12 feb 2011
Quattro bambini arsi vivi nel sonno, nella baracca di un microcampo abusivo
nelle campagne della via Appia Nuova a Roma. Lo scorso 6 febbraio, il destino
non poteva scegliere modo più doloroso per riproporre sull’agenda pubblica la
"questione rom", la difficile integrazione di una comunità guardata con
diffidenza e fastidio (come testimoniano alcuni inquietanti commenti apparsi sui
social network) anche quando a parlare dovrebbero essere solo le lacrime.
Dijana Pavlovic, attrice serba ma milanese d’adozione, vice-presidente della
Federazione Rom e Sinti Insieme, in questi anni ha assunto il ruolo di "voce" di
un popolo (150mila in Italia) nascosto, non riconosciuto se non come spauracchio
da agitare per raccogliere facile consenso elettorale. Con lei abbiamo
affrontato le ragioni di questa difficoltà.
Dijana, qual è l’origine dei pregiudizi verso i rom?
"Non sono una psicologa ma avverto il peso del cliché, anche romantico, che
pesa sulla figura dello zingaro. Evoca libertà ma anche mistero, oscurità,
furto. E’ vero: il popolo tzigano è distante dal rigido inscatolamento tipico
dell’occidente. I rom hanno sempre vissuto segregati eppure per noi la libertà è
un atteggiamento mentale, la straordinaria capacità di vivere la vita alla
giornata. Prendere la fisarmonica e cantare nei momenti più difficili. Non è una
visione pittoresca ma la realtà profonda. Un’immagine che porto con me degli
sgomberi a Milano è una fila di persone, amici, tutti con la valigia in mano,
scortati dalla polizia per abbandonare la loro casa. Tra loro un signore
anziano, con i baffi, che in preda alla rabbia, alla disperazione, ha preso una
fisarmonica ed ha iniziato a suonare. Toglieva il respiro. La società è troppo
legata all’idea del possesso, vali in base a quello che hai nel portafogli. Gli
zingari, invece, si giudicano tra loro in base a quello che sei. E questo in
occidente fa molta paura".
A che punto è la battaglia sulla richiesta dello status di minoranza
linguistica?
"Al punto zero. Nel 1999 i rom non sono stati inclusi nella legge che regola
la materia, eppure la comunità italiana è presente sul territorio dal 1400. E’
un problema tecnico: in Italia lo status si riconosce solo ad una comunità
legata ad un territorio. I rom non lo sono, per la specificità della loro
cultura. E’ solo una scusa che nasconde una precisa volontà politica: non
riconoscere i rom, non stabilire un rapporto e quindi non rispettarli".
Qual è il ruolo della scuola?
"In Italia siamo indietro, a scuola i bambini rom sono dati per spacciati.
In altri paesi ci sono rom laureati, qui manca completamente una classe
dirigente. Nessuno si preoccupa della conservazione della lingua romanes, il
vero "luogo" della cultura rom. E’ difficile quando vivi nei ghetti, provare ad
uscirne. Ti racconto un episodio che ho vissuto quando facevo la mediatrice
culturale nelle scuole: seguivo un ragazzino rom di 11 anni, molto sensibile.
Ogni mattina era prelevato da uno scuolabus con la scritta "pulmino rom". A
scuola era scaricato in una classe con la scritta "aula rom". Lui capiva
perfettamente di essere trattato diversamente. Un giorno la preside, gli dice
"resisti, che tra un anno per te la scuola è finita". Lui mi guarda e chiede:
"Perché io non vado alle medie?". Per la preside era scontato che abbandonasse
gli studi, nonostante fosse capace di continuarli".
Qual è l’episodio di discriminazione più detestabile che ricordi?
"I disegni degli scolari napoletani a Ponticelli con le scritte ‘bruciamoli
tutti’. E l’infamante stereotipo degli zingari rapitori di bambini. E’ l’accusa
che fa più male, davvero ingiusta. A quella di "ladri" siamo abituati ma
basterebbe conoscerci solo un po’ per capire che i bambini sono amati e
rispettati, sono il centro della nostra cultura. Immagina il dolore per quanto
accaduto a Roma domenica scorsa".
Sabino Di Chio