Da
Osservatorio sui Balcani
26.11.2007 scrive Rando Devole
Un fatto di cronaca che fa partire una dura campagna antirom(ena): indignazione
popolare, articoli, trasmissioni televisive, analisi sociologiche e
dichiarazioni dei politici. Paradigmi di paure, diversità, integrazione in
questo commento scritto per Osservatorio dal sociologo Rando Devole
Alla fine di ottobre un crimine efferato ha scosso l’Italia. Una donna è stata
seviziata e uccisa alla periferia di Roma. Il presunto omicida è stato catturato
dalle forze dell’ordine. Era romeno, e rom, abitante nelle baracche adiacenti il
luogo del delitto. I media hanno dato un enorme risalto alla notizia. È seguita
l’indignazione popolare, accompagnata da testimonianze, dichiarazioni, denunce,
accuse, articoli, commenti, servizi, sondaggi, trasmissioni televisive ed
analisi sociologiche. La politica ha risposto con un acceso dibattito senza
esclusione di colpi, per finire con un decreto urgente in materia di
espulsione di cittadini comunitari. Il quadro non sarebbe completo se non si
ricordassero alcuni atti di xenofobia a danno di cittadini romeni, ovviamente
seguiti da condanne unanimi e appelli alla calma; tutto corredato da contatti
febbrili bilaterali con la Romania e da battute a distanza con l’Unione Europea.
Per le persone attente si tratta di un episodio già visto. Un déjà vu
collettivo. Il caso degli albanesi è ancora fresco, per non dire attuale.
Qualche cittadino albanese commetteva un omicidio o altra violenza, seguivano
indignazioni e rabbie diffuse, interpretazioni strumentalizzanti, giustificanti
e/o asettiche, appelli accorati, dichiarazioni di circostanza, provvedimenti
immediati. Non mancavano i via vai di delegazioni ufficiali, le accuse
rincorrenti, le chiamate alle ronde, gli inviti al buonsenso; si scomodavano
perfino i personaggi dello spettacolo. Per concludere si interpellava, come
sempre, l’Europa. Quindi, niente di nuovo sotto il sole.
Per gli amanti dei retroscena e gli appassionati di dietrologie, si tratta di un
episodio da manuale. Si aspetta il momento propizio per trovare un caso
eclatante: tra tanti delitti c’è sempre uno che si distingue per emblematicità.
Dopo averlo scelto, lo si butta nel ciclone mediatico; ciò gli darà forza,
facendolo diventare il suo occhio ciclopico per parecchi giorni. Poi si gioca al
rialzo con proposte di misure emergenziali, mettendo sulla bilancia la rabbia
popolare. L’attenzione dell’opinione pubblica verrà monopolizzata, mentre altre
cose finiranno nel dimenticatoio, oppure passeranno in secondo piano. La formula
è suggestiva, ma piuttosto inverosimile.
Qualche volta i déjà vu sono pure e semplici illusioni, mentre le
interpretazioni cospirative facili fantasie. C’è una certezza sola. Il
pregiudizio regna sovrano. Per giunta, aiutato da ovvietà disarmanti, ai confini
delle banalità, le quali, spacciate per controargomentazioni efficaci, non
riescono a scalfirlo neanche in superficie: ad. es. “non sono tutti cattivi”,
“non facciamo di tutta l’erba un fascio”, “sono utili all’economia”, “i rom non
sono romeni”, “i romeni non sono tutti rom”, “i romeni sono comunitari”, e così
via. I rom passano sotto la radiografia dei media, che enciclopedicamente
forniscono dati tra tabelle e grafici colorati: quanti sono, dove sono, ceppi
etnici, quali origini, quale delinquenza. Alcuni dati fanno paura, altri meno.
Dipende da come li presentano.
I Balcani ed i paesi dell’Est c’entrano sempre; quando si parla di sicurezza e
immigrazione non mancano mai dalle pagine dei giornali. Non si comprende se
influisce la delinquenza comune dall’immancabile “accento slavo” (ceppo a cui i
romeni casualmente non appartengono), la provenienza di molti rom, oppure il
lato oscuro di quelle parti, dove regna l’ignoto, dalla cui oscurità emergono
vampiri per tormentarci l’immaginario. Se molti riconoscono nei Balcani la
polveriera d’Europa, oppure la regione più divisa del continente, pochi sanno
che i Paesi balcanici sono legati tra di loro con tanti fili, tra cui spicca
quello dei rom, che con l’arte della sopravvivenza, la libertà professata e,
soprattutto, la loro musica folcloristica, hanno sempre fatto da sfondo alle
storie della regione e alle sue memorabili narrazioni.
Seppur uguale ad altre nella sostanza, la recente campagna antirom(ena) ha
presentato elementi nuovi. Innanzi tutto la confusione totale tra rom, romeni e
rom romeni. Sarebbe offensivo per il lettore spiegare nuovamente le differenze
evidenti. Tuttavia, le assonanze hanno influito poco sul caos cognitivo, unico
complice è stata l’ignoranza. D’altronde senza l’humus dell’ignoranza, i
pregiudizi stentano a rimanere in vita. Infatti, parte dell’opinione pubblica
considera i romeni come extracomunitari, non come membri a pieno titolo dell’UE.
Non è un bel segnale per l’Europa allargata, specialmente per gli altri paesi
balcanici che sono in sala d’attesa da tempo. Dall’altro lato, per fortuna, la
religione non era in discussione questa volta. Del resto la diversità viene
ricostruita con i materiali a disposizione, che non sono mai scarsi.
Se le reazioni collettive sono generate da angosce ataviche, se le certezze
traballano di fronte alla diversità, se le paure aumentano nell’incontro con
l’Altro, se il pregiudizio coalizza e demonizza contemporaneamente, se la
propria aggressività non è più riconosciuta, se la sindrome del nemico interno
ci perseguita senza sosta, se la violenza viene proiettata sui diversi, se gli
stranieri sono percepiti come una minaccia, allora c’è una sola cosa da capire:
noi stessi. Perché l’immigrazione è uno specchio che riflette tutto: la paura e
il coraggio, la sfiducia e l’ottimismo, i difetti e i pregi. E non possiamo
colpevolizzare lo specchio se ciò che riflette non ci piace. Possiamo anche
romperlo volendo, ma non abbiamo risolto nulla.
Non solo il delitto di Roma, ma anche quello di Perugia e di Garlasco, con le
loro vittime femminili indicano che viviamo in una società culturalmente
febbricitante, in prenda alla paura, dove la violenza trova la sua ragion
d’essere, perché prevale il concetto della sopraffazione sui deboli. Poco
importa il passaporto del carnefice. Invece, risulta importante la cultura della
legalità, i doveri che vanno di pari passo con i diritti, la giustizia giusta,
il rispetto della persona. In un quadro di regole chiare, dove vige la certezza
della pena, ma anche quella del merito, è più facile misurarci sui valori
fondamentali inalienabili e non sulle divisioni artificiose tra noi e loro. Che
siamo tutti fragili e indifesi lo dimostrano perfino le divisioni acclamate
dalle stesse vittime della discriminazione, che vogliono distanziarsi dai soliti
rom, come se additare l’altro fosse un atto di purificazione.
Le baraccopoli costituiscono una grande metafora dell’emarginazione. Persone che
vivono ai margini della società, nell’isolamento, nella diffidenza verso gli
altri, senza integrarsi, nel degrado urbano. In una situazione di paura
reciproca, non cambierebbe molto se al posto delle lamiere ci fossero le mura.
Neanche un bagno con idromassaggio allontanerebbe lo spettro dell’esclusione
sociale. Tante isole non necessariamente fanno un arcipelago.
Lo straniero assoluto non esiste, ha scritto Tahar Ben Jelloun, perché siamo
sempre stranieri rispetto agli altri. La storia dei romani, romeni e rom, con la
loro somiglianza fonetica, ci insegna proprio questo: siamo uguali nella nostra
diversità. Ovviamente, le potenzialità non mancano neanche ai moderni, il cui
Dna culturale è fatto principalmente di diversità, forse il loro vero punto di
forza. Lo dimostra inoltre il vissuto di ogni giorno, con tanti begli esempi di
integrazione, di rispetto reciproco, che, purtroppo, non fanno mai notizia.
Certo è che stigmatizzare i diversi, criminalizzare intere comunità,
generalizzare il male, significa proiettare verso gli altri il proprio lato
oscuro, trasformare le vittime in carnefici e viceversa, ed infine, accumulare
macerie valoriali nella nostra anima. Ma ad un certo punto, non ci serviranno né
ruspe, né zingare chiromanti, per salvarci dal nostro futuro.