L'essere straniero per me non è altro che una via diretta al concetto di identità. In altre parole, l'identità non è qualcosa che già possiedi, devi invece passare attraverso le cose per ottenerla. Le cose devono farsi dubbie prima di potersi consolidare in maniera diversa.
Premessa necessaria, di fantomatici "codici degli zingari" ne sento parlare
da quando ero bambino, quell'età in cui ci dicevano "fai il bravo, oppure
gli zingari ti porteranno via" ("fai il bravo, oppure ti vendo agli
zingari" nella versione delle famiglie con più iniziativa economica).
Bufala metropolitana, ma proprio per questo impossibile da
smontare razionalmente. Ci sarà sempre chi ritornerà sula storia,
più o meno in buona fede.
Ai miei amici antirazzisti vorrei precisare: scrivere che è "impossibile
da smontare razionalmente", non significa che chi lo scriva metta la testa
sotto la sabbia. Il rischio è che si crei un teatro dei burattini con un copione
immutabile e, alla lunga, noioso.
La noia si può combattere in due modi (dipende da dove uno si schiera):
io invece mi faccio domande oziose: perché il codice
degli zingari e non, che so, il codice degli idraulici, dei
commercialisti o quello dei dottori quando scrivono le ricette?
Se il tabù è la proprietà da svaligiare, perché non prendersela
inventando un codice dei terroni, o degli albanesi, o dei
veneti? Forse perché il "nemico interno" è mobile: chi
era escluso 20 anni prima, ce lo ritroviamo vicino di casa, o
compagno di lavoro. Gli zingari, no, restano gli esclusi a
priori e quindi vanno sempre bene,
Dopo tutte queste chiacchiere, veniamo all'ultima segnalazione, è del 17
novembre scorso:
BLOGTAORMINAIl Codice degli Zingari a Taormina e Naxos? Rinvenuti strani segni nei citofoni di alcune palazzine a Giardini Naxos. Cc
avviano indagini. Il giallo del "14"
La parte interessante, secondo me, è l'ultima, che inizia con questa
spiegazione:
Il cosiddetto "linguaggio degli zingari" che viene diffuso in Italia è stato
formalmente redatto almeno venti anni fa e si caratterizza con alcuni segni di
cosiddetta "solidarietà criminale", che schedano l'immobile, indicando da chi è
abitato, il momento ed il contesto ambientale più opportuno in cui assaltarlo
per compiere furti.
Generosamente, potrei intenderla come una spiegazione del fatto che il
"linguaggio degli zingari" in realtà è un codice di "solidarietà
criminale", e non è detto vada riferendosi agli zingari, ma non
so se tutti la intendano con la mia generosità. Anche perché subito dopo arriva questo paragrafo:
Ma quei segni apparsi nella riviera jonica sono davvero un segnale degli
zingari? A far pensare di sì potrebbe anche essere la presenza di non pochi
zingari in zona: alcuni si notano ad esempio spesso anche nella vicina stazione
di Villagonia, tra Taormina e Giardini.
Gli inquirenti, al momento, non escludono alcuna ipotesi ma al contempo
sottolineano che non bisogna allarmarsi.
Certo, non bisogna mica allarmarsi, lo dicono anche gli inquirenti. Ma
intanto viene segnalata la presenza di zingari (avete notato che la parola
corretta Rom non viene mai nominata?). Quale la ragione di questo inciso, se non
ribadire una leggenda metropolitana e sollevare allarme?
L'eventualità che si possa generare allarmismo senza che vi sia reale fondamento
è dovuta ad un fatto. [...] forse qualcuno ha lasciato un segno nelle zone dove
si è già recato a sottoscrivere nuovi contratti, indicando ad altri colleghi che
quell’area è stata già interessata dalle attività in oggetto.
Il giallo resta aperto e la prudenza è d'obbligo: i cittadini, insomma, tengano
gli occhi aperti e se dovessero notare qualcosa di anomalo non esitino a
segnalarlo alle Forze dell'Ordine. I Carabinieri stanno già indagando e si
attendono adesso sviluppi.
Quindi, potrebbe essere che siamo in presenza di un neonato "codice dei
rappresentanti porta a porta", che potrebbero essere poco graditi, ma mai
quanti i famigerati zingari. Come concludere la notizia? I "cittadini,
insomma, tengano gli occhi aperti e se dovessero notare qualcosa di anomalo non
esitino a segnalarlo alle Forze dell'Ordine", insomma, niente di diverso da
quel che farebbero in una qualsiasi altra circostanza quotidiana, anche senza
allarmismi o congetture strane.
Difatti, proprio oggi 26 novembre, sempre
BLOGTAORMINA ci aggiorna:
Ancora strani numeri sui citofoni nel comprensorio di Taormina ma non ci
sono riscontri che si tratti del temuto Codice degli zingari. L’ipotesi più
probabile resta quella di operatori “porta a porta” per contratti utenze
e viene da chiedermi cosa potrebbe succedere se per campare un povero rom
fosse costretto a fare il venditore porta-a-porta...
Di Fabrizio (del 29/11/2012 @ 09:08:37, in media, visitato 1438 volte)
Nel riportare la notizia di un furto, o di una rapina, quanto conta la
cittadinanza di chi compie il reato? La risposta giusta sembra essere "dipende",
almeno da quanto abbiamo potuto constatare facendo una rapida ricerca negli
archivi di alcune agenzie.
Abbiamo inserito le parole "furto" e "rapina" nell'archivio dell'agenzia
relativo all'ultimo mese, e i risultati, relativi solo a questo ultimo periodo
-
metà ottobre, inizio novembre - evidenziano una diversità di comportamento: se
il crimine è compiuto da un cittadino straniero, l'indicazione della nazionalità
è sempre presente, molto spesso nel titolo; ma se il reato è ad opera di un
italiano, allora la nazionalità appare raramente nel testo, e mai, o quasi, nel
titolo.
"Tre nomadi arrestate in A14 dopo furto" (20 ottobre), "Furti, arrestate due
polacche" (21 ottobre), "Romeno e bosniaco in manette dopo un colpo fallito" (23
ottobre), "Tre slavi arrestati per furto a Jesi" (29 ottobre), "Furto alcolici
in bar, arrestato romeno" ( 31 ottobre), "Furto in cantiere, arrestati 3 romeni"
(3 novembre), "Bosniaco arrestato per rapina ad anziana" (9 novembre) "Nomade
ucciso, arrestati i tre complici" (9 novembre), "Furto in azienda, arrestati 2
romeni" (13 novembre), "Rubano in villa, arrestati due serbi" (16 novembre),
"Bottino wurstel e pomodori, ventenne romeno condannato a Bolzano" (19
novembre): ecco i titoli con cui l'agenzia Ansa riporta alcune notizie. E gli
esempi di questo tipo sono diversi, anche monitorando altre agenzie: "Ladro col
‘gesso' a Catania, arrestato figlio dell'Imam", (29 ottobre), a "Roma:
Carabinieri, rubava nelle auto in sosta. Arrestata 42enne rom" (20 novembre),
entrambi pubblicati dall'agenzia Asca, oppure "Roma, cc arrestano due nomadi per
furti in automobili" (14 novembre), "Deposito AMA: 44enne romeno arrestato da
cc" (16 novembre), "Roma, ruba nelle auto in sosta: arrestata da cc 42enne
nomade" (20 novembre), pubblicati da Il Velino.
Non sono assenti i casi in cui viene indicata la nazionalità delle persone
coinvolte anche quando è italiana, ma sono più rari.
Emblematico il titolo di una notizia Ansa del 29 ottobre: "Furto e truffa,
badante denunciata da Cc" (29 ottobre): nel titolo non viene citata la
nazionalità, che si evince solo proseguendo la lettura dell'articolo. La signora
è italiana, ma il lettore leggendo solo il titolo potrebbe pensare che si tratti
di una cittadina straniera, essendo la parola "badante" utilizzata
prevalentemente per identificare le assistenti familiari straniere.
L'Asca il 7 novembre scrive "Roma: poliziotto libero da servizio sventa rapina
alle poste", e solo nel testo si indica che il ladro è "un 43enne romano"; il 9
novembre titola "Roma: Quarticciolo passato al setaccio dai Carabinieri. Due
arresti", specificando poi che i fermati sono un cittadino italiano e uno russo,
e il 15 novembre riporta "Roma: ladri in azione negli uffici VIII Municipio. Due
arresti", e nell'articolo scopriamo che sono "entrambi romani".
Il 3 novembre l'agenzia Il Velino scrive "Roma, arrestato 50enne che rubava
I-Phone5 aggredendo dipendente", e nel testo si specifica che è un "50enne
romano", così come nella notizia del 7 novembre "Roma, carabinieri sventano
rapina a sala bingo: 3 arresti".
In due casi, Il Velino riporta la nazionalità italiana anche nei titoli (3
novembre, "Torino, cc denunciano sei italiani per furto aggravato", 20 novembre,
"Roma, tenta rapina e picchia trans: arrestato 39enne romano").
Ma non è riportando la nazionalità, italiana o straniera che sia, che si
andrebbe nella giusta direzione. Il percorso da prendere è stato già indicato
nelle Linee guida elaborate dalla associazione Carta di Roma che sottolinea la
necessità di "usare con maggiore responsabilità e consapevolezza rispetto a
quanto avviene attualmente la nazionalità per nominare il/la protagonista di un
fatto di cronaca". E prosegue affermando che "Informazioni quali l'origine, la
religione, lo status giuridico -immigrato, richiedente asilo, rifugiato,
regolare/irregolare ecc.- non dovrebbero essere utilizzate per qualificare i
protagonisti se non sono rilevanti e pertinenti per la comprensione della
notizia". E la nazionalità, nel caso di un furto, o di una rapina, non sembra
essere un dettaglio rilevante.
Perché negli articoli sul calcioscommesse la parola
evidenziata è
ZINGARI,
quando di zingari non c'è ombra?
Vorrei chiederlo ai vari Osservatori sul razzismo, se il
RAZZISMO sia una parolaccia da appioppare al solito noto di turno (di preferenza
un politico) o non una tara che riguarda l'informazione generale. In Italia si
mastica tanto POLITICA che SPORT (anzi, più SPORT che POLITICA) e sarebbe il
caso di essere meno "aristocratici" nel scegliere di cosa scrivere.
Altra domanda: Chi ci informa?
Non mi riferisco ai Corriere, Giornale, Repubblica, o canali televisivi
nazionali... intendo l'informazione diffusa degli ultimi decenni, con portali
internet, televisioni locali, social network ecc. Cosa significa informazione
diffusa: tante voci diverse o essere circondati dall'omologazione?
Se di omologazione si tratta, l'omologazione è razzista?
Non mi interessano qua gli esempi eclatanti di razzismo, di quelli tutti
sanno scrivere.
Facciamo un esempio terra-terra, quotidiano direi:
Uno dei tanti problemi della nostra bella Italia è la scarsa attenzione
ambientale della grande maggioranza dei cittadini. Un altro problema è
l'atteggiamento "disinvolto" degli Italiani di fronte a leggi, regole, doveri...
(salvo prendersela con gli altri quando le infrangono, perché lo vorremmo fare noi).
Questa primavera è entrato in vigore il
SISTRI, cioè il sistema informatico di tracciabilità dei rifiuti. Al solito
c'è
chi si è adeguato e chi no.
Se parliamo di legge, non è importante se chi non si è adeguato l'ha fatto
per impossibilità finanziarie o per la solita furbizia italiota, perché
la legge prevede anche punizioni per chi non la rispetta. Ma è un dato di fatto
che molti Rom e Sinti da sempre campano con la raccolta del metallo e dei
rifiuti, e che non tutti hanno le possibilità finanziarie di adeguarsi alle
nuove regole.
Il risultato naturale di questo stato di cose è l'aumento dell'attività
repressiva delle forze dell'ordine contro i traffici illegali di rifiuti. Che
altro potrebbero fare?
A questo punto, entra in ballo il ruolo dell'informazione:
Quando viene fermato un camion con contenuto sospetto, non ci si dimentica
mai di aggiungere "rom e sinti" se per caso risultano alla guida o il furgone è
di loro proprietà. Etnicizzazione del reato? Anche, ma la
domanda è: se qualcuno trasporta sostanze inquinanti, qualcun altro gliele avrà
pure fornite. Che differenza c'è tra i due reati? Che il fornitore di veleni
resta sempre anonimo.
Ragionamento di chiusura: si parla di piccoli reati, che
ottengono l'onore della cronaca solo su quelle pagine e quei siti locali di cui
accennavo sopra. Ve la immaginate una simile redazione, che mette il nome (italiano) di qualche stimato concittadino, o (addirittura!)
di un possibile finanziatore locale? Potrà avere un futuro questo mezzo d'informazione?
Finisce così che il reato di uno ZINGARO nasconda l'omertà mediatica su un
sistema che fa campare zingari e no.
E, qua chiudo veramente, se torniamo al discorso precedente su informazione
diffusa ed omologazione": tra le fonti che consultiamo quotidianamente,
esistono media ZINGARI? Sono mai esistiti? Cosa si può fare per cambiare un
panorama così squilibrato?
L'articolo in questione, che tratta di un furto in abitazione, stabilisce un
nuovo "parametro" dal quale il giornalista presuppone l'appartenenza del
ladro alla comunita' rom: "Una signora ha visto la fuga e ha dato l'allarme, ma
ormai i ladri (quello entrato in casa indossava una giacca rossa,
probabilmente si tratta di un nomade) si erano allontanati". La
divagazione del giornalista, oltre a stabilire un nesso che lascia sconcertati,
e' priva del supporto di qualunque dato fattuale e difficilmente di rilievo ai
fini dell'informazione, con l'esito di contribuire ad alimentare un
clima ostile e veicolare stereotipi negativi e penalizzanti per le
comunita' rom.
L'Osservatorio accoglie positivamente il
messaggio di scuse del direttore della Gazzetta di Modena.
Di Fabrizio (del 16/12/2012 @ 09:09:47, in media, visitato 1570 volte)
"La Sangaj Rom" Est Ovest 09-12-2012.
Servizio di Nada Cok e Renato Orso su "Sangaj", un film sloveno che di cinese
non ha nulla tranne il richiamo nel titolo, eppure è pervaso da un forte
elemento esotico radicato nella cultura europea: i rom. � la storia di una
famiglia, che attraverso l'ingegnosità del suo capo, che avrà qualche interesse
di cuore e di affari, riuscirà a creare un villaggio dal nome Sangaj. Girato
interamente in lingua rom, il film diretto da Marko Nabersnik ha vinto il premio
per la miglior sceneggiatura al festival di Montreal e sta riempendo le sale
cinematografiche slovene e dell'ex Iugoslavia. A breve sarà distribuito anche in
Francia e Germania.
Il teatro come strumento di inclusione sociale. E' questo il tema sul quale ha
lavorato quest'anno il festival "Fuori dagli schemi" di Belgrado. Affrontando la
tensione tra il promuovere l'integrazione dei gruppi marginali e il rischio che
la loro 'rappresentazione' possa invece rafforzare lo stigma
Van okvira, fuori dagli schemi. Si chiama così il
festival regionale del teatro
sociale che si è svolto in questi giorni a Belgrado. È un nome che si presta a
un curioso bisticcio linguistico, che è ricorso spesso nei discorsi di contorno
suscitando più di qualche risolino. 'Nell'ambito del festival Van okvira' si
dice infatti 'u okviru festivala Van okvira', che è una specie di contraddizione
in termini, traducibile come 'nella cornice del festival Fuori dalla cornice'.
È un bisticcio rivelatore, perché mette in luce la tensione fondamentale sottesa
al teatro sociale: quella tra la volontà di promuovere l'integrazione dei gruppi
marginali della società e il rischio che la loro 'rappresentazione' possa invece
contribuire a rinsaldare i margini e rafforzare lo stigma. Una questione che le
persone coinvolte nel festival hanno avuto la saggezza e il coraggio di
affrontare apertamente.
Persone con invalidità, non-vedenti e ipovedenti, sordomuti, utenti di servizi
psichiatrici, veterani delle guerre jugoslave, minoranze etniche (tra cui i
rom), individui LGBT, anziani, lavoratrici sessuali, donne vittime di violenza.
Sono queste le categorie di persone con cui gli organizzatori e le
organizzatrici del festival Van okvira di quest'anno hanno provato a elaborare
il tema del teatro come strumento e campo di inclusione sociale.
L'incontro tra arte e marginalità ha preso varie forme. Ovviamente quella
teatrale, con spettacoli che hanno visto la partecipazione di persone
appartenenti ai suddetti gruppi emarginati. Ma anche quella didattica e
informativa, con lezioni e presentazioni tenute da esperti sia locali che
internazionali. E infine quella esplorativa, con un ciclo di incontri
partecipativi sulle forme attuali e possibili dell'arte socialmente impegnata
nella regione post-jugoslava.
'La sensualità delle vite disperate'
Gli spettacoli messi in scena nell'ambito di Van okvira sono soprattutto
produzioni indipendenti, nate dalla collaborazione tra professionisti del teatro
e le associazioni e i movimenti che rappresentano gruppi soggetti ad esclusione
sociale.
Lo spettacolo Cabaret dietro lo specchio (Kabare "Iza ogledala"), ad esempio, ha
come protagoniste delle lavoratrici sessuali transgender di Belgrado, e si
propone di descrivere senza eufemismi le norme sociali, ma anche politiche e
legali, che determinano la loro esistenza e ne influenzano il benessere. SS e
più in alto ancora (SS and above) rappresenta invece le sfide con cui le persone
con invalidità si confrontano ogni giorno, a partire dalla difficoltà di entrare
in una relazione alla pari con le persone cosiddette 'normali'. I due
personaggi, un uomo e una donna, si muovono a fatica sotto lo sguardo clinico di
un osservatore esterno e invisibile, come due cavie da laboratorio. Prendono
gradualmente confidenza con il proprio corpo, e poi con il corpo altrui, ma
l'agognato incontro finale, invece che essere liberatorio, genera ancora più
sofferenza e frustrazione.
Lo spettacolo Maschioni (Muškarčine), vero successo di pubblico, vede otto
ragazzi poco meno che ventenni prendersi gioco delle definizioni di 'maschio
vero' dominanti nella società serba. La trasgressione è rappresentata come un
continuo entrare e uscire da degli scatoloni di cartone, i gender box.
Alla leggerezza e al tono canzonatorio di Maschioni fa da contrappunto la forte
inquietudine che suscita la rappresentazione Spettacolo (che non s'intitola
fighe con le palle girate) [Predstava (koja se ne zove "pičke u kurcu")]. Due
ragazze sedute a un tavolo leggono composte un testo femminista. All'improvviso
una delle due ribalta il tavolo, e la situazione degenera in una spirale di
sfoghi emotivi, oscenità corporee e momenti disturbanti. Ciò che lo sguardo
conformista tende a congedare come 'scenata isterica' qui diventa confronto
ineludibile con la natura problematica della posizione della donna nella società
attuale. E quando alla fine dello spettacolo si spengono le luci, le cose non
sono più come prima.
Il teatro sociale è, per propria natura e vocazione, un teatro 'senza censura',
proprio perché ambisce a rendere visibili e mettere in discussione proprio le
forme di censura e discriminazione cui sono soggetti tutti coloro che si
discostano dalla 'tirannia della normalità'. Tuttavia, portare in scena la
marginalità e la 'stranezza' (ovvero ciò che non aderisce alle convenzioni)
porta con sé un pericolo. Quello che la rappresentazione diventi attrazione (da
parata o da circo), e che all'intento pedagogico e politico si sostituisca la
curiosità morbosa del pubblico. Ed è forse proprio qui che entra in gioco
l'arte, chiamata a mediare tra la volontà di esprimere un messaggio e il rischio
che la visibilità si riduca a voyeurismo.
Marko Pejović, uno degli ideatori di Van okvira, mi invita a considerare anche
un altro aspetto: 'Sono successe cose che non ci aspettavamo. Ad esempio una
lavoratrice sessuale transgender, protagonista del primo spettacolo in scaletta,
era presente tra il pubblico degli spettacoli dei giorni seguenti. Questo
significa che qui si è sentita al sicuro, al riparo dalle discriminazioni'. Come
a dire che l'inclusione avviene anche, e forse soprattutto, fuori dai
riflettori.
Il teatro sociale nel contesto post-jugoslavo
Chiedo a Marko quale sia per lui il senso di fare teatro sociale. In
particolare, lo invito a riflettere proprio sul rischio che la rappresentazione
della marginalità possa avere effetti controproducenti, in un contesto segnato
da forti discriminazioni come quello post-jugoslavo. La sua risposta è lucida e
misurata: 'La società si evolve per gradi. Il primo passo è l'identificazione
del problema, ovvero la consapevolezza dell'esclusione sociale e della
privazione di diritti. Noi ci troviamo ancora in questa fase. In questo senso,
il festival ha come proposito quello di offrire ai gruppi emarginati uno spazio
per esprimersi artisticamente. Nel passato siamo riusciti a dimostrare che anche
una persona paraplegica può fare danza contemporanea. È quello che questo
festival fa anche oggi: rompe le barriere'.
Il progetto Van okvira coinvolge persone ed associazioni provenienti da vari
paesi della regione, in particolare Croazia e Bosnia Erzegovina. Mi interessa
sapere se ci siano energie sufficienti per stabilire una collaborazione efficace
a livello regionale. O se invece la dimensione regionale del festival non sia
soprattutto l'effetto delle politiche dei donatori, che spesso la impongono come
requisito imprescindibile.
Marko precisa subito che la decisione di coinvolgere soggetti provenienti da
altri paesi non è il risultato di una pressione esterna, ma scaturisce invece
dalla volontà di raccogliere esperienze diverse. Ammette poi che nell'ambito del
teatro sociale le reti di collaborazione non sono molto sviluppate. Ma aggiunge:
'Non sono particolarmente interessato alle produzioni teatrali socialmente
impegnate che si sono già 'istituzionalizzate' e che circolano per la regione.
Trovo più interessanti le iniziative minori e indipendenti, le organizzazioni
che raccontano cose nuove e fresche, e che anzi spesso non sanno neanche bene
che cosa raccontano. È a loro che ci rivolgiamo'.
Come avviene il cambiamento?
Prima di congedarci, Marko mi spiega cosa lo ha portato ad occuparsi della
promozione del teatro sociale. La sua passione è nata a seguito di due eventi:
un'operazione agli occhi, che lo ha costretto a un periodo di cecità temporanea
durante il quale si è accorto degli enormi ostacoli che segnano la vita delle
persone non-vedenti. E un incontro con dei veterani delle guerre degli anni '90
(anche il fratello di Marko è un veterano) che hanno espresso il desiderio di
esprimersi attraverso il teatro. Due momenti che per Marko hanno costituito una
specie di illuminazione.
C'è un concetto, sviluppato dalla filosofa sociale Nomy Arpaly, che descrive
bene l'esperienza di Marko: dawning (alba, epifania). Scrive Arpaly (2003):
'L'epifania è forse il modo principale in cui le persone cambiano idea,
specialmente riguardo ai temi che ritengono importanti. [...] Sono poche le
persone che abbandonano pregiudizi razzisti, per esempio, a seguito di un
processo di deliberazione. È più frequente che l'irrazionalità dei loro
pregiudizi appaia loro 'come un'alba' dopo aver trascorso abbastanza tempo con
persone della razza in questione, ed essersi accorti, passo a passo, di
assomigliarsi molto'.
Il senso del teatro sociale è forse soprattutto questo: creare occasioni di
incontro tra persone che 'normalmente' conducono esistenze separate e spesso
segregate. E favorire così il manifestarsi di qualche piccola alba.
Alla fine degli anni '80 Danilo Dolci, educatore, poeta e attivista della
nonviolenza italiana, lanciò un'iniziativa per la costituzione di un manifesto
sulla comunicazione. Spaventato dal nuovo modo di comunicare dei media e del
potere da essi generato, Dolci propose di ridefinire il significato di
comunicazione, intesa come possibilità aperta a tutti di parlare e strumento di
crescita e creatività di una persona. Il manifesto sulla comunicazione non
violenta di Dolci ci guiderà nell'approfondimento di Terranave di questa
settimana, dedicato al comunicare e alle alternative alla comunicazione di
massa. In particolare parleremo di due scuole di pensiero: la comunicazione non
violenta e la comunicazione ecologica. In chiusura Lianka Trozzi nella sua
rubrica "A testa in giù" ci darà alcuni suggerimenti per realizzare regali di
natale sostenibili.
"Oggi più che mai saper distinguere trasmettere da comunicare è un'operazione
non solo mentalmente essenziale alla crescita democratica del mondo: la
creatività di ognuno, che si esplicita nel comunicare, se comunitariamente
valorizzata, acquista un enorme potere ora per grandissima parte sprecato".
Comunicare, legge della vita. Bozza di manifesto. Danilo Dolci
Quando nel 1988 Danilo Dolci lanciava l'idea della costituzione di un manifesto
sulla comunicazione, al suo appello risposero moltissimi personaggi della
cultura internazione, da Chomski a Freire, da Levi Montalcini a Don Ciotti. La
necessità di contrastare una comunicazione a senso unico, incapace di suscitare
partecipazione e creatività, era palese a tutti. Era più che mai indispensabile
fare qualcosa, prima che ci si abituasse del tutto a subire passivamente le
proposte del sistema. Insomma, per riprendere in mano le nostre vite bisognava
riniziare a comunicare, e non semplicemente a fare da ricettori di informazioni
veicolate dall'alto. "Senza comunicare non si può pianificare democraticamente,
organicamente, affrontando con
responsabilità, in modo salubre, i problemi" si legge nel Manifesto "non si
devono dare responsabilità civili, soprattutto nazionali e internazionali, a
persone non esperte nel vero comunicare".
Sono molti gli studiosi che oggi lavorano sulla comunicazione e
sull'interazione. Nei suoi viaggi per l'Italia Terranave è atterrata a Upacchi,
in provincia di Arezzo. Qui ha conosciuto Eva Lotz, facilitatrice in
comunicazione ecologica. Inventata dal terapeuta Jerome Liss, il fondatore della
scuola italiana di biosistemica scomparso solo poche settimane fa, questa
metodologia di basa sul presupposto che per raggiungere degli scopi collettivi è
necessario sapere gestire sia l'ascolto che il modo di mandare messaggi.
La comunicazione ecologia ha molti punti inc omune con la comunicazione non
violenta dello psicologo statunitense Marshall Rosenberg. Con questa definizione
Rosenberg intende il modo naturale di comunicare degli esseri umani. Secondo
questa teoria tutti gli esseri umani vengono al mondo comunicando in un modo
legato alla vita, ai propri bisogni, ai propri sentimenti, ma con il trascorrere
degli anni perdono questa capacità, confondendo sempre più l'osservare con
l'interpretare, il comunicare dal trasmettere.
Clicca qui per ascoltare la puntata di questa settimana di
"A testa in giù",
curata da Lianka Trozzi.
Leggevo a Capodanno un articolo su MicroMega di
Barbara Befani: Quel che non si dice della Montalcini, in cui la tesi
grossomodo era che sulla stampa e sugli onnipresenti social network non ci si
dimentica mai di indicare se l'autore di una malefatta sia (a torto o
ragione) di etnia-religione ebraica, ma se si tratta della morte di un premio
Nobel da tutti osannato e rispettato (se escludiamo Grillo, Storace e gente di
solito poco politically correct), nessuno ricorda che questa premio Nobel,
scienziata, senatrice a vita e altro ancora era non solo di origine ebraica (per
quanto atea), ma in più riprese aveva pagato il suo essere ebrea.
Noto dai commenti (i commenti sono sempre indispensabili, anche quando si
ha niente da dire) che da una parte c'è la rimozione del fatto che IN
QUESTO CASO la sua origine sia scomparsa, dall'altra (i commentatori non
sono tenuti a rispondere nel merito, sono un po' come il sale nella minestra,
basta non abbondare) non sapendo che dire, si ritorni al vecchio argomento
(ho detto vecchio, non che sia giusto o meno) dei crimini israeliani.
Non prendete la mia chiusa come irriverenza verso un morto, ma mi
torna in mente un fatto di cronaca di un paio di mesi fa:
Audace colpo dei soliti ignoti - cioè quando c'è un furto spesso e sovente
appare la nota "si sospetta che il furto sia stato commesso da un gruppo di
zingari..." In quel caso dove forse i ladri sarebbero potuti risultare
simpatici, quella nota STRANAMENTE mancava.
Di Fabrizio (del 07/01/2013 @ 09:08:55, in media, visitato 1625 volte)
APERTURA - ANNA CURCIO
Il libro collettivo "La lingua del colore tra Italia e Stati Uniti" Un'analisi
comparata su come cinema, fumetti e letteratura veicolano il razzismo in Italia
e negli Usa
Portare la razza al centro del dibattito italiano su razzismo e antirazzismo.
Questo il meritorio obiettivo di Parlare di razza. La lingua del colore tra
Italia e Stati Uniti a cura di Tatiana Petrovich Njegosh e Anna Scacchi (ombre
corte, pp. 318, euro 25), volume che si inserisce in un filone di studi,
ancora relativamente giovane in Italia, rivolto soprattutto a sfatare il tabù
della razza.
Dismessa dal dibattito politico e dal linguaggio di tutti i giorni da quello
che è stato definito "il paradigma antirazzista dell'Unesco" che negli anni
Cinquanta del Novecento reinterpretava il razzismo alla luce della violenza
nazifascista e riconduceva i conflitti razziali a nozioni scientificamente false
proliferate nell'ignoranza, la razza come categoria scientifica e analitica per
leggere il razzismo ha solo di recente trovato nuova legittimità in Italia e
nell'Europa continentale. In particolare grazie all'iniziativa di editori
sensibili - tra questi senz'altro ombre corte - e il contributo di studiosi e
studiose che, riprendendo gli insegnamenti di Frantz Fanon e delle correnti più
radicali del movimento per i diritti civili americano, hanno assunto nello
studio del razzismo una dimensione di attivismo volta al cambiamento.
In questo senso la razza, finalmente dismessa la sua supposta connotazione
biologico-naturalista è stata assunta come costruzione sociale capace di
ridefinirsi al mutare delle congiunture storico-politiche. È una categoria
sociale "simbolica" ricorda Petrovich Njegosh, che mostra al contempo
indiscutibili ricadute materiali pesando sulla vita dei soggetti in termini di
opportunità, condizioni di vita e aspettative. Stabilisce cioè privilegi e forme
di subordinazione che investono l'intero corpo sociale. Sebbene, dunque,
socialmente costruita, la razza si presenta come concreto dato di realtà che
occorre "nominare" per svelarne il potenziale di violenza. Così facendo diventa
possibile rovesciare l'idea ancora oggi dominate del razzismo come vizio
ideologico o patologia sociale legata all'ignoranza, da "curare" attraverso
l'istruzione e l'educazione.
Il volume, all'interno di un approccio teorico eterogeneo complessivamente
riconducibile all'americanistica, riflette sulle significazioni del termine
razza tra Italia e Stati Uniti. Più precisamente, all'interno di una dimensione
comparata assume la traduzione tra sistemi linguistici e culturali differenti
come punto d'osservazione privilegiato per cogliere i punti di contatto tra un
paese storicamente attraversato dal razzismo come gli Stati Uniti e l'Italia che
dietro la vulgata di un "colonialismo minore" e degli "italiani brava gente" ha
per lungo tempo rimosso dalla narrazione nazionale il passato colonial-razzista.
I saggi - che si occupino di letteratura, fumetti, cinema, poesia, linguaggio
romanzesco o più complessivamente della cultura di massa - si concentrano sulla
funzione svolta dal linguaggio nella strutturazione delle relazioni sociali e
dell'identità razziale in Italia. In questo senso, mostrano la razza in
traduzione come strumento di mediazione culturale, come dispositivo di
addomesticamento che riporta personaggi, linguaggi e modi di fare all'interno di
stereotipi riconoscibili nel nostro paese (è il caso di alcune traduzioni di
poesia afroamericana, del doppiaggio cinematografico o della reazione italiana
al fenomeno Obama che ha dato origine al volume). Nello stesso tempo vengono
evidenziati esempi storici che testimoniano una continuità nella costruzione del
racial thinking tra Italia e Stati Uniti. Il Dictionary of Race or People che
per tutta la prima metà del Novecento ha orientato le scelte statunitensi in
materia di immigrazione e naturalizzazione, sulla base di una precisa
differenziazione razziale che insisteva sull'inferiorità degli europei
meridionali e orientali, trovava fondamento "scientifico" nella teoria delle
"due Italie" di Alfredo Niceforo e negli studi della scuola italiana di
antropologia positivista da Sergi a Lombroso.
L'intera storia italiana e la costruzione della sua identità nazionale, sin
dagli anni immediatamente successivi all'unificazione, è dunque opportunamente
reinterpretata in relazione alla categoria di razza, intesa precisamente come
supremazia "inalienabile" della bianchezza assunta quale principio dell'ordine
sociale. È "Il capitalismo razziale moderno", per riprendere l'efficace
definizione di Cedric Robinson che, dentro la più complessiva costituzione
coloniale della modernità capitalistica e della costruzione degli stati
nazionali, funziona, anche in Italia, come dispositivo strutturante della
narrazione nazionale.
Peccato che il volume trascuri quasi del tutto questo aspetto. La costruzione
dell'italianità e i connessi processi di "sbiancamento" non vengono infatti qui
legati al piano più complessivo dei rapporti sociali e produttivi, cosicchè la
razza è assunta esclusivamente "come rappresentazione culturale, linguistica e
identitaria". Viene cioè perso di vista il nesso inscindibile tra classe e razza
che connette il razzismo e i processi di razzializzazione con i rapporti di
produzione e le loro trasformazioni storiche. E non si tratta, in questo senso,
di assumere un punto di vista economicista, né di rimandare a un approccio
deterministico; al contrario tale sguardo permette di ripensare i rapporti di
produzione a partire dal processo di razzializzazione insistendo sulla loro
inevitabile "articolazione" o "surdeterminazione" nel contesto sociale
capitalistico. Si tratta, seguendo Marx, di analizzare il capitale come rapporto
sociale e fare della lotta al razzismo un progetto complessivo contro lo
sfruttamento e dunque di liberazione.
È la costruzione di un comune terreno di lotta fra coloro che sono "razzialmente
neri" e la più ampia composizione del lavoro vivo contemporaneo. E fare,
riprendendo l'insegnamento delle lotte anticoloniali e di quelle antirazziste in
America, degli studi su razza e razzismo, non un progetto di educazione
universale, ma un terreno di militanza politica per la trasformazione radicale.
Di Fabrizio (del 16/01/2013 @ 09:05:56, in media, visitato 1180 volte)
di Daniele Mezzana
Trasversale, inconsapevole, supponente: il razzismo verso i rom miete
vittime, ma sempre si professa innocente. Un libro, pubblicato solo on line, ci
aiuta a comprendere questo fenomeno e il suo intreccio "con le migliori
intenzioni".
Questo libro parla del nostro razzismo verso i rom. Quello che esplode dalla
rabbia repressa della gente comune, quello che trapela dalla voglia di scoop dei
giornalisti, quello che le buone intenzioni di tanti politici non riescono a
eliminare, perché è troppo radicato, troppo profondo per essere affrontato a
chiacchiere. Fabrizio Casavola, questa volta, non si sofferma sulle vittime, ma
su di noi, o meglio sul "razzismo fatto in casa", in un libro
pubblicato solo online
e disponibile gratuitamente. Un testo breve (41 pagine), scritto con intelletto
ed emozione, che produrrà sicuramente un forte impatto sui lettori.
Casavola è uno che parla con cognizione di causa, perché da oltre quindici anni
vive e opera insieme ai rom a Milano, in collegamento con associazioni e reti di
rom in tutta Europa. Cura un portale, Mahalla, che è
una miniera di informazioni e punti di vista critici sulla situazione delle
comunità rom e sinti europee. Insomma, è uno che queste cose le vive e le sa
capire. Ha già scritto
altri volumi, ma in questo approfondisce in particolare la genesi del
razzismo e la costruzione negativa dell'altro, anche a partire da fatti
apparentemente minimi; ad esempio, le parole usate nel discorso comune
("abusivi", "tollerati", ecc.): le parole qui pesano, misurano il grado di
dignità attribuita alle persone che indicano, influenzano negativamente l'azione
di una minoranza di esaltati e di una maggioranza che il più delle volte
preferisce non sapere, non vedere, o comunque non risolvere i problemi.
L'autore svolge questo suo approfondimento sulla base della propria personale
esperienza e di un'analisi attenta e appassionata dei resoconti e degli
strafalcioni dei media e degli intellettuali, in occasione di una serie di
eventi-chiave che hanno coinvolto specificamente la comunità rom e gli abitanti
di alcuni quartieri di città italiane come Torino, Milano, Vicenza, Roma,
Pescara. Come rileva Casavola, l'ignoranza e la sostanziale incapacità, o non
volontà, di capire la realtà dei rom sono un fenomeno trasversale rispetto alle
varie ideologie e ai diversi approcci politici. Questa non è una sorpresa per i
pochi che sul campo ci stanno quotidianamente, ma che si dica nero su bianco è
importante e istruttivo: quel che conta sono le persone, gli attori e la loro
volontà di fare.
L'autore mette in risalto la gigantesca dis-informazione rispetto alla
condizione dei rom, e i meccanismi profondi, direi psicoanalitici, su larga
scala, alla base di una discriminazione che si fa fatica a concepire,
soprattutto dopo le sofferenze e le trasformazioni che il nostro continente ha
vissuto nell'ultimo secolo, e che evidentemente non hanno insegnato abbastanza.
Cocci si legge tutto d'un fiato, anche se non è un testo facile.
Parlando in termini cinematografici, è un "corto" secco, duro, ellittico e a
tratti poco digeribile. Personalmente non sono riuscito a recepire, o a
cogliere, fino in fondo tutte le analisi, le proposte (o le invettive) di
Casavola, e forse questo capiterà anche ad altri lettori. Ma leggere questo
libro vale decisamente la pena, perché in poche, preziose, pagine si presentano
informazioni e giudizi da cui difficilmente si può prescindere per conoscere la
situazione dei rom nel nostro Paese, e per mettere sul tavolo qualche proposta
seria d'intervento. Come quelle di "tavoli-consulta", proposti dall'autore, che
vedano riunite, nelle varie città, tutte le parti in causa e tutti gli attori
locali interessati, per parlare (finalmente) e discutere di soluzioni concrete.
Gocce, forse, nell'oceano del pregiudizio, ma comunque passi avanti per produrre
una trasformazione silenziosa, magari lenta, ma sperabilmente efficace.
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