Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Di Fabrizio (del 14/02/2011 @ 09:33:40, in Italia, visitato 1699 volte)
12 feb 2011
Quattro bambini arsi vivi nel sonno, nella baracca di un microcampo abusivo
nelle campagne della via Appia Nuova a Roma. Lo scorso 6 febbraio, il destino
non poteva scegliere modo più doloroso per riproporre sull’agenda pubblica la
"questione rom", la difficile integrazione di una comunità guardata con
diffidenza e fastidio (come testimoniano alcuni inquietanti commenti apparsi sui
social network) anche quando a parlare dovrebbero essere solo le lacrime.
Dijana Pavlovic, attrice serba ma milanese d’adozione, vice-presidente della
Federazione Rom e Sinti Insieme, in questi anni ha assunto il ruolo di "voce" di
un popolo (150mila in Italia) nascosto, non riconosciuto se non come spauracchio
da agitare per raccogliere facile consenso elettorale. Con lei abbiamo
affrontato le ragioni di questa difficoltà.
Dijana, qual è l’origine dei pregiudizi verso i rom?
"Non sono una psicologa ma avverto il peso del cliché, anche romantico, che
pesa sulla figura dello zingaro. Evoca libertà ma anche mistero, oscurità,
furto. E’ vero: il popolo tzigano è distante dal rigido inscatolamento tipico
dell’occidente. I rom hanno sempre vissuto segregati eppure per noi la libertà è
un atteggiamento mentale, la straordinaria capacità di vivere la vita alla
giornata. Prendere la fisarmonica e cantare nei momenti più difficili. Non è una
visione pittoresca ma la realtà profonda. Un’immagine che porto con me degli
sgomberi a Milano è una fila di persone, amici, tutti con la valigia in mano,
scortati dalla polizia per abbandonare la loro casa. Tra loro un signore
anziano, con i baffi, che in preda alla rabbia, alla disperazione, ha preso una
fisarmonica ed ha iniziato a suonare. Toglieva il respiro. La società è troppo
legata all’idea del possesso, vali in base a quello che hai nel portafogli. Gli
zingari, invece, si giudicano tra loro in base a quello che sei. E questo in
occidente fa molta paura".
A che punto è la battaglia sulla richiesta dello status di minoranza
linguistica?
"Al punto zero. Nel 1999 i rom non sono stati inclusi nella legge che regola
la materia, eppure la comunità italiana è presente sul territorio dal 1400. E’
un problema tecnico: in Italia lo status si riconosce solo ad una comunità
legata ad un territorio. I rom non lo sono, per la specificità della loro
cultura. E’ solo una scusa che nasconde una precisa volontà politica: non
riconoscere i rom, non stabilire un rapporto e quindi non rispettarli".
Qual è il ruolo della scuola?
"In Italia siamo indietro, a scuola i bambini rom sono dati per spacciati.
In altri paesi ci sono rom laureati, qui manca completamente una classe
dirigente. Nessuno si preoccupa della conservazione della lingua romanes, il
vero "luogo" della cultura rom. E’ difficile quando vivi nei ghetti, provare ad
uscirne. Ti racconto un episodio che ho vissuto quando facevo la mediatrice
culturale nelle scuole: seguivo un ragazzino rom di 11 anni, molto sensibile.
Ogni mattina era prelevato da uno scuolabus con la scritta "pulmino rom". A
scuola era scaricato in una classe con la scritta "aula rom". Lui capiva
perfettamente di essere trattato diversamente. Un giorno la preside, gli dice
"resisti, che tra un anno per te la scuola è finita". Lui mi guarda e chiede:
"Perché io non vado alle medie?". Per la preside era scontato che abbandonasse
gli studi, nonostante fosse capace di continuarli".
Qual è l’episodio di discriminazione più detestabile che ricordi?
"I disegni degli scolari napoletani a Ponticelli con le scritte ‘bruciamoli
tutti’. E l’infamante stereotipo degli zingari rapitori di bambini. E’ l’accusa
che fa più male, davvero ingiusta. A quella di "ladri" siamo abituati ma
basterebbe conoscerci solo un po’ per capire che i bambini sono amati e
rispettati, sono il centro della nostra cultura. Immagina il dolore per quanto
accaduto a Roma domenica scorsa".
Sabino Di Chio
Di Fabrizio (del 14/02/2011 @ 14:26:13, in Italia, visitato 1820 volte)
Segnalazione di Stefano Nutini
venerdì 18 febbraio, ore 17.30 in Via Pietro Calvi, 29 - 20129 Milano
Il comune di Milano butta i soldi nei continui e ripetuti sgomberi dei campi
Rom. Non risolve niente, anzi peggiora le condizioni di esistenza nella nostra
città.
Le maestre e le mamme della scuola di via Rubattino, invece, con il loro agire
hanno trovato risposte di vita quotidiana a problemi di convivenza anche molto
gravi e ci mostrano una strada per uscire dall’impotenza. Le invitiamo per
approfondire la loro esperienza e discutere con loro del significato politico di
ciò che fanno. Conducono Maria Cristina Mecenero e Alessio Miceli.
Ad apertura dell’incontro verrà proiettato il video Seminateci Bene.
Attenzione si inizia alle 17.30
Circolo della rosa
Circolo cooperativo Sibilla Aleramo - Libreria delle donne
Via Pietro Calvi, 29 - 20129 Milano
Tel.0270006265
info@libreriadelledonne.it -
www.libreriadelledonne.it
Di Fabrizio (del 15/02/2011 @ 09:48:54, in Italia, visitato 2390 volte)
Segnalazione da
Evangelici.net
Repubblica.it
Nei cinque campi di Bologna ci sono 300 sinti, 250 i rom invisibili. Viaggio
negli accampamenti di Bologna dove la vita, nonostante le difficoltà può anche
sorridere. Come?
Chiedetelo a Mary che si è trasferita per amore
di LUIGI SPEZIA
Sinti, non rom, ma la paura non fa differenze, non guarda in faccia nessuno. Nei
campi nomadi - via Peglion, via Erbosa, via Dozza alle Due Madonne, via
Persicetana - vivono i sinti italiani non i rom romeni o bosniaci, che dopo i
grandi sgomberi degli anni scorsi sono ancora oltre 200, ma sono sparpagliati e
invisibili, in fuga dai vigili e senza cittadinanza. La morte dei quattro
bambini rom, soffocati tra le fiamme a Roma, ha trasmesso i brividi anche ai
250-300 abitanti sinti che vivono ai margini della città, tra scarso lavoro,
diffidenze, guai e legittime richieste di essere trattati da cittadini di serie
A. "Ma qui basta una scintilla e prende fuoco tutto" .
"Viviamo in questo campo che doveva rimanere provvisorio per sei mesi e invece è
provvisorio da vent'anni - tuona Matteo Bellinati, uno dei leader di via Erbosa
-. Ci avevano promesso di trasformare questa ammucchiata di roulotte in una
micro-area, ma i soldi ogni anno il Comune li investe altrove. Se qui in piena
notte prende fuoco una di queste roulotte, va a fuoco tutto, capito? Sono una
attaccata all'altra, non è regolare niente".
Vent'anni non è una cifra a caso. I Bellinati - con loro c'è anche un gruppo
della famiglia Orfei - sono i parenti di quel Rodolfo preso nel mirino di
Roberto e Fabio Savi, quando, con i loro Ar 70 e Sig Manurhin, il 23 dicembre
1990 spazzarono di piombo il campo abusivo di via Gobetti e lasciarono feriti e
un'altra vittima, Patrizia Della Santina. Dopo la strage, il gruppo era sciamato
per la regione, "il sindaco Imbeni ci chiese di tornare, ci ha piazzati qui ma
dopo non è successo più nulla". Il campo è infossato fra tre massicciate
ferroviarie e sorvolato dai fili di un traliccio dell'alta tensione. "Come si
può vivere qua - continua un altro Bellinati che di nome fa Antonio -? I nostri
venti bambini vanno a scuola, ma qui soffriamo di mal di testa e agli occhi, non
dicono che dai tralicci bisogna star distanti settanta metri? Le roulotte sono
riscaldate con stufette elettriche. Se scoppia un incendio di notte non si salva
nessuno, la plastica di queste nostre case è come benzina". E come benzina ha
preso fuoco ieri sera una parte di roulotte senza altre conseguenze, con
intervento dei vigili del fuoco, al campo del Bargellino, certamente meglio
attrezzato di quello di via Erbosa. Alcuni bambini bruciavano legna all'esterno.
L'accampamento migliore è quello di via Dozza alle Due Madonne. Lì vive
l'"aristocrazia" nomade e c'è anche una chiesetta in muratura degli Evangelici
Pentecostali, che hanno convertito decine di sinti, le cui anime sono curate da
pastori, sempre sinti. "Ma non curano il corpo, purtroppo - dice un residente -:
io raccolgo ferro con il furgone, non c'è altro lavoro. Qui il villaggio è
bello, sì, ma manca il lavoro". Qui ogni gruppo familiare ha un cortile tutto
suo dove campeggia il fabbricato delle cucine e dei bagni e attorno le varie
roulotte. "Ma le cucine e i bagni sono stati lasciati aperti, non danno il
permesso per chiuderli e d'inverno non è proprio il massimo".
Oltre le Due Madonne c'è l'insediamento di Idice, Comune di San Lazzaro. Il bus
giallo della scuola scarica i bambini, in mezzo al grande prato centrale gli
adulti stanno festeggiando un compleanno, c'è il baffuto Franco che stende
spiedini di pecora sul fuoco. Qui abita Giuseppe Bonora, 64 anni, detto "il
bimbo", coordinatore dell'Opera Nomadi dell'Emilia Romagna: "Abbiamo chiesto più
di una volta un incontro con il sindaco Macciantelli, ma non l'abbiamo ancora
avuto. Qui siamo ancora ad una favelas, non alle micro-aree. In tutti i comuni
dell'Emilia Romagna non fanno più aree di transito e di sosta. E siamo italiani.
Da noi non cresce nemmeno l'erba, chissà cosa ci hanno messo qua sotto". Bonora
ci tiene a dire che tutti i 15 bimbi del campo vanno a scuola, "nessuno va a
chiedere l'elemosina, eh? Gli adulti raccolgono ferro, o fanno spettacoli
viaggianti e poi magari c'è anche chi fa cose non belle. Ma bisogna pur dire che
una mano non ce la dà nessuno".
Se il campo disastrato di via Erbosa è circondato da tre ferrovie, quello
piccolo della famiglia Gallieri in via Peglion ha vista sul guardrail dell'A14.
Un campo che è stato trasferito in loco per tre volte, anche l'ultimo pezzo di
terra acquistato dalla famiglia per abitarci è stato espropriato dal Comune "e
io - dice Antonio Gallieri, che a 58 anni ha 9 figli, 18 nipoti e 3 pronipoti -
ho fatto una causa alla Corte europea. Ho avuto venti processi contro di me, ora
ce n'è ho uno "Gallieri contro lo Stato"".
Non ci sono solo i campi. Dappertutto ci sono le famiglie isolate, soprattutto
rom, anche dentro luoghi abbandonati come l'ex Casaralta o l'ex Cevolani. In via
Biancolelli, a Borgo Panigale, ecco una roulotte di sinti che non trovano posto
in via Persicetana, con tre bimbi che vanno alle elementari: "Abbiamo chiesto
casa due anni fa al Comune, non l'abbiamo ancora", dice Adriano Bonora. Lì
accanto una vecchia roulotte di rom, il capofamiglia è Brahim Husovic, calderas
bosniaco. La moglie è incinta, ha sei figli stipati dentro quel cubo fatiscente,
la più grande ha 18 anni. "Mio nonno viveva al Casilino 900", racconta
riferendosi alla tragedia di Roma. "Da Roma ho dovuto scappare". Storie che si
intrecciano. "I rom oggi sono circa 250 a Bologna, compresi quelli ai semafori -
dice Dimitris Argiropoulos, attivista della Federazione Romanì -. Stanno
nascosti". Due famiglie vivono tra le frasche del giardino del Baraccano.
Di Fabrizio (del 16/02/2011 @ 09:31:45, in Italia, visitato 1615 volte)
Segnalazione di
Alberto Maria Melis,
che aggiunge: "Un bell'articolo, che dimostra come si può fare del buon
giornalismo anche senza intingere la penna nel fango e nel sangue, semplicemente
raccontando la verità che chiunque conosca personalmente i rom ha potuto toccare
con mano."
Repubblica
Un anno fa in questo campo in un rogo era morto un bambino. Pneumatici e
rifiuti abbandonati sono l'eredità di un vecchio sgombero - di BEPPE SEBASTE
La prima cosa che ci colpisce è il pudore. Poiché al mattino gli uomini sono
tutti al lavoro, a venirci incontro è stato un nugolo di bambini, sorvegliati a
vista e seguiti dalle madri, dai tre ai tredici anni. Sono curiosi e vivaci, e
al tempo stesso protettivi. Tra tutti spicca Dario Valentino, undici anni:
"Venite stasera, quando torna mio padre e gli altri uomini", ci ripete serio. Ci
proibisce (ci prega di non farlo) di fotografare le case e le persone, cioè loro
stessi. Colpisce la sua dignità, il volto serio nello sforzo di assumersi la
responsabilità del campo. E' anche perfettamente consapevole del bello e del
brutto. "Tutta questa zozzeria" - dice indicando una distesa di terra piena di
detriti, e le carcasse arrugginite e bruciate di automobili, "non è nostra,
l'abbiamo trovata qui". Ci dice il via vai di questi giorni di fotografi, che
non hanno chiesto il permesso di scattare immagini a case e persone, come se
fossero gabbie di uno zoo: "sono venuti a fotografare tutto e poi sono
scappati".
Ci presentiamo. Siamo in un agglomerato di baracche nel quartiere della
Magliana, racchiuse da canneti e pezzi di campagna sopravvissuta, chiusa da un
lato dai palazzi che ospitano la Fao. Il sentiero che vi conduce da via Morselli
è costellato di pneumatici e tracce di sgomberi recenti. Anche qui, un anno fa,
un altro bambino morì bruciato per l'imperizia e la miseria, non questa volta
dal riscaldamento, ma dalle candele. Sono rimaste famiglie bosniache di
Sarajevo, da cui imparo che le tragedie della miseria accadono a quei rom che
non hanno la sapienza pratica di altri, l'arte del sopravvivere. Nuovi poveri,
per così dire. Con me e Francesca, fotografa, c'è Alessandro, un giovane
antropologo che lavora con Arci Solidarietà nel vicino campo rom "regolare" di
via Candoni: concepito per ospitare trecento persone, ne vivono più di mille,
stipate dentro container di 18 metri quadrati. Alessandro aiuta le famiglie rom
a sbrigare le pratiche sanitarie, scolastiche e sociali in genere. I bambini e
le madri di questa baraccopoli di irregolari lo conoscono di vista, e si fidano
poco alla volta di noi. Il fatto è che ci sentiamo in colpa a essere qui anche
noi solo dopo l'ennesima tragedia che ha fatto notizia e suscitato clamore, a
far visita e fotografare delle condizioni di vita, di vita nuda, come se le
scoprissimo sempre per la prima volta, dimenticando che le abbiamo create noi,
la nostra politica, e solo in seguito attribuite a "loro". Non solo il triste
concetto di "campo", mi spiega il giovane antropologo volontario, è
un'invenzione nostra, frutto di una logica di esclusione; ma anche all'estremo
opposto la lirica adesione a un loro presunto e folcloristico stile di vita, a
una loro presunta esigenza di separatezza.
Ci colpisce la serenità di questo scorcio di vita quotidiano di donne e bambini,
e la tranquilla dignità delle donne e madri. "Ci portano di qui e di là come se
fossimo giocattoli", dice una donna. Da uno sgombero all'altro, da una
deportazione all'altra, la loro precarietà è una condanna, non una scelta. "Io
vivo qui con mio padre, sono arrivata in Italia quando avevo 11 anni - mi dice
un'altra che si definisce single, gonna verde con disegni fantasiosi, collana di
perline, pendenti e un bracciale di corallo - vorrei lavorare, sono brava a fare
le pulizie" - dice mostrandomi la baracca ordinata e accogliente sulla terra
nuda e spazzolata: un letto, un fornelletto, un tavolino, due quadretti di "Roma
sparita" appesi alle pareti fragili di legno, e un terzo che è un ritratto di
padre Pio. Ma non sa leggere né scrivere, in nessuna lingua. Poi si siede
all'aperto, in postura perfettamente eretta toglie il rame scorticando le guaine
dei cavi elettrici e lo mette da parte. Sanno, a differenza di altri rom, che
non bisogna bruciare il rame per non respirarne la diossina che sprigiona.
Tutte le baracche sono di legno, nessun uso di materiali nocivi, e dalle tettoie
pendono le plastiche azzurre della Posta Italiana, con la scritta in bianco. In
una, l'unica con l'impiantito pure di legno, tra i letti, i tappeti e le coperte
dai colori festosi e sgargianti noto vicino alla porta una stufa circolare di
metallo, saldature perfette, ma soprattutto una forma che sembra il frutto di un
designer di grido. "L'ha fatta mio marito", dice la donna con orgoglio seguendo
il mio sguardo. "Questa è sicura". E' una stufa a legno, davvero bella da
guardare.
Dario Valentino, il ragazzo undicenne (che scopriamo essere il figlio del
falegname e fabbro delle stufe), mentre attorniato dagli altri bambini
costruisce con assi di legno, chiodi e un martello una piccola casetta per
giocare, pone delle domande ad Alessandro come un grande, sul loro destino, se
li sposteranno a via Candoni, che cosa siano le fantomatiche "case popolari", e
chi ci può andare. Non è facile spiegare a bambini dagli occhi sgranati, che
aspirerebbero ad avere una casa normale, cosa siano e chi abbia diritto alle
case popolari, e perché. Intanto si sono avvicinate ad ascoltare alcune donne.
Quando nominiamo il Cei (Centro di identificazione e espulsione), la madre di
Dario Valentino, che sembrava disinteressata ai nostri discorsi, si affaccia
dalla sua baracca per esclamare, seria: "Là non ci voglio andare neanche morta".
Tutti qui hanno un regolare permesso di soggiorno, tutti vorrebbero che i loro
figli andassero a scuola, vorrebbero una normale assistenza sanitaria, tutto ciò
che per noi è così normale che ci dimentichiamo di averlo. Ignoro quali siano i
criteri per l'attribuzione, ma una cosa è certa: i nomadi, come li chiamiamo,
non sono nomadi, la loro origine è spesso contadina, e il lavoro degli uomini si
relaziona con la realtà della metropoli, non in un mondo separato.
"Questa potete fotografarla", ci propongono fieri dopo avere finito la loro
capanna di legno. Adesso i bambini, quelli più piccoli a piedi nudi, sono
contenti di mostrarci quante più cose possibili, felici della nostra attenzione.
Fotografiamo Lisa, il boxer femmina, Bambi, una pecora compagna di giochi dei
bimbi. Siamo incantati dalla loro creatività e dalla loro gentilezza. La piccola
Samantha, una biondina sempre sorridente, corre e grida di gioia quando diciamo
che torneremo a portarle dei vestiti. "Anche delle scarpine", ci dice da
lontano.
(11 febbraio 2011)
Di Fabrizio (del 17/02/2011 @ 09:20:14, in Italia, visitato 1409 volte)
La tesi dello scrittore Luca Cefisi autore di un'inchiesta sui minorenni
zingari. "O risolviamo il problema oppure tra vent'anni quarta e quinta
generazione cresciuta nell'illegalità e nella segregazione".
I bambini rom si salvano solo insieme alle loro famiglie. E i campi nomadi sono
uno spreco di denaro pubblico. Anzi, peggio. Rappresentano un modello di
segregazione. E tra vent'anni il problema si ripresenterà. Allora, che fare?
Semplice: dare a questa gente un'opportunità, trovargli un lavoro e lanciare un
piano di edilizia sociale che riguardi tutti i "poveri", italiani e non.
Insomma, rendere autonome le famiglie zingare. Luca Cefisi, che ha appena
pubblicato per la Newton Compton il libro-inchiesta "Bambini ladri" e ha
collaborato alla stesura delle legge sull'immigrazione della Regione Lazio,
sfata i luoghi comuni e invoca iniziative politiche coraggiose per risolvere
definitivamente la "questione rom".
Lei non crede negli affidamenti dei minori che vivono in baracche?
"I bambini si salvano con le famiglie. È un'ipocrisia sostenere che la mamma
ventenne è cattiva e il figlio di tre anni è buono. E la pressione sugli affidi
non è sincera, rappresenta una sorta di genocidio mascherato".
Ma se vivono in condizioni di degrado?
"Allora anche gli scugnizzi che vivevano nei bassi napoletani andavano tolti
alle madri...".
E se rifiutano l'assistenza?
"Che assistenza? Dare un alloggio a mamme e bimbi ed escludere i padri è un
meccanismo ricattatorio. È chiaro che non l'accettano".
Gli sgomberi sono una soluzione?
"Prendiamo molti rom fuggiti dall'ex Jugoslavia nei primi Anni '90. Con il
regime comunista avevano almeno una casa. Qui si sono ritrovati alle periferie
della grandi città senza accoglienza e assistenza. I loro figli sono cresciuti
senza patria, status sociale, residenza. Vogliamo illuderci che se li
tormentiamo con gli sgomberi se ne andranno? E poi sia Amato che Mantovano,
sinistra e destra insomma, hanno ammesso che non sono rimpatriabili. Sarebbe
solo un criminale spreco di risorse e di speranze".
Parliamo di risorse. Molti
pensano che i soldi per i rom siano sprecati...
"Alemanno chiede 30 milioni per
i campi, un errore condiviso dalle giunte di centrosinistra, perché costano
molto e spingono alla segregazione. Si spende denaro non per risolvere il
problema, ma per perpetuarlo".
E allora?
"Bisogna farli uscire dai campi, non concentrarli là dentro. Occorrono politiche
che rendano autonome le famiglie per uscire dal bivio tra furti e accattonaggio.
Ci vogliono case e occupazione. Ma se vivi in un campo nessuno ti dà un lavoro".
Però anche molti italiani non hanno casa e lavoro. È giusto privilegiare i rom?
"Se sono italiani sono uguali agli altri. Se non lo sono, bisogna decidere se
devono diventarlo o no. Il problema si risolve aiutando tutte le persone in
stato d'indigenza. Da quanto tempo a Roma non si fa un piano di edilizia
sociale? Non ci sono risorse e poi chiedi 30 milioni per i campi? Si potrebbe
spendere meno e dare a queste famiglie un assegno di povertà e un alloggio,
evitando così furti e accattonaggio. Altrimenti tra vent'anni avremo la quarta o
quinta generazione di rom cresciuti nell'illegalità e nella segregazione".
Maurizio Gallo - 12/02/2011
PS: So benissimo che tipo di giornale sia IL TEMPO, l'ho ripubblicato
apposta
Di Fabrizio (del 18/02/2011 @ 09:14:27, in Italia, visitato 1991 volte)
Venerdì 25 febbraio dalle ore 16.30
La neo cooperativa Aquila è lieta di annunciare la riapertura del BAR RIGHI,
sito in fondo al parco Talvera, in mezzo ai campi sportivi. Vi aspettiamo tutti
per brindare insieme all'inaugurazione con la NUOVA GESTIONE dove troverete un
buonissimo buffet con delle buonissime bibite.
(La
notizia del mese scorso)
Di Fabrizio (del 18/02/2011 @ 09:27:19, in Italia, visitato 2388 volte)
AgoraVox - Rom a Milano: oltre la diffidenza, tante voci per l'integrazione
Vivono ai confini della città, spesso in condizioni difficili,
tra sgomberi forzati, carenze di servizi indispensabili e pregiudizi diffusi.
Per "dare cittadinanza" a queste persone sono attivi però gruppi e associazioni
di volontari che lavorano in più direzioni: se ne è parlato venerdì sera in un
incontro al quartiere Adriano, a pochi metri dal campo di via Idro che ospita
numerose famiglie di rom italiani.
Si fa presto a dire nomadi. Si fa presto a dire campi. Termini, questi, che
trasmettono un'idea di precarietà e passaggio; a Milano ci sono però
insediamenti rom regolarmente autorizzati dall'amministrazione comunale, con
famiglie che ci abitano da più di vent'anni, che hanno trovato un lavoro e
mandano i figli a scuola nel quartiere. E' il caso della comunità di via Idro
62, all'estrema periferia nord-est, della quale fanno parte circa 130 persone.
"Siamo a tutti gli effetti cittadini italiani, solo che viviamo in modo
diverso": a parlare è Marina che, in rappresentanza dei rom di via Idro, ha
aperto con il suo intervento il dibattito pubblico - venerdì sera al quartiere
Adriano - organizzato da gruppi della zona 2 impegnati sul territorio con molte
iniziative concrete; tra questi, le associazioni Villa Pallavicini ed
elementare.russo, il Comitato Forlanini, l'Osservatorio sui razzismi e la
Fondazione Casa della Carità.
Rispetto alle situazioni dei campi dislocati in altre aree metropolitane, quella
di via Idro potrebbe sembrare relativamente tranquilla, perlomeno un po' più
"stabile". In realtà il destino di chi vi risiede è tutt'altro che sicuro,
soprattutto da quando grava sui suoi abitanti la minaccia di allontanamento che,
in base a recenti disposizioni, potrebbe scattare per chiunque abbia alle spalle
sentenze passate in giudicato, pur risalenti a tanti anni fa. Inoltre, se ci
sono cittadini disposti a investire tempo ed energie per favorire convivenza e
integrazione, c'è anche chi i rom sotto casa proprio non li vuole e raccoglie
firme per smantellare il campo.
Le testimonianze presentate durante l'incontro hanno esteso il discorso ad altre
realtà, ancora più drammatiche. Come quella di via Forlanini dove, in un
minicampo che ospita circa 25 rom, sono stati effettuati 15 sgomberi in due
anni, nonostante l'impegno quotidiano di un attivissimo gruppo di sostegno. Un
provvedimento risolutivo brutale e traumatico, quello degli sgomberi, diventato
ormai prassi comune: ne fanno le spese soprattutto i bambini che sono in molti
casi costretti ad abbandonare la classe dopo un faticoso inserimento, annullando
i progressi compiuti, anche per quanto riguarda l'avvicinamento ai coetanei e
alla collettività. In via Rubattino, non lontano da Lambrate, è capitato che
alcune famiglie rom venissero allontanate anche cinque volte in un solo giorno.
Lo racconta un gruppo di mamme che, insieme alle maestre, svolgono un lavoro
continuativo e intenso per aiutare i piccoli rom a frequentare la scuola,
nonostante la mancanza di mezzi.
Una storia a parte è quella di via Triboniano, il campo più popoloso di Milano e
anche il più carente dal punto di vista di spazi e servizi. Avrebbe dovuto
essere chiuso definitivamente già alcuni mesi fa, perché si trova proprio sulla
strada dell'Expo 2015, cioè sulla via di accesso all'area su cui questo dovrebbe
sorgere. Nel preventivare la chiusura della struttura non è stato preso però in
considerazione, nella sua globalità, il futuro di chi vi abita. Ai rom erano
state inizialmente destinate venti case Aler, da ristrutturare e assegnare
attraverso la mediazione della Casa della Carità (contratto stipulato con tanto
di firma da parte del Comune e della Prefettura). Il progetto si è però
interrotto a metà strada e le famiglie che sono rimaste escluse
dall'assegnazione hanno iniziato un procedimento legale che ha dato loro
ragione. A parte quelle dell'Aler, ci sono comunque a Milano migliaia di
abitazioni sfitte: perché non includerle in un piano che favorisca anche chi è
stato sgomberato?
Da una periferia all'altra, il problema rimane complesso, le esperienze portate
avanti con successo (come quella del Comune di Buccinasco, dove è stato
organizzato un campo molto ben tenuto) si scontrano con l'eterna paura del
diverso, la più dura da sconfiggere. E non va neppure dimenticato che i rom
stessi, pur se disponibili alla collaborazione, trovano spesso difficoltà nel
riconoscere le regole della società; anzi, la loro cultura li ha portati per
secoli a crearne una parallela rispetto a quella dello Stato che li ospita. Oggi
in Italia, contando le diverse etnie, ne sono presenti circa 140.000, non tutti
in insediamenti legali: e c'è sempre chi li guarda con sospetto e si domanda "
ma è vero che i rom rubano?". Generalizzazioni, luoghi comuni e pregiudizi
allontanano le soluzioni; tragedie come quella recente di Roma - la morte di
quattro bambini - riportano invece alla realtà, fanno vedere queste persone come
una fascia debole della popolazione che l'amministrazione di una grande città ha
il dovere di tutelare. Non demandando ancora una volta il grosso del carico
all'infaticabile universo del volontariato.
Di Fabrizio (del 20/02/2011 @ 09:20:51, in Italia, visitato 2154 volte)
Corriere della Sera BRESCIA - I VIGILI DEL FUOCO HANNO TOLTO LA
CORRENTE PER SLOGGIARE GLI ABUSIVI
Tommaso, 15 mesi, ha una malattia genetica. Staccata l'energia, si ferma la
macchina salvavita
Tommaso nella roulotte con i genitori (Cavicchi)
BRESCIA - Avete già sentito un bambino di un anno e tre mesi, quasi immobile,
emanare dei pigolii, come fosse un uccellino triste o ferito? Bisognerebbe
andare al campo sinti di via Orzinuovi per avvicinarsi all'angoscia di due
genitori che non possono far altro che asciugare la saliva emessa di continuo
dalle labbra del piccolo Tommaso quando gli manca il respiro. Cioè ogni due-tre
minuti. Ma ci vuole calma, per raccontare questa storia. Piove sulle roulotte
del campo nomadi, dopo il fuoco di lunedì sera. Il conflitto tra i nomadi e il
Comune non è una novità. Dopo una tormentata vicenda, l'amministrazione ha
investito 180 mila euro per bonificare un campo che costeggia il parco del fiume
Mella e ora, da una ventina di giorni, la situazione dei circa centoventi sinti
di Brescia (italiani da secoli) sembrava avviarsi verso un epilogo pacifico, con
la ghiaia pulita sul terreno, gli impianti idraulici ed elettrici a norma, le
fognature.
Restava una questione ancora in sospeso: quel terreno prevedeva sin dall'inizio
l'«abitabilità» per 15 famiglie. Rimanevano fuori cinque nuclei, corrispondenti
all'ampia famiglia Terenghi, ai quali il Comune ha offerto il trasferimento in
via Borgosatollo, dove è stanziata da anni la comunità rom. Proposta
inaccettabile, per gli interessati, per motivi ambientali (le famiglie rom
vivono ammassate). Non è escluso che gli stessi sinti temano anche una
convivenza non proprio pacifica con i rom e chiedono di lasciare che i Terenghi
rimangano con la propria comunità, anche se i patti non lo prevedevano. Insomma,
di fronte al persistente rifiuto del trasferimento, lunedì sera arriva
l'ultimatum, i vigili entrano nel campo e disattivano la corrente per punire i
morosi e quelli che non vogliono saperne di spostarsi. È lì che i sinti non ci
pensano due volte e bruciano baracche, cassonetti e roulotte ai margini del
campo e creano uno sbarramento di fuoco. Il vicesindaco Fabio Rolfi parla di
problemi di sicurezza e ci tiene a precisare che si tratta di tutelare anche le
altre famiglie.
Ma nessuno avrebbe immaginato che il muro contro muro (e in particolare la
mancata corrente) avrebbe creato gravi problemi a due bambini malati che vivono
nella comunità sinti. Gabriel ha cinque mesi e soffre di una malattia cardiaca:
ieri, in seguito a complicazioni dovute al freddo, è finito in ospedale per
accertamenti e il padre si dice deciso a far causa al Comune. L'altro caso è
ancora più grave. Eccolo lì, il piccolo Tommaso, tra le braccia di mamma Fenni,
vent'anni, seduta sul salotto a fiori grigi, ancora avvolto dalla plastica. Al
suo fianco c'è papà Samuel, chiuso in un giubbotto scuro, trent'anni. Tommaso
soffre di una malattia genetica rarissima (solo 14 casi al mondo) che si chiama
H-ABC: quel che gli permette di sopravvivere è un sondino fissato a una narice e
a una macchina per l'ossigeno pronta all'occorrenza (cioè ogni mezz'ora).
Quando, lunedì sera, è mancata l'elettricità, il signor Marin ha dovuto
procurarsi con le buone o con le cattive un generatore portatile, e l'ha trovato
a San Zeno. Tra le braccia di sua mamma, continua a tossire sputando catarro:
pulirlo con un fazzoletto è ormai un gesto automatico che papà e mamma fanno
centinaia di volte al giorno. «Buono Tommaso, buono...».
Sulla porta della roulotte c'è un cartello scritto a mano: «Per piacere, non
salite con scarpe, tosse, febbre, bambini vi prego non ho più voglia di stare in
ospedale». Firmato Tommaso, che prega i bambini del campo di non entrare per non
procurargli infezioni. «Ogni venti giorni al massimo - dice Samuel - bisogna
ricoverarlo perché si prende l'influenza. È nato così, non c'è guarigione, non
hanno ancora capito che cosa succederà». Purtroppo non è difficile sapere che
cosa succederà, leggendo i due soli studi specialistici che esistono sulla
H-ABC. È una malattia degenerativa, che colpisce i gangli basali. «Non sappiamo
come crescerà, sappiamo che porta cecità, sordità e immobilità», dice mamma Fenni. Oggi in ospedale hanno cambiato il sondino. La storia della famiglia
Marin è presto detta: originari di Piacenza, hanno lasciato il campo della loro
città il mese scorso e si sono trasferiti qui perché l'ospedale di Brescia
dispone di mezzi più aggiornati: «Ora però vogliono mandarci via, perché siamo
residenti a Piacenza: è già partita l'ordinanza».
Scarpette blu da ginnastica, su cui non camminerà, felpa verde, Tommaso si
agita, pigola pigola, gira gli occhi al soffitto: «Me lo dice come possiamo fare
con un bambino così delicato? Ci sono notti che ci fa tribolare, bisogna sempre
tenerlo attaccato all'ossigeno, dieci giorni fa alle tre di notte aveva pochi
battiti, appena appena, era nero in faccia e all'ospedale ce l'hanno salvato».
Nove chili, i pugnetti sempre chiusi. Come gli altri sinti, anche Samuel si
arrangia andando a raccogliere ferraglia nei dintorni per rivenderla nei centri
di rottamazione. Oppure viene chiamato per svuotare qualche cantina in città.
Questo è tutto. I suoi antenati erano giostrai e circensi. «Con Tommaso ci
vogliono tanti soldi, ogni tanto dobbiamo andare a fare controlli a Milano e a
Padova». Il ministro spirituale del campo si chiama Renato Heric. È un pastore
evangelico ed è fiero della sua comunità: «Il sindaco dice che usiamo i nostri
bambini per ricatto, venga qui a trovarci, per favore, venga a vederli». Tommaso
ha sonno. Mamma Fenni lo adagia nel lettone pieno di cuscini. Ci sono due
tubicini per l'ossigeno da infilargli nel naso e il saturimetro da fissare al
pollice con un cerotto. Ora può dormire.
Paolo Di Stefano - 17 febbraio 2011
Al
Corriere il giorno dopo non sarà sembrato vero, di aver trovato una storia
strappalacrime in cui buttarsi
BRESCIA - RIMANE ALTA LA TENSIONE DOPO LA RIVOLTA DELLA NOTTE DI SAN
VALENTINO
Il piccolo sinti che ha rischiato di morire: partita la gara di solidarietà
Un lettore del Corriere ha deciso di raccogliere i fondi necessari per
pagare le visite specialistiche al bambino
BRESCIA - Una raccolta di fondi per aiutare Tommaso, il bambino di 15
mesi che vive nel campo sinti di via Orzinuovi a Brescia e soffre di H-abc,
una malattia genetica rarissima. Il piccolo, che vive grazie a un sondino
fissato a una narice e a una macchina per l'ossigeno, sarà aiutato da un lettore
del Corriere della Sera che, commosso dalla storia di Tommy, ha deciso di
raccogliere i fondi necessari per pagare le visite specialistiche al bambino.
Intanto rimane alta la tensione dopo la rivolta della notte di San Valentino,
quando il Comune ha staccato la corrente elettrica mettendo a rischio la vita di
Tommaso, che vive proprio grazie al funzionamento di particolari macchinari. Non
solo. La famiglia Terrenghi (la più numerosa del campo) ha annunciato una
denuncia contro Fabio Rolfi, vice sindaco di Brescia: i sinti lo ritengono
responsabile del malore di un altro piccolo di 5 mesi cardiopatico ricoverato
dopo il black out ordinato dalla Loggia.
Ieri, grazie alla mediazione della Cgil è stato possibile riaprire il
tavolo delle trattative tra i sinti e l'amministrazione comunale. «La questione
- ha spiegato Damiano Galletti, segretario Cgil - riguarda 3 delle 5 famiglie
che il patto di cittadinanza vorrebbe spostare. Due hanno trovato sistemazione
in una casa popolare dell'hinterland e a Reggio Emilia. Le altre sono disposte
ad uscire liberando le piazzole a condizione che non ci sia alcun intervento
della forza pubblica e che la Loggia apra un tavolo di discussione sul loro
destino». Il patto firmato nei mesi scorsi prevedeva espressamente lo
spostamento dei 5 nuclei familiari. Ma ora i Sinti sostengono che il
trasferimento al campo di via Borgosatollo, fianco a fianco ai Rom, creerebbe
problemi di convivenza tra le due etnie.
G. Spa.
18 febbraio 2011
Di Fabrizio (del 21/02/2011 @ 09:32:59, in Italia, visitato 1629 volte)
Segnalazione di Sara Palli
PISA notizie - Botta e risposta tra il consigliere Scaramuzzino e
l’assessore Maria Paola Ciccone in Consiglio Comunale
Breve ma importante discussione ieri (giovedì 17 febbraio) in Consiglio Comunale
a Pisa sulla questione degli sgomberi dei campi rom nella nostra città. A porre
il problema e a chiedere chiarimenti con un question time è stato il
capogruppo in consiglio di Sinistra Ecologia e Libertà, Carlo Scaramuzzino.
Quest'ultimo nel suo intervento ha ricordato la tragedia dei bambini morti a
Roma citando le parole di preoccupazione espresse in questi giorni dal capo
dello Stato, Giorgio Napolitano, in seguito a tale episodio.
"Chiediamo al Sindaco - spiega Scaramuzzino nella sua illustrazione - se
considera giunto il momento per affrontare in sede consiliare una discussione
complessiva sulla presenza dei cittadini rom nel nostro territorio, così come da
lui stesso proposto nei mesi scorsi, in occasione di risposte date a
interpellanze su fatti di cronaca che hanno coinvolto la popolazione rom. E se
ritiene di poter soprassedere alla decisione di dare seguito agli sgomberi, in
attesa dello svolgimento della seduta consiliare, nel corso della quale
potrebbero essere esaminate soluzioni eque e solidali per le popolazioni rom in
difficoltà".
Vista l'assenza del sindaco a causa di una indisposizione fisica, a rispondere
al question time è l'assessore alle politiche sociali Maria Paola Ciccone. La
risposta dell'assessore appare però molto risentita e polemica nei toni e nei
contenuti per le questioni sollevate dal consigliere comunale.
"Esprimendo il mio dispiacere per quanto avvenuto a Roma, voglio ricordare che
il comune di Pisa è uno dei pochi in Italia che ha messo a disposizione delle
famiglie Rom 400 alloggi, cose che pochi comuni hanno fatto. Pisa non è quindi
una città a cui si possono fare lezioni di accoglienza".
"Per primi - prosegue l'assessore - abbiamo denunciato le condizioni di vita dei
campi abusivi in cui non si rispetta il diritto minimo alla salute dei bambini.
Mantenere questi campi significa negare i diritti dell'infanzia".
Rispetto agli imminenti sgomberi, l'assessore precisa: "Stiamo facendo
rispettare l'ordinanza fatta dal sindaco nel dicembre del 2009 e così chiuderemo
in modo graduale gli insediamenti della Bigattiera e di via Maggiore di Oratoio,
come previsto dal protocollo d'intesa triennale siglato un anno fa da Regione e
Comuni della Zona Pisana. E continueremo a smantellare i nuovi accampamenti che
sorgeranno sul territorio comunale perché sono luoghi pericolosi per la salute e
la sicurezza di chi ci vive".
"Parallelamente - conclude la Ciccone - proseguiremo anche il lavoro con la
Regione perché è importante che tutti facciano la loro parte per quanto riguarda
l'accoglienza: a Pisa lo abbiamo già fatto ampiamente negli anni passati e
continueremo a farlo. Ma non possiamo continuare da soli: se non si attivano
anche gli altri, continueremo a essere il polo attrattore di ulteriori nuovi
arrivi".
Per nulla soddisfatto delle risposte avute si dichiara il consigliere di Sel che
nella sua replica afferma: "Tutte le mie domande sono state eluse. Avevo chiesto
chiarimenti precisi riguardo al fatto se il sindaco, così come aveva annunciato
negli scorsi mesi, fosse intenzionato ad affrontare la questione in un consiglio
comunale ad hoc e quando questo si sarebbe svolto, ma al riguardo l'assessore
non ha detto nulla, come nulla ha detto rispetto alle modalità di sgombero e
agli interventi da parte dei servizi sociali nei confronti di coloro che abitano
in questi campi che sarebbero stati predisposti".
"Il mio question time - conclude Scaramuzzino - è stato eluso dall'assessore che
ha fatto una storia degli investimenti del comune di Pisa e del programma Città
Sottili, che noi tra l'altro abbiamo sempre difeso da chi lo voleva chiudere, e
non posso che prenderne atto".
Questo dibattito si intreccia anche con quanto avvenuto nella giornata di
mercoledì in Consiglio Regionale con l'approvazione di una mozione da parte di
tutti i partiti della maggioranza in cui si impegna la Giunta stessa a
"predisporre un piano, corredato dalle risorse necessarie, per attivare ogni
strumento utile a superare le attuali condizioni di pericolo e di degrado in cui
versano uomini, donne e bambini di etnia Rom soggiornanti sul territorio
toscano".
Soddisfazione è stata espressa al riguardo da parte di Rifondazione Comunista di
Pisa per tale mozione e sulla base di questa si chiede una discontinuità da
parte dell'amministrazione comunale di Pisa rispetto a come è stata fino ad ora
affrontata la questione della presenza della comunità rom nel nostro territorio.
"Purtroppo alcune amministrazioni toscane, negli ultimi anni - afferma il
segretario provinciale del Prc, Luca Barbuti - non hanno saputo resistere alla
facile politica della "sicurezza", hanno creato e risolto falsi allarmi come
quelli delle "invasioni" di nomadi e le politiche degli sgomberi hanno preso il
sopravvento anche nelle nostre città e dintorni. Ma finalmente oggi il consiglio
regionale della toscana, con un documento a firma di tutti i capigruppo di
maggioranza, ha ristabilito quella dignità e umanità che ha sempre
contraddistinto l'istituzione regionale".
"La Regione Toscana ha preso finalmente l'iniziativa sulla situazione dei Rom -
prosegue Barbuti - e approvando il documento consiliare, si è impegnata per
un'integrazione di queste persone. L'auspicio è che quello della Regione sia un
esempio che tutte le istituzioni locali che sino ad oggi si erano lasciate
trascinare dal "leghista pensiero" riflettano su cosa sta producendo la politica
dell'espulsione, dello sgombero nel nostro paese e recuperino quella guida
sociale, quella solidarietà e dovere legislativo che compete a chi fa parte di
una comunità come quella Toscana storicamente dedita all'accoglienza, alla
solidarietà, al rispetto dei diritti umani".
Da qui la federazione pisana del PRC rivolge un forte appello
"all'amministrazione del Comune di Pisa, che negli ultimi mesi ha abbandonato
questo senso di civiltà effettuando continui sgomberi nei campi di periferia. La
speranza a questo punto è che, conseguentemente all'impegno assunto dalla
Regione Toscana, l'amministrazione Filippeschi, sospenda gli sgomberi e tramite
la Società della salute e il coinvolgendo dei tanti soggetti, primi tra tutti la
comunità Rom che nel recente passato hanno contribuito al soddisfacente successo
dei progetti di integrazione, si faccia trovare pronta a riattivare i percorsi
di inclusione sociale quando la Regione avrà predisposto il piano".
Di Fabrizio (del 22/02/2011 @ 09:42:35, in Italia, visitato 1996 volte)
Buongiorno,
Le invio un comunicato del "Gruppo di confronto e ricerca sulle politiche locali
per i gruppi zigani in Europa" nato all'Università di Milano Bicocca in risposta
a quanto affermato dal Ministro degli Interni Roberto Maroni alla puntata del
13/02/2011 del programma "Che tempo che fa" .
Cordialmente,
Alice Sophie Sarcinelli
Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Paris
Nella puntata di "Che tempo fa?" del 13/02/2010, il Ministro degli
Interni Roberto Maroni ha affermato di aver firmato il piano sviluppato dal
Comune di Milano secondo il quale "lo sgombero c'è quando c'è una soluzione
alternativa". Egli si è detto "garante della buona attuazione di questo piano".
Come ricercatori sul campo, siamo a diretta conoscenza della concreta situazione
relativa agli sgomberi delle baraccopoli costruite a Milano dai rom immigrati
dall'Europa sud-orientale. Quanto è stato affermato dal Ministro degli Interni
Roberto Maroni non trova alcun riscontro di realtà. Al contrario, nella maggior
parte dei casi gli sgomberi, che sono ciclici e reiterati, avvengono in assenza
di alternative abitative e senza il rispetto dei diritti fondamentali. Esemplari
sono i ripetuti sgomberi delle famiglie che ruotano attorno al quartiere
Feltre/Lambrate. Il primo, in data 19/11/2009, prevedeva di separare gli uomini
da donne e bambini, e le madri dai figli maggiori di sette anni. Le famiglie
sono rimaste in strada, sotto la pioggia, mentre alcuni bambini e anche alcune
famiglie sono stati ospitati per qualche giorno da maestre e cittadini del
quartiere. Lo stesso campo (con le stesse famiglie) è stato sgomberato a inizio
settembre 2010, a pochi giorni dall'inizio delle scuole, che la maggior parte
dei minori che vi abitavano frequentano. Dopo molte negoziazioni, alle famiglie
rom è stata proposta una soluzione temporanea, che tuttavia prevedeva di
separare gli uomini da donne e bambini. Solo una percentuale inferiore al 20%
delle madri che avevano fatto esplicitamente richiesta scritta è stata ospitata
per un breve periodo in alcune strutture pubbliche o convenzionate di
accoglienza. Queste famiglie hanno passato gli ultimi due inverni a subire
sgomberi, vivendo in strada: alcuni bambini hanno subito 20 sgomberi in un anno.
Nella stragrande maggioranza dei 170 sgomberi effettuati nel corso del 2010
nessuna alternativa è stata offerta, e sul luogo non erano presenti i servizi
sociali. Lo sgombero dei rom è un trattamento differenziale nel duplice senso
che è rivolto a una popolazione in particolare, e che aumenta e produce le
differenze.
Riteniamo di estrema importanza reagire a quanto detto affinché il Ministro
degli Interni si faccia davvero garante della buona attuazione del piano da lui
firmato, garantendo il rispetto dei diritti fondamentali di tutte le persone.
A nome del Gruppo di confronto e ricerca sulle politiche locali per i gruppi
zigani in Europa
Laura Boschetti Institut d'Etudes Politiques de Grenoble
Raffaele Mantegazza, professore associato Università degli Studi di Milano
Bicocca
Chiara Manzoni, Università degli Studi di Milano Bicocca
Oana Marcu, Università Cattolica di Milano
Greta Persico,Università degli Studi di Milano Bicocca
Andrea Rampini, Codici Agenzia di Ricerche
Alice Sophie Sarcinelli, Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales
Tommaso Vitale, Sciences Po
|