Da
Nazione Indiana
di Laura Nobili e Imma Tuccillo Castaldo
Pochi giorni fa, ai primi di novembre 2007, l’Alto Commissariato dell’Onu per
i Diritti Umani ha richiamato l’Italia per il mancato rispetto delle norme
internazionali in materia di
diritti delle popolazioni rom. In particolare, sono state messe sotto accusa
le azioni di sgombero forzato degli insediamenti ‘legali’, oltre che di quelli
abusivi, a Roma e in alcune altre città italiane. In questi insediamenti
vivevano comunità ‘storiche’ rom, insieme ad altre di più recente immigrazione.
Si tratta di una vera e propria ‘ripulitura del territorio’ ai fini del
decoro pubblico, come sembra sostenere il sindaco Walter Veltroni. La
condanna dell’Onu segue quella dell’aprile 2006, sancita dal Comitato Europeo
per i Diritti Sociali (CEDS): con questa l’Italia viene accusata di
sistematica violazione del diritto delle popolazioni rom ad un alloggio
adeguato, in riferimento all’art. 31 e art. E della
Carta Sociale Europea Revisionata .
Il progetto di ‘restauro’ del centro e delle periferie romane depresse è stato
inaugurato il 22 febbraio 2007. Le agenzie di stampa hanno battuto la notizia
del lancio delle operazioni di sgombero, distruzione indiscriminata e
‘delocalizzazione’ dei cittadini rom. Questa è la conseguenza dell’azione
pianificata dal Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza
pubblica di Roma, l’organo collegiale di consulenza dell’ex Prefetto
capitolino, Achille Serra.
Nel marzo 2007, per rafforzare le politiche di eugenetica urbana, il Ministero
dell’Interno e l’Associazionie Nazionale dei Comuni Italiani hanno siglato il
Patto per la Sicurezza, a cui sono seguiti, pochi mesi dopo, a
maggio, i Patti per Roma sicura e per Milano sicura,
imitati con poche varianti da altri capoluoghi di provincia.
Il Patto per Roma Sicura, che prevede notevoli contributi finanziari da parte di
Regione, Provincia e Comune, oltre che l’indispensabile collaborazione della
Prefettura, promuove «interventi risolutivi delle esigenze di contenimento delle
popolazioni senza territorio, nonché inclusione sociale, attraverso,
rispettivamente: la costruzione di quattro villaggi della solidarietà in aree
attrezzate in grado di ospitare circa 1000 persone – ciascuno da realizzare su
aree comunali o demaniali – disciplinati da specifici regolamenti di gestione;
programmi di abbattimento di insediamenti abusivi, con successiva
riqualificazione delle aree liberate».
Il primo risultato conseguito dal varo del Patto per Roma Sicura è stata la
legittimazione della sistematica distruzione dei beni materiali, già esigui, di
migliaia di persone, confermando la propensione del centro-sinistra veltroniano
a spacciare per umanitarismo e solidarietà il mero tentativo di cavalcare la
deriva populista dell’Italietta odierna, priva di nerbo e di idee politiche.
Si conferisca pure il beneficio del dubbio e si consideri come fine di questi
sgomberi forzati la creazione di una città ‘vivibile e disinfettata’ e un
migliore destino per gli sgomberati; ci si interroghi allora sul significato e
sull’efficacia dell’integrazione ‘modello Roma’.
Ora, se Veltroni & Co. dovessero spuntarla, I villaggi della solidarietà
potrebbe diventare un bellissimo titolo per un film di fantascienza a carattere
sociale, e, senza troppi sforzi di immaginazione, Quentin Tarantino potrebbe
metterlo in scena: da una parte, villaggi collassati di poveri umani da salvare
e, dall’altra, un collegio di saggi che sputa direttive e impartisce ordini
all’armata aliena degli operatori cosmici. Allora sì, il film sarebbe perfetto,
candidato al festival del cinema perbenista di veltroniana invenzione: una
sceneggiatura impeccabile in cui la Società dello Spettacolo e il Circo del
Sociale si confermano i più efficaci strumenti di visibilità politica per
associazioni, partiti e ominidi portaborse e portatessera. I villaggi della
solidarietà non sarebbero nient’altro che dei megacontenitori per merce umana,
ora sparpagliata su tutto il territorio romano: un concentrato di esseri umani
rigettato su qualche chilometro quadrato. Ecco che ‘Roma città aperta’ si
trasfigura in Rom città chiusa (è il titolo di un documentario
prodotto nel 2001 da Manfredi, Marchetti e Pasquini) e l’emarginazione sociale
si fa topica oltre il Raccordo Anulare, alla faccia della tanto agognata
integrazione.
I media non utilizzano tutti i dati che hanno a loro disposizione: per
esempio, sono in pochi a ricordare che dei circa 160.000 rom censiti in Italia,
il 60% sono in realtà cittadini italiani. La maggior parte dei giovani di terza
e quarta generazione sono nati e cresciuti in Italia; se si sono trasformati in
cittadini stranieri o in cittadini invisibili, apolidi de facto, è soltanto a
causa del bizzarro funzionamento di un preciso dispositivo di legge, quello cioè
sulla cittadinanza (Legge n. 91/92). Prima di riuscire a
garantire il diritto, questa legge crea infatti delle assurde quanto
inestricabili trame burocratiche, in cui restano impigliate le vite di migliaia
di persone.
Entrata in vigore nel 1992, con essa si stabiliscono le modalità di
naturalizzazione per le persone nate in Italia da cittadini stranieri.
Riassumiamo. Lo straniero nato in Italia acquisisce la cittadinanza italiana
solo nel caso in cui ‘vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino
al raggiungimento della maggiore età’ e dichiari di volerla acquisire entro
un anno a partire da questa data. Sembrerebbe, quindi, che ‘manifestare la
propria volontà’ possa bastare al soggetto richiedente per poter ottenere la
cittadinanza. Contrariamente a qualsiasi logica, però, il Decreto di Attuazione
(DPR 572 del 1993) relativo a quella disposizione dispone che il soggetto, oltre
a dover manifestare questa volontà, debba altresì dimostrare di aver risieduto
legalmente sul territorio; ma il soggetto potrà dimostrare di risiedere
legalmente sul territorio soltanto se i suoi genitori avranno a loro volta
potuto mantenere la propria posizione regolare, vale a dire: permesso di
soggiorno e residenza ininterrotta per l’intero periodo dei diciotto anni. Detto
in altre parole: se i genitori di un bambino nato in Italia non avevano il
permesso di soggiorno al momento della sua nascita, anche se il bambino viene
iscritto nel registro dell’ufficio anagrafico, di fatto questa
iscrizione non basta. Solo l’iscrizione del bambino nel permesso di soggiorno di
uno dei genitori garantisce, infatti, la ‘legalità’ della residenza. Migliaia di
quei bambini, oggi ormai adulti, pur avendo frequentato le scuole italiane e pur
avendo vissuto tutta la loro esistenza in Italia, sono diventati ‘irregolari’ o
apolidi al compimento del loro diciottesimo anno di età. È bastato semplicemente
che i genitori al momento della loro nascita non avessero un permesso di
soggiorno o che, pur avendolo, non avessero formalizzato l’iscrizione anagrafica
con l’inserimento del bambino nel permesso di soggiorno, perché il ‘gap’ legale
della residenza, di qualche mese o di un anno, fosse sufficiente al rigetto
delle domande di cittadinanza.
Per anni è mancata una legge organica sull’immigrazione che regolasse lo
status dei cittadini stranieri in Italia. Il progressivo inasprimento delle
procedure di regolarizzazione, legate per lo più al possesso di un lavoro, ha
molto rallentato il percorso di regolarizzazione per tutti i migranti stanziali
di prima generazione (nati tra la seconda metà degli anni ’70 e la seconda metà
degli ’80). Una situazione drammatica per chi avesse scelto di vivere in Italia,
ma altrettanto drammatica per quasi tutti bambini che sono nati in Italia alla
fine degli anni ’80, quindi prima del varo della legge sulla cittadinanza del
1992.
In uno Stato di diritto non dovrebbero vigere le buone intenzioni,
soprattutto quando si devono sanare oltre venti anni di segregazione forzata (in
tuguri) di quelli che, per comodità filosofica o politica, siamo soliti definire
nomadi.
Se si leggono le delibere e i piani di intervento per l’istituzione dei campi
approvati negli ultimi 6/7 anni dalle amministrazioni capitoline, si scopre che
lo Stato di diritto è stato praticamente sospeso e trionfano, purtroppo, le
buone intenzioni. L’enorme sforzo intellettuale di quelle amministrazioni ha
partorito, nei confronti di queste popolazioni, un progetto residenziale fondato
su tre livelli di ‘integrazione sociale’:
– i campi sosta, definiti aree di sosta temporanea;
– i villaggi attrezzati, cioè strutture fornite di moduli abitativi
prefabbricati;
– gli inserimenti abitativi, vale a dire l’assegnazione di case
popolari per tutti i cittadini rom italiani e per i cittadini rom stranieri
legalmente soggiornanti sul territorio italiano.
Il primo livello prevede i servizi di base e un tempo massimo di permanenza di
12 mesi. Il secondo prevede l’inserimento nei villaggi attrezzati per una durata
massima di 36 mesi, prorogabile, ma sempre in funzione della successiva
assegnazione di case.
Infine, l’inserimento e la permanenza nei campi sosta, così come nei villaggi
attrezzati, può avvenire soltanto sulla base della provata ‘buona condotta’ dei
rom. I rom, essendo nomadi nell’immaginario collettivo dei loro detrattori e di
molti untori dei diritti umani, dovrebbero comportarsi secondo norme che le
amministrazioni municipali redigono sotto forma di ‘Patti sociali’. In queste
strane scritture viene persino prescritta una sorta di codice di condotta della
vita privata, a cui le persone dovrebbero attenersi per essere degne di
integrazione: è come se il proprietario di casa ci facesse stipulare un
contratto d’affitto solo a condizione che i bambini vengano mandati a letto
presto, o che la presenza di qualsiasi ospite venga tempestivamente ‘denunciata’
al corpo di Polizia Municipale.
Di solito, nei Patti sociali sono anche accennati i doveri che
l’amministrazione assume nei confronti dell’assegnatario di un posto in un campo
sosta o di un prefabbricato nei villaggi attrezzati: si tratta di servizi minimi
e del rispetto delle più elementari garanzie di sicurezza sociale: acqua
potabile, sistemi antincendio, manutenzione straordinaria, ecc., come si addice
a luoghi destinati alla pubblica convivenza. Il fatto è che le amministrazioni
non assolvono quasi mai a tali espliciti doveri, oppure lo fanno in maniera
soltanto parziale, cavalcando e sfruttando la serie dei soliti pregiudizi
metropolitani (mascherati da discorsi d’opportunità politica) per giustificare
le loro stesse inadempienze.
È importante sottolineare come tutti i progetti di sgombero seguano sempre le
stesse modalità e rendano sempre conto degli stessi processi politici e sociali;
in essi, ricorrono le stesse tipologie progettuali di allestimento, di gestione
e di manutenzione dei campi ‘attrezzati’ per i rom. È tutto un copia e incolla
di delibere, regolamenti, piani di intervento, ordinanze, ecc. A cambiare sono
solo gli importi che vengono versati per gli appalti di messa in opera,
rinnovati continuamente ed aumentati esponenzialmente a fronte di proroghe e
autorizzazioni che altro non fanno che rendere di fatto ‘eccezionale’, e perciò
ancor più precaria, ogni soluzione prospettata per la ‘sistemazione’ dei rom:
una manna(ia) dall’alto.
Era il 2005 quando il campo di Vicolo Savini, dove da quasi trent’anni
abitavano 770 persone, viene sgomberato per ‘emergenza sanitaria’. Trent’anni di
emarginazione non possono che produrre emergenze sanitarie. Al km 24 della via
Pontina, nei pressi di via di Trigoria, fu allestita dalla Protezione Civile una
tendopoli: 200 tende, ognuna per gruppi di 4 o 5 persone, 100 gabinetti chimici,
3 serbatoi d’acqua, 2 tendoni per le cucine, e una trentina di docce. Il più
grande campo d’Europa fu distrutto e Walter Veltroni, in compagnia
dell’Assessore alle Politiche Sociali Raffaella Milano, illustrò alla stampa
progetti e prospettive cui sarebbero state destinate quelle vite, sradicate da
un terreno di proprietà dell’Università Roma Tre. Dopo due mesi di permanenza,
la comunità avrebbe dovuto essere spostata in sistemazioni più confortevoli,
composte da moduli abitativi prefabbricati, e presso aree che l’amministrazione
comunale avrebbe individuato, garantendo altresì il rimpatrio facilitato nei
paesi d’origine per alcuni o l’accesso ai fondi destinati all’emergenza
abitativa per altri. Il megacampo di Castel Romano, prototipo dei famosi
villaggi della solidarietà, nasce così da un un lancio di dadi sulla Pontina,
nell’area di Decima Malafede.
Decima Malafede è una Riserva Naturale, sottoposta a vincolo ambientale; una
serie di norme regionali ne garantiscono – o dovrebbero garantirne –
l’inviolabilità del territorio, del suolo, delle specie animali e vegetali e
delle falde acquifere. Un Ente Autonomo della Regione Lazio (Roma Natura) ha il
compito di renderle esecutive. I rom del campo non hanno acqua potabile, ma
l’amministrazione comunale, oltre ad aver davvero fornito ai rom dei moduli
abitativi prefabbricati installandoli in un’area sottoposta a vincolo
ambientale, ha provveduto immediatamente al riequilibrio del disagio idrico: le
autobotti riforniscono le persone di acqua nera e maleodorante, che deve bastare
a tutti per lavarsi, pulire, cucinare – e per bere. (*1)
Il divieto di utilizzare le acque della riserva naturale (DL n.152 del maggio
1999) ha come conseguenza almeno due altre fondamentali omissioni di gestione
che rendono inaccettabile la qualità della vita nel campo: l’impossibilità di
allestire un sistema fognario e l’impossibilità di rendere funzionante un
impianto antincendio. Le ditte appaltate per la messa in opera del campo hanno
provveduto alla fornitura delle attrezzature antincendio; il dubbio potrebbe
sorgere qualora si scoprisse che non vi sono schede tecniche di collaudo delle
stesse. E il dubbio si rigenererebe da sé se volessimo chiedere di verificare le
schede di manutenzione ordinaria che ogni sei mesi vanno compilate dalla ditta
che se ne occupa. Per capirci: ci sono le manichette per gli idranti, ma non
possono essere collegate alla rete idrica.
E i bambini, tanto cari alle amministrazioni comunali? Per i bambini sono
previsti progetti di scolarizzazione e innumerevoli altri progetti e progettini,
gestiti da varie associazioni sinistroidi o pseudoumanitarie che inghiottiscono,
disperdono e volatilizzano il denaro pubblico senza mai arrivare alla
realizzazione degli impegni assunti. Per esempio, i progetti di scolarizzazione
prevedono pulmini per portare a scuola i bambini. Ma a scuola i bambini ci
andrebbero molto più volentieri se, anziché fare un tragitto di circa un’ora e
mezza per raggiungere la scuola assegnata da un Protocollo di Intesa ormai
vecchio e non più adeguato alla realtà dei fatti, potessero accedere alla molto
più vicina scuola di Pomezia. (*2) Dove sta allora l’origine di quel grave
fenomeno che sociologicamente viene chiamato ‘dispersione scolastica’?
Per il campo attrezzato di via dei Gordiani, il Patto sociale firmato nel
2002 dall’ex presidente del VI municipio, il dott. Vincenzo Puro, e dai
capofamiglia assegnatari dei moduli abitativi prefabbricati, ribadiva il
carattere transitorio della sistemazione in containers per le persone che da
quasi 35 anni vivono in Italia. Le tragedie che hanno investito le famiglie
residenti in quel campo sono innumerevoli. L’ultima si consuma il 30 ottobre
2007. Appena il giorno prima, agenti della polizia municipale avevano consegnato
a cinque capofamiglia, assegnatari di altrettanti containers, un invito ad
allontanarsi dal campo. Poche ore dopo, alle 7.30 del mattino, una ruspa agli
ordini di Antonio Di Maggio, Comandante del Gruppo Sicurezza Urbana della
Polizia Municipale, ha fatto molto più che rendere esecutivo l’invito di
allontanamento. Accusati di varie malvivenze, tra le quali il possesso di
stupefacenti ai fini di spaccio, uomini, donne e bambini sono stati cacciati dal
campo, e i loro averi distrutti. Eppure, in uno Stato di diritto esiste ancora
un codice penale e uno civile; il dubbio si insinua: chi ha violato le leggi
italiane e chi quelle internazionali? Ad una giovane donna, per esempio, nemmeno
è stato notificato l’invito ad allontanarsi dal campo: era in ospedale, affetta
da broncopolmonite. Dimessa qualche giorno dopo, si è trovata improvvisamente
per strada; lo stesso è successo alla madre, malata di cancro. Suo nipote,
cittadino italiano, seguiva un corso di inserimento professionale dopo il
diploma di terza media: è costretto ora a ricominciare daccapo e a ricomprarsi i
libri, andati tutti distrutti assieme al resto, sotto i colpi di mandibole
d’acciaio obbedienti agli ordini impartiti.
Qualche ora dopo, in un altro tugurio della capitale italiana, si consumava
l’omicidio Reggiani: la violenza è aberrante, non ha connotazioni etniche. La
morte di qualcuno, la sua sofferenza, l’immaginarne il dolore non possono che
indurre pudore e rispetto. Le riflessioni sono sempre successive, il pensiero si
organizza sì, ma questo avviene sempre un attimo dopo. Invece la razionalità
utilitaristica degli uomini che ricoprono alte cariche istituzionali ha dato
prova del suo cinico opportunismo: un decreto ad hoc che scuote anche
quella minima, irrisoria percezione dell’uguaglianza formale di tutti i
cittadini europei davanti alla legge europea. La Sottosegretaria al Ministro
dell’Interno, Marcella Lucidi, nella puntata de L’Infedele del 7
novembre, spiega che il Ministero dell’Interno è contro ogni forma di
discriminazione e che pertanto è giusto non criminalizzare l’intera comunità
romena per l’omicidio Reggiani. Le sue parole, caute ed educate scatenano un
altro dubbio: è possibile che sia ignara dell’operazione di polizia e pulizia
etnica condotta con perizia e disciplina a Roma, nei campi rom? Il consenso
costruito sulle e contro le miserie che la nostra società genera è pericoloso.
Chissà se Walter Veltroni e gli uomini del suo gabinetto ricordano di aver
studiato la storia italiana, soprattutto quella che va dalla fine della prima
guerra mondiale ai giorni nostri. Ma certo, che stupidaggine è mai questa,
Veltroni ogni anno va in pellegrinaggio ad Auschwitz. Solo, a questo punto, non
è ben chiaro che cosa ci vada a fare.
Note
1. Il manifesto - Riccardo Iori, 4/11/ 2007.
2. Il Messaggero – Claudio Marincola, 7/11/2007.