da
Stradanove
COLUM MCCANN È NATO A DUBLINO NEL 1965 MA VIVE DA ANNI A NEW York. E’
autore de “I figli del buio”. “La legge del fiume”, “La sua danza” (sul grande
ballerino Nureyev). Abbiamo parlato con lui del suo ultimo libro, “Zoli”, e
della vita e della cultura dei rom.
La prima riflessione che facciamo, dopo aver letto il suo libro, è che
l’ignoranza genera il pregiudizio- sappiamo molto poco del mondo dei rom. E
tuttavia che cosa c’è in comune tra il mondo che Lei rappresenta e gli zingari
che vediamo chiedere l’elemosina sui treni della metropolitana, che ci
infastidiscono finché non diamo loro dei soldi?
Osservazione fantastica - è vero, succede anche a me, sono stato nelle stazioni
della metropolitana, sui treni, e mi sono sentito innervosito da questi zingari
che ti assillano. Che rapporto c’è tra di loro e la storia di Zoli? C’è un salto
significativo da fare, ma dobbiamo capire che cosa c’è dietro quegli occhi, la
storia profonda che c’è dietro di loro. Ho iniziato a capire qualcosa di questo
dieci anni fa, quando sono sceso nelle gallerie della metropolitana di New York
per scrivere il romanzo “I figli del buio”. Pensavo che la gente senza tetto
fosse così per sempre. Pensavo che fossero nati senza casa, non mi ero mai fatto
tante domande. E invece non è vero, c’è una storia profonda dietro di loro.
Se vogliamo che il mondo sia un posto migliore in cui vivere, dobbiamo cercare
di capire la storia dei bambini che chiedono l’elemosina sul treno. La loro
storia è quella di Zoli. Anche io ero pieno di pregiudizi: quando sono andato a
fare ricerche in Slovacchia, ho nascosto passaporto e soldi, temevo di essere
derubato. Alla fin fine ero io che cercavo di derubarli, chiedendo loro della
loro storia. Certo, una sola vicenda, quella di Zoli, non rappresenta quella di
tutti. I rom sono dai 10 ai 12 milioni - ce ne sono 2 milioni in Romania,
300.000 in Francia. E’ un numero straordinario. Vengo da un paese, l’Irlanda,
dove ci sono 5 milioni di abitanti- gli zingari sono due volte tanto. Non ci
sono romanzi che rappresentino l’Irlanda nella sua interezza, forse l’”Ulisse”
ma, citando Stephen Dedalus, “me ne andrò da qui e foggerò nella fucina della
mia anima la consapevolezza non creata della mia gente.” Chiunque può pensare
che un romanzo rappresenti un paese, ma non è possibile. Dobbiamo essere aperti
a molte storie. Dobbiamo chiederci perché odiamo i rom. Io sono un romanziere,
il mio compito è quello di fare delle domande e forse con il mio romanzo i
lettori guarderanno i modo diverso gli accattoni sulla metropolitana. Almeno lo
spero.
Rom, zingari, gitani: qual è la parola giusta da usare? E sono divisi in
gruppi, hanno tradizioni diverse secondo il luogo di provenienza?
La parola giusta è “rom” e significa “una persona”, “roma” vuol dire “la
gente”, “romany” è l’aggettivo e indica anche la loro lingua. Sono le parole che
usano loro per riferirsi a se stessi. Le altre due parole, zingaro e gitano,
sono dei peggiorativi. Originariamente venivano tutti dall’India e hanno avuto
sorti diverse, alcuni sono diventati nomadi, altri no. I rom italiani risalgono
al secolo VI e non sono nomadi, vivono nelle case, sono italiani. All’interno
della comunità rom ci sono tante differenze quante ce ne sono negli altri
popoli, sono solo molto più poveri di altri. E sono moltissime le persone note
che avevano origini rom: Pablo Picasso e Charlie Chaplin, Yul Brynner e Rita
Hayworth.
Come ha iniziato ad interessarsi ai rom? E’ stato dapprima un interesse
generico e poi è venuto a sapere della poetessa polacca Papusza che è in parte
dietro il personaggio di Zoli?
No, non avevo alcun interesse per i rom, proprio nessuno. Ed ero ignorante per
quello che li riguardava. Avevo impiegato quattro anni a scrivere il romanzo su
Nureyev, avevo fatto molte ricerche, sulle guerre in Russia, sull’essere un
ballerino gay - per me era stato uno sforzo ginnico dell’immaginazione ed ero
stanco. Volevo andare a casa e scrivere un romanzo facile. Poi mi è venuta tra
le mani la foto della poetessa Papusza: era molto bella, la sua era una storia
interessante…Ero spaventato da quello che mi si prospettava eppure sentivo che
dovevo farlo. Solo dopo è diventata una faccenda di coscienza sociale.
Che cosa c’è di vero e che cosa c’è di fittizio nel personaggio di Zoli?
E’ vero l’essenziale, che fosse rom, che fosse una poetessa, che fosse
famosa e che fu esiliata dal suo popolo. Il resto naturalmente è fittizio.
A Zoli sembra inevitabile sia il donare la sua musica perché tutti la
conoscano, sia accettare la punizione della sua gente- perché?
Direi che si tratta dell’accettazione del destino, qualunque forma esso
prenda. I rom sono fatalisti. E lei fu bandita dalla sua gente perché era una
profetessa: aveva capito che la storia deve essere scritta.
E’ in parte Lei stesso il personaggio di Stephen Swann, metà irlandese e metà
slovacco, attratto dal mondo rom e innamorato di Zoli?
Sì, è in parte me stesso. Per quello è metà irlandese, volevo capirlo. Swann
non sa del tutto chi è- decisamente sì, Swann è in parte me stesso.
Che cosa c’era dietro la politica comunista di integrare gli zingari in una
società ordinata?
Dietro lo sforzo per l’integrazione c’è il profondo idealismo comunista.
Dimentichiamo spesso che, pur essendo un sistema che ha avuto un fallimento così
spettacolare, pur avendo la responsabilità di così tante morti, alle sue origini
aveva una spinta di forte idealismo. Così attraverso gli zingari, vittime da
sempre, volevano mostrare il valore del socialismo. E’ stato un po’ come il
movimento di rivalutazione orgogliosa “Nero è bello” negli anni ‘70 in America.
Gli zingari, a loro volta, si sentivano valorizzati- anche oggi sono molti
quelli che hanno nostalgia del comunismo: avevano un lavoro, assistenza medica,
c’era un grosso tentativo di integrazione. Purtroppo poi finirono per
distruggerli, come tutti gli altri sistemi. Ma all’inizio ai rom sembrava il
meglio che potesse loro capitare.
Quello che nel libro non è chiaro è di che cosa vivessero.
La comunità di Zoli era formata da musicisti ambulanti e vivevano di quello,
della loro musica. Gli altri facevano lavoretti qua e là, quello che capitava,
dove capitava. Vivevano di quello che la gente dava loro.
Li descrive come una comunità molto chiusa: come è riuscito a farsi accettare
e riuscire a parlare con loro?
Nella situazione moderna, in Slovacchia, sono abituati a parlare con
estranei, poliziotti, assistenti sociali, medici. Dapprima pensavano fossi uno
di loro. Ad un livello più semplice il fatto è che sono andato là e ho dormito
con loro, nelle baracche: sono rimasti molto sorpresi che qualcuno volesse
fermarsi a dormire con loro. Quanto tempo ho passato con loro? Un totale di
circa due mesi, in genere circa quattro giorni con ogni gruppo, in Slovacchia e
Ungheria.
E’ recente la notizia della sterilizzazione di donne rom che hanno dato
l’autorizzazione sotto gli effetti dell’anestesia: dopo gli sforzi per
l’integrazione come si considera questa violazione dei diritti umani?
Viviamo in un mondo complicato: in Svizzera portavano via i bambini ai genitori
rom, in Slovacchia li inserivano nelle scuole per ritardati. Il processo di
integrazione è fallito, per la loro ignoranza, per la nostra ignoranza, per
incapacità di fare e rispondere a delle domande, per inabilità ad essere
empatici. Accade in tutta l’Europa di oggi. La parola che i rom usano per
l’Olocausto è porraimos. Loro dicono che porraimos prosegue ancora oggi per
loro- ed è finito nel 1945!
Che cosa ha apprezzato di più nella comunità rom?
La loro socievolezza, la facilità con cui offrono amicizia, la loro
curiosità che li porta a fare tante domande. Quello che è necessario è che
imparino a dire la loro storia in una maniera che abbia rilievo.
Secondo Lei, qual è il futuro della lingua rom, delle loro tradizioni, della
loro musica?
Penso che la loro cultura diventerà più forte con le nuove iniziative, con
le università in cui si fanno ricerche e si insegna la lingua e la cultura rom:
ce n’è una a Trieste, una nel Texas…La lingua è difficile, sarà un lavoro lungo,
ma come si fa a dire? Negli anni ‘50 sembrava impossibile che si arrivasse ad
accettare i gay. Forse tra venti o trent’anni saranno in molti a vantarsi di
essere per tre quarti rom!