Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di Fabrizio (del 02/12/2007 @ 09:30:58, in Europa, visitato 1980 volte)
Da
Osservatorio sui Balcani
26.11.2007 scrive Rando Devole
Un fatto di cronaca che fa partire una dura campagna antirom(ena): indignazione
popolare, articoli, trasmissioni televisive, analisi sociologiche e
dichiarazioni dei politici. Paradigmi di paure, diversità, integrazione in
questo commento scritto per Osservatorio dal sociologo Rando Devole
Alla fine di ottobre un crimine efferato ha scosso l’Italia. Una donna è stata
seviziata e uccisa alla periferia di Roma. Il presunto omicida è stato catturato
dalle forze dell’ordine. Era romeno, e rom, abitante nelle baracche adiacenti il
luogo del delitto. I media hanno dato un enorme risalto alla notizia. È seguita
l’indignazione popolare, accompagnata da testimonianze, dichiarazioni, denunce,
accuse, articoli, commenti, servizi, sondaggi, trasmissioni televisive ed
analisi sociologiche. La politica ha risposto con un acceso dibattito senza
esclusione di colpi, per finire con un decreto urgente in materia di
espulsione di cittadini comunitari. Il quadro non sarebbe completo se non si
ricordassero alcuni atti di xenofobia a danno di cittadini romeni, ovviamente
seguiti da condanne unanimi e appelli alla calma; tutto corredato da contatti
febbrili bilaterali con la Romania e da battute a distanza con l’Unione Europea.
Per le persone attente si tratta di un episodio già visto. Un déjà vu
collettivo. Il caso degli albanesi è ancora fresco, per non dire attuale.
Qualche cittadino albanese commetteva un omicidio o altra violenza, seguivano
indignazioni e rabbie diffuse, interpretazioni strumentalizzanti, giustificanti
e/o asettiche, appelli accorati, dichiarazioni di circostanza, provvedimenti
immediati. Non mancavano i via vai di delegazioni ufficiali, le accuse
rincorrenti, le chiamate alle ronde, gli inviti al buonsenso; si scomodavano
perfino i personaggi dello spettacolo. Per concludere si interpellava, come
sempre, l’Europa. Quindi, niente di nuovo sotto il sole.
Per gli amanti dei retroscena e gli appassionati di dietrologie, si tratta di un
episodio da manuale. Si aspetta il momento propizio per trovare un caso
eclatante: tra tanti delitti c’è sempre uno che si distingue per emblematicità.
Dopo averlo scelto, lo si butta nel ciclone mediatico; ciò gli darà forza,
facendolo diventare il suo occhio ciclopico per parecchi giorni. Poi si gioca al
rialzo con proposte di misure emergenziali, mettendo sulla bilancia la rabbia
popolare. L’attenzione dell’opinione pubblica verrà monopolizzata, mentre altre
cose finiranno nel dimenticatoio, oppure passeranno in secondo piano. La formula
è suggestiva, ma piuttosto inverosimile.
Qualche volta i déjà vu sono pure e semplici illusioni, mentre le
interpretazioni cospirative facili fantasie. C’è una certezza sola. Il
pregiudizio regna sovrano. Per giunta, aiutato da ovvietà disarmanti, ai confini
delle banalità, le quali, spacciate per controargomentazioni efficaci, non
riescono a scalfirlo neanche in superficie: ad. es. “non sono tutti cattivi”,
“non facciamo di tutta l’erba un fascio”, “sono utili all’economia”, “i rom non
sono romeni”, “i romeni non sono tutti rom”, “i romeni sono comunitari”, e così
via. I rom passano sotto la radiografia dei media, che enciclopedicamente
forniscono dati tra tabelle e grafici colorati: quanti sono, dove sono, ceppi
etnici, quali origini, quale delinquenza. Alcuni dati fanno paura, altri meno.
Dipende da come li presentano.
I Balcani ed i paesi dell’Est c’entrano sempre; quando si parla di sicurezza e
immigrazione non mancano mai dalle pagine dei giornali. Non si comprende se
influisce la delinquenza comune dall’immancabile “accento slavo” (ceppo a cui i
romeni casualmente non appartengono), la provenienza di molti rom, oppure il
lato oscuro di quelle parti, dove regna l’ignoto, dalla cui oscurità emergono
vampiri per tormentarci l’immaginario. Se molti riconoscono nei Balcani la
polveriera d’Europa, oppure la regione più divisa del continente, pochi sanno
che i Paesi balcanici sono legati tra di loro con tanti fili, tra cui spicca
quello dei rom, che con l’arte della sopravvivenza, la libertà professata e,
soprattutto, la loro musica folcloristica, hanno sempre fatto da sfondo alle
storie della regione e alle sue memorabili narrazioni.
Seppur uguale ad altre nella sostanza, la recente campagna antirom(ena) ha
presentato elementi nuovi. Innanzi tutto la confusione totale tra rom, romeni e
rom romeni. Sarebbe offensivo per il lettore spiegare nuovamente le differenze
evidenti. Tuttavia, le assonanze hanno influito poco sul caos cognitivo, unico
complice è stata l’ignoranza. D’altronde senza l’humus dell’ignoranza, i
pregiudizi stentano a rimanere in vita. Infatti, parte dell’opinione pubblica
considera i romeni come extracomunitari, non come membri a pieno titolo dell’UE.
Non è un bel segnale per l’Europa allargata, specialmente per gli altri paesi
balcanici che sono in sala d’attesa da tempo. Dall’altro lato, per fortuna, la
religione non era in discussione questa volta. Del resto la diversità viene
ricostruita con i materiali a disposizione, che non sono mai scarsi.
Se le reazioni collettive sono generate da angosce ataviche, se le certezze
traballano di fronte alla diversità, se le paure aumentano nell’incontro con
l’Altro, se il pregiudizio coalizza e demonizza contemporaneamente, se la
propria aggressività non è più riconosciuta, se la sindrome del nemico interno
ci perseguita senza sosta, se la violenza viene proiettata sui diversi, se gli
stranieri sono percepiti come una minaccia, allora c’è una sola cosa da capire:
noi stessi. Perché l’immigrazione è uno specchio che riflette tutto: la paura e
il coraggio, la sfiducia e l’ottimismo, i difetti e i pregi. E non possiamo
colpevolizzare lo specchio se ciò che riflette non ci piace. Possiamo anche
romperlo volendo, ma non abbiamo risolto nulla.
Non solo il delitto di Roma, ma anche quello di Perugia e di Garlasco, con le
loro vittime femminili indicano che viviamo in una società culturalmente
febbricitante, in prenda alla paura, dove la violenza trova la sua ragion
d’essere, perché prevale il concetto della sopraffazione sui deboli. Poco
importa il passaporto del carnefice. Invece, risulta importante la cultura della
legalità, i doveri che vanno di pari passo con i diritti, la giustizia giusta,
il rispetto della persona. In un quadro di regole chiare, dove vige la certezza
della pena, ma anche quella del merito, è più facile misurarci sui valori
fondamentali inalienabili e non sulle divisioni artificiose tra noi e loro. Che
siamo tutti fragili e indifesi lo dimostrano perfino le divisioni acclamate
dalle stesse vittime della discriminazione, che vogliono distanziarsi dai soliti
rom, come se additare l’altro fosse un atto di purificazione.
Le baraccopoli costituiscono una grande metafora dell’emarginazione. Persone che
vivono ai margini della società, nell’isolamento, nella diffidenza verso gli
altri, senza integrarsi, nel degrado urbano. In una situazione di paura
reciproca, non cambierebbe molto se al posto delle lamiere ci fossero le mura.
Neanche un bagno con idromassaggio allontanerebbe lo spettro dell’esclusione
sociale. Tante isole non necessariamente fanno un arcipelago.
Lo straniero assoluto non esiste, ha scritto Tahar Ben Jelloun, perché siamo
sempre stranieri rispetto agli altri. La storia dei romani, romeni e rom, con la
loro somiglianza fonetica, ci insegna proprio questo: siamo uguali nella nostra
diversità. Ovviamente, le potenzialità non mancano neanche ai moderni, il cui
Dna culturale è fatto principalmente di diversità, forse il loro vero punto di
forza. Lo dimostra inoltre il vissuto di ogni giorno, con tanti begli esempi di
integrazione, di rispetto reciproco, che, purtroppo, non fanno mai notizia.
Certo è che stigmatizzare i diversi, criminalizzare intere comunità,
generalizzare il male, significa proiettare verso gli altri il proprio lato
oscuro, trasformare le vittime in carnefici e viceversa, ed infine, accumulare
macerie valoriali nella nostra anima. Ma ad un certo punto, non ci serviranno né
ruspe, né zingare chiromanti, per salvarci dal nostro futuro.
Di Fabrizio (del 01/12/2007 @ 08:41:00, in blog, visitato 1769 volte)
Da
Nazione Indiana
di Laura Nobili e Imma Tuccillo Castaldo
Pochi giorni fa, ai primi di novembre 2007, l’Alto Commissariato dell’Onu per
i Diritti Umani ha richiamato l’Italia per il mancato rispetto delle norme
internazionali in materia di
diritti delle popolazioni rom. In particolare, sono state messe sotto accusa
le azioni di sgombero forzato degli insediamenti ‘legali’, oltre che di quelli
abusivi, a Roma e in alcune altre città italiane. In questi insediamenti
vivevano comunità ‘storiche’ rom, insieme ad altre di più recente immigrazione.
Si tratta di una vera e propria ‘ripulitura del territorio’ ai fini del
decoro pubblico, come sembra sostenere il sindaco Walter Veltroni. La
condanna dell’Onu segue quella dell’aprile 2006, sancita dal Comitato Europeo
per i Diritti Sociali (CEDS): con questa l’Italia viene accusata di
sistematica violazione del diritto delle popolazioni rom ad un alloggio
adeguato, in riferimento all’art. 31 e art. E della
Carta Sociale Europea Revisionata .
Il progetto di ‘restauro’ del centro e delle periferie romane depresse è stato
inaugurato il 22 febbraio 2007. Le agenzie di stampa hanno battuto la notizia
del lancio delle operazioni di sgombero, distruzione indiscriminata e
‘delocalizzazione’ dei cittadini rom. Questa è la conseguenza dell’azione
pianificata dal Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza
pubblica di Roma, l’organo collegiale di consulenza dell’ex Prefetto
capitolino, Achille Serra.
Nel marzo 2007, per rafforzare le politiche di eugenetica urbana, il Ministero
dell’Interno e l’Associazionie Nazionale dei Comuni Italiani hanno siglato il
Patto per la Sicurezza, a cui sono seguiti, pochi mesi dopo, a
maggio, i Patti per Roma sicura e per Milano sicura,
imitati con poche varianti da altri capoluoghi di provincia.
Il Patto per Roma Sicura, che prevede notevoli contributi finanziari da parte di
Regione, Provincia e Comune, oltre che l’indispensabile collaborazione della
Prefettura, promuove «interventi risolutivi delle esigenze di contenimento delle
popolazioni senza territorio, nonché inclusione sociale, attraverso,
rispettivamente: la costruzione di quattro villaggi della solidarietà in aree
attrezzate in grado di ospitare circa 1000 persone – ciascuno da realizzare su
aree comunali o demaniali – disciplinati da specifici regolamenti di gestione;
programmi di abbattimento di insediamenti abusivi, con successiva
riqualificazione delle aree liberate».
Il primo risultato conseguito dal varo del Patto per Roma Sicura è stata la
legittimazione della sistematica distruzione dei beni materiali, già esigui, di
migliaia di persone, confermando la propensione del centro-sinistra veltroniano
a spacciare per umanitarismo e solidarietà il mero tentativo di cavalcare la
deriva populista dell’Italietta odierna, priva di nerbo e di idee politiche.
Si conferisca pure il beneficio del dubbio e si consideri come fine di questi
sgomberi forzati la creazione di una città ‘vivibile e disinfettata’ e un
migliore destino per gli sgomberati; ci si interroghi allora sul significato e
sull’efficacia dell’integrazione ‘modello Roma’.
Ora, se Veltroni & Co. dovessero spuntarla, I villaggi della solidarietà
potrebbe diventare un bellissimo titolo per un film di fantascienza a carattere
sociale, e, senza troppi sforzi di immaginazione, Quentin Tarantino potrebbe
metterlo in scena: da una parte, villaggi collassati di poveri umani da salvare
e, dall’altra, un collegio di saggi che sputa direttive e impartisce ordini
all’armata aliena degli operatori cosmici. Allora sì, il film sarebbe perfetto,
candidato al festival del cinema perbenista di veltroniana invenzione: una
sceneggiatura impeccabile in cui la Società dello Spettacolo e il Circo del
Sociale si confermano i più efficaci strumenti di visibilità politica per
associazioni, partiti e ominidi portaborse e portatessera. I villaggi della
solidarietà non sarebbero nient’altro che dei megacontenitori per merce umana,
ora sparpagliata su tutto il territorio romano: un concentrato di esseri umani
rigettato su qualche chilometro quadrato. Ecco che ‘Roma città aperta’ si
trasfigura in Rom città chiusa (è il titolo di un documentario
prodotto nel 2001 da Manfredi, Marchetti e Pasquini) e l’emarginazione sociale
si fa topica oltre il Raccordo Anulare, alla faccia della tanto agognata
integrazione.
I media non utilizzano tutti i dati che hanno a loro disposizione: per
esempio, sono in pochi a ricordare che dei circa 160.000 rom censiti in Italia,
il 60% sono in realtà cittadini italiani. La maggior parte dei giovani di terza
e quarta generazione sono nati e cresciuti in Italia; se si sono trasformati in
cittadini stranieri o in cittadini invisibili, apolidi de facto, è soltanto a
causa del bizzarro funzionamento di un preciso dispositivo di legge, quello cioè
sulla cittadinanza (Legge n. 91/92). Prima di riuscire a
garantire il diritto, questa legge crea infatti delle assurde quanto
inestricabili trame burocratiche, in cui restano impigliate le vite di migliaia
di persone.
Entrata in vigore nel 1992, con essa si stabiliscono le modalità di
naturalizzazione per le persone nate in Italia da cittadini stranieri.
Riassumiamo. Lo straniero nato in Italia acquisisce la cittadinanza italiana
solo nel caso in cui ‘vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino
al raggiungimento della maggiore età’ e dichiari di volerla acquisire entro
un anno a partire da questa data. Sembrerebbe, quindi, che ‘manifestare la
propria volontà’ possa bastare al soggetto richiedente per poter ottenere la
cittadinanza. Contrariamente a qualsiasi logica, però, il Decreto di Attuazione
(DPR 572 del 1993) relativo a quella disposizione dispone che il soggetto, oltre
a dover manifestare questa volontà, debba altresì dimostrare di aver risieduto
legalmente sul territorio; ma il soggetto potrà dimostrare di risiedere
legalmente sul territorio soltanto se i suoi genitori avranno a loro volta
potuto mantenere la propria posizione regolare, vale a dire: permesso di
soggiorno e residenza ininterrotta per l’intero periodo dei diciotto anni. Detto
in altre parole: se i genitori di un bambino nato in Italia non avevano il
permesso di soggiorno al momento della sua nascita, anche se il bambino viene
iscritto nel registro dell’ufficio anagrafico, di fatto questa
iscrizione non basta. Solo l’iscrizione del bambino nel permesso di soggiorno di
uno dei genitori garantisce, infatti, la ‘legalità’ della residenza. Migliaia di
quei bambini, oggi ormai adulti, pur avendo frequentato le scuole italiane e pur
avendo vissuto tutta la loro esistenza in Italia, sono diventati ‘irregolari’ o
apolidi al compimento del loro diciottesimo anno di età. È bastato semplicemente
che i genitori al momento della loro nascita non avessero un permesso di
soggiorno o che, pur avendolo, non avessero formalizzato l’iscrizione anagrafica
con l’inserimento del bambino nel permesso di soggiorno, perché il ‘gap’ legale
della residenza, di qualche mese o di un anno, fosse sufficiente al rigetto
delle domande di cittadinanza.
Per anni è mancata una legge organica sull’immigrazione che regolasse lo
status dei cittadini stranieri in Italia. Il progressivo inasprimento delle
procedure di regolarizzazione, legate per lo più al possesso di un lavoro, ha
molto rallentato il percorso di regolarizzazione per tutti i migranti stanziali
di prima generazione (nati tra la seconda metà degli anni ’70 e la seconda metà
degli ’80). Una situazione drammatica per chi avesse scelto di vivere in Italia,
ma altrettanto drammatica per quasi tutti bambini che sono nati in Italia alla
fine degli anni ’80, quindi prima del varo della legge sulla cittadinanza del
1992.
In uno Stato di diritto non dovrebbero vigere le buone intenzioni,
soprattutto quando si devono sanare oltre venti anni di segregazione forzata (in
tuguri) di quelli che, per comodità filosofica o politica, siamo soliti definire
nomadi.
Se si leggono le delibere e i piani di intervento per l’istituzione dei campi
approvati negli ultimi 6/7 anni dalle amministrazioni capitoline, si scopre che
lo Stato di diritto è stato praticamente sospeso e trionfano, purtroppo, le
buone intenzioni. L’enorme sforzo intellettuale di quelle amministrazioni ha
partorito, nei confronti di queste popolazioni, un progetto residenziale fondato
su tre livelli di ‘integrazione sociale’:
– i campi sosta, definiti aree di sosta temporanea;
– i villaggi attrezzati, cioè strutture fornite di moduli abitativi
prefabbricati;
– gli inserimenti abitativi, vale a dire l’assegnazione di case
popolari per tutti i cittadini rom italiani e per i cittadini rom stranieri
legalmente soggiornanti sul territorio italiano.
Il primo livello prevede i servizi di base e un tempo massimo di permanenza di
12 mesi. Il secondo prevede l’inserimento nei villaggi attrezzati per una durata
massima di 36 mesi, prorogabile, ma sempre in funzione della successiva
assegnazione di case.
Infine, l’inserimento e la permanenza nei campi sosta, così come nei villaggi
attrezzati, può avvenire soltanto sulla base della provata ‘buona condotta’ dei
rom. I rom, essendo nomadi nell’immaginario collettivo dei loro detrattori e di
molti untori dei diritti umani, dovrebbero comportarsi secondo norme che le
amministrazioni municipali redigono sotto forma di ‘Patti sociali’. In queste
strane scritture viene persino prescritta una sorta di codice di condotta della
vita privata, a cui le persone dovrebbero attenersi per essere degne di
integrazione: è come se il proprietario di casa ci facesse stipulare un
contratto d’affitto solo a condizione che i bambini vengano mandati a letto
presto, o che la presenza di qualsiasi ospite venga tempestivamente ‘denunciata’
al corpo di Polizia Municipale.
Di solito, nei Patti sociali sono anche accennati i doveri che
l’amministrazione assume nei confronti dell’assegnatario di un posto in un campo
sosta o di un prefabbricato nei villaggi attrezzati: si tratta di servizi minimi
e del rispetto delle più elementari garanzie di sicurezza sociale: acqua
potabile, sistemi antincendio, manutenzione straordinaria, ecc., come si addice
a luoghi destinati alla pubblica convivenza. Il fatto è che le amministrazioni
non assolvono quasi mai a tali espliciti doveri, oppure lo fanno in maniera
soltanto parziale, cavalcando e sfruttando la serie dei soliti pregiudizi
metropolitani (mascherati da discorsi d’opportunità politica) per giustificare
le loro stesse inadempienze.
È importante sottolineare come tutti i progetti di sgombero seguano sempre le
stesse modalità e rendano sempre conto degli stessi processi politici e sociali;
in essi, ricorrono le stesse tipologie progettuali di allestimento, di gestione
e di manutenzione dei campi ‘attrezzati’ per i rom. È tutto un copia e incolla
di delibere, regolamenti, piani di intervento, ordinanze, ecc. A cambiare sono
solo gli importi che vengono versati per gli appalti di messa in opera,
rinnovati continuamente ed aumentati esponenzialmente a fronte di proroghe e
autorizzazioni che altro non fanno che rendere di fatto ‘eccezionale’, e perciò
ancor più precaria, ogni soluzione prospettata per la ‘sistemazione’ dei rom:
una manna(ia) dall’alto.
Era il 2005 quando il campo di Vicolo Savini, dove da quasi trent’anni
abitavano 770 persone, viene sgomberato per ‘emergenza sanitaria’. Trent’anni di
emarginazione non possono che produrre emergenze sanitarie. Al km 24 della via
Pontina, nei pressi di via di Trigoria, fu allestita dalla Protezione Civile una
tendopoli: 200 tende, ognuna per gruppi di 4 o 5 persone, 100 gabinetti chimici,
3 serbatoi d’acqua, 2 tendoni per le cucine, e una trentina di docce. Il più
grande campo d’Europa fu distrutto e Walter Veltroni, in compagnia
dell’Assessore alle Politiche Sociali Raffaella Milano, illustrò alla stampa
progetti e prospettive cui sarebbero state destinate quelle vite, sradicate da
un terreno di proprietà dell’Università Roma Tre. Dopo due mesi di permanenza,
la comunità avrebbe dovuto essere spostata in sistemazioni più confortevoli,
composte da moduli abitativi prefabbricati, e presso aree che l’amministrazione
comunale avrebbe individuato, garantendo altresì il rimpatrio facilitato nei
paesi d’origine per alcuni o l’accesso ai fondi destinati all’emergenza
abitativa per altri. Il megacampo di Castel Romano, prototipo dei famosi
villaggi della solidarietà, nasce così da un un lancio di dadi sulla Pontina,
nell’area di Decima Malafede.
Decima Malafede è una Riserva Naturale, sottoposta a vincolo ambientale; una
serie di norme regionali ne garantiscono – o dovrebbero garantirne –
l’inviolabilità del territorio, del suolo, delle specie animali e vegetali e
delle falde acquifere. Un Ente Autonomo della Regione Lazio (Roma Natura) ha il
compito di renderle esecutive. I rom del campo non hanno acqua potabile, ma
l’amministrazione comunale, oltre ad aver davvero fornito ai rom dei moduli
abitativi prefabbricati installandoli in un’area sottoposta a vincolo
ambientale, ha provveduto immediatamente al riequilibrio del disagio idrico: le
autobotti riforniscono le persone di acqua nera e maleodorante, che deve bastare
a tutti per lavarsi, pulire, cucinare – e per bere. (*1)
Il divieto di utilizzare le acque della riserva naturale (DL n.152 del maggio
1999) ha come conseguenza almeno due altre fondamentali omissioni di gestione
che rendono inaccettabile la qualità della vita nel campo: l’impossibilità di
allestire un sistema fognario e l’impossibilità di rendere funzionante un
impianto antincendio. Le ditte appaltate per la messa in opera del campo hanno
provveduto alla fornitura delle attrezzature antincendio; il dubbio potrebbe
sorgere qualora si scoprisse che non vi sono schede tecniche di collaudo delle
stesse. E il dubbio si rigenererebe da sé se volessimo chiedere di verificare le
schede di manutenzione ordinaria che ogni sei mesi vanno compilate dalla ditta
che se ne occupa. Per capirci: ci sono le manichette per gli idranti, ma non
possono essere collegate alla rete idrica.
E i bambini, tanto cari alle amministrazioni comunali? Per i bambini sono
previsti progetti di scolarizzazione e innumerevoli altri progetti e progettini,
gestiti da varie associazioni sinistroidi o pseudoumanitarie che inghiottiscono,
disperdono e volatilizzano il denaro pubblico senza mai arrivare alla
realizzazione degli impegni assunti. Per esempio, i progetti di scolarizzazione
prevedono pulmini per portare a scuola i bambini. Ma a scuola i bambini ci
andrebbero molto più volentieri se, anziché fare un tragitto di circa un’ora e
mezza per raggiungere la scuola assegnata da un Protocollo di Intesa ormai
vecchio e non più adeguato alla realtà dei fatti, potessero accedere alla molto
più vicina scuola di Pomezia. (*2) Dove sta allora l’origine di quel grave
fenomeno che sociologicamente viene chiamato ‘dispersione scolastica’?
Per il campo attrezzato di via dei Gordiani, il Patto sociale firmato nel
2002 dall’ex presidente del VI municipio, il dott. Vincenzo Puro, e dai
capofamiglia assegnatari dei moduli abitativi prefabbricati, ribadiva il
carattere transitorio della sistemazione in containers per le persone che da
quasi 35 anni vivono in Italia. Le tragedie che hanno investito le famiglie
residenti in quel campo sono innumerevoli. L’ultima si consuma il 30 ottobre
2007. Appena il giorno prima, agenti della polizia municipale avevano consegnato
a cinque capofamiglia, assegnatari di altrettanti containers, un invito ad
allontanarsi dal campo. Poche ore dopo, alle 7.30 del mattino, una ruspa agli
ordini di Antonio Di Maggio, Comandante del Gruppo Sicurezza Urbana della
Polizia Municipale, ha fatto molto più che rendere esecutivo l’invito di
allontanamento. Accusati di varie malvivenze, tra le quali il possesso di
stupefacenti ai fini di spaccio, uomini, donne e bambini sono stati cacciati dal
campo, e i loro averi distrutti. Eppure, in uno Stato di diritto esiste ancora
un codice penale e uno civile; il dubbio si insinua: chi ha violato le leggi
italiane e chi quelle internazionali? Ad una giovane donna, per esempio, nemmeno
è stato notificato l’invito ad allontanarsi dal campo: era in ospedale, affetta
da broncopolmonite. Dimessa qualche giorno dopo, si è trovata improvvisamente
per strada; lo stesso è successo alla madre, malata di cancro. Suo nipote,
cittadino italiano, seguiva un corso di inserimento professionale dopo il
diploma di terza media: è costretto ora a ricominciare daccapo e a ricomprarsi i
libri, andati tutti distrutti assieme al resto, sotto i colpi di mandibole
d’acciaio obbedienti agli ordini impartiti.
Qualche ora dopo, in un altro tugurio della capitale italiana, si consumava
l’omicidio Reggiani: la violenza è aberrante, non ha connotazioni etniche. La
morte di qualcuno, la sua sofferenza, l’immaginarne il dolore non possono che
indurre pudore e rispetto. Le riflessioni sono sempre successive, il pensiero si
organizza sì, ma questo avviene sempre un attimo dopo. Invece la razionalità
utilitaristica degli uomini che ricoprono alte cariche istituzionali ha dato
prova del suo cinico opportunismo: un decreto ad hoc che scuote anche
quella minima, irrisoria percezione dell’uguaglianza formale di tutti i
cittadini europei davanti alla legge europea. La Sottosegretaria al Ministro
dell’Interno, Marcella Lucidi, nella puntata de L’Infedele del 7
novembre, spiega che il Ministero dell’Interno è contro ogni forma di
discriminazione e che pertanto è giusto non criminalizzare l’intera comunità
romena per l’omicidio Reggiani. Le sue parole, caute ed educate scatenano un
altro dubbio: è possibile che sia ignara dell’operazione di polizia e pulizia
etnica condotta con perizia e disciplina a Roma, nei campi rom? Il consenso
costruito sulle e contro le miserie che la nostra società genera è pericoloso.
Chissà se Walter Veltroni e gli uomini del suo gabinetto ricordano di aver
studiato la storia italiana, soprattutto quella che va dalla fine della prima
guerra mondiale ai giorni nostri. Ma certo, che stupidaggine è mai questa,
Veltroni ogni anno va in pellegrinaggio ad Auschwitz. Solo, a questo punto, non
è ben chiaro che cosa ci vada a fare.
Note
1. Il manifesto - Riccardo Iori, 4/11/ 2007.
2. Il Messaggero – Claudio Marincola, 7/11/2007.
da
Stradanove
COLUM MCCANN È NATO A DUBLINO NEL 1965 MA VIVE DA ANNI A NEW York. E’
autore de “I figli del buio”. “La legge del fiume”, “La sua danza” (sul grande
ballerino Nureyev). Abbiamo parlato con lui del suo ultimo libro, “Zoli”, e
della vita e della cultura dei rom.
La prima riflessione che facciamo, dopo aver letto il suo libro, è che
l’ignoranza genera il pregiudizio- sappiamo molto poco del mondo dei rom. E
tuttavia che cosa c’è in comune tra il mondo che Lei rappresenta e gli zingari
che vediamo chiedere l’elemosina sui treni della metropolitana, che ci
infastidiscono finché non diamo loro dei soldi?
Osservazione fantastica - è vero, succede anche a me, sono stato nelle stazioni
della metropolitana, sui treni, e mi sono sentito innervosito da questi zingari
che ti assillano. Che rapporto c’è tra di loro e la storia di Zoli? C’è un salto
significativo da fare, ma dobbiamo capire che cosa c’è dietro quegli occhi, la
storia profonda che c’è dietro di loro. Ho iniziato a capire qualcosa di questo
dieci anni fa, quando sono sceso nelle gallerie della metropolitana di New York
per scrivere il romanzo “I figli del buio”. Pensavo che la gente senza tetto
fosse così per sempre. Pensavo che fossero nati senza casa, non mi ero mai fatto
tante domande. E invece non è vero, c’è una storia profonda dietro di loro.
Se vogliamo che il mondo sia un posto migliore in cui vivere, dobbiamo cercare
di capire la storia dei bambini che chiedono l’elemosina sul treno. La loro
storia è quella di Zoli. Anche io ero pieno di pregiudizi: quando sono andato a
fare ricerche in Slovacchia, ho nascosto passaporto e soldi, temevo di essere
derubato. Alla fin fine ero io che cercavo di derubarli, chiedendo loro della
loro storia. Certo, una sola vicenda, quella di Zoli, non rappresenta quella di
tutti. I rom sono dai 10 ai 12 milioni - ce ne sono 2 milioni in Romania,
300.000 in Francia. E’ un numero straordinario. Vengo da un paese, l’Irlanda,
dove ci sono 5 milioni di abitanti- gli zingari sono due volte tanto. Non ci
sono romanzi che rappresentino l’Irlanda nella sua interezza, forse l’”Ulisse”
ma, citando Stephen Dedalus, “me ne andrò da qui e foggerò nella fucina della
mia anima la consapevolezza non creata della mia gente.” Chiunque può pensare
che un romanzo rappresenti un paese, ma non è possibile. Dobbiamo essere aperti
a molte storie. Dobbiamo chiederci perché odiamo i rom. Io sono un romanziere,
il mio compito è quello di fare delle domande e forse con il mio romanzo i
lettori guarderanno i modo diverso gli accattoni sulla metropolitana. Almeno lo
spero.
Rom, zingari, gitani: qual è la parola giusta da usare? E sono divisi in
gruppi, hanno tradizioni diverse secondo il luogo di provenienza?
La parola giusta è “rom” e significa “una persona”, “roma” vuol dire “la
gente”, “romany” è l’aggettivo e indica anche la loro lingua. Sono le parole che
usano loro per riferirsi a se stessi. Le altre due parole, zingaro e gitano,
sono dei peggiorativi. Originariamente venivano tutti dall’India e hanno avuto
sorti diverse, alcuni sono diventati nomadi, altri no. I rom italiani risalgono
al secolo VI e non sono nomadi, vivono nelle case, sono italiani. All’interno
della comunità rom ci sono tante differenze quante ce ne sono negli altri
popoli, sono solo molto più poveri di altri. E sono moltissime le persone note
che avevano origini rom: Pablo Picasso e Charlie Chaplin, Yul Brynner e Rita
Hayworth.
Come ha iniziato ad interessarsi ai rom? E’ stato dapprima un interesse
generico e poi è venuto a sapere della poetessa polacca Papusza che è in parte
dietro il personaggio di Zoli?
No, non avevo alcun interesse per i rom, proprio nessuno. Ed ero ignorante per
quello che li riguardava. Avevo impiegato quattro anni a scrivere il romanzo su
Nureyev, avevo fatto molte ricerche, sulle guerre in Russia, sull’essere un
ballerino gay - per me era stato uno sforzo ginnico dell’immaginazione ed ero
stanco. Volevo andare a casa e scrivere un romanzo facile. Poi mi è venuta tra
le mani la foto della poetessa Papusza: era molto bella, la sua era una storia
interessante…Ero spaventato da quello che mi si prospettava eppure sentivo che
dovevo farlo. Solo dopo è diventata una faccenda di coscienza sociale.
Che cosa c’è di vero e che cosa c’è di fittizio nel personaggio di Zoli?
E’ vero l’essenziale, che fosse rom, che fosse una poetessa, che fosse
famosa e che fu esiliata dal suo popolo. Il resto naturalmente è fittizio.
A Zoli sembra inevitabile sia il donare la sua musica perché tutti la
conoscano, sia accettare la punizione della sua gente- perché?
Direi che si tratta dell’accettazione del destino, qualunque forma esso
prenda. I rom sono fatalisti. E lei fu bandita dalla sua gente perché era una
profetessa: aveva capito che la storia deve essere scritta.
E’ in parte Lei stesso il personaggio di Stephen Swann, metà irlandese e metà
slovacco, attratto dal mondo rom e innamorato di Zoli?
Sì, è in parte me stesso. Per quello è metà irlandese, volevo capirlo. Swann
non sa del tutto chi è- decisamente sì, Swann è in parte me stesso.
Che cosa c’era dietro la politica comunista di integrare gli zingari in una
società ordinata?
Dietro lo sforzo per l’integrazione c’è il profondo idealismo comunista.
Dimentichiamo spesso che, pur essendo un sistema che ha avuto un fallimento così
spettacolare, pur avendo la responsabilità di così tante morti, alle sue origini
aveva una spinta di forte idealismo. Così attraverso gli zingari, vittime da
sempre, volevano mostrare il valore del socialismo. E’ stato un po’ come il
movimento di rivalutazione orgogliosa “Nero è bello” negli anni ‘70 in America.
Gli zingari, a loro volta, si sentivano valorizzati- anche oggi sono molti
quelli che hanno nostalgia del comunismo: avevano un lavoro, assistenza medica,
c’era un grosso tentativo di integrazione. Purtroppo poi finirono per
distruggerli, come tutti gli altri sistemi. Ma all’inizio ai rom sembrava il
meglio che potesse loro capitare.
Quello che nel libro non è chiaro è di che cosa vivessero.
La comunità di Zoli era formata da musicisti ambulanti e vivevano di quello,
della loro musica. Gli altri facevano lavoretti qua e là, quello che capitava,
dove capitava. Vivevano di quello che la gente dava loro.
Li descrive come una comunità molto chiusa: come è riuscito a farsi accettare
e riuscire a parlare con loro?
Nella situazione moderna, in Slovacchia, sono abituati a parlare con
estranei, poliziotti, assistenti sociali, medici. Dapprima pensavano fossi uno
di loro. Ad un livello più semplice il fatto è che sono andato là e ho dormito
con loro, nelle baracche: sono rimasti molto sorpresi che qualcuno volesse
fermarsi a dormire con loro. Quanto tempo ho passato con loro? Un totale di
circa due mesi, in genere circa quattro giorni con ogni gruppo, in Slovacchia e
Ungheria.
E’ recente la notizia della sterilizzazione di donne rom che hanno dato
l’autorizzazione sotto gli effetti dell’anestesia: dopo gli sforzi per
l’integrazione come si considera questa violazione dei diritti umani?
Viviamo in un mondo complicato: in Svizzera portavano via i bambini ai genitori
rom, in Slovacchia li inserivano nelle scuole per ritardati. Il processo di
integrazione è fallito, per la loro ignoranza, per la nostra ignoranza, per
incapacità di fare e rispondere a delle domande, per inabilità ad essere
empatici. Accade in tutta l’Europa di oggi. La parola che i rom usano per
l’Olocausto è porraimos. Loro dicono che porraimos prosegue ancora oggi per
loro- ed è finito nel 1945!
Che cosa ha apprezzato di più nella comunità rom?
La loro socievolezza, la facilità con cui offrono amicizia, la loro
curiosità che li porta a fare tante domande. Quello che è necessario è che
imparino a dire la loro storia in una maniera che abbia rilievo.
Secondo Lei, qual è il futuro della lingua rom, delle loro tradizioni, della
loro musica?
Penso che la loro cultura diventerà più forte con le nuove iniziative, con
le università in cui si fanno ricerche e si insegna la lingua e la cultura rom:
ce n’è una a Trieste, una nel Texas…La lingua è difficile, sarà un lavoro lungo,
ma come si fa a dire? Negli anni ‘50 sembrava impossibile che si arrivasse ad
accettare i gay. Forse tra venti o trent’anni saranno in molti a vantarsi di
essere per tre quarti rom!
Di Fabrizio (del 29/11/2007 @ 09:16:34, in media, visitato 2117 volte)
Ricevo da Ernesto Rossi
"Mi sento un rom porterò l’Italia in giro nel mondo"
La straordinaria dichiarazione appare in un titolo dell’edizione di domenica 25
di un noto quotidiano.
A rilasciarla è Lapo Elkann (per chi non avesse familiarità con le famiglie più
ricche del mondo, ricordiamo che si tratta del figlio di Margherita Agnelli.
FIAT).
In definitiva, il maturo e ipertatuato giovanotto, ci rivela che, trasferendosi
da New York a Shanghai (in una campina?), si occuperà di promuovere
la Triennale di Milano nel mondo. “Sono, insiste, uno zingaro dell’arte”.
Tocca all’intervistatore ricordargli che, coi suoi quattrini, “potersi definire
zingaro è un grosso privilegio”.
E lo sanno bene tutti i Rom che perdono il lavoro non appena il padrone
scopre l’indirizzo del campo in cui vivono.
Che c’entra dunque questa fesseria con la realtà, quella in particolare che gli
zingari autentici vivono in questo periodo proprio in Italia?
Nulla, niente, zero.
Questa è la vera notizia. Di come, cioè, in certi ambienti, moda, marketing, e
altro, si faccia un uso sfacciato e superficiale d’una realtà sicuramente
ignorata, se non disprezzata, ma sfruttata a livello d’immagine. Dietro queste
parole, di Rom non ce ne sono. C’è solo una diversità sconosciuta ma comoda da
usare. Tanto, sotto le finestre ben protette di questa gente di roulotte non ne
compariranno mai.
26 novembre 2007 Ernesto Rossi
Di Fabrizio (del 28/11/2007 @ 09:25:27, in lavoro, visitato 2308 volte)
Da
Osservatorio sui Balcani
Espulsi dai Paesi Ue migliaia di rumeni si trovano ad affrontare
condizioni difficili una volta rientrati in Romania. Una traduzione tratta dal
periodico on-line dedicato al sud est Europa BIRN
Di Calin Cosmaciuc, 20 novembre 2007, BIRN (tit. orig. Deported Romanians to
Get More Support at Home)
Traduzione a cura della redazione
Il governo rumeno ha annunciato un piano per affrontare la questione
dell'ingente migrazione di forza lavoro rumena verso altri paesi Ue,
verificatasi quest'anno. L'esecutivo avrebbe messo a disposizione risorse
rilevanti e proverà ad affrontare con un approccio nuovo i problemi sociali di
lunga durata del paese.
Gli osservatori però si chiedono se le autorità di Bucharest e nel resto del
Paese siano all'altezza del compito.
Quando i migranti fanno ritorno a casa è spesso difficile per loro rintegrarsi
nella società a causa della mancanza di programmi governativi, poche opportunità
di lavoro e, in alcuni casi, perché oggetto di una vera e propria
discriminazione.
Secondo la rete televisiva rumena Realitatea negli ultimi 18 mesi circa 23.000
cittadini romeni sono stati espulsi dai paesi dell'Ue. Alla maggior parte di
questi, in particolare di origine rom, è stato vietato di far rientro nell'Ue
nei prossimi 5 anni: hanno infatti subito condanne per piccoli crimini quali
furti o irregolarità nel dichiarare la propria residenza in uno stato membro.
L'Italia è stato il paese dell'Ue che più di recente ha lanciato una campagna
per espellere dal proprio territorio i rumeni asserendo che rappresentano una
minaccia per la sicurezza pubblica. Queste misure sono seguite ad un'ondata di
crimini violenti la cui responsabilità è stata attribuita a immigrati
provenienti dalla Romania. Tra questi lo stupro e l'omicidio della
quarantasettenne Giovanna Reggiani.
Solo nell'ultimo mese, a Roma, 177 rumeni hanno ricevuto un decreto di
espulsione, anche se il numero di persone che se ne è poi realmente andato è più
basso. “Quarantanove persone sono state espulse dall'Italia in novembre, per la
maggior parte perché occupavano abusivamente proprietà private o perché non
erano in possesso di tutta la loro documentazione”, affermano fonti interne al
ministero degli Interni romeno.
Le persone espulse vengono prese sotto custodia dalla polizia all'aeroporto di
Bucharest. “Controlliamo le loro impronte digitali a chiediamo di raccontarci la
loro specifica situazione. Più tardi vengono accompagnate a casa scortate dalla
polizia o, almeno, accompagnate dalla polizia ad un autobus che li riporti a
casa”, racconta un poliziotto che lavora all'aeroporto Otopeni. Le informazioni
raccolte dalla polizia vengono poi passate alle autorità locali, responsabili
per la situazione degli espulsi.
Lo scorso mese Bucharest ha annunciato nuove misure per contrastare i crimini
commessi in Italia da immigrati rumeni, e tra queste anche iniziative a sostegno
di chi viene rispedito in Romania.
La maggior parte del peso ricadrà sulle autorità locali, saranno infatti
obbligate ad offrire pasti e una sistemazione temporanea a chi lo richieda,
assieme a sostegno legale e psicologico. Ai rientranti verrà inoltre offerto
l'inserimento in corsi di formazione lavoro. “Intendiamo trovare per loro dei
posti di lavoro in Romania e contribuire in quel modo a combattere la
criminalità. Dobbiamo inoltre prendere provvedimenti nei confronti di chi
organizza reti illegali per reclutare lavoratori”, afferma il ministro per il
Lavoro Paul Pacuraru.
Chi farà rientro volontariamente avrà la priorità nell'assegnazione di alloggi
sociali. Il piano del governo prevede inoltre che le aziende che decidessero di
assumerli, ricevano sovvenzioni statali. Il programma d'alloggio verrà
finanziato da fondi Ue mentre le sovvenzioni alle aziende verranno dal budget
statale.
Ciononostante non sarà facile trasformare questi piani in realtà. Anche se sul
piano alloggi ad esempio si è trovato un accordo, il ministro Pacuraru
sottolinea come sia “molto difficile per le autorità locali trovare edifici
adatti”.
Le politiche governative non si rivolgono esclusivamente a chi viene espulso e
non è riuscito a costruirsi una vita all'estero. Le autorità intendono spingere
i lavoratori rumeni a rientrare in patria in modo da sopperire ad una crescente
mancanza in loco di forza lavoro. In molti hanno lasciato infatti il Paese dopo
che la Romania, ad inizio 2007, è entrata nell'Ue. In particolare a causa dei
bassi salari. Più di due milioni di rumeni stanno lavorando all'estero,
soprattutto in Italia e Spagna.
“Servono lavoratori nell'edilizia, nell'industria agro-alimentare, nelle
fabbriche tessili. I salari non sono male ma in molti semplicemente si rifiutano
di fare questo tipo di lavori”, afferma Pacuraru aggiungendo che questo è vero
soprattutto per gli appartenenti alla comunità rom.
Vi sono tra il milione e mezzo e i due milioni di rom in Romania; le autorità
spesso discutono dei problemi che riguardano questa comunità in termini di
criminalità, ma raramente si affronta la questione della marginalizzazione di
questi ultimi.
Il governo recentemente ha annunciato nuove misure a favore di una maggiore
integrazione dei rom nella società rumena. Il ministro degli Interni Cristian
David ha anche annunciato che preparerà un progetto da proporre alla Banca
Mondiale per sostenere gli abitanti di Avrig, una cittadina della Romania
centrale. Avrig ha acquisito notorietà per essere la città d'origine di Nicolae
Mailat, il giovane rom che ha ucciso Antonella Reggiani. Mailat, 24 anni, viene
da una famiglia povera e da ragazzino ha passato tre anni in un istituto
correttivo dopo essere stato condannato per furto. Al suo rilascio, venne
nuovamente arrestato per furto. La madre di Mailat, che afferma di essere stata
forzata a rientrare in Romania dopo l'arresto del figlio, vive in un
accampamento abusivo nella periferia della cittadina.
Afferma che non vi è nulla per lei e per la propria famiglia in Romania, dove
non ha né lavoro né casa. Vuole ritornare in Italia, dove mendicava per strada
con la figlia di tre anni. Anche gli attivisti delle organizzazioni rom
ammettono che è molto difficile convincere chi è stato espulso a non provare a
rientrare nei paesi Ue. “Queste persone hanno bisogno di più attenzione da parte
delle autorità locali e di progetti validi a loro favore qui in Romania”,
afferma Marian Mandache, avvocato che lavora per l'associzione Romani Criss.
“Devono essere coinvolti in progetti di formazione lavoro. Certamente non è
difficile trovare un lavoro, ma è difficile tenersi un buon posto di lavoro se
non si è un lavoratore qualificato”.
Di Fabrizio (del 27/11/2007 @ 09:08:19, in Italia, visitato 2612 volte)
Ricevo e porto a conoscenza
Siamo un collettivo (comitato?), composto da italiani e immigrati di un campo di
Rom e di romeni, dell’interland milanese. Vogliamo contrastare la campagna
montante anti-Rom, anti-romeni e anti-immigrati che il governo Prodi (attraverso
il cosiddetto decreto “sicurezza”), l’opposizione di centrodestra e la grande
stampa stanno portando avanti. Vogliamo contrastare gli stessi effetti concreti
che questa campagna e i provvedimenti del governo stanno già producendo:
Famiglie rimpatriate arbitrariamente, lavoratori (in regola o in nero)
licenziati, baraccopoli date alle fiamme e sgomberate, donne e uomini aggrediti
da bande fasciste, bambini terrorizzati.
Vogliamo
contrastare i luoghi comuni preconfezionati e divulgati da buona parte dei mezzi
di comunicazione di massa, in base ai quali i Rom, i romeni e gli immigrati in
generale sono dei soggetti potenzialmente dediti ad ogni sorta di crimine. Siamo
in presenza di una manipolazione dell’opinione pubblica attraverso delle vere e
proprie tecniche di istigazione all’odio razziale. Un esempio? Quando delitti
atroci vengono compiuti da singoli italiani, vedi il caso di Omar ed Erica a
Novi Ligure, oppure la Strage di Erba dei coniugi Romano, o ancora gli omicidi
commessi a Guidonia da un tiratore scelto dell’esercito italiano, la
rappresentazione che ne viene data è di singoli mostri o di individualità
impazzite. Quando un crimine è commesso da un immigrato allora la colpa è
collettiva, di nazionalità, di razza, è il caso della tragedia accaduta a Roma
con l’omicidio di Giovanna Reggiani.
Questa
campagna, fa leva su un malessere legato alla crescente insicurezza sociale ed
esistenziale ed ha la finalità di scagliare contro i lavoratori immigrati la
rabbia dei lavoratori italiani. Ma questa crescente insicurezza che coinvolge
sempre di più la massa dei lavoratori, è prodotta dal capitalismo, dai padroni e
dalle politiche che in questi anni i vari governi, hanno portato avanti con i
tagli alla sanità, alla scuola, alle pensioni, alla spesa sociale, con le misure
di precarizzazione del lavoro e con le politiche militaristiche contro i popoli
del Sud e dell’Est del mondo.
Ai lavoratori immigrati
volgiamo dire che è giunta l’ora di organizzarsi e difendersi dalla compagna
razzista in atto, di non nutrire nessuna aspettativa verso le istituzioni, e
soprattutto di contrastare il tentativo di questo governo che (in continuità con
quello Berlusconi) vuole dividere i lavoratori immigrati per linee nazionali,
“etniche” e religiose. Vuole dividere per indebolire.
Ieri i “nemici” additati erano gli albanesi, poi gli islamici adesso è arrivato
il turno dei lavoratori romeni e dei Rom. Non cadiamo nella trappola. Dobbiamo
contrastare l’immagine che vuole identificare nell’immigrato il responsabile del
peggioramento della vita e del lavoro delle persone. Possiamo farlo dando
seguito alle manifestazioni auto organizzate degli immigrati del 27 e 28 ottobre
scorso, svoltesi a Brescia, Roma e Como, contro il razzismo, contro la Bossi
/Fini e per il permesso di soggiorno senza condizioni. Sappiamo quanto pesi la
ricattabilità sulla capacità di difendersi, soprattutto quando questa si
accompagna alla solitudine e al clima di sospetto, per non dire di peggio, che
si è impossessato anche dei lavoratori italiani. Per questo vi chiamiamo ad una
azione comune di lotta, di denuncia e di difesa delle condizioni di vita e di
lavoro nell’obiettivo di trovare una via di uscita per rompere il muro di
isolamento che padroni ed istituzioni hanno eretto per dividere e contrapporre i
lavoratori italiani ed immigrati.
Ai lavoratori italiani
vogliamo dire che il razzismo è un’arma nelle mani dei padroni per dividere e
contrapporre i lavoratori al loro interno. Per scatenare un guerra tra “poveri”.
Dobbiamo fare un bilancio sul peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro
e di come questo peggioramento sia legato anche all’adozione di norme razziste
e specifiche contro gli “stranieri”. Le leggi contro i Rom condannano ad un
“nomadismo” coatto senza servizi e diritti immigrati che non avevano mai vissuto
prima questa condizione. La legge Martelli e la Turco/Napolitano ieri, la
Bossi/Fini e il decreto sicurezza, oggi, hanno come obiettivo non quello di
combattere la clandestinità ma di incrementarla notevolmente, in modo tale di
avere un esercito di riserva composto da lavoratori immigrati clandestini, privi
di diritti e garanzie. Così facendo si permette alla “razza” padrona di
disporre, nella società, di manodopera ricattabilissima, da utilizzare,
involontariamente, contro i lavoratori più “garantiti” per abbassare i diritti e
il salario di tutti ( Un operaio edile clandestino a Milano “guadagna” 3 € l’ora
per 13-14 ore al giorno, ed è già successo spesse volte che gli immigrati che
hanno avuto il coraggio di denunciare la loro condizione di super sfruttamento
siano stati espulsi in quanto clandestini).
Non nascondiamo che ci sia anche un problema legato al
degrado ed alla emarginazione che coinvolge una piccola (molto piccola!) fetta
di immigrati dediti a piccoli espedienti, o a fenomeni di micro-criminalità.
Tanto è vero che vogliamo contrastare con forza questo destino che le forze
legate al mercato, alla speculazione edilizia e soprattutto alla grande
criminalità, intendono riservare ai settori più emarginati e più poveri della
società, rendendoli “manovali dei loro traffici”. Vogliamo trovare assieme
lavoratori italiani e immigrati la via d’uscita al degrado, alla emarginazione e
al peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di tutti i proletari.
Siamo convinti che questa via, sta nell’unità della
lotta per strappare le periferie all’attuale degrado, imponendo con la
mobilitazione di massa, di dirottare in questa direzione le risorse statali e
locali oggi catalizzate su speculazioni e affarismi più o meno legali. Sta nella
battaglia per i pieni diritti degli immigrati e per la loro piena equiparazione
con i lavoratori italiani. Sta nella lotta per ottenere il permesso di soggiorno
senza condizioni, per un accesso garantito, alla casa, ai servizi sanitari,
scolastici e previdenziali per tutti gli immigrati. Per fare questo occorre che
ci si organizzi e ci si batta insieme, proletari italiani e immigrati, contro il
precariato, contro la restrizione dei diritti, contro il degrado dei nostri
quartieri per un protagonismo dei lavoratori, dei giovani per prendere in mano e
assieme il nostro comune destino.
Per avviare questo percorso abbiamo pensato ad
un incontro collettivo pubblico a cui sollecitiamo tutti, lavoratori italiani e
immigrati a partecipare
Makfax, Strasburgo, 21.11.2007 08:40 - E' stato presentato mercoledì un compact disc con la versione
romanes dell'inno europeo, iniziativa promossa dalla folk singer
Esma Redzepova.
L'edizione musicale è parte della campagna di sensibilizzazione "Dosta!"(Basta)
organizzata dal Consiglio d'Europa. La parola rom "Dosta!" intende porre fine ai
pregiudizi portando più vicini i cittadini europei Rom e non-Rom.
Si stimano in 10 milioni i Rom in Europa, sparsi in quasi tutti gli stati. In
alcune aree dell'Europa centrale ed orientale rappresentano oltre il 5% della
popolazione.
Co-finanziato dalla Commissione Europea, il progetto include programmi
formativi per Rom e governi a sostegno dei diritti dei Rom, e la campagna di
testimonianza "Dosta!" che promuove un'immagine positiva dei cittadini rom
contro gli stereotipi ed i pregiudizi comuni. Il programma Uguali Diritti e
Trattamento per i Rom nell'Europa del Sud Est, lanciato nel 2006, si rivolge a
Macedonia, Albania, Bosnia Herzegovina, Montenegro e Serbia.
Di Fabrizio (del 25/11/2007 @ 08:27:48, in casa, visitato 2370 volte)
Klassa (Bulgaria) -
http://www.class.
bg/view.php? id=5392
Le autorità municipali della capitale hanno annunciato i piani per la
costruzione di un muro ai confini del quartiere rom di Sofia. Il muro correrà
parallelo al percorso della ferrovia e le motivazioni ufficiali sono che
"proteggerà contro il rumore del passaggio dei treni e dai depositi improvvisati
di rifiuti [...]" Commenta Georgi Papakotshev: "La decisione di costruire un
muro ai confini del quartiere rom di Fakulteta ha causato tumulto tra i
residenti del quartiere. C'è una similitudine evidente con la situazione della
città ceca di Ustí nad Labem nel 1999. Questa analogia racconta molto sui
frequenti e xenofobici umori nei paesi post comunisti. Ma allora la Repubblica
Ceca non era ancora parte dell'Unione Europea, mentre la Bulgaria ne è membro da
dieci mesi... Quale prezzo pagheremo per questo muro? Bene, la Bulgaria... non
sarà più a lungo "un modello esemplare Europeo" per il resto della regione
meridionale dei Balcani."
Di Fabrizio (del 24/11/2007 @ 08:05:07, in Italia, visitato 2371 volte)
Comunicato stampa dell’Opera Nomadi, sezione di Padova
Da come si recepisce dai mass media, sembra che ultimamente ci sia stata
un’invasione di rom rumeni, in realtà già da qualche anno si sapeva della loro
presenza soprattutto nelle grandi città: Napoli, Roma, Milano, Bologna e
Firenze, dove sono costretti a vivere in baraccopoli o in campi abusivi o
ammassati nei campi nomadi anche assieme ad altri rom di diversa provenienza.
Restavano e restano invisibili perché poco o nulla si fa per loro: progetti di
integrazione lavorativa, scolastica e abitativa.
Già all’inizio del 2006, abbiamo inviato ai Ministeri un dossier approssimativo
sulla presenza dei rom rumeni in Italia, soprattutto per il fatto che andavano
ad aumentare il numero delle presenze nei campi e nelle baraccopoli vere e
proprie favelas che causano tragedie come quelle di Follonica, dove una bambina
è morta bruciata a marzo di quest’anno, di Livorno in agosto dove sono morti
bruciati 4 bambini e oggi a Bologna a Borgo Panigale in una baracca dove è morto
un altro bambino di 4 anni e i suoi 2 fratellini sono rimasti gravemente
ustionati.
Il numero delle presenze è senz’altro aumentato in quest’ultimo periodo, sono
arrivate con mezzi di fortuna, intere famiglie povere e purtroppo, grazie alla
strumentalizzazione sia politica sia dei mass media, il “razzismo da paura” e la
xenofobia, che erano latenti nella gente comune, sono emersi, tanto da
convincerla che proprio questa povera gente sia il pericolo maggiore per quanto
riguarda la sicurezza dei cittadini. Pensiamo sia giunto il momento di spegnere
il televisore, riporre i giornali e fermarci a riflettere su quanto la presenza
dei rom rumeni rappresenti una minaccia concreta alla nostra società, già
afflitta da problemi socio economici gravissimi. Come presupposto
imprescindibile per affrontare il fenomeno e governarlo al meglio ci dovremmo
domandare innanzitutto quanti sono perché, a giudicare dalla visibilità data
loro dai media la risposta sarebbe tanti, più dei mafiosi, degli evasori
fiscali, dei precari e dei lavoratori in nero, in realtà non esistono cifre
precise. È dunque giustificato parlare di invasione e cifre allarmanti ? la
nostra percezione di minaccia trova un effettivo riscontro numerico nella realtà
?.
Non è mai stato avviato un monitoraggio qualitativo e quantitativo di queste
popolazioni a livello nazionale anche se, come Opera Nomadi, abbiamo presentato
ai Ministeri già all’inizio di quest’anno un progetto di indagine conoscitiva
sociale di tutta la popolazione rom, sinta e camminante presente in Italia che
dovrebbe essere effettuata impiegando mediatori culturali Rom italiani e
stranieri, Sinti e Camminanti, vista la problematica situazione in cui versano
le famiglie. Un progetto per poter meglio affrontare da un punto di vista
organico e organizzativo le situazioni, per portare a conoscenza delle
Istituzioni le problematiche e le istanze degli invisibili ignorati e
discriminati, per conoscere precisamente quanti siano i Rom, Sinti e Camminanti
presenti in Italia (con un’attenzione particolare ai bambini e ragazzi in età
scolare), per riuscire ad avere una visione più chiara e completa a livello
nazionale. Solo attraverso una conoscenza più approfondita e uno scambio
interculturale possono venire superate le paure e i pregiudizi. C’è da
sottolineare il fatto che, tranne per alcune realtà, prima dell’arrivo dei rom
rumeni, non si è proceduto mai alla sistemazione dei rom e sinti italiani
presenti in Italia alcuni dal 1400, altri dai primi del novecento o dopo la
seconda guerra mondiale e dei rom provenienti dalla ex Jugoslavia arrivati nel
ns. paese a causa della guerra negli anni ‘90, che rappresentano tutti insieme,
italiani e stranieri, circa lo 0,3 % della popolazione italiana. E’ mancata la
volontà politica di superare il ghetto rappresentato dai campi nomadi,
preferendo lasciare queste persone in condizioni di passività supportandole con
l’assistenzialismo, senza favorire un percorso autonomo, di accesso alle risorse
lavorative, in modo da far si che si assumessero i diritti e i doveri che
comporta l’essere cittadinanza attiva.
Purtroppo la tragedia di Roma pare aver segnato un punto di non ritorno: dal 1°
novembre non c’è spazio per alcuna posizione intermedia, e viene
sistematicamente censurato qualsiasi tentativo di mediazione e analisi del
problema: la ragione ha ceduto il passo alla pancia.
Più preoccupante dei sospetti e delle ritorsioni contro i rumeni in generale, è
stata la reazione delle Istituzioni. I politici si sono affrettati a disporre
provvedimenti scritti, avendo in mente come destinatario un’etnia ben precisa, e
per questo motivo hanno emanato leggi speciali per un gruppo sociale definito: e
quindi leggi razziali. Ecco gli sgomberi e abbattimenti indiscriminati di
baracche abitate da persone senza proporre e fornire altre soluzioni (così è
successo a Bologna, Roma, ecc.) persone che non conosciamo neppure, oppure
ordinanze di sindaci che grazie al recente decreto si sentono in diritto di
negare la residenza e di espellere dal proprio territorio chiunque non abbia un
alloggio decente e un reddito minimo di sopravvivenza (come a Cittadella Comune
della Provincia di Padova). Da ciò hanno tratto forza gruppi organizzati che
cavalcano la paura dei cittadini e manifestano esponendo simboli che la nostra
Costituzione considera fuori legge. A ben guardare, la politica dello sgombero,
assomiglia al gioco delle tre carte: non appena ciascuna città avrà allontanato
i propri indesiderati, vedrà arrivarne contemporaneamente altri, sgomberati da
un’altra Amministrazione, e i cittadini saranno ancor più allarmati dalla
presenza di facce sempre nuove. Che fare dunque, quando qualsiasi proposta di
attivazione di progetti di integrazione (almeno per i bambini!) viene aggredita
con rabbia irrazionale? Come trasmettere che, come dimostra l’esempio di
migliaia di cosiddetti nomadi, queste persone se dotate di strumenti validi,
quali percorsi mirati di inserimento lavorativo e scolastico, sono in grado,
tanto quanto i nostri concittadini in condizione di svantaggio, di affrancarsi
dalla miseria e dalla ghettizzazione come sta avvenendo in alcune città
(purtroppo poche) dove le amministrazioni si sono dimostrate sensibili al
problema?
Il nodo centrale, pare, siano le risorse economiche necessarie per finanziare i
progetti, che oltretutto i rom “non meritano” siano essi stranieri o italiani.
Ma siamo sicuri che meritino di essere considerati degli asociali subumani che
non possono che essere rimandati nel loro Paese o relegati a vivere per sempre
nei ghetti come sono i campi nomadi o nelle baracche? Per quanto riguarda gli
stranieri extracomunitari, la legge Bossi Fini è fallita proprio per questo: le
procedure di espulsione sarebbero costate un’enormità sia di denaro che di
personale impiegato. L’espulsione inoltre, non dà garanzia alcuna che il flusso
dei migranti si arresti, né che prenda altre destinazioni, o che le stesse
persone, non avendo nulla da perdere, tornino nuovamente in Italia. Espellere
non è fattibile per gli extracomunitari, figuriamoci per i rumeni, almeno che
non siamo favorevoli all’introduzione di una sorta di expulsion-tax. Se in
Italia stiamo fronteggiando un’emergenza umanitaria, allora agiamo di
conseguenza, attivando tutte le risorse del caso. Innanzitutto si devono creare
dei punti di prima accoglienza, tirando fuori dalle lamiere adulti e bambini,
attivando anche Protezione Civile e personale sanitario.
Una volta stabilizzata la situazione, è doveroso iscrivere subito i minori a
scuola, formando mediatori culturali rom con il compito di favorirne
l’integrazione in classe e facilitare i rapporti scuola – famiglia. Un bambino
che va a scuola è un bambino che non rivedremo né per strada né nei
sensazionalistici articoli di cronaca in cui ci imbattiamo negli ultimi mesi.
Contemporaneamente vanno analizzate le competenze lavorative degli adulti e va
attivato un piano di inserimento lavorativo che contempli anche la possibilità
di costituire cooperative di recupero di materiale ferroso, cooperative edili,
di pulizia e di giardinaggio, lavori tradizionalmente praticati dai rom nei
Paesi di origine dai Rom/Sinti. Il reperimento di un’abitazione consona a degli
esseri umani deve essere indirizzato sia verso alloggi di edilizia popolare,
quando le famiglie ne abbiano i requisiti, sia rivolgendosi al mercato privato.
Una terza via assai vantaggiosa per gli stessi comuni è, come insegnano altre
realtà in Italia ed Europa, l’autocostruzione e l’autorecupero, ovvero il
restauro di stabili inoccupati. Una volta economicamente autonome, le famiglie
saranno in grado di gestire la propria vita senza alcun altro bisogno e
richiesta da parte loro.
Da sottolineare che i soldi stanziati dalla Comunità Europea per l’integrazione
di Rom e Sinti ci sono, ma non sono stati richiesti da nessuno (Governo e
amministratori). Questi fondi esistono da anni, tanto quanto le baracche e i
campi nomadi che troppo a lungo abbiamo finto di non vedere.
I Rom e i Sinti rappresentano la più grande minoranza a livello europeo con
circa otto milioni di persone e, nonostante questo, nella legge 482 del 15
dicembre 1999 “norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche e
storiche”, nel ns. paese le popolazione rom/sinte non sono state neanche
nominate disattendendo norme, principi ed impegni internazionali e in
particolare quelli della Carta Europea delle lingue regionali minoritarie in
vigore dal 1° marzo 1998 che prevede esplicitamente norme “anche per le lingue
sprovviste di territorio come l’yddish e lo zingaro”.
Sappiamo tutti che nessuno nasce con il pregiudizio (viene trasmesso da padre in
figlio), alla cui base sta soprattutto la mancanza di conoscenza; non si riduce
solo col buon senso ma con messaggi istituzionali forti che permettano alla
società maggioritaria una conoscenza più approfondita di queste popolazioni e
che agevolino quest’ultime nel processo di assunzione, come già espresso in
precedenza, dei diritti e dei doveri di cittadinanza attiva, uscendo dalla
logica assistenziale negativa a cui sono stati abituate troppo spesso e in cui
si sono adagiate. E’ necessaria, quindi, una riconciliazione nazionale che
chiuda le ostilità, che avvii processi e iniziative, che permetta che venga
riconosciuta la ricchezza derivante dal dialogo e dallo scambio fra i diversi
orizzonti culturali per una ridefinizione degli stessi.
Per concludere, la sicurezza non si ottiene con azioni repressive ma attraverso
l’accoglienza, l’attenzione, l’inclusione sociale, l’accesso alle risorse e
soprattutto con la conoscenza e con lo scambio interculturale.
Opera Nomadi
Sezione di Padova – ONLUS
Di Fabrizio (del 23/11/2007 @ 09:01:02, in scuola, visitato 2514 volte)
Ricevo da Marco Brazzoduro
Rapporto di Amnesty International sulla Repubblica Slovacca: negata ai bambini e alle bambine Rom un’istruzione secondo criteri di uguaglianza e non discriminazione “I bambini qui sono dei ritardati mentali. C’è la tendenza a integrare i Rom nelle scuole primarie, ma per gli alunni con ritardo mentale e sociale non cambia niente. I bambini che provengono da un ambiente socialmente svantaggiato soffrono di un ritardo sociale e mentale.” (Il preside di una scuola speciale frequentata per il 9% da bambine e bambini Rom) Un alto numero di bambine e bambini Rom viene ancora assegnato, in modo sproporzionato, a scuole speciali, frequenta classi per persone con disabilità mentale e difficoltà d’apprendimento o viene segregato in scuole per soli Rom: è questa la denuncia contenuta in un rapporto presentato oggi da Amnesty International sulle violazioni del diritto all’istruzione dei bambini e delle bambine Rom nella Repubblica Slovacca. Il rapporto dell’organizzazione per i diritti umani segnala che i bambini e le bambine Rom assegnati alle scuole speciali seguono programmi ridotti e non hanno praticamente alcuna possibilità di reintegrarsi nelle scuole ordinarie o proseguire nell’educazione secondaria. Amnesty International chiede alle autorità slovacche di affermare in modo forte e chiaro la loro determinazione a sradicare la diffusa segregazione nell’istruzione delle bambine e dei bambini Rom e di prendere misure immediate per favorire la loro effettiva integrazione. “A prescindere dalla loro capacità individuale, molti bambini e bambine Rom ricevono un’istruzione di serie B in classi segregate. Se il governo non riesce a fornire un’istruzione adeguata a tutti i bambini e le bambine Rom, le loro prospettive d’impiego diventano scarse e si perpetua in questo modo un ciclo di marginalizzazione e di povertà” – ha dichiarato Nicola Duckworth, direttrice del Programma Europa e Asia Centrale di Amnesty International. L’organizzazione per i diritti umani si dice preoccupata per il fatto che il modo in cui vengono effettuate le valutazioni e i criteri usati per assegnare una bambina o un bambino in una scuola o in una classe speciale possono costituire elementi di discriminazione, poiché non tengono in adeguata considerazione le differenze linguistiche e culturali. Il rapporto di Amnesty International afferma che fino al 50% delle bambine e dei bambini Rom sono stati assegnati a scuole o classi speciali in modo errato. “Una bambina o un bambino che vivono in una baracca in mezzo al nulla, senza elettricità o acqua corrente non sapranno mai come scaricare una toilette, usare un bagno, impugnare una matita, fare un disegno o parlare slovacco. Tutto questo, però, non dovrebbe privarli del loro diritto fondamentale a un’istruzione adeguata” – ha sottolineato Duckworth. Un’ulteriore motivo di preoccupazione per Amnesty International è costituito dall’ampia presenza di scuole e classi per soli Rom. In alcune zone orientali della Repubblica Slovacca, il 100% delle scuole è di tipo segregato. La legge prevede che i genitori abbiano il diritto di scegliere la scuola per i propri figli. Questa normativa, apparentemente neutrale, contribuisce in realtà alla segregazione: la libertà di scelta dei genitori dà spesso luogo al ritiro di bambine e bambini non Rom dalle scuole frequentate prevalentemente da Rom. La scelta dei genitori, insieme alla mancanza di trasporti scolastici gratuiti per le bambine e i bambini Rom influenza la segregazione e riduce radicalmente l’interazione tra i Rom e i loro coetanei in Slovacchia. Sebbene insista che la segregazione non è una politica ufficiale, finora il governo di Bratislava non si è veramente impegnato a fermarla. Come ha detto un funzionario slovacco ad Amnesty International, la segregazione si ottiene facilmente ed è difficile contrastarla. “La società civile ha la competenza e l’esperienza per contribuire a risolvere i problemi della segregazione e della discriminazione nei confronti delle bambine e dei bambini Rom. Un miglioramento degno di nota sarà possibile solo con il coinvolgimento attivo e concordato del governo slovacco e di ogni livello delle istituzioni, delle comunità Rom e delle organizzazioni non governative” – ha commentato Duckworth. Alcune misure speciali assunte dal governo, come l’istituzione di classi preparatorie, l’assunzione di insegnanti di sostegno, gli incentivi finanziari alle scuole per integrare le bambine e i bambini Rom e un minimo di formazione per gli insegnanti che lavorano con i Rom, hanno avuto l’approvazione di Amnesty International. Tuttavia, queste misure non sono obbligatorie e in molti casi non vengono attuate a livello locale. Il diritto all’istruzione è collegato ad altri importanti diritti umani, come il diritto a un’abitazione adeguata. Circa un terzo della popolazione Rom della Repubblica Slovacca vive in insediamenti situati fuori dalle città e dai villaggi, con scarsa o addirittura assente fornitura di acqua ed elettricità, servizi igienici, strade asfaltate e altre infrastrutture fondamentali. L’assenza di adeguati alloggi per i Rom ha un impatto notevole sulla possibilità che le bambine e i bambini Rom possano beneficiare del diritto all’istruzione. Katarina Krustenova, che vive in un insediamento nei pressi di Letanovce, nella Slovacchia orientale, ha dichiarato ai ricercatori di Amnesty International: “Abbiamo una candela… vorremmo che i nostri figli studiassero a casa, ma finisce molto presto…”. “I Rom hanno le stesse aspirazioni del gruppo maggioritario della popolazione slovacca. Il governo deve assumersi le proprie responsabilità e promuovere, proteggere e ottenere il diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini Rom. Deve anche far sì che gli insediamenti precari e segregati dei Rom siano un ricordo del passato” – ha concluso Duckworth. “È molto importante che l’Unione europea, di cui la Repubblica Slovacca è Stato membro, sostenga il governo in tutti i suoi reali tentativi di affrontare il problema della sistematica violazione del diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini Rom. L’Unione europea potrebbe farlo fornendo la necessaria assistenza finanziaria e tecnica e assicurando la partecipazione dei Rom a tutti i livelli dell’adozione e dell’attuazione di politiche e programmi riguardanti la loro vita”. FINE DEL COMUNICATO Roma, 15 novembre 2007
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