Segnalazione di
Alberto Maria Melis,
che aggiunge: "Un bell'articolo, che dimostra come si può fare del buon
giornalismo anche senza intingere la penna nel fango e nel sangue, semplicemente
raccontando la verità che chiunque conosca personalmente i rom ha potuto toccare
con mano."
Repubblica
Un anno fa in questo campo in un rogo era morto un bambino. Pneumatici e
rifiuti abbandonati sono l'eredità di un vecchio sgombero - di BEPPE SEBASTE
La prima cosa che ci colpisce è il pudore. Poiché al mattino gli uomini sono
tutti al lavoro, a venirci incontro è stato un nugolo di bambini, sorvegliati a
vista e seguiti dalle madri, dai tre ai tredici anni. Sono curiosi e vivaci, e
al tempo stesso protettivi. Tra tutti spicca Dario Valentino, undici anni:
"Venite stasera, quando torna mio padre e gli altri uomini", ci ripete serio. Ci
proibisce (ci prega di non farlo) di fotografare le case e le persone, cioè loro
stessi. Colpisce la sua dignità, il volto serio nello sforzo di assumersi la
responsabilità del campo. E' anche perfettamente consapevole del bello e del
brutto. "Tutta questa zozzeria" - dice indicando una distesa di terra piena di
detriti, e le carcasse arrugginite e bruciate di automobili, "non è nostra,
l'abbiamo trovata qui". Ci dice il via vai di questi giorni di fotografi, che
non hanno chiesto il permesso di scattare immagini a case e persone, come se
fossero gabbie di uno zoo: "sono venuti a fotografare tutto e poi sono
scappati".
Ci presentiamo. Siamo in un agglomerato di baracche nel quartiere della
Magliana, racchiuse da canneti e pezzi di campagna sopravvissuta, chiusa da un
lato dai palazzi che ospitano la Fao. Il sentiero che vi conduce da via Morselli
è costellato di pneumatici e tracce di sgomberi recenti. Anche qui, un anno fa,
un altro bambino morì bruciato per l'imperizia e la miseria, non questa volta
dal riscaldamento, ma dalle candele. Sono rimaste famiglie bosniache di
Sarajevo, da cui imparo che le tragedie della miseria accadono a quei rom che
non hanno la sapienza pratica di altri, l'arte del sopravvivere. Nuovi poveri,
per così dire. Con me e Francesca, fotografa, c'è Alessandro, un giovane
antropologo che lavora con Arci Solidarietà nel vicino campo rom "regolare" di
via Candoni: concepito per ospitare trecento persone, ne vivono più di mille,
stipate dentro container di 18 metri quadrati. Alessandro aiuta le famiglie rom
a sbrigare le pratiche sanitarie, scolastiche e sociali in genere. I bambini e
le madri di questa baraccopoli di irregolari lo conoscono di vista, e si fidano
poco alla volta di noi. Il fatto è che ci sentiamo in colpa a essere qui anche
noi solo dopo l'ennesima tragedia che ha fatto notizia e suscitato clamore, a
far visita e fotografare delle condizioni di vita, di vita nuda, come se le
scoprissimo sempre per la prima volta, dimenticando che le abbiamo create noi,
la nostra politica, e solo in seguito attribuite a "loro". Non solo il triste
concetto di "campo", mi spiega il giovane antropologo volontario, è
un'invenzione nostra, frutto di una logica di esclusione; ma anche all'estremo
opposto la lirica adesione a un loro presunto e folcloristico stile di vita, a
una loro presunta esigenza di separatezza.
Ci colpisce la serenità di questo scorcio di vita quotidiano di donne e bambini,
e la tranquilla dignità delle donne e madri. "Ci portano di qui e di là come se
fossimo giocattoli", dice una donna. Da uno sgombero all'altro, da una
deportazione all'altra, la loro precarietà è una condanna, non una scelta. "Io
vivo qui con mio padre, sono arrivata in Italia quando avevo 11 anni - mi dice
un'altra che si definisce single, gonna verde con disegni fantasiosi, collana di
perline, pendenti e un bracciale di corallo - vorrei lavorare, sono brava a fare
le pulizie" - dice mostrandomi la baracca ordinata e accogliente sulla terra
nuda e spazzolata: un letto, un fornelletto, un tavolino, due quadretti di "Roma
sparita" appesi alle pareti fragili di legno, e un terzo che è un ritratto di
padre Pio. Ma non sa leggere né scrivere, in nessuna lingua. Poi si siede
all'aperto, in postura perfettamente eretta toglie il rame scorticando le guaine
dei cavi elettrici e lo mette da parte. Sanno, a differenza di altri rom, che
non bisogna bruciare il rame per non respirarne la diossina che sprigiona.
Tutte le baracche sono di legno, nessun uso di materiali nocivi, e dalle tettoie
pendono le plastiche azzurre della Posta Italiana, con la scritta in bianco. In
una, l'unica con l'impiantito pure di legno, tra i letti, i tappeti e le coperte
dai colori festosi e sgargianti noto vicino alla porta una stufa circolare di
metallo, saldature perfette, ma soprattutto una forma che sembra il frutto di un
designer di grido. "L'ha fatta mio marito", dice la donna con orgoglio seguendo
il mio sguardo. "Questa è sicura". E' una stufa a legno, davvero bella da
guardare.
Dario Valentino, il ragazzo undicenne (che scopriamo essere il figlio del
falegname e fabbro delle stufe), mentre attorniato dagli altri bambini
costruisce con assi di legno, chiodi e un martello una piccola casetta per
giocare, pone delle domande ad Alessandro come un grande, sul loro destino, se
li sposteranno a via Candoni, che cosa siano le fantomatiche "case popolari", e
chi ci può andare. Non è facile spiegare a bambini dagli occhi sgranati, che
aspirerebbero ad avere una casa normale, cosa siano e chi abbia diritto alle
case popolari, e perché. Intanto si sono avvicinate ad ascoltare alcune donne.
Quando nominiamo il Cei (Centro di identificazione e espulsione), la madre di
Dario Valentino, che sembrava disinteressata ai nostri discorsi, si affaccia
dalla sua baracca per esclamare, seria: "Là non ci voglio andare neanche morta".
Tutti qui hanno un regolare permesso di soggiorno, tutti vorrebbero che i loro
figli andassero a scuola, vorrebbero una normale assistenza sanitaria, tutto ciò
che per noi è così normale che ci dimentichiamo di averlo. Ignoro quali siano i
criteri per l'attribuzione, ma una cosa è certa: i nomadi, come li chiamiamo,
non sono nomadi, la loro origine è spesso contadina, e il lavoro degli uomini si
relaziona con la realtà della metropoli, non in un mondo separato.
"Questa potete fotografarla", ci propongono fieri dopo avere finito la loro
capanna di legno. Adesso i bambini, quelli più piccoli a piedi nudi, sono
contenti di mostrarci quante più cose possibili, felici della nostra attenzione.
Fotografiamo Lisa, il boxer femmina, Bambi, una pecora compagna di giochi dei
bimbi. Siamo incantati dalla loro creatività e dalla loro gentilezza. La piccola
Samantha, una biondina sempre sorridente, corre e grida di gioia quando diciamo
che torneremo a portarle dei vestiti. "Anche delle scarpine", ci dice da
lontano.
(11 febbraio 2011)