
macrocosmo turco, ma anche quello, altrettanto brillante e influente, dei rom.
Fanfare Ciocarlia, di fatto, è un'orchestra rappresentata da musicisti romanì,
che nel loro eterno peregrinare dall'India dell'anno Mille, hanno assorbito
generi e tecniche pentagrammate provenienti da ogni paese. Alla luce di ciò è
facile comprendere il motivo per cui si sono fatti portavoce di un genere
ibrido, figlio di questi due universi musicali, contaminati in più da micro
realtà musicali come quella bulgara, macedone e slava, che con il loro
eccezionale bagaglio di storia popolare, hanno sempre avuto molto da dire non
solo nell'ambito delle sette note.
Anni '90
Le prime esperienze della Fanfare Ciocarlia risalgono a metà degli anni Novanta.
Zece Prajini, punto di partenza dell'avventura musicale della band, è un piccolo
paese, di quattrocento anime, dove l'amore per canti e danze regna sovrano e
ogni occasione è buona per far festa a suon di trombe e fisarmoniche. La band
comincia a farsi notare e a delineare il suo stile durante le cerimonie più
tradizionali, quali battesimi e matrimoni.
Boatca, Balusesti, Manastirea, Piscu Rusului, sono i paesi del circondario, dove
il loro nome prende a circolare con sempre maggiore vigore, auspicando per la
prima volta un futuro che possa travalicare i confini della Romania. Sono forti
di una tradizione musicale tramandata di generazione in generazione, che viene
intercettata dalla lungimiranza di Henry Ernst, un produttore tedesco che si
presta per organizzare il primo tour ufficiale della band; sodalizio che
prosegue ancora oggi, con un migliaio di concerti alle spalle, in una
cinquantina di paesi.
12 virtuosi
Fanfare Ciocarlia è rappresentata da dodici virtuosi, a loro agio con un
infinito numero di strumenti musicali, a cominciare dai capisaldi della cultura
rom/ottomana, trombe, tube, clarinetti, sassofoni, percussioni... Spesso i ritmi
delle loro canzoni sono frenetici, anche più di duecento battiti per minuto.
Benché vari brani siano solo musicali, compongono le loro canzoni in lingua rom,
antico idioma di origine indiana: il vlax romanì, in particolare, è usato in
Romania, ma anche in Bosnia e Albania, ed è il dialetto gipsy più utilizzato.
Negli anni la loro matrice musicale originaria subisce progressive modifiche e
aggiustamenti, fino a portare a un suono che si può tranquillamente definire
"cosmopolita".
Debuttano sul mercato internazionale con Radio Pascani, disco del 1998,
registrato l'anno prima in uno studio di Bucarest. Il mix avviene presso lo
Schalloran Tonstudio di Berlino. Distribuito dalla Piranha Musik, desta
immediatamente successo in gran parte dei Balcani e in USA, sollecitando varie
strutture discografiche, non solo europee, ad appoggiare i virgulti musicali
provenienti dall'est. Molti brani non arrivano a due minuti; come la title track
che si chiude al 45esimo secondo. Alcuni pezzi sollevano più clamore degli
altri, come "Ah ya Bibi", coverizzata da Balkanarama, band statunitense di
Seattle, specializzata in gipsy music, che introduce il brano nel disco
d'esordio Nonstop del 2000. La stessa canzone è presentata dal vivo dagli
Estradasphere, band originalissima di Santa Cruz (California), che al balkan
sound associa liberamente funk, techno, pop, heavy metal e new age.
Baro Biao Baro Biao - World Wide Wedding - giunge l'anno successivo, appoggiandosi allo
stesso entourage del lavoro di esordio. Contiene gemme come "Asfalt Tango",
anch'essa ripresa da vari artisti, fra cui la Hungry March Band - ensemble di
New York a suo agio con i repertori più diversi, dai Sonic Youth ai Black
Sabbath - che la registrano nel cd On The Waterfront. Il brano arriva anche alle
orecchie dei Basement Jaxx, band elettronica britannica che la impiega per
l'album Crazy Itch Radio del 2006.
L'avventura musicale della Fanfare Ciocarlia prosegue nel 2001 con Iag Bari -
The Gypsy Horns From The Mountains Beyond, ancora sotto la supervisione di Henry
Ernst. Nel disco viene ridato lustro alla storica "Lume, lume", interpretata da
molti autori romeni: è una canzone antica, assai cara all'immaginario rom,
proveniente dalla valle del fiume Bistra, nella regione del Banato, un inno agli
affetti più sinceri, alla solidità della famiglia, antidoti alla tristezza. La
versione più nota è quella di Maria Tanase, probabilmente la più importante
cantante romena.
Gili Garabdi - Anciet Secrets Of Gypsy Brass esce per la Asphalt Tango Records
nel 2005 e viene in parte registrato nel paese di origine dell'ensemble
musicale: Zece Prajini. Si apre con "007 (James Bond Theme)", marcando più o
meno consapevolmente la soddisfazione di avere fatto centro anche
nell'inarrivabile America. "Caravan" è un brano di Duke Ellington, fra i più
grandi jazzisti della storia statunitense. Molti i rimandi alla musica klezmer
(con cui da sempre la musica rom condivide mondi e orizzonti) e a stesure in
chiave minore. Altrettanto significativi "Alili", "Sirba modoveneasca" e "Godzila".
L'opera coinvolge vari musicisti, fra cui Grigorescu Calin al banjo e Jony Iliev
alla voce, e si aggiudica l'Awards World Music nel 2006.
Queens And Kings è il quinto e ultimo disco ufficiale della band, edito nel
2007. Vede la partecipazione di molti artisti fra cui la regina della musica
gipsy,
Esma Redzepova (che canta in "Ibrahim"),
Saban Bajramovic, musicista
serbo (scomparso nel 2008), e Monika Juhasz Miczura, cantante, conosciuta come
Mitsu (coinvolta in vari film del regista "gitano", Tony Gatlif).
Daniel Tomescu e i lavoratori di Artezian -
Repubblicadi ANTONIO DI
GIACOMO (22 febbraio 2013) I rom di Japigia: "Basta con l'elemosina" Il portavoce Daniel Tomescu racconta l'esperienza della cooperativa Artezian
nata nel 2008: "Sogniamo case migliori e un'esistenza dignitosa. Sono i bambini
la nostra speranza"
"Dimenticare di mendicare" non è soltanto lo slogan per promuovere la
cooperativa Artezian, nata a Bari nel 2008 all'interno del campo rom di Japigia.
"Dimenticare di mendicare è il sogno che ci riscalda il cuore" confida Daniel
Tomescu che, da 13 anni nel capoluogo, è il portavoce della comunità che
raccoglie circa 130 persone, oltre un terzo dei quali bambini. "Sono loro la
nostra forza e speranza e - racconta Tomescu - quando siamo con i bimbi
dimentichiamo tutto. Anche la fame e il gelo".
Lo sa bene Daniel che ha 47 anni, 5 figli e 12 nipoti. A Bari è arrivato da
Craiova, in Romania, e da circa 7 anni è l'anima di quello che è l'unico campo
autorizzato sul territorio. È riconosciuto come mediatore culturale europeo e,
giunto in città, ha lavorato per cinque anni come sacrista nella parrocchia di
San Sabino, guidata da don Angelo Cassano. Finché nel 2008 non s'è messo in
testa di dare vita alla cooperativa Artezian che - nata per offrire servizi di
pulizie, piccoli traslochi, facchinaggio,
guardiania e manutenzione del verde - rappresenta un tentativo concreto di
integrazione della comunità rom col territorio. Peccato che la strada sia tutta
in salita, però. "Siamo arrivati anche ad avere 17 operai al lavoro, ma adesso
siamo rimasti soltanto in 5: non c'era la forza per pagare i contributi per
tutti, soprattutto perché stiamo lavorando a fatica".
Non è la voglia di rimboccarsi le maniche a mancare, assicura Daniel che spiega:
"Alcuni dei rom che vivono in questo campo sono costretti a volte a continuare a
frugare nei cassonetti o a fare l'elemosina, pur di portare pochi euro a casa la
sera. Ma succede solo quando non c'è davvero più alternativa". Nel frattempo al
campo arriva uno scuolabus e scendono decine di bambini rom, dopo una giornata
passata fra i banchi. Anche questa, naturalmente, è integrazione ma a caro
prezzo. Non è certo un villaggio turistico il campo di Japigia, i servizi
igienici sono insufficienti, le baracche sono ormai vecchie e quando piove si
allaga tutto.
"Speriamo che un giorno possano arrivare dei fondi per avere delle case
migliori" solleva le spalle Daniel, mentre qui fa buio prima che altrove: i
pannelli fotovoltaici che alimentano l'illuminazione non riescono a erogare
sufficiente energia. "Fino a dicembre, almeno, diversi uomini hanno lavorato
nella raccolta delle olive, dalle 6 del mattino fino a che restava un poco di
luce. E c'è pure chi riesce a fare l'operaio nell'edilizia, ma non basta.
Speriamo che le istituzioni possano darci una mano attraverso l'affidamento di
lavori: non vogliamo mendicare, ma guadagnarci da vivere con il sudore della
fronte".
Il problema, semmai, sono ancora i pregiudizi soprattutto da parte della
committenza privata che "è frenata dalla paura di lasciarci soli in casa a
lavorare, anche se non ci mancano le buone referenze magari". Quando, invece,
una chiamata arriva troppo spesso si tratta di lavori sottopagati. "Se
pensassero di pagarci come gli italiani - dice disilluso Daniel - non ci
chiamerebbero di certo. Ma va bene lo stesso, così almeno possiamo guadagnare
qualcosa. Meglio lavorare per poco che niente e poi, come si dice proprio a
Bari, per avere un lavoro bisogna attaccare il ciuccio lì dove vuole il
padrone". Non importa. L'obiettivo di Daniel Tomescu è che Artezian, e con lei
le braccia dei lavoratori del campo rom, vada avanti. Il gruppo, infatti, si è
strutturato ora nella forma di cooperativa sociale e questo traguardo per Daniel
rappresenta la speranza di nuove opportunità.
A riaccendere presto i riflettori su questa realtà, intanto, in primavera, sarà
il filmaker Giovanni Princigalli che al campo girerà la docufiction breve Testa
e piedi, per protagonisti alcuni bimbi rom. Un ritorno per il regista barese
che, ormai emigrato in Canada, esordì dietro la macchina da presa proprio
raccontando la comunità rom di Japigia filmandola nel suo primo insediamento,
una decina d'anni fa, con il pluripremiato documentario Japigia Gagì. Ed
emblematica appare la vicenda al centro di Testa e piedi: "È la storia vista
dagli occhi di un bambino - anticipa - di una famiglia, la sua, che, venuta in
Italia, non riesce a integrarsi e decide di emigrare altrove".
The JournalNegare l'etnia Traveller fa dell'Irlanda uno Stato
canaglia - Non riconoscere l'etnia dei Traveller crea un
pericoloso precedente per ogni governo che neghi i diritti umani, che voglia
giustificare il razzismo, scrive Robbie Mc Veigh
1988: Mullhuardart Site. Image: Photocall Ireland
Recentemente il deputato Caoimhghin O Caolain ha chiesto che i Traveller
venissero riconosciuti come gruppo etnico. Il ministro Kathleen Lynch ha
risposto che non vi sono piani a breve termine per introdurre la
legislazione necessaria a tale riconoscimento, ma ha detto che questa ipotesi sta
venendo considerata. Robbie McVeigh dichiara che l'approccio del Governo
Irlandese è profondamente errato.
MENTRE GLI "ESPERTI" HANNO prospettive differenti riguardo l'etnia, essa non è un
fatto soggettivo. Secondo la legge, l'etnia trova radici nella giurisprudenza
esistente e perciò un governo non può dire che essa non esista. Inoltre, gli
individui non possono ripudiare l'etnia; una persona può dire "non sono un
Traveller" ma non si può dire "i Traveller non sono un gruppo etnico".
In altre parole, l'approccio adottato dal Governo Irlandese è profondamente
errato; l'idea che tutti i Traveller debbano decidere di essere un gruppo
etnico prima che l'etnia Traveller venga riconosciuta è semplicemente sbagliata
Non ha fondamenti, ne accademici ne legali.
Quando la connessione tra Traveller ed etnia è stata chiesta in un contesto legale,
la conclusione è stata che i Traveller possiedono le due "caratteristiche
essenziali" dell'etnia: hanno una lunga storia condivisa di cui sono coscienti
ed hanno una tradizione culturale a parte. Nel caso venga richiesta una prova
simbolica si potrebbe citare il cimitero traveller di Westview ad Atlanta,
Georgia.
Questo conferma che i Traveller arrivarono negli Stati Uniti attorno alla metà
del 1800 con un senso della loro identità già sviluppato. Si può anche
sottolineare come nessun accademico o avvocato ha mai affermato che i Traveller negli Stati Uniti
non siano un gruppo etnico.
Fallimento del Governo
Ritengo che la negazione dell'esistenza dell'etnia Traveller da parte del
Governo Irlandese sia pessima per i Traveller.
Nel 2004, il Governo Irlandese, durante la stesura del suo report al
Comitato
per l'Eliminazione della Discriminazione Razziale delle Nazioni Unite (CERD), dichiarava che i
Traveller Irlandesi "non costituiscono un gruppo distinto
dalla popolazione maggioritaria nei termini di razza, colore, discendenza o
origine nazionale o etnica". In pratica, ciò ha implicazioni negative per il ruolo
della legge internazionale - ignorare CERD e tribunali ha implicazioni sui
Traveller e l'Irlanda.
In questo senso, la posizione irlandese ci fa diventare uno "Stato
canaglia" - la
negazione dell'identità crea un precedente pericoloso per qualsiasi governo
negazionista dei diritti umani che volesse giustificare il razzismo o il
genocidio.
In relazione all'etnia, le comparazioni con l'Irlanda si possono fare osservando
Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord. In Inghilterra i Traveller sono
riconosciuti come gruppo etnico fin dalla decisione sul caso O'Leary vs Allied
Domecq del 2000. Nell'Irlanda del Nord i Traveller sono riconosciuti come
gruppo etnico in base all'Ordine sulle Relazioni Razziali del 1997
Negli Stati Uniti i Traveller sono sempre descritti come un gruppo etnico. Vi è
una discriminazione contro i Traveller in tutti questi ordinamenti ma vi è
anche protezione contro la discriminazione razziale, ciò che invece manca in
Irlanda a causa della negazione dell'etnia.
Discriminazione
La negazione dell'etnia è una questione complessa, priva di una risposta
semplice. Il Governo insite di continuare ad impegnarsi nel combattere la
discriminazione contro i Traveller Irlandesi e ha definito l'appartenenza alla
comunità Traveller come un'identità separata sulla quale è illegale fare
discriminazioni. Questo non significa dare un livello minore di protezione ai
Traveller in comparazione a quello dato ai membri delle minoranze etniche.
Risulta altresì chiaro come la maggior parte dei discorsi sui Traveller
Irlandesi in Gran Bretagna ed Irlanda è simile ai discorsi sui gruppi la cui
etnia ed esperienza di razzismo è comunemente accettata. Il termine "etnia" è
usato anche da molti Traveller Irlandesi per dare un senso all'identità dei
Traveller irlandesi e alla separazione dalla società stanziale.
Vi è un immenso numero di prove a sostegno del riconoscimento dei Traveller
come gruppo etnico. La continua politica di negazione dell'etnia da parte del
Governo irlandese ignora tutte le prove significative ed ha implicazioni
negative profonde.
La politica del Governo
In breve, la politica del Governo irlandese sul'etnia Traveller è sia perversa
che discriminatoria. Essa ha conseguenze immediatamente negative per i Traveller
irlandesi.
Questi ultimi non possono ottenere la protezione automatica data dagli standard
regionali ed internazionali sulla "razza" come invece concesso ai
Traveller irlandesi residenti in Irlanda del Nord e in Gran Bretagna; questo è
direttamente contrario all'impegno sull'eguaglianza dato dal Good Friday
Agreement, alla Direttiva Europea sulla Razza e alla Convenzione per
l'Eliminazione delle Discriminazioni Razziali.
Dobbiamo aspettarci con inquietudine il giorno in cui uno Stato chiamato a
rispondere per l'accusa di genocidio davanti alla Corte Internazionale di
Giustizia dica "Non c'è niente a cui rispondere; per noi non erano un gruppo etnico".
EU-InfothekI Rom in Europa - uno sguardo dal progetto ROMANISTAN sulla Strategia
Nazionale dei Rom 2012-2020 - 12 febbraio 2013 - dalla redazione di EU-Infothek
ROMANISTAN - Un progetto culturale biennale dell'Unione Europea al quale prenderanno parte tre paesi
(Austria, Germania e Spagna). Il filosofo viennese Ljubomir Bratic' si è assunto
l'impegno di osservatore scientifico all'interno di questo progetto.
Abbiamo parlato con Ljubomir Bratic' della sfida che attende l'Austria riguardo
all'integrazione dei Rom e dell'influenza della Strategia Nazionale d'Inclusione
dei Rom 2012-2020 sul progetto culturale "ROMANISTAN"
Signor Bratic', qual è esattamente il suo compito nell'ambito di questo progetto?
Il compito dell'osservatore scientifico nel progetto ROMANISTAN -
oltre a me ci sono Teodora Tabacki a Berlino e Pedro Aguilera Cortez a
Barcellona - può essere descritto su più livelli.
Innanzitutto osserviamo le attività, ma anche le interazioni che si creano tra
le attività, e presentiamo regolarmente le nostre osservazioni agli attori del
progetto. E' come se fossimo satelliti (abbiamo adottato proprio questo termine
all'interno del progetto): orbitiamo intorno al progetto ed emettiamo segnali,
i quali poi nell'ulteriore corso del progetto dovranno svolgere un ruolo. In
concreto significa che facciamo partecipare noi stessi alla ricerca di idee e di
partecipanti alle conferenze, ai progetti e ai festival e ci rendiamo
disponibili a pensare ad ulteriori iniziative.
Come seconda cosa c'è la produzione della conoscenza: forniamo testi per le
pubblicazioni e li mettiamo a disposizione durante le conferenze tenute nell'ambito del
progetto Il terzo compito è lo sviluppo di questa conoscenza: ci poniamo
domande, come per esempio che cosa significhi occuparsi dei Rom da una
"posizione satellite". In generale, quando si parla dei Rom, qual è lo scopo e
come sono strutturate queste narrazioni? Ci poniamo quesiti, quindi, le cui
risposte ricerchiamo lungo il corso del progetto.
Alcune di queste domande e di queste risposte vengono costantemente pubblicate
sul nostro blog. Infine, la mia attività
consiste anche in uno specifico tipo di "traduzione". Strutturalmente,
all'interno del progetto, mi colloco tra l'IG Kultur Österreich e il
Centro Culturale Rom di Vienna - RKZW
(promotori del progetto). In questa collocazione in
cui vengo a trovarmi ovviamente si traduce tra lingue diverse, ma si tratta
soprattutto di trovare un "linguaggio" comune tra le diverse culture
organizzative che hanno avuto origine da situazioni socio-culturali ed
economiche differenti; e di percorrere un cammino comune, per due anni,
nell'ambito del progetto, cammino durante il quale si renderà necessario
conciliare i diversi mondi lavorativi, di vita e organizzativi. Dal punto di
vista tematico ci concentriamo su quanto è richiesto dal contenuto del progetto:
il rafforzamento della posizione dei Rom come soggetto al di là di una culturalizzazione.
Contemporaneamente il Consiglio dell'Unione Europea ha adottato una risoluzione
riguardante le strategie nazionali per l'integrazione dei Rom entro il 2020. In
che misura è collegato ad essa il progetto ROMANISTAN?
Il progetto è collegato ad essa nella misura in cui si svolge
nello stesso arco di tempo e nella misura in cui riceve la maggior parte del
finanziamenti dall'Unione Europea. Per quanto riguarda il contenuto, c'è solo
un'influenza indiretta della "comunanza di pensiero" dalla Strategia adottata
dal Consiglio dell'Unione Europea alla partecipazione dei Rom. Mentre nel
documento originale si parla di "inclusione", la variante tedesca usa
"integrazione". Un termine al quale sono sono state conferite molte accezioni
negative negli ultimi decenni. E noi ci chiediamo quale influenza abbia tutto
questo sull'auto-organizzazione dei Rom.
Per quanto riguarda la storicizzazione del piano dell'UE, si tratta certamente
di sforzi di lunga data. Si può sicuramente stabilirne l'inizio con il primo
decreto riguardante i Rom in Spagna all'inizio del XVI secolo, che si estende
poi tramite i decreti riguardanti i Rom di Maria Teresa e Giuseppe I durante la
monarchia asburgica fino ai nostri giorni. In questo processo storico un punto
di rottura, nei confronti dei Rom, è rappresentato dalla politica di sterminio
adottata dai nazionalsocialisti: il cosiddetto soggetto "asociale", del quale i
rappresentanti simbolici principali diventano i Rom, non deve più essere portato
sulla retta via, ma proprio annientato.
Un altro livello, che è interessante, è rappresentato dal momento concreto di
efficacia del provvedimento adottato dall'Unione Europea. Qui si evidenzia come
tramite questo processo deciso dall'alto vengano introdotte nuove divisioni tra
le diverse comunità rom: viene effettuata una distinzione, per quanto riguarda i
Rom, tra minoranza "nazionale" e Rom non appartenenti alla minoranza nazionale,
ossia Rom immigrati. Tra questi ultimi viene effettuata un'ulteriore distinzione
tra coloro che sono stanziali ed attendono un lavoro regolare - ossia coloro che
hanno assimilato le norme di formazione, di comportamento e culturali - e coloro
che insistono nel mantenere il loro modo di vita "tradizionale". A questo punto
si giunge ad una considerazione del pensiero di progresso definita da una
prospettiva della maggioranza.
Per le auto-organizzazioni dei Rom questo processo stabilito per legge significa
innanzitutto dare una nuova definizione ai loro campi di attività. In futuro
diventerà sempre più grande la divisione tra coloro che si muovono sul piano
della diversità e coloro che conducono direttamente una lotta per la
sopravvivenza strutturale. Queste linee di sviluppo ci interessano ed hanno
influenzato la nostra situazione di osservatori.
Per quanto riguarda l'integrazione dei Rom, tra nazione e nazione in Europa
esistono grandi differenze. Secondo la sua opinione, qual è la sfida che si
trova davanti nello specifico l'Austria?
In Austria di una partecipazione diretta dei Rom non si parla
nemmeno. Dopo una tradizione centenaria di persecuzioni ed un lungo periodo di
silenzio e di repressione, nel 1993 i Rom sono stati riconosciuti "gruppo
etnico", fatto che ha permesso loro di far parte delle minoranze "ufficiali"
(in riferimento alla popolazione che rappresenta la maggioranza dello stato). Ma
non si tratta di partecipazione politica. Generalmente, nella nostra società,
non vengono favoriti gli orientamenti politici di coloro che vengono tenuti
sotto controllo - e per definizione le minoranze fanno parte di coloro che
vengono tenuti sotto controllo. Il riconoscimento come gruppo etnico significa
l'inclusione dei Rom al livello più basso della società. Questo comporta che
anche alcuni attivisti non particolarmente preparati possano fondare le loro
associazioni, che alcuni intellettuali possano inserirsi nel mondo dei media,
che alcune famiglie vengano promosse a famiglie che hanno la possibilità di
esibirsi durante le celebrazioni pubbliche e che alcuni possano lavorare come
artisti in campo musicale o delle arti sceniche con uno "sfondo Rom".
Resta la domanda: cosa ne è degli altri? Perché accanto ai Rom autoctoni, in
Austria vive un numero maggiore di Rom che sono arrivati in seguito alle
migrazioni in cerca di lavoro o come profughi durante la separazione della
Jugoslavia dal Kosovo, e anche coloro che hanno cercato di di fuggire dalla
povertà trasferendosi in Austria dalla Romania, dalla Bulgaria, dalla Slovacchia
ecc. Per questo gruppo non viene fatto niente - per usare un eufemismo . A
questo gruppo si applicano le stesse misure restrittive che si applicano ad
altri cittadini di paesi terzi e ai cittadini di paesi periferici dell'UE.
Abbiamo sperimentato un esempio a questo riguardo proprio nel progetto
ROMANISTAN: abbiamo potuto inserire il rappresentante dell'associazione "Centro
Culturale Rom di Vienna" (RKZW) solo perché si tratta di un progetto
dell'Unione Europea. Se ROMANISTAN fosse stato finanziato solo dall'Austria, il
nostro collaboratore - come Rom migrante - non avrebbe avuto alcuna possibilità
di un'occupazione regolare. Egli fa parte di coloro che, dal punto di vista
legale, per la sopravvivenza nella società sono costretti a lottare in una zona
grigia.
Non è perché lo vogliano, ma perché non hanno a disposizione altre possibilità.
Questo elemento della storia dei Rom, come parte costitutiva del segmento
sociale "forza lavoro a basso costo", è quello che determinerà in futuro la loro
storia.
Una seria soluzione dei problemi dei Rom può essere decisa e realizzata soltanto
con i Rom stessi e, d'altro canto, non può escludere un determinato gruppo di
Rom, che altrimenti in futuro rischiano si soccombere ad una legislazione
discriminatoria.
Di conseguenza, la sfida specifica per l'Austria è quella di chiedersi come si
possa trovare una soluzione positiva per tutti i Rom che vivono in Austria in un
contesto post-nazista. E questa domanda si colloca poi in un contesto ancora più
grande in seguito alla democratizzazione di uno stato piccolo dipendente da
altri stati. Tutti gli stati hanno alle spalle una storia differente, ma in
tutti una pietra di paragone della democrazia è rappresentata dai Rom e dal modo
di rapportarsi a loro.
Di Fabrizio (del 05/03/2013 @ 09:05:28, in Kumpanija, visitato 1539 volte)
YOUR MIDDLE EASTGli zingari d'Irak - incontro con un popolo in
isolamento - di
Nizar Latif (giornalista freelance da Baghdad)
Il villaggio di Fuwwaar si trova presso la città di Diwaniyah, 180 km a sud
di Baghdad, ma rimane isolata dal mondo esterno - parte è dovuto al suo stile di
vita zigano e parte alla considerevole presenza dei militari, che
controllano il traffico in entrata e in uscita.
Uomini armati osservano con attenzione chi entra, in cerca di prostitute e
altri piaceri proibiti. Gli stranieri che tentano di entrare nel villaggio
vengono uccisi, sulla base di semplici sospetti, da militanti dei gruppi armati.
Fuwwaar assomiglia ad un sito archeologico nel deserto; abbandonato dalla
gente e con poche case - distrutte o in via di distruzione. Rimangono rifiuti e
poche persone, devastate da migliaia di anni di guerra. Una famiglia qui e una
lì. Le pareti delle case sono di fango e il tetto, le poche famiglie che ne
hanno uno, è di argilla. Le case rimanenti sono aperte al sole e alle
intemperie. Il villaggio manca di scuole, centri medici o di acqua potabile.
C'è una lotta in corso. Sono stati messi in discussione e combattuti da
tutti: lo stato, il governo, la costituzione, la legge, religione, costumi,
tradizioni e persino la società. La lotta segna i loro volti e corpi. Sono
invecchiati molto più velocemente rispetto alla loro controparte nella società
maggioritaria.
Sono vivi ma sopravvivono. La loro unica colpa è di essere nati così. Gli
zingari, in Irak in generale e a Diwaniyah in particolare, affrontano il
confinamento sociale e la mancanza di servizi. Il capo degli zingari di Diwaniyah,
che per ragioni di sicurezza si fa chiamare Abu Saleh, ci dice: "Patiamo
numerosi problemi e questioni: soprattutto la non esistenza di qualsiasi
servizio. Non c'è acqua, elettricità o altri servizi, oltre al confinamento
sociale e alla malevola percezione degli zingari nella società. D'estate
soffriamo la calura, in queste povere case senza elettricità. Alcuni bambini per
rinfrescarsi si gettano nelle acque dei liquami. Il nostro unico accesso
all'acqua viene dagli scarichi contaminati per uso non-domestico."
Tutta la regione affronta difficoltà simili, puntualizza Abu Saleh,
specialmente dopo l'assalto armato al villaggio di cinque anni fa.
"Ma non abbiamo altra scelta," aggiunge. "Quanti sono emigrati avevano
possibilità finanziarie ed erano di famiglia benestante, con i mezzi per
guadagnarsi da vivere. Noi non abbiamo una professione, né un lavoro, né un
salario o qualche altra fonte per guadagnarci da vivere."
Dice che la prostituzione e le altre forme di corruzione sono terminate
cinque anni fa, e che le famiglie che gestivano queste attività sono emigrate.
Quelle che ora sono qui, dice, sono estremamente povere e non hanno lavoro né
altri mezzi per vivere.
"Mendicano per mangiare!" dice. "Sono le stesse famiglie che si sono
insediate nel villaggio negli anni '70 e sono rimaste sino a oggi."
Il problema degli zingari riguardo il lavoro va oltre la mancanza di
competenze o i contatti con i reclutatori. Viene loro rifiutato a causa
della stigmatizzazione sociale. Socialmente, sono disprezzati e gli stranieri
rifiutano di socializzare con loro. Sono spalle al muro sul piano sociale,
tribale, religioso e governativo, e non viene loro permesso di condurre i propri
affari. Sono anche esclusi dai servizi della sicurezza sociale, lanciati dal
governo iracheno a protezione dei poveri nel paese.
Abu Aysir siede accanto alla strada che attraversa il villaggio, vende della
verdura appoggiata a terra. Serve per mantenere la sua famiglia di due mogli e
quattro bambini. "Nonostante tutte le sofferenze, l'assenza di servizi, la
disoccupazione, la povertà e tutte le nostre difficili condizioni," dice "la
verità è che non abbiamo praticato il terrorismo o agito contro la sicurezza del
paese."
"Non abbiamoi mai preso partito, anche nelle circostanze più dure, causando
problemi, il ché ci rende molto patriottici," aggiunge, "eppure ci sono stati
dei martiri tra il nostro popolo, che hanno perso la vita in atti di terrorismo
e violenza. Neanche per un giorno abbiamo pensato di ricorrere alla violenza e
al terrorismo, non ci apparttengono. E oggi qui, viviamo nella marginalizzazione
e nel totale disprezzo delle nostre esigenze di base, come la disponibilità di
un minimo di lavoro, di cui vivere. Non è giusto che beviamo acqua sporca dal
torrente, senza acqua potabile, elettricità e altri servizi."
Gli zingari sono stati soggetti di numerosi brutali attacchi da parte di Al
Qaeda e di militanti sciiti, in diverse città dell'Irak. Attacchi che hanno
lasciato migliaia di morti; donne, bambini e uomini, senza alcun intervento da
parte del governo, che è rimasto in silenzio.
Una giovane di ventotto anni, Shakir, dice: "Cinque anni fa, fanatici delle
milizie sciite hanno lanciato centinaia di attacchi contro il nostro villaggio,
e hanno bruciato le nostre case. Con le loro spade hanno macellato brutalmente
le nostre donne, uomini e bambini. Hanno smembrato i loro corpi e tagliato le
teste dalle nuche. Nel contesto sociale delle tribù arabe, tagliare la testa
dalla parte posteriore del collo rappresenta il più basso grado per morire e che
il valore è zero. E' una forma di odio e disumanizzazione essere uccisi
brutalmente. Questi militanti sciiti si distinguevano nell'ucciderci e
torturarci."
Aggiunge: "Il governo e i funzionari iracheni furono ciechi e sordi ai
crimini brutali di cinque anni fa. Secondo me, li hanno persino appoggiati, dato
che la maggioranza dei politici sono fanatici sciiti." Secondo Shakir, dozzine
di famiglie lasciarono il villaggio per stabilirsi in città più sicure, e molte
di quelle rimaste hanno perso, almeno, due o tre componenti, uccisi dalle
milizie estremiste sciite.
La famiglia di
Abu Saleh è tra queste. Ha diviso il resto del suo clan in 22 piccoli gruppi,
mandandoli a mendicare, una dura soluzione, ma l'unica che permettesse di
mantenersi uniti.
"Ho diviso il mio clan in piccoli gruppi, composti da una o due famiglie, e
li mandati in diverse provincie irachene," spiega. "Era l'unico modo per
guadagnare qualcosa senza essere riconosciuti dalle milizie che cercano sempre
di ucciderci, o da altra gente che potesse riconoscerci e rifiutarsi di darci
qualcosa. Uno zingaro non è in grado di ottenere un lavoro, perché la gente
comune si sentirebbe in disgrazia e disonorata, se lo facesse. Inoltre, il
governo iracheno è sempre più dominato da islamisti fanatici, e mai assumerebbe
degli zingari. Ci trattano come animali."
Il gruppo sarà via per un mese e oltre. Al loro ritorno nel villaggio,
dovranno condividere quanto guadagnato con le altre famiglie che mancano di un
reddito. Prima del 2003, Fuwwaar ospitava oltre 1.700 zingari. Oggi sono meno di
200.
"L'isolamento mi fa sognare il momento che sentirò di appartenere al resto
della razza umana e dell'umanità," dice Sama, 22 anni. "La solitudine di questo
posto senza vita, ti fa vivere un dolore e una pena che uccidono lo spirito. La
sera vado verso il deserto qua vicino e penso a cosa ci riserva il futuro. La
scena di bambini miseri e vecchie stanche seduti in circolo di fronte a una
delle case del villaggio, che ricordavano i giorni passati e ora, mentre si
chiedevano dove sarebbero finite, tra le altre cose, è stato una dei motivi che
mi ha spinto a lasciare la mia amara realtà e cercare la solitudine, solo per
scoprire che noi tutti non siamo responsabili della tragedia che stiamo
vivendo."
Perché pagare per errori mai commessi, si chiede. Ma è anche preoccupa anche
di lasciare la comunità, perché neanche fuori ci sarebbero garanzie di successo.
Dov'è la speranza, si chiede.
"Abbiamo il diritto di rimproverare i nostri antenati?" si chiede un'anziana
che da giovane vendeva il proprio corpo. "No, non li biasimo. Siamo destinati ad
essere zingari ed in questo modo dobbiamo vivere."
Molte delle donne del villaggio sono disposte a fare tutto il necessario per
provvedere alle loro famiglie. Dentro il villaggio possono lavorare e sentirsi
rispettate, lontano dagli insulti e dalle umiliazioni del mondo esterno. Dice Um-Suhair,
sarta: "Qui c'è un'infinità di donne che sanno cucire e tessere benissimo, e
sono pronte a lavorare in qualsiasi professione decente, per guadagnarsi da
vivere e aiutare le loro famiglie. Soffriamo la percezione della comunità, in
quanto siamo considerate estranee al quadro dello stato e dell'umanità, inoltre
non siamo Iracheni. Il mio lavoro sono il cucito e la maglieria, ma gli affari
non sono più quelli di una volta. L'immigrazione, la povertà e l'indigenza
prevalente nel paese, trasformano ogni attività artigianale in fallimentare e
non redditizia."
La sofferenza si estende alle strade che portano al villaggio, dice, e degli
attacchi da parte delle tribù che lo circondano, che rendano pericoloso entrare
ed uscire dal villaggio. Molte donne sono state violentate o uccise.
Gli zingari iracheni, conosciuti anche localmente come Kaulia, hanno radici
che affondano in India e Spagna. Secondo il ministero iracheno dei diritti
umani, questi zingari formano una minoranza etnica tra le 50.000 e le 200.000
persone. Sono insediati in villaggi e insediamenti, di solito isolati ai margini
delle città e paesi, sono presenti nelle provincie di Baghdad e AlBasra,
Ninawa e Diyala, inoltre in alcuni villaggi delle pianure del sud, come
Al-Muthanna and Diywaniyah.
Erano tribù nomadi sino agli anni '70, l'Irak riconobbe loro la cittadinanza nei
primi anni '80. Erano parte della comunità irachena, in quanto si occupavano
dell'intrattenimento. Le piccole comunità hanno tradizioni e costumi molto
differenti dal resto del paese.
Ma, nonostante il loro rifiuto da parte della società, l'arte zingara ha
catturato l'interesse degli iracheni e trovato una strada attraverso la TV e le
stazioni radio, queste ultime popolari soprattutto nell'Irak rurale. Prima che
arrivassero alle trasmissioni TV, gli Iracheni avevano l'abitudine di chiedere
agli zingari l'intrattenimento per le feste di matrimonio e le celebrazioni
all'aperto, dove le donne zingare ballavano e cantavano dietro compenso. Le
femmine zingare diventarono delle star nella scena artistica irachena. Le
canzoni zingare sono parte fondamentale di quelle irachene, e i cantanti zingari
sono sinonimo di cantanti folk. Raramente c'è una festa senza che venga
suonata una melodia gitana.
Dice Laith Abdul Latif, ricercatore ed esperto di genealogia: "Il termine Al-Kaulia
si applica alle tribù indiane le cui donne guadagnavano di vivere con
l'adulterio, la danza nr il clero durante i servizi religiosi, altre cercando
piacere. Altre provenivano dal tempio indiano di re Kaul, da cui il nome. Le
origini degli zingari Kauli vengono dall'India."
Nonostante il fatto che parlino arabo e che siano musulmani, come loro stessi
dichiarano, continua Laith Abdul Latif, la carnagione scura e i tratti affilati
li distinguono dal resto della popolazione. Gli zingari si lamentano della
discriminazione riguardo a terminologia, le loro caratteristiche di spicco
indiane, e le loro pratiche della danza, prostituzione, intrattenimento e di
affittare le donne. Dice Widad Hatem, presidente della commissione sui diritti
umani della provincia di Diwaniyah: "Dalle ricognizioni che effettuiamo attorno
al villaggio degli zingari, abbiamo scoperto diversi problemi che sono gli
stessi degli altri residenti nella regione: assenza di elettricità e acqua
potabile, disoccupazione dovuta a discriminazione etnica e disprezzo sociale. In
quanto funzionari, assieme alla commissione sui diritti umani, dobbiamo fornire
soccorso alla regione, assieme ai servizi necessari, quali energia elettrica,
acqua potabile e presidi medici."
Aggiunge che, la chiave è spostare l'interesse dalle autorità preposta e
dalla presidenza del consiglio, verso la direzione del prendersi cura e
interesse di questo gruppo sociale, che ha sofferto sia il disprezzo comunitario
che le difficoltà di vita.
"L'area è stata rifornita di tre serbatoi di acqua potabile, installati in
diverse posizioni del villaggio. Inoltre, la direzione municipale sta
progettando di rimuovere i detriti ed eseguire la manutenzione stradale. I
nostri sforzi congiunti, combinati con quelli delle organizzazioni della società
civile, cercano di introdurre agevolazioni per cucito e tessitura, laboratori,
un progetto di riciclaggio dei rifiuti o qualsiasi altro schema nell'area,
perché la loro interazione con la società esterna non passi attraverso
sofferenze o molestie, dovendo mendicare - una pratica che blocca qualsiasi
strada.
Ma dice che il lavoro nel cercare di migliorare le loro condizioni è reso più
difficile a causa dello stigma sociale. Vede barriere, non solo politiche, ma
anche con i leader civili e politci. E' dice che tutto è diventato più
impegnativo dopo la partenza delle organizzazioni USA che avevano contribuito
sinora. Ora si sta affrontando una battaglia in salita nell'aiutare un gruppo
così marginalizzato, in un paese dalle poche risorse.
"Ciò che mi rattrista," dice, "è quando si parla degli zingari, si parla di
loro come qualcosa di sporco e ripugnante. Siamo tutti esseri umani e dovremmo
essere trattati ugualmente. Questo dice l'Islam."
Giornali, radio, soprattutto tv: alimentano i pregiudizi verso gli
stranieri. Molti gli studi che lo provano. Ma perché accade? Lo abbiamo chiesto
a Jeroen Vaes, coordinatore di una
ricerca sul tema presentata dal dipartimento
di Psicologia dello sviluppo e della socializzazione dell'Università di Padova.
Professor Vaes, i media hanno un ruolo nella costruzione di miti come la
pericolosità degli stranieri?
"Sì, e la nostra ricerca lo conferma. E' una responsabilità che si palesa,
per esempio, nella scelta di sottolineare la nazionalità dell'autore di un fatto
criminoso, nella ricerca di titoli a effetto e nell'uso di un linguaggio
approssimativo e scorretto, ma anche in una rappresentazione stereotipata dei
paesi di provenienza dei migranti, raccontati quasi sempre come sottosviluppati
e pericolosi. Da luoghi del genere che cosa può arrivare se non persone da
temere e che non hanno nulla da perdere?".
Ma perché succede, secondo lei?
"Non ho una risposta "scientifica", tanto più che, durante la ricerca, abbiamo
focalizzato la nostra attenzione sui giornali, in particolare i quotidiani,
senza interpellare i giornalisti. Ma un'ipotesi possiamo farla. In alcuni casi,
tra l'altro facilmente individuabili, il ricorso allo stereotipo e dunque il
rafforzamento del pregiudizio rispondono a un obiettivo politico e ideologico
preciso. C'è un'agenda politica che vuole che i migranti siano rappresentati in
un certo modo perché questo è funzionale a precise strategie. E i giornalisti
che lavorano per testate correlate a questa agenda eseguono gli ordini. Da un
punto di vista deontologico ci può essere molto da dire, per quanto riguarda la
linearità dell'azione molto poco. A meno, certo, che il giornalista in questione
sia in privato dissidio interiore con la sua testata (ma qui apriamo un altro
fronte). In tutti gli altri l'uso degli stereotipi e la costruzione dei
pregiudizi ricorrono quasi sempre in modo del tutto inconsapevole e sono la
conseguenza di una discreta ignoranza di base mescolata a supponenza o alla
fretta imposta da un certo tipo – ormai prevalente – di organizzazione del
lavoro. Non c'è il tempo o la voglia di capire di più , in particolare in un
ambito come questo, poco esposto alle querele e alle richieste di rettifica".
Come si potrebbe intervenire rispetto a questo "segmento"?
"Per quanto riguarda gli aspetti formali potrebbe essere utile una norma sociale
che sanzionasse la scelta di questi linguaggi (un po' come è avvenuto negli anni
70 a proposito delle espressioni sessiste). Spinge in questa direzione
l'associazione Carta di Roma . C'è un osservatorio, non ancora ufficializzato,
che dovrebbe occuparsi di questo. Ci sono gli sportelli dell'Unar a cui ci si
può rivolgere per segnalare abusi e discriminazioni. Questo tipo di azione non
produce dei risultati immediati ma nel tempo potrà essere un efficace agente di
cambiamento. Per quanto riguarda l'ignoranza, l'unico modo è combatterla con la
cultura. Ma in questo caso diventa davvero difficile, dal momento che le vittime
– i giornalisti che non sanno – dovrebbero essere loro stesse artefici di
cultura. Sicuramente un maggior contatto reale con le persone immigrate potrebbe
essere utile. Il contatto diretto infatti riduce i pregiudizi. Vale per tutti,
giornalisti e no".
Ma lei non ha anche la sensazione che a volte il problema sia legato a una
mancanza di parole adeguate? Pensiamo al termine seconde generazioni,
correntemente usato, però decisamente improprio...
"Questo è vero. Spesso mancano le parole per parlare di un'identità che va oltre
l'italianità. Mancano le parole e i concetti per parlare della trasformazione in
corso nella società. La mancanza di parole adatte a dire quel che sta accadendo
riflette l'inadeguatezza dell'idea dominante di immigrazione. Molti continuano a
pensare che l'immigrazione sia qualcosa a cui si possa dire sì o no. Non
riescono a riconoscere la sua dimensione strutturale e globale".
Quali sono gli svarioni più grossi emersi dalla vostra ricerca?
"Ci siamo focalizzati sulla cronaca, nel periodo 2008-2012, abbiamo confrontato
il modo in cui venivano trattati i migranti e gli autoctoni coinvolti in
situazioni analoghe e abbiamo visto che il trattamento differisce notevolmente.
Viene dato un rilievo incredibile alla nazionalità, come avveniva trent'anni fa
con i meridionali. La nazionalità viene sostantivata. E' una cosa che in altre
lingue non avviene, che non si può proprio fare. In molti casi poi le generalità
della persona immigrata vengono date in modo incompleto, con la scusa che il
cognome è difficile. E' vero: certi cognomi sono difficili da pronunciare e
trascrivere, ma questo non può in nessun modo rappresentare una valida ragione
per ometterli in un contesto in cui si starebbe facendo informazione".
Ma perché sradicare i pregiudizi è così difficile?
"Questo non può stupire perché il pregiudizio ha una funzione adattativa
importante. Tutti noi abbiamo bisogno di dare per assodate alcune cose, non
potremmo ogni volta passare attraverso le verifiche empiriche Non ne potremmo
fare a meno. Servono a vivere. Il problema nasce quando il pregiudizio resiste
all'evidenza, non viene scalfito dai fatti. Un classico è il meccanismo della
sottocategorizzazione: di fronte a qualcosa che contraddice il mio pregiudizio
reagisco definendo eccezionale quel qualcosa. Per superare i pregiudizi che
offuscano la nostra visione bisogna procedere alla loro decostruzione. E' un
processo impegnativo, che richiede informazioni, esperienza e soprattutto la
disponibilità reale di chi lo mette in atto".
Qual è il modo più efficace di interagire con chi è abbarbicato a pregiudizi
razzisti?
"La pazienza, la fermezza, la disponibilità al dialogo e... un filo di speranza!
Colpevolizzare e attaccare invece non serve a nulla. Il muro contro muro porta a
un rafforzamento delle convinzioni di base".
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