Osservatorio Balcani e Caucaso Nicola Pedrazzi | Tirana 7 maggio 2014 | foto di Nicola Pedrazzi
Sono circa otto milioni i rom europei, la maggior parte dei quali è
concentrata nell'Europa dell'est e nei Balcani occidentali. In Albania, una
delle comunità più numerose è stanziata a Fushë-Kruja, alle porte della
capitale. Un reportage
Prima di arrivare in Albania non mi ero mai interrogato sulla cultura rom, né
sul problema che essa pone al "buon governo". Mi era sempre bastato quanto
descritto in
Khorakhanè , struggente pezzo che Fabrizio De Andrè ha dedicato ai
rom del Kosovo giunti in Lombardia agli inizi degli anni Novanta. In buona
sostanza, mi ero sempre accontentato della poesia. Le parole, supreme, di quella
canzone, lasciano in chi la ascolta un vago senso di mistero, l'indefinibile
sensazione che quei nomadi in grado di "leggere il libro del mondo con nessuna
scrittura" custodiscano nella loro scelta di vita non proclamata un segreto
inesprimibile.
In effetti, la capacità dei rom di frequentare modernità e benessere senza
esserne conquistati genera stupore negli abitanti di tutte le città europee a
cui sono approdati: da un punto di vista filosofico, lo stile di vita di queste
genti incarna meglio di qualsiasi altro sistema culturale la domanda ancestrale,
il dubbio che in tutto il mondo le periferie dell'umanità pongono alle certezze
del mondo civilizzato, alle regole del suo sviluppo.
Purtroppo, nella ben più prosaica realtà di tutti i giorni, una volta che queste
persone varcano le soglie della civitas, si trasformano quasi sempre in piaga
sociale, in problema politico, in emergenza da risolvere: ad accoglierli, nella
migliore delle ipotesi, è un vago relativismo terzomondista ad uso e consumo
delle classi colte. Abitando a Tirana, il quotidiano mi ha fornito per la prima
volta un'alternativa alla poesia di De Andrè: per cercare di comprendere il
problema all'origine, affrontando senza sofismi il dubbio che i rom d'Albania
pongono oggi alle autorità e ai cittadini, ho pensato che potevo muovermi io: da
casa mia a casa loro.
I rom d'Albania
Di lontana origine indiana, provenienti dalla Persia e dall'Asia, popolazioni
rom approdarono nei territori dell'odierna Albania a partire dal XV secolo,
subito prima dell'invasione ottomana. Le comunità più numerose sono oggi
stanziate nel centro e nel sud-est del paese, all'interno o nell'hinterland
delle grandi città: Tirana innanzitutto (solo nei quattro distretti della
capitale vivono più di 5000 rom), ma anche Fier, Argirocastro, Korça e Berat.
Le tribù principali sono quattro, e si distinguono per l'attività
socio-economica che storicamente le caratterizza: i Meckars erano principalmente
contadini e pastori, i Kurtofs artigiani e venditori, i Kabuzis artisti e
musici, i Cegars commercianti nomadi. Lo standard di vita di tutte le minoranze
rom d'Albania ha risentito pesantemente della transizione post-comunista: il
collasso delle industrie statali in cui erano in larga parte impiegati,
combinato al disordine politico-sociale degli anni Novanta, ha contribuito alla
progressiva discriminazione dei rom, che proprio durante il regime avevano
invece conosciuto una sorta di assimilazione - dovuta principalmente
all'occupazione ma anche alla soppressione di tutte le differenze tradizionali e
religiose.
Non esiste una fotografia chiara dell'attuale situazione dei rom d'Albania. La
cinghia di trasmissione tra le raccomandazioni europee sulla tutela delle
minoranze - determinanti per la concessione dello status di paese candidato, al
momento ancora in forse - e le politiche nazionali è rappresentata da una fitta
rete di ONG, enti e organizzazioni internazionali; operatori che a vario titolo
e con diverse risorse implementano progetti su specifiche comunità. Diverse
organizzazioni producono diversi rapporti, e non è detto che le cifre
coincidano. Il documento più onnicomprensivo al momento disponibile sui Rom
d'Albania è stato redatto nel 2012 dal Segretariato della "Fondazione Decade of
Roma Inclusion".
Quest'ultima è un esperimento di cooperazione allo sviluppo
basato sull'impegno a lungo termine di 12 stati europei (tra cui tutti i paesi
balcanici) che per ridurre il gap esistente tra le popolazioni rom ed il resto
dei cittadini hanno accettato di collaborare sia con le organizzazioni
internazionali che con i rappresentanti della società civile rom.
Nel
Civil Society Monitoring Report (CSMR) 2012 dedicato all'Albania, sono
contenuti i risultati di questionari sottoposti direttamente ai rom residenti,
dati interessanti perché alternativi a quelli governativi, i quali non sempre
fotografano il reale livello di integrazione di queste persone. Una prova
evidente delle difficoltà del governo albanese in questo campo è rappresentata
dal censimento che l'Istituto Nazionale di Statistica (INSTAT) ha realizzato nel
2011, secondo il quale risiederebbero in Albania solamente 8.500 persone di
etnia rom, pari allo 0,3% della popolazione: una cifra irrisoria, lontanissima
da quelle indicate da altre fonti internazionali, alcune delle quali arrivano a
stimare 120.000-140.000 unità.
Buone leggi, cattiva applicazione
Come spesso accade in Albania, le carenze del sistema non sono strettamente
giuridiche. Lo stato albanese è firmatario dei più importanti trattati
internazionali che regolano il rispetto delle minoranze - nel 1991 ha ratificato
la Convenzione ONU sui diritti civili e politici, nel 1996 la Convenzione del
Consiglio d'Europa per la protezione dei diritti umani e delle libertà
fondamentali - e sebbene i rom non vengano pubblicamente riconosciuti come
minoranza a sé stante, la Costituzione del 1998 accorda alle minoranze
etno-linguistiche presenti nel paese tutti i diritti di base.
Conformemente ai dettami costituzionali, nel 2010 il parlamento ha approvato una
legge contro la discriminazione, per altro in linea con le quattro direttive
europee in materia, dando poi vita a un gruppo di lavoro interministeriale sui
rom aperto alle ONG operanti sul territorio. A questi impegni legali
corrispondono però scarse politiche effettive e, quel che è più grave, i membri
delle varie comunità non conoscono né godono delle misure che il governo ha
attivato per loro.
La legge del 2010 prevede ad esempio la possibilità di denunciare i casi di
discriminazione alle corti locali: ad oggi nessuna segnalazione è stata
formalmente depositata, sebbene gravi episodi d'emarginazione abbiano avuto
luogo - nel febbraio 2011, ma è solo il caso più eclatante, 45 famiglie
accampate nei pressi della stazione dei treni di Tirana vennero rimosse con la
forza da comuni cittadini, nella totale noncuranza del governo e delle forze
dell'ordine.
Del resto anche sul piano europeo, la distanza tra normativa e realtà appare
drammatica: secondo quanto riportato nel CSMR, gli strumenti finanziari messi a
disposizione dall'Ue per migliorare l'inclusione sociale dei paesi in fase di
pre-accesso sono gestiti senza il coinvolgimento dei rappresentanti delle
minoranze: è opinione diffusa ad esempio tra i rom d'Albania che questi aiuti
non riguardino le loro condizioni di vita, e che gli unici beneficiari siano le
istituzioni: il fallimento del censimento 2011, finanziato e pubblicizzato dalla
stessa Unione europea, ha certamente rafforzato questa percezione.
Ad oggi, secondo le stesse fonti, il livello di povertà dei rom d'Albania è due
volte superiore a quello degli albanesi etnici, il tasso di disoccupazione tre
volte più alto della media nazionale ed il reddito del 37% delle famiglie rom è
inferiore ai 100 euro al mese. Circa l'87% della popolazione rom d'Albania si
dichiara insoddisfatta dei propri diritti ed il 59% non ha abbastanza soldi per
mangiare (solo il 4% degli albanesi etnici dichiara lo stesso).
I Rom di Fushë-Kruja e ADRA Albania
Fushë-Kruja è una piccola cittadina di circa 10.000 abitanti, trenta chilometri
a nord di Tirana. Teatro di una delle storiche battaglie di Skanderbeg, questa
piccola località di provincia è riemersa dall'anonimato grazie alla visita del
presidente americano George W. Bush, era il 10 giugno 2007. In questo comune è
stanziata una comunità rom di circa 1500 persone: una delle più grandi e
problematiche del paese.
Popolazioni rom abitano quelle zone dai primi anni Sessanta: stabilitesi
inizialmente nel villaggio di Halil, nel 1979 si spostano e si concentrano a
Fushë-Kruja. Non è scorretto affermare che questi rom vivono in un ghetto: le
loro abitazioni non sono certo lontane da quelle del resto della popolazione, ma
costituiscono qualcosa di più di un quartiere, fanno "città a sé". A
dimostrazione di ciò, vi è il fatto che non avrei potuto passeggiare nel
quartiere senza Erinda Toska, una guida (e un'amica) che mi ha aperto le porte e
i cuori dei locali, affatto abituati a ricevere visite dall'esterno.
Erinda ha lavorato per tre anni a stretto contatto con la comunità rom di
Fushë-Kruja: come project coordinator di
ADRA Albania, ONG attiva in altri 26
paesi europei, ha scritto e implementato diversi progetti educativi mirati alla
formazione, l'alfabetizzazione e l'emancipazione delle giovani donne e dei loro
figli. Le attività e i risultati di questi percorsi vengono pubblicati in tempo
reale su questo blog .
I problemi dei rom di Fushë-Kruja non sono diversi da quelli di altre comunità
albanesi - dalla mancanza di educazione igenico-sanitaria all'assenza di
istruzione, dal fenomeno delle spose bambine alla disoccupazione endemica -
tuttavia la dimensione, la chiusura e la posizione di questa comunità, alle
porte della capitale ma estremamente conservatrice, hanno contribuito alla sua
reputazione, che di bocca in bocca è giunta alle mie orecchie. "È una delle
realtà più complicate", conferma Erinda che, forse un po' stanca dei miei
interrogativi via WhatsApp, alla fine ha capitolato: "Se ti interessa così
tanto, un giorno ti ci porto".
Nel campo: il cuore rallenta, la testa cammina
È sabato 12 aprile, e il sole brilla sul cemento della capitale. Io, Eri e
Francesco fatichiamo a trovare un furgon - camioncini uso taxi su cui il governo
ha recentemente inasprito i controlli di sicurezza - ma una volta partiti non
c'è troppo traffico, e dopo mezz'ora di sorpassi siamo già a Fushë-Kruja. Ai
confini del quartiere rom ci aspetta la nostra guida. Fatmira Dajlani è una
ragazza rom che ha potuto studiare: collega ed amica di Eri, collabora con Adra
e con altre organizzazioni internazionali, fungendo da tramite tra i membri
della sua comunità e la realtà esterna.
Ci scambio due parole e tre sorrisi, questi ultimi dovuti principalmente al mio
albanese: quanto basta per farmi cogliere l'importanza di figure come Fatmira,
ambasciatrice della propria gente nel mondo e del mondo presso la propria gente.
Eri esce dal bar con due sacchetti di caramelle, ci avviamo su una sterrata in
direzione campagna. Il primo edificio che incontriamo è un mekanik (meccanico).
Intorno, solo uomini e alcuni bambini, che ovviamente corrono in braccio a Eri.
Mi intenerisco, ma vengo distratto dal lavorio degli uomini: gli strani mezzi
che stanno assemblando sono gli stessi che ho visto tante volte scorrazzare per
le strade di Tirana: tricicli a motore, composti da un motorino potenziato cui
al posto della ruota anteriore viene attaccato un carretto. Scopro finalmente il
nome di questo mezzo geniale: si chiama karrocë.
È con i karrocat, dunque, che i ragazzi rom svolgono buona parte delle loro
attività cittadine: dal trasporto frutta alla raccolta della plastica,
incentivata dal governo che paga a peso, ma che, di fatto, spinge i rom a
rovistare nella spazzatura, nel tentativo di recuperare ciò che poteva essere
differenziato prima. Mi fisso sull'oliaggio di una catena, operazione che ho
sempre delegato per laute somme, ma le guide mi chiamano, e interrompono i miei
pensieri. Prima di proseguire mi volto, la giornata è splendida, le montagne
dominano lo sfondo. Scatto una foto e decido in quel momento che non ne farò
altre.
Gli onori di casa li fanno i bambini. Frotte di bambini, spuntati da non si sa
da dove, ci prendono per mano e ci accompagnano verso le loro case. La scena si
ripete più volte: sbucano da in fondo alla strada, riconoscono Eri da lontano e
le corrono incontro con le braccia tese. Eri ci ha lavorato per anni, li conosce
uno ad uno, li chiama per nome, chiede loro se vanno a scuola; è da un po' che
non tornava al campo, e li trova cresciuti. Ci addentriamo nel quartiere. Là
dove mi aspettavo il fango, c'è un selciato perfettamente lastricato - "La
strada è merito di UNDP", sorride Erinda, leggendomi nel pensiero.
A destra e a sinistra si aprono cortili antistanti ad abitazioni colorate: un
cavallo rumina in un angolo, una mucca scuoiata è appesa all'ombra di un albero.
Una vecchia dalle rughe leggendarie ci viene incontro con aria solenne. Le mani
completamente viola, due occhi verdi ipnotici, gesticola con Eri per cinque
minuti e poi si congeda. "Mi ha chiesto le polverine per colorare le uova, ha il
rosa ma le manca il rosso". Trasecolo: ma i rom d'Albania non sono musulmani?
"Non tutti, loro sono ortodossi. In ogni caso per i rom la religione non ha
troppa importanza, mischiano volentieri le tradizioni. L'unico rito che conta
per tutti è la festa di Ederlezi...".
Nonostante non abbia mai sentito parlare il Romanì , la parola non mi suona
nuova, e solo con l'aiuto del telefono capisco il perché: "Ederlezi" è il titolo
di una celebre canzone che fino ad allora
avevo creduto di Goran Bregović,
famosissimo interprete di musica balcanica che in questo caso ha ripreso un
motivo tradizionale rom. Ignara delle mie elucubrazioni musicali, Eri prosegue
la sua spiegazione: " Ederlezi è una festa di origine serbo-ortodossa che è
stata adottata dai rom dei Balcani. Si festeggia il 6 maggio, giorno della
rinascita, della primavera. La festa segna l'inizio del bel tempo: a partire da
quel momento gli uomini della comunità partono per i villaggi dell'Albania,
della Grecia e del Kosovo, per vendere vestiti e scarpe di seconda mano, o per
raccogliere e rivendere metalli. Spesso si muovono con la famiglia, ma poi
ritornano...". Il racconto mi affascina e chiedo i dettagli: "Immaginati una
festa tradizionale: dopo la processione alla Chiesa di Laç le famiglie si
riuniscono, si addobbano le case, ci si veste eleganti, si balla, ma soprattutto
si cucina l’agnello che viene sgozzato e dissanguato giorni prima...".
Una giovane donna viene incontro a Eri, la abbraccia e la bacia. Si chiama
Mimoza, e solo da quattro anni abita a Fushë-Kruja, da dopo il suo matrimonio.
Prima viveva con la sua famiglia, a Tirana, in una casa che rimpiange perché
molto più grande. Ci invita ad entrare e a verificare di persona quanto ci sta
raccontando. La sua abitazione non è in muratura, è un tendaggio allestito nel
cortile di un altro stabile, quello sì in mattoni, probabilmente dei suoceri.
Mimoza ha due figli, e dorme con loro su un letto, su cui ci invita a sedere.
Una prolunga si arrampica sul soffitto, per portare luce a una lampadina
penzolante. C'è anche un TV. Cerco di immaginare come possa essere ripararsi lì
dentro in caso di pioggia, ma non ci riesco. Tuttavia l'odore non è cattivo,
l'ambiente è ordinato e tenuto con estrema cura. Mimoza ci mostra delle
calzature di lana di sua produzione, e invita Francesco a provarne un paio
arcobaleno: è certa che siano della sua taglia, ha ragione, ed esultante gliele
regala. Vista l'eccellente ospitalità, ingenuamente attendo le stesse
attenzioni, ma vado incontro a una delusione: Francesco è il burri (uomo,
marito) di Eri, a lui e solo a lui gli oneri e gli onori.
Ad attenderci fuori da casa ci sono sempre più bambini, sempre più festanti. Io
e Francesco cerchiamo un po' goffamente di farli divertire, di giocare con loro.
Facciamo il piacevole errore di accennare un vola-vola, e scateniamo una vera e
propria competizione. Alzo lo sguardo e noto un uomo in fondo alla strada:
l'ultimo maschio adulto lo avevo visto dal meccanico. Faccio un cenno di saluto
ma non sono ricambiato; Francesco, ben più esperto, anticipa i miei pensieri.
"Non accettare alcuna provocazione, spesso lo fanno apposta. Se ci pensi hanno
più che ragione: facciamo volare i loro figli, veniamo ricevuti dalle loro
donne... Ma noi chi siamo?".
Più ci addentriamo, più l'ostilità maschile risulta palpabile. Fatmira e Eri non
sembrano preoccupate, ma nel dubbio né io né Francesco ci avventuriamo lontano
da loro, esattamente come gli altri bambini. Eri mi spiega che il problema è ben
più profondo della questione territoriale maschile: "Tutte le nostre attività
hanno sempre dovuto vincere le resistenze degli uomini. Tendenzialmente le donne
sono disponibili, ci lasciano i loro figli e desiderano studiare in prima
persona. Molto spesso sono i mariti o le loro famiglie a proibirglielo. Quando
una ragazza si sposa, il che mediamente avviene molto presto, tra i 13 e i 14
anni, questa passa sotto la giurisdizione della famiglia del marito, in
particolare della suocera, che in sostanza ne dispone". I tasselli del mosaico
si ricompongono: capisco finalmente la tristezza della giovane Mimoza, lontana
dalla famiglia in uno spazio che non sente suo. Ovviamente, mi spiega Eri, non
tutte le famiglie hanno lo stesso approccio tradizionale, ma il dovere di
servire nella casa del marito non è discutibile, e quand'anche la situazione
risultasse inaccettabile - come nel caso di violenza fisica sulla giovane sposa
- la stessa famiglia d'origine non approverebbe il ritorno della figlia tra
loro: sarebbe al contrario una grande vergogna.
Centinaia di domande affollano la mia mente, ma le spiegazioni di Eri sono in
italiano, e dunque rapide, per non escludere dalla conversazione le persone che
ci vengono incontro. Suela Rama ha 16 anni e si è appena maritata. Eri mi
informa di questa novità in albanese, e abbozzo un gesto di congratulazione.
"Siamo orgogliosissimi del suo percorso. Suela ha sempre partecipato alle nostre
attività, e nonostante le pressioni della famiglia si è sposata "solamente"
adesso, a 16 anni. Per noi questo è un grande risultato".
Il fenomeno delle spose bambine, mi spiega Eri, è collegato al problema cruciale
di ogni comunità rom: quello dell'istruzione dei bambini. Teoricamente, i
bambini rom hanno il diritto di frequentare le scuole municipali albanesi, ma
raramente le scuole pubbliche rappresentano un luogo accogliente per i ragazzi e
le loro famiglie. La prima discriminazione che quei bambini incontrano è
linguistica: non solo perché il Romanì non è una lingua riconosciuta - nessuna
forma di istruzione è garantita nella lingua dei rom - ma anche a causa della
noncuranza dei genitori, i cui figli spesso crescono senza imparare l'albanese -
una scelta distruttiva, che esclude quei bambini da qualsiasi attività del paese
in cui abitano. Se già è complesso convincere i genitori ad occuparsi
dell'istruzione dei figli, si capisce come far studiare le giovani donne -
sottraendole alle dinamiche famigliari e facendo sì che si sposino un po' meno
bambine - risulti estremamente arduo: per un piccolo risultato, occorrono mesi e
mesi di lavoro e di frequentazione diretta.
Cogitando arriviamo al bar, ovvero "in centro": come in ogni agglomerato umano
del pianeta Terra. Finalmente un ragazzo mi saluta, sembra contento di vedermi.
Mi viene incontro sorridendo, e mi chiede in albanese da dove vengo. Alla parola
"Italia" si illumina, e mi dice che sta andando in Francia, partirà l'indomani
mattina. Gli faccio i migliori auguri e gli stringo la mano. Eri mi spiega che
in molti chiedono asilo politico in Francia, perché è più facile che negli altri
paesi. Ancora oggi, l'asilo politico rimane il miglior passaporto per chi è
disposto a partire: bisogna dimostrare di essere discriminati, il che, per chi
sa leggere e scrivere e mantiene contatto con gli internazionali, non è nemmeno
troppo difficile. A quanto pare in molti partono, ma altrettanti, alla fine,
ritornano.
Il sole splende meno alto su Fushë-Kruja, e per i turisti è giunto il tempo di
andare. I bambini ci hanno accolto e i bambini ci accompagnano fuori, come lo
strascico di una sposa. Mentre volto le spalle a tutto quello che ho visto,
penso a tutto, ma non saprei dire a cosa. Sono domande senza grammatica, in
lingua pensiero. A nulla valgono i libri, i viaggi, le canzoni: a nulla vale
quell'insieme d'informazioni diversamente accumulate che i sistemi educativi
della civiltà qualificano come "esperienze formative".
Caffè, acqua e sapone
Di fronte alla vita vera, il cuore rallenta, la testa cammina: De Andrè aveva
ragione. Ma la poesia omette per definizione la prosa: anche se nessun verso lo
ammetterà mai, al ritorno dalle periferie ci attende, inevitabile, il sapone.
Approfittando di una sosta al bar, sia io che Francesco visitiamo a turno il
bagno. Eri resta seduta e ordina il caffè. Mentre mi sciacquo le mani con cui
avevo fatto volare i bambini, un sottile senso di colpa mi attraversa il cuore:
come me e prima di me, in tanti hanno toccato, e in tanti si sono lavati le
mani. Chissà se, dopo aver scritto quest'articolo, mi occuperò mai più di quelle
persone.