Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Di Fabrizio (del 26/12/2013 @ 09:03:22, in Italia, visitato 1968 volte)
LeNiùs 23 Dec 2013 Nikolas Kallmorgen Immagini|
Nikolas Kallmorgen Travel
Photographer
Il 25 dicembre, insieme al Natale, si celebrerà il primo mese dallo sgombero del
maggiore campo rom di Milano, tra via Brunetti e via Montefeltro. Un campo che,
come abbiamo raccontato, era abitato da circa 900 rom fuoriusciti da altri
insediamenti sgomberati nei mesi precedenti, primo fra tutti il campo
autorizzato di via Triboniano, su cui la giunta Moratti aveva investito 800.000
euro
per renderlo "abitabile", prima di distruggerlo con le ruspe in vista dell'Expo
lasciando per strada le famiglie che vi abitavano.
La nuova giunta milanese, in particolare attraverso l'Assessore alla sicurezza e
coesione sociale Marco Granelli, ha dichiarato a più riprese di non voler
ripetere gli errori dei predecessori e di voler realizzare l'annunciato
programma di "superamento dei campi" evitando la creazione di nuovi insediamenti
analoghi. Vediamo dunque qual è la situazione oggi a Milano.
Sgombero Rom Milano, le soluzioni proposte dal Comune
Come dichiarato il 5 dicembre dallo stesso Granelli a Radio Popolare, con lo
sgombero del 25 novembre i Centri emergenziali messi a disposizione per il
"Piano Rom" si sono riempiti, ma secondo la versione ufficiale (diffusa anche
attraverso una nota sulla pagina facebook di Palazzo Marino) nessuna persona
sarebbe stata rifiutata.
Le uniche eccezioni sarebbero relative a quei casi che non rispondevano ai
"requisiti": in sostanza il Comune non ha accettato chi in passato aveva
rifiutato una struttura d'emergenza e chi ha usufruito di quella sorta di
"incentivo al rimpatrio" che la Moratti si era inventata sperando di convincere
i rom ad andarsene per sempre in cambio di una donazione una tantum.
Tralasciando la pur doverosa riflessione sull'ammissibilità di "requisiti
d'accesso" in casi d'emergenza, le testimonianze dirette raccolte dal Naga, che
lavora da anni a stretto contatto con i rom dei campi irregolari, hanno rilevato
una situazione diversa (come avevamo peraltro già intuito a 48 ore dallo
sgombero): molte famiglie, seppur in possesso dei famigerati "requisiti", sono
in realtà state rifiutate e lasciate fuori dai Centri di Emergenza.
Molte di queste hanno trovato ospitalità presso amici o parenti in altri campi,
mentre altre dormono ora sotto i ponti o si accampano di notte nei prati vicino
alla ferrovia. Come racconta il Naga, "le tende vengono poi nascoste nei
dintorni e, durante il giorno, [i rom] si muovono per la città senza una meta
precisa: non è difficile pensare in che condizioni fisiche e mentali,
considerando anche che uno di questi rom è stato sottoposto ad un intervento
chirurgico per un tumore alla testa e che deve regolarmente assumere medicinali
antiepilettici e farmaci salva vita".
Granelli, d'altra parte, continua a negare questa situazione, sostenendo che la
proposta dell'Amministrazione sarebbe stata accolta solo da 254 persone. Guarda
caso esattamente la capienza dei due centri: fortunata coincidenza, verrebbe da
pensare.
Invece un altro assessore, Pierfrancesco Majorino, responsabile per le Politiche
Sociali, presente insieme a Granelli allo sgombero del 25 novembre, si lamenta
sulla sua pagina facebook: "Con la popolazione rom facciamo una gigantesca
fatica. Molti tra loro non accettano le nostre proposte".
Resta dunque una domanda: se accettassero tutti la proposta del Comune, dove
verrebbero messi? Cosa è stato proposto, per esempio, alle famiglie sgomberate
settimana scorsa dal campo Lambro-Forlanini? E cosa verrà proposto alle restanti
2.000 persone che vivono nei campi che vorrebbero essere "superati"?
Rom Milano, i centri di emergenza
Al di là dei dubbi sui numeri, è sicuramente vero che una buona parte dei rom
rifiuta le proposte di accoglienza del Comune. Per capirne i motivi, è
sufficiente parlare con qualcuno di loro: "Alla fine qual è la differenza tra
qui e il campo? Pensano di aiutarci solo perché ci mettono un muro intorno?" è
il commento più diffuso. Alcune donne ammettono: "E' vero che qui non ci sono i
topi, ma per il resto qui non stiamo meglio, anzi: i bambini si ammalano molto
di più!".
In effetti, lo sgombero è avvenuto all'inizio del freddo invernale, che ha
portato con sé i classici malanni di stagione. Le famiglie, ammassate in grandi
stanzoni contenenti dalle 30 alle 50 persone ciascuno, hanno iniziato a passarsi
ogni raffreddore e ogni mal di gola, fino a quando hanno dovuto chiedere
l'intervento dei medici volontari del Naga. "I bambini non dormono", quelli sani
vengono svegliati dalla tosse dei malati e le maestre a scuola si sono già
accorte che i ragazzi dormono sui banchi. "Le maestre non capiscono, pensano che
ora abbiamo tutto per stare bene, non sanno che qui la nostra vita è ancora più
difficile di prima".
La vicinanza forzata è sicuramente una delle principali ragioni di disagio: per
aumentare la privacy, ogni famiglia ha inventato delle paratie di fortuna con
teli, asciugamani e coperte. Ma in questo modo non viene certo fermata la
circolazione dei virus. I quali peraltro non vengono fermati nemmeno dai medici,
la cui presenza non è prevista: i malati infatti non vengono curati, perché
all'interno delle strutture d'emergenza non c'è assistenza medica.
Inoltre non viene distribuito cibo, le docce sono fredde e la stanza prevista
per i pasti non è riscaldata. Chi riesce a procurarsi del cibo perché ha la
fortuna di avere un lavoro o perché riesce a ottenere una decina di euro per la
propria famiglia facendo l'elemosina (questa cifra è considerata un successo),
mangia seduto sul proprio letto.
Una lamentela molto diffusa riguarda poi le limitazioni d'uso per le lavatrici.
Ogni famiglia può usarle solamente durante una finestra prestabilita di 2 ore in
un'intera settimana. I rom, che non sono certo dotati di un guardaroba standard
per i canoni del milanese medio, si trovano a usare gli stessi vestiti sporchi
anche per diversi giorni. "Nel campo avevo le mie quattro pareti e la mia
bombola, scaldavo l'acqua e lavavo anche tutti i giorni: ora cosa dico ai miei
bambini che vengono presi in giro dai compagni di classe perché hanno vestiti
puzzolenti?".
Infine, una considerazione sulla divisione delle famiglie. Uno dei vanti
dell'amministrazione comunale è quello di non separare le famiglie dopo gli
sgomberi. In effetti, se ci si basa sulla famiglia ristretta, ciò è vero: i
genitori e i figli restano insieme nei centri emergenziali, mentre nonni, zii e
cugini non sono considerati parenti stretti.
Se consideriamo però la cultura rom e soprattutto la precarietà della situazione
in cui vivono, è impossibile ignorare l'importanza della famiglia allargata per
il sostegno reciproco. Al di là dell'appoggio morale, in situazioni del genere
l'aiuto di uno zio che ha trovato lavoro in cantiere o di una cugina che possa
occuparsi dei bambini durante il giorno possono valere la differenza tra avere o
meno qualcosa nel piatto alla sera.
In sostanza, il progetto di superamento dei campi con la proposta di avvio di un
percorso di integrazione a medio termine sarebbe in teoria più che valida. Ma le
modalità concrete di attuazione del piano osservate finora danno la sensazione
che l'obiettivo principale dell'azione sia in realtà quello di nascondere i rom
alla vista dei milanesi, a costo di chiuderli dietro a un muro vuoto di cemento
e di promesse.
Di Fabrizio (del 21/12/2013 @ 09:09:25, in Italia, visitato 1569 volte)
Adriana Goni Mazzitelli su
comune-info | 17 dicembre 2013
Vandana Shiva è stata a Roma invitata da Terra onlus e da gruppi che si occupano
di recupero delle terre e di orti urbani. In questa occasione ha avuto modo di
fare un incontro particolare con alcune giovani ragazze e donne rom protagoniste
di un laboratorio di videonarrazione, portato avanti nella periferia est di Roma
dal Centro culturale Michele Testa (con l'aiuto dell'artista Maria Rosa Jijon e
del Laboratorio di Arti civiche dell'Università di Roma Tre). Comune era
presente all'incontro: di seguito, una parte della loro conversazione.
A cura di Adriana Goni Mazzitelli
Video Lab nasce due anni fa all'interno del Progetto SàrSan e rappresenta un
prezioso strumento per dare voce alle giovani rom. Uno spazio di
auto-narrazione, un laboratorio per ribaltare la comunicazione stereotipata che
rimbalza nelle notizie di cronaca a proposito di rom. Le ragazze che fanno parte
del progetto, vengono dai campi rom di via Salviati e di via Salone e sono fiere
di essere nate e cresciute a Roma, cosi come di aver vinto con il mini
documentario Sono solo una ragazza il Premio del Pubblico al festival
I Colori
del Mondo, promosso dal Museo di Arte Contemporanea di Roma.
Nonostante questi buoni risultati, nulla sembra cambiato nelle loro vite
quotidiane. Le grandi aspettative che avevano nel cambio dell'amministrazione di
Roma, non hanno al momento prodotto nulla: sembra che il loro destino continui
ad esser segnato dai e nei campi rom. La precarietà che si vive in queste
strutture è ancora dominata dalla logica degli sgomberi forzati, unica politica
sulla quale sembra siano tutti d'accordo. Organizzare un'intervista a Vandana
Shiva in questo contesto è stata una bella sfida e un'occasione di confronto
tra donne che lottano per il cambiamento ogni giorno.
Gli studi più attendibili dicono che i rom sono originari dell'India, alcuni
secoli dopo, donne indiane e donne rom hanno trovato un momento di confronto per
scambiare idee, storie e rafforzarsi nella comune lotta per uscire da
oppressione e impoverimento. Le ragazze di SàrSan, Brenda, Smeralda, Sheila
erano emozionate, ma si sono a lungo preparate: hanno pensato a diverse domande
e costruito questa intervista.
Le donne nel suo paese si sono organizzate per difendere la terra: come hanno
fatto?
Oggi, il primo passo per uscire della povertà è usare le mani e la testa. Uno
dei principali argomenti per tenere fuori dal sistema le comunità povere e le
donne, è dire che non producono, che sono passive, che non hanno competenze, che
non hanno conoscenze e saperi. Il primo passaggio per uscire della povertà è
allora non percepirsi come esseri poveri, essere consapevoli della ricchezza che
si ha dentro. Sapere di avere ognuno la capacità di creare, di produrre e di
costruire relazioni e comunità. Il secondo passaggio è resistere alle politiche
che creano la povertà, che sottraggono le risorse alle persone, che impediscono
alle persone di produrre quello che sono in grado di produrre. Creare e
resistere.
Cosa pensa della povertà e del trattamento inumano che l'Europa riserva a
migranti e rom?
Qualunque società che non sia capace di creare spazio, di fare spazio, per tutti
e tute, anche per i migranti che non sono nati nel paese, è una società
ingiusta. Credo che tutti i cittadini e le cittadine del mondo che stanno stanno
vivendo in altri paesi, devono essere trattati come se fossero a casa. Una
società che oggi non crea gli spazi per i rom, domani non sarà capace di creare
spazi per l'altro.
Cosa dobbiamo fare per coinvolgere altri rom e lottare per i nostri diritti?
Ci sono due modi per fare i conti con l'esclusione: uno è cercare di essere
inclusi nelle strutture che ti escludono, ma queste strutture ti metteranno
fuori perché sono costruite per farlo. Per esempio il patriarcato esclude le
donne, l'esclusione razziale esclude i migranti che non considera parte del
cerchio dominante, e il dominio del denaro, cioè il dominio che sta alla base
della crisi con cui l'Italia sta facendo i conti, esclude i poveri, sono tutte
strutture escludenti. L'altro modo per combattere l'esclusione è dire, noi
possiamo creare un mondo migliore, e includiamo noi stessi e altri al suo
interno. E' spostare l'asse, al centro ci sono tutti; le donne diventano il
centro, è per questo che dopo il crollo della Wto lo slogan dei movimenti è
diventato un altro mondo è possibile.
Dopo le prime domande è Smeralda, diciannove anni, a vincere la timidezza e a
prendere parola: dice a Vandana che è vero, in tutto il mondo le donne sono
lasciate ai margini, "si pensa che non sanno produrre, che non sono utili, ma
noi sappiamo che le donne sanno fare tante cose, noi donne rom ad esempio
facciamo di tutto. Bisogna partire dei nostri saperi, e non aspettare che
qualcuno venga a salvarci. In India come nella periferia di Roma dobbiamo
organizzarci per cambiare quello che non ci sta bene".
Anche Shila, ventidue anni, partecipa alla conversazione. In Europa i politici
pensano che controllando il flusso di persone diverse, o controllando il
brevetto dei semi, riusciranno a costruire "società omogenee che non mettano a
rischio le strutture di potere esistenti - dice Shila - Dobbiamo essere
orgogliosi delle diversità di ogni tipo, a cominciare dalla nostra diversità
rom, siamo unici ma abbiamo diritti universali. Bisogna imparare a valorizzare
la diversità, ci aspetta una lunga strada".
A salutare e ringraziare Vandana Shiva ci pensa Brenda, vent'anni appena
compiuti: "Sei una donna forte, anche noi dobbiamo esserlo. Ci hai trasmesso
forza e solo con la forza riusciremo ad arrivare lontano".
Di Fabrizio (del 20/12/2013 @ 09:03:15, in Italia, visitato 1467 volte)
Una dedica fatta col cuore, alla giunta milanese che aveva promesso
che sgomberi con la brutta stagione non ci sarebbero più stati. GLI
ALLEGRI CAMPEGGIATORI
SCRIVONO DA MILANO-EST: Questa mattina (19 dicembre
ndr.) è stato sgomberato il piccolo campo abusivo rom di V.le Forlanini
Lambro. La polizia locale si è presentata dopo che nel pomeriggio di ieri due
funzionari della locale li ha avvertiti. Totalmente assenti i servizi sociali
del Comune ma l'assurdo di questa vicenda è che dello sgombero in atto né l'Ass.re
Granelli, né la Dr.ssa De Bernardis ne erano a conoscenza! Di fatto sono venuti
a conoscenza di ciò che stava accadendo solo perché da me avvertiti! La mano
destra non sa cosa fa la sinistra...! In questo piccolo campo ca. 10 gg fa
alcuni funzionari della polizia locale hanno fotografato tt i minori presenti!
Compiendo un atto di illegalità! Ora hanno trovato rifugio nei campi della zona
Forlanini accolti dalla loro stessa gente, dopo che tutti hanno rifiutato di
recarsi nel centro di accoglienza di v.le Lombroso. NOTA PERSONALE: che
sarebbe bello capire (almeno per distrarre il cervello dagli orrori quotidiani)
cosa hanno la gente, la stampa, i signori in cravatta nella loro testa. Il
giorno prima a stracciarsi le vesti per un bambino (l'ennesimo, ormai non sono
neanche più capace di commuovermi...) morto sempre a Milano, in un insediamento
spontaneo accanto ad un campo che resiste nei decenni. Poi, nel massimo silenzio
possibile, si ricomincia come prima, se non peggio. Piove, malinconico ricordo dell'epoca De Corato, quando la mattina si
guardava il cielo per capire se ci sarebbero stati sgomberi. Se pioveva, di
sicuro ci sarebbero stati.
SPOT
A proposito di sgomberi e di
cultura che non sia consolatrice:
clicca sull'immagine per scaricarlo GRATUITO
Si tratta praticamente di un gruppo di persone, addestrate e coordinate, il cui
scopo è raccogliere testimonianze di prima mano su quanto avvenga durante uno
sgombero (in questo caso), ma anche in occasione di manifestazioni o scontri con
le forze dell'ordine. Le informazioni raccolte vengono poi inviate ad un "centro
di collegamento legale", non per venire girate ai mezzi d'informazione, ma per
essere conservate ed adoperate nel caso di processi e strascichi legali.
Chi fosse interessato a sviluppare il discorso, mi contatti
info@sivola.net
Di Fabrizio (del 19/12/2013 @ 09:01:44, in Italia, visitato 1681 volte)
di Medicina di Strada - Naga. Pubblicato da
Anna_MiM il 17 dicembre 2013.
Le otto di sera, avevamo appena recuperato il resto dei
volontari ed eravamo pronti per andare.
Di solito le uscite con il camper di mds si organizzano negli insediamenti
irregolari, per effettuare visite mediche, ma questa volta non avevamo un punto
di riferimento. Non lo avevamo più da due giorni, da quando il comune ha
sgomberato i campi rom di via Montefeltro e via Brunetti. Così a seguito di
quello sgombero, abbiamo deciso di uscire con il camper diretti nella zona
attorno i due ex insediamenti, per capire come e in che condizioni si sono
raccolte alcune tra le circa 450 persone che non sono state accolte nei due
centri emergenziali messi a disposizione del Comune.
Di giorno sarebbe stato più facile incontrarli, ma a quell'ora sapevamo che
molti si erano già spostati in posti non visibili per passare la notte. Grazie
ai contatti telefonici avuti con alcuni rom, ci siamo diretti verso uno di
questi luoghi. Poco prima di arrivare, abbiamo parcheggiato il camper per non
dare nell'occhio. Ci avevano detto che la polizia continuava a girare, e a
mandarli via ogni qual volta si fermavano in un punto.
Con torce elettriche e telefonini, ci siamo poi diretti a piedi all'interno di
un prato ai margini della ferrovia. Proseguendo sempre a piedi ci siamo visti
venire incontro un gruppetto di 4/5 rom, alcuni di loro con grossi borsoni
carichi di vestiario e coperte, provenienti dalle aree appena sgomberate. Uno di
loro ci ha spiegato di come gli hanno negato l'accesso nelle strutture
d'emergenza, insieme alla sua famiglia, dopo essersi recato per accedervi
legittimamente, ovvero in regola con le richieste previste dall'amministrazione
che prevedono appunto di garantirne il diritto solo a chi non lo abbia rifiutato
precedentemente.
Lo stesso signore rom raccontava che a tutti i rom presenti lì ieri sera, e agli
altri che hanno fatto richiesta per accedere nelle strutture emergenziali, le
forze dell'ordine hanno sequestrato i documenti (carta d'identità) trattandoli
in malo modo. Non è ancora chiaro come e quando gli verranno restituiti i
documenti e, a quale proposito glieli hanno sequestrati. Nel frattempo abbiamo
chiesto in quanti fossero in quello spazio di prato, ci hanno risposto che erano
una decina, divisi dentro due tende appositamente aperte la sera e smontate al
mattino presto. Le tende vengono poi nascoste nei dintorni e, durante il giorno,
si muovono per la città senza una meta precisa: non è difficile pensare in che
condizioni fisiche e mentali, considerando anche che uno di questi rom è stato
sottoposto ad un intervento chirurgico per un tumore alla testa e che deve
regolarmente assumere medicinali antiepilettici, farmaci salva vita. Lo stesso
rom dopo averci domandato come fare per un suo problema all'occhio, è stato
invitato a contattare subito il servizio medico del Naga per le visite del caso
previo contatto telefonico in sede.
Infine abbiamo domandato se sono veritiere le voci che girano, circa il presunto
affitto che alcuni rom di Montefeltro avrebbero dovuto pagare per l'occupazione
delle baracche a una specie di satrapo governante - ci hanno risposto
assolutamente no, nulla di tutto ciò corrisponde al vero.
Zona Cimitero Maggiore, interviste e accompagnamento giornalista Radio Popolare
(4 dicembre)
Primo pomeriggio, insieme ad una giornalista di Radio Popolare siamo andati
in zona Cimitero Maggiore per incontrare un numero maggiore di famiglie rom
rispetto all'ultima uscita effettuata la sera.
Le prime persone che abbiamo incontrato sono una famiglia con un bambino
ospitata nel centro di emergenza Barzaghi 2, così viene chiamato. Il bambino
giocava con i nonni, ai quali è stato negato l'accesso alla struttura, così si
incontrano di giorno per stare insieme. La sensazione è quella di un detenuto
che incontra i familiari nell'orario di visite, all'aria aperta. La sera mentre
i primi rientrano nel centro, la coppia di anziani cerca riparo dove capita per
la notte. Il vanto di questa amministrazione comunale è quello di non dividere
le famiglie dopo gli sgomberi, o allontanamenti come preferiscono chiamarli.
Forse sarebbe il caso di rivedere il concetto di famiglia.
Il bambino ha una tosse preoccupante, quando abbiamo chiesto come viene curato,
ci hanno risposto che non c'è assistenza medica nel centro emergenziale. In
questo modo oltre a non poter curare la sua di tosse, e dato che vivono tutti
stipati dentro degli stanzoni, c'è il rischio che anche altri possano ammalarsi.
Possono andare al Pronto Soccorso, venire anche ricoverati, ma da regolamento,
se non ci si presenta per tre notti di fila, c'è l'esclusione dalla struttura
emergenziale.
Il regolamento è stipulato dagli enti gestori che hanno vinto il bando emanato
dal Comune. Un bando valido tre mesi. Chi ha avuto accesso alla struttura
emergenziale di Barzaghi 2, ha firmato senza poter leggere, nessuna copia
attualmente è stata consegnata agli ospiti.
Parlando con altre persone presenti abbiamo saputo che finalmente hanno portato
un le cucine, promesse da inizio ottobre, ma inspiegabilmente il Comune ha
sospeso la distribuzione dei pasti, così per tutti quelli che non possono
comprare da mangiare le cucine sono inutili, non passano neanche il latte per i
bambini ospitati. I costi stimati per ogni famiglia rom si aggirano sui 30 euro
al giorno, ma a loro non viene dato nulla.
L'acqua calda non basta per tutti, la maggior parte degli ospiti è costretta a
lavarsi con l'acqua fredda. Peggio per chi è stato escluso e ora è costretto a
muoversi continuamente per la città, dato che ogni qual volta si fermano in un
posto vengono cacciati dalla polizia.
Non oggi, non con noi presenti. La polizia staziona e guarda mentre siamo con
loro.
Anche di notte, quando la polizia li trova, taglia loro le tende chiamando l'Amsa
per portare via coperte e sacchi a pelo. Alla loro richiesta di un posto dove
stare la risposta è sempre la stessa "non lo sappiamo, qui non potete stare".
Una madre allatta il figlio poco distante da noi, al freddo di un pomeriggio
invernale. Anche lei vive per strada ora.
Tutte le famiglie con bambini che abbiamo incontrato e che ora vivono
all'addiaccio, ci hanno detto di aver fatto domanda per entrare nei due centri
di emergenza, ma non sono state accolte. Non ne capiamo il motivo, dato che
hanno tutti i requisiti per accedervi.
Prima che ci riconoscessero come Naga, si sono dimostrati diffidenti, la
giornalista di Radio Popolare è riuscita a fare qualche intervista e dopo una
ritrosia iniziale molti hanno fornito testimonianze. Il giorno dopo andrà in
onda il servizio con l'assessore Granelli al telefono come ospite.
Le notizie ufficiali parlano di un Comune che ha dato accoglienza a 31 bambini e
a tutte le famiglie che ne hanno fatto richiesta, togliendoli dal freddo e dai
topi, e che ora risiedono in condizioni decenti. La realtà è un po' diversa.
Di Fabrizio (del 18/12/2013 @ 09:02:03, in Italia, visitato 1701 volte)
di Sergio Bontempelli - 16 dicembre 2013 su
corriere delle migrazioni
Per un attivista che "si occupa di rom" - come
si usa dire - il posto più difficile da frequentare è il bar. Perché se tieni
una conferenza, o se entri in una scuola a discutere coi ragazzi, hai tempo e
modo di articolare un discorso. Provi a decostruire pregiudizi e stereotipi, e i
tuoi uditori ti ascoltano in silenzio. Lo vedi che sono scettici, che non
credono a quel che dici: ma almeno ti guardano con il rispetto che si deve
all'"esperto".
Al bar no. Al bar, davanti a un cappuccino caldo, tutti sono "esperti",
soprattutto dell'argomento "zingari". "Te lo dico io, non si integrano, vivono
di furti e di illegalità". Le tue statistiche e i tuoi studi non contano nulla.
"Puoi raccontarmi quel che ti pare, ma io li conosco, l'altro giorno mi sono
entrati in casa e hanno rubato l'argenteria di famiglia...". Stop. Fine del
ragionamento.
Come si distingue un rom?
Ecco, fuori dal bar il discorso sull'argenteria sarebbe interessante da
approfondire. Ti hanno rubato in casa, e tu hai visto il ladruncolo mentre
scappava. Era uno "zingaro", dici: ma come fai a saperlo? Con quale criterio
distingui un rom? Lo riconosci dal colore della pelle, dai tratti somatici,
dall'aspetto? Impossibile, perché tra i rom ci sono i biondi, i mori e i
castani, c'è chi ha la pelle chiara e chi è più scuretto, chi è alto e chi è
basso...
Forse hai riconosciuto il "tipico abbigliamento zingaro". Magari non era un
ladro ma una ladra, e aveva la gonna lunga e colorata... Ora, ammesso (e non
concesso) che la gonna lunga sia "tipicamente rom", non ti viene il sospetto che
la ragazza in fuga abbia usato un travestimento per sviare i sospetti? E d'altra
parte, se la ladra era davvero rom perché è andata a rubare vestita in modo così
riconoscibile?
Forse un buon criterio per identificare un rom potrebbe essere la lingua, ma
quanti sono in grado di riconoscere una persona che parla romanes?
Al bar, però, obiezioni del genere non contano. Suonano come i sofismi di uno
che ha studiato troppo. "Il ladruncolo era uno zingaro, l'ho visto coi miei
occhi, cosa vuoi di più?". Stop. Fine del ragionamento.
Al bar non contano i ragionamenti, contano le storie. E allora proviamo a
raccontarla, una storia. E' una storia vera che mi è accaduta in questi giorni.
E che mostra come i pregiudizi condizionino non solo le nostre idee, ma anche le
percezioni, quel che "vediamo coi nostri occhi", quel che ci sembra oggettivo e
irrefutabile.
Un viaggio da manager
E' Martedì, e come sempre vado al lavoro di buon mattino. Oggi però è un giorno
speciale, devo uscire dall'ufficio un po' prima perché parto: mi hanno invitato
a tenere un ciclo di seminari proprio sull'argomento rom, a Udine. Per arrivare
dalla mia Toscana al lontano Friuli devo fare un percorso lungo e accidentato,
con tre cambi di treno: dopo il regionale da Montecatini Terme a Firenze, devo
prendere l'Alta Velocità per Venezia-Mestre, quindi di nuovo un regionale che mi
porta a Udine.
Armato di pazienza, comincio il mio viaggio sul regionale. Salgo, prendo posto,
mi siedo e accendo il computer: devo finire le slide che mi servono per far
lezione, e comincio a lavorare. Sono ben vestito (meglio del solito, almeno...),
consulto libri e documenti, armeggio col mouse, prendo qualche appunto sull'Ipad
e di tanto in tanto rispondo al cellulare: devo avere l'aria di uno quegli
odiosissimi manager che lavorano ovunque, sul treno come in ufficio, alla
fermata dell'autobus come sulla panchina al parco... Intorno a me noto occhi
curiosi che mi scrutano, con un senso di rispetto misto a invidia.
La "zingara" del treno regionale...
Mentre lavoro vedo passare Maria, una ragazza rom romena che conosco di vista:
di solito chiede l'elemosina sul treno, e io le do sempre qualcosa. Si avvicina
e mi tende la mano per chiedere qualche spicciolo: poi mi riconosce, trasale e
sorride. Col mio rumeno un po' maccheronico le chiedo come sta. Mi dice che
nelle ultime settimane la vita è più dura del solito, la questua non "rende"
bene e lei non ha i soldi per mangiare.
Può darsi che sia vero, può darsi che sia un modo per strappare qualche
spicciolo in più: per me non ha importanza, e le allungo una moneta da due euro.
Lei sorride di nuovo, mi ringrazia e si siede un attimo. Continuiamo a parlare
del più e del meno, le chiedo se ha programmi per Natale e lei mi dice che,
finalmente, passerà le vacanze a casa, in Romania. "Fa freddo laggiù", spiega,
"adesso c'è la neve". Poi si alza, saluta e se ne va.
La scenetta non è passata inosservata. I viaggiatori mi guardano attoniti. Prima
sembravo un manager indaffarato, ma i manager di solito non parlano con gli
zingari. Già, perché Maria sembra proprio una "zingara": ha l'aspetto
trasandato, chiede l'elemosina e porta una gonna lunga e colorata...
... e la strana ragazza sull'Eurostar
Arrivato a Firenze, corro al binario e salgo sul treno Alta Velocità, quello per
Venezia. L'ambiente è decisamente diverso: qui non ci sono i pendolari, ma -
appunto - i manager indaffarati. Rispondono al telefono e li senti parlare di
bilanci, di contratti, di accordi commerciali da perfezionare, di meeting da
organizzare. La voce dell'altoparlante invita a gustare le prelibatezze del bar
al centro del treno: fuori dal finestrino, le gallerie si alternano ai paesaggi
delle montagne toscane. Cullato dal treno, mi addormento.
Dopo poco più di mezzora siamo a Bologna. Sale una ragazza giovanissima e si
siede accanto a me. E' vestita elegante ed è truccata con molta cura. Saluta il
fidanzato dal finestrino e gli manda un bacio romantico, uno di quelli
"soffiati" sul palmo della mano... Poi, quando il treno riparte, si mette a
sfogliare una rivista.
Nel bel mezzo del viaggio le squilla il cellulare. Si mette a conversare al
telefono e sento che non è italiana: parla una lingua che non riesco a
identificare. Frequentando gli immigrati, mi sono abituato a sentirne tante, di
lingue: ovviamente non le capisco, ma sono in grado di distinguere un albanese
da uno slavo, un rumeno da un ucraino, un russo da un georgiano. Ma la ragazza
proprio no, non capisco da dove viene. La ascolto con attenzione e mi pare di
sentire qualche parola in romanes. Però no, non può essere rom: non ne ha
l'aspetto, non parla con la tipica gestualità "alla zingara", non è vestita da
rom... E poi, si è mai vista una rom sul treno ad Alta Velocità?
La romnì "invisibile"
Mentre cerco di identificare la provenienza della ragazza, mi squilla il
telefono. E' un amico senegalese che ha problemi con il permesso di soggiorno.
Gli fornisco qualche consiglio, poi gli dico di passare al mio ufficio:
l'argomento è delicato, ed è bene capire la situazione controllando di persona
documenti e carte.
Quando riaggancio mi accorgo che la ragazza mi sta guardando. "Ma tu sei un
avvocato?", mi chiede. Le rispondo che no, non sono avvocato, lavoro per i
Comuni e mi occupo di permessi di soggiorno. Mi spiega che suo padre ha problemi
con i documenti, e mi chiede consigli. Scopro così che la ragazza è macedone. Ma
qualcosa non torna.
Conosco bene la lingua macedone. Voglio dire, non la parlo e non la capisco, ma
la riconosco quando la sento. E la ragazza no, proprio non parlava macedone. Nei
Balcani ci sono consistenti minoranze albanesi, ma lei non parlava neanche
albanese. Non riesco a vincere la curiosità, e mi faccio avanti: "ma che lingua
era quella al telefono?". La ragazza trasale, ha un momento di imbarazzo e
farfuglia: "no, non era macedone... la mia lingua è...". Si ferma un attimo. Si
vede che non sa proprio come dirmelo. "Ecco, in casa parliamo una specie di...
di lingua sinta...".
"Una specie di lingua sinta" significa che la ragazza parla romanes. E' una
romnì macedone ("romnì", per chi non lo sapesse, è il femminile di "rom"). Provo
a sciogliere il suo imbarazzo, le dico che ho molti amici rom che vengono
proprio dalla Macedonia. Ci mettiamo a parlare, e scopro che la ragazza abita a
Bologna, ma il fidanzato è un sinto di Pisa, la mia città. Facciamo amicizia e
alla fine ci scambiamo i numeri di telefono. "Se mi sposo a Pisa ti chiamo e
vieni alla mia festa di matrimonio".
La morale della favola
La "morale" di questa piccola storiella ci riporta alle conversazioni da bar di
cui si parlava prima. Crediamo tutti di sapere chi sono gli "zingari", e come
sono fatti. Chiunque è (crede di essere) in grado di riconoscere un rom, o una
romnì. E su questa percezione intuitiva costruiamo i nostri discorsi: "tutti i
nomadi chiedono l'elemosina, nessuno lavora" (come se l'elemosina fosse una cosa
orribile, e non un lavoro come gli altri: ma questo è un altro discorso, e ci
porterebbe lontano...). "Io li ho visti, rubavano i portafogli ai passanti".
"Ero sull'autobus e c'era una nomade che non aveva pagato il biglietto: non ce
n'è una che rispetti le regole...". E gli esempi potrebbero continuare.
Non pensiamo mai che quel che vediamo è anch'esso frutto di pregiudizi. Non ci
viene in mente che il nostro educato vicino di casa, che incontriamo
sull'ascensore al mattino, potrebbe essere rom. Sul treno, non ho pensato che la
mia "compagna di viaggio", elegante e ben vestita, era una romnì macedone.
I rom, quelli veri e in carne ed ossa, non sono come li immaginiamo. Come dice
un mio amico sinto, "se vuoi davvero sapere chi siamo, devi conoscerci uno a
uno, perché i sinti non sono tutti uguali". E' una verità semplice, questa. Ma
chissà perché, quando si parla di rom, anche le cose banali diventano complicate
da vedere e da capire.
Di Fabrizio (del 17/12/2013 @ 09:01:28, in Italia, visitato 2255 volte)
... anzi, fate finta di aver afferrato la coda, e di aver
vinto un altro paio di giri
Mi sento a disagio nel parlare del termine CULTURA, ma non potrei fare
altrimenti, portate pazienza...
Quando qualcuno accenna alla "cultura rom", mi trovo a chiedere cosa
significhino quelle due parole affiancate. Se, per esempio, mi chiedessero di
descrivere la "cultura italiana", non saprei farlo. O, ad esempio, qual è la
"cultura USA", quella dominante? Il Midwest, la California, o New
York? E se fosse NY: Brooklyn o il Bronx?
Vorrei partire, quindi, dalla cultura NOSTRA:
La segnalazione è sul profilo FB di
Tahar
Lamri, collaboratore (tra l'altro) di Internazionale.
Questo il suo messaggio:
In Francia. I poveri non possono nemmeno cercare cibo nei cassonetti dei
rifiuti. Su questi cassonetti dei rifiuti dei supermercati 8 à Huit (Gruppo
Carrefour) c'è scritto: "Chiunque venga sorpreso a rubare da questi cassonetti
sarà perseguitato dalla gendarmeria", "Il contenuto di questi cassonetti è stato
irrorato con varechina". Sì avete letto bene "rubare"! Dove ci porterà questo
sistema?
Nella mia ignoranza, questa è cultura, la nostra cultura. Cultura nel senso
che quegli avvertimenti non ci fanno più ricchi, non migliorano la nostra vita.
Sono, soltanto, i voleri di chi ha pance piene (mica sempre) e vede il pericolo
del partito delle pance vuote. E al posto di parlare con le pance vuote, spreca
varechina.
LO SCANDALO
Il panno insanguinato
Siamo rimasti fuori dalla roulotte
Lanciando terra, pietruzze,
Rifiuti, cantando, suonando serenate
Finché la coppia di sposi
Ha finalmente esposto
Il panno insanguinato.
Quindi ci siamo ubriacati
Per celebrare la nostra ragazzina
Che adesso era una donna.
Per il resto delle loro vite
Conserveranno quel panno
Che prova il loro matrimonio.
Non è meglio
Di quello stupido pezzo di carta
Che le autorità italiane pretendono
Per dimostrare che i tuoi figli
Sono legittimi?
E' la poesia di Paul Polansky che chiude il
calendario 2014 dell'associazione 21 luglio. Una persona che l'ha ricevuto
in regalo, l'ha ritenuto diseducativo, per essere precisi quando parla di un
atto, assolutamente privato, che questa persona trova orribile, come altre
pratiche (infibulazione, escissione, matrimoni imposti ecc ecc). Ha difficoltà
ad accostarsi a questa cultura, continua, e trova che sia un atteggiamento
presuntuoso chi attinge dalla [nostra] civiltà e progresso ciò che fa
comodo [che serve] e rifiuta il resto.
Col medesimo disagio con cui iniziavo questo post, penso che:
- è relativamente facile dichiararsi femminista (o di
qualsiasi altra idea) avendo come riferimento il nostro mondo, e
pensandolo migliore degli altri (salvo poi criticarlo
aspramente). Il nodo è quel pensarsi in grado di giudicare 11
mesi di un calendario dal dodicesimo, identificare una cultura
altra da un particolare, togliendosi la possibilità di conoscere
gli altri particolari;
- una critica esposta in quel modo non verrà raccolta che da
settori minoritari della gente a cui dovrebbe essere rivolta.
Che si sentirà ulteriormente discriminata. E' un suo costume, e
sospetto che continuerà a sussistere per decenni;
- ma forse, era anche un costume nostro, e sicuramente lo è
per una buona fetta della popolazione mondiale. Ignorare quello
che è un puro dato di fatto perché cozza contro le proprie "opinioni-sensibilità-ideologia
ecc ecc" mi sembra un po' superbo;
- forse, se si vuole almeno iniziare a cambiarli, questi dati
di fatto, bisogna trovare il modo di interloquire con i
"selvaggi", e non limitarsi a considerarli dei "selvaggi".
Ma sul punto 4. tornerò tra poco.
TEMP'ADDIETRO (ANCORA OGGI)
Una volta, tanti e tanti anni fa, sarei stato capace di definire il termine
CULTURA. Ero un ragazzo perso nella vivacità degli anni '70, e come capita da
giovani ero rimasto innamorato della rivista Il Politecnico, o meglio del famoso
primo articolo di Elio Vittorini, di cui cito tre parti:
UNA NUOVA CULTURA
Non più una cultura che consoli nelle sofferenze ma una cultura che
protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini
Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno o qualcosa abbia vinto in questa
guerra. ma certo vi è tanto che ha perduto, e che si vede come abbia perduto. I
morti, se li contiamo, sono più di bambini che di soldati;
[...]
Pensiero greco, pensiero latino, pensiero cristiano di ogni tempo, sembra non
abbiano dato agli uomini che il modo di travestire e giustificare, o addirittura
di rendere tecnica, la barbarie dei fatti loro. E' qualità naturale della
cultura di non poter influire sui fatti degli uomini?
Io lo nego. Se quasi mai (salvo in periodi isolati e oggi nell'U.R.S.S.) la
cultura ha potuto influire sui fatti degli uomini dipende solo dal modo in cui
la cultura si è manifestata. Essa ha predicato, ha insegnato, ha elaborato
princìpi e valori, ha scoperto continenti e costruito macchine, ma non si è
identificata con la società, non ha governato con la società, non ha condotto
eserciti per la società. Da che cosa la cultura trae motivo per elaborare i
suoi princìpi e i suoi valori? Dallo spettacolo di ciò che l'uomo soffre nella
società. L'uomo ha sofferto nella società. l'uomo soffre. E che cosa fa la
cultura per l'uomo che soffre? Cerca di consolarlo.
[...]
Io mi rivolgo a tutti gli intellettuali italiani che hanno conosciuto il
fascismo. Non ai marxisti soltanto, ma anche agli idealisti, anche ai cattolici,
anche ai mistici. Vi sono ragioni dell'idealismo o del cattolicesimo che si
oppongono alla trasformazione della cultura in una cultura capace di lottare
contro la fame e le sofferenze?
Occuparsi del pane e del lavoro è ancora occuparsi "dell'anima". Mentre non
volere occuparsi che "dell'anima" lasciando a "Cesare" di occuparsi come gli fa
comodo del pane e del lavoro, è limitarsi ad avere una funzione intellettuale e
dare a "Cesare" (o a Donegani, a Pirelli, a Valletta) di avere una funzione di
dominio "sull'anima" dell'uomo. Può il tentativo di far sorgere una nuova
cultura che sia di difesa e non più di consolazione dell'uomo, interessare gli
idealisti e i cattolici, meno di quanto interessi noi?
Elio Vittorini [n. 1, 29 settembre 1945]
QUI il testo completo dell'articolo. Alcuni punti mostrano i quasi 70 anni
passati da allora (ad esempio, per restare in tema, il fatto che il termine
"uomo-uomini" oggi sarebbero politicamente scorretti). Il punto nodale resta: la
segnalazione di Tahar Lamri riguarda una cultura (che sia di destra, razzista o
semplicemente padronale), che si da strumenti per modificare l'equilibrio delle
cose, che viceversa potrebbero rimanere come sono, senza che una delle due parti
in causa ne tragga un vantaggio materiale. Questo, la definisce come cultura.
Il secondo caso è invece, secondo me, un puro sfogo intellettuale, che nel
non riconoscere l'esistenza di qualcosa che è altro, nega anche la possibilità
di cambiare, di discutere, gli attuali equilibri e di capire le cause di tanti
disequilibri. Parafrasando un'altra frase celebre, don Milani, è "una cultura che cura i sani e allontana gli ammalati".
Se dovessi dire la mia sulla condizione femminile e sulla coscienza politica
delle Romnià, potrei concludere che non è simile ovunque, perché diverse sono le
persone e diverse le loro situazioni. E' rom, si considera tale,
Ostalinda Maya Ovalle, femminista e ricercatrice dell'European Roma Rights
Center, vale lo stesso discorso per quella donna che centra la sua identità
nella poesia di Polansky che urta la sensibilità, come lo è la ragazzina che nel
libro
IL PIANTO DEGLI ZINGARI (sempre di Paul Polansky) rifiuta il suo matrimonio
combinato.
Ma dopo tanti ragionamenti, devo passare ai MIEI ricordi personali. Discutevo
qualche settimana fa con una gagì, anche lei impegnata per la condizione delle
romnià con cui interagisce e consapevole di quando continuare un discorso e
quando interromperlo, per non spezzare il filo che la tiene unita alle altre
donne. Le dicevo, sconsolato, che vent'anni fa e con un'amministrazione
leghista, la condizione delle donne tra i Rom era migliore di oggi. Migliore,
perché erano loro a fare da cerniera tra la loro società e quella esterna. Erano
mediatrici scolastiche, mediatrici sanitarie, istruite e partecipi.
Erano LORO a voler cambiare. Dopo 20 anni, quel capitale culturale è quasi
totalmente andato perso. Perché si erano fidate di noi, della società esterna,
ma nonostante la loro PROFESSIONALITA', quei tentativi e molti altri sono stati
mandati in malora dalle amministrazioni che sono seguite. E allora, per
donne e uomini, si è assistito al ritorno di pratiche, costumi e diffidenze che
c'erano sempre stati. Si è trattato, sempre di un dato di fatto parlo, di
contrapporre una cultura della collaborazione che contava qualche anno, a
pratiche di sopravvivenza e identitarie che sono secolari. Sentitisi traditi,
stanno tornando indietro di 20-30 anni, senza che io debba giudicare questo
giusto o sbagliato. E', a differenza del passato, una sorta di cultura che si
definisce per sottrazione.
Quindi, cosa resta della cultura? Nuovamente, cedo la parola a Paul Polansky:
Il professore
Un professore universitario
Ha chiesto a mio nonno
Di accompagnarlo
In tutti i campi
Per chiedere se crediamo ancora
Che il sole sia come Dio.
Per chiedere se le donne
Leggano ancora il futuro.
Per chiedere se le nostre donne
Succhino ancora i vermi
Fuori dalle orecchie dei bambini
Fuori dai cervelli dei bambini.
Per chiedere se facciamo medicine
Con i cuccioli dei topi.
Per chiedere se curiamo la bronchite
Con grasso di cane, d'oca
E di cavallo.
Per chiedere se compriamo ancora
Le nostre mogli.
Per chiedere se chi non può
Permettersi di comprare una moglie,
La rapisce.
Per chiedere se crediamo ancora
Che ogni casa ha un serpente
Che vive nelle fondamenta
E viene fuori di notte
Per proteggerci.
Per chiedere se pronunciamo ancora
I nostri giuramenti
Sul pane.
Per chiedere se posiamo
Due pietre di fiume
Sulle nostre tombe
Così che i morti
Abbiano acqua in cielo.
Per chiedere se crediamo ancora
Nel malocchio,
Nella magia nera.
Per chiedere se crediamo ancora
Che i morti ritornino
Per osservarci
E tormentarci.
La gente dei campi Sinti disse al professore
Che gli italiani si sono presi i nostri cavalli,
I nostri carri, i nostri lavori,
La nostra lingua, le nostre vite,
Quindi cosa ci resta
Da credere,
Al di fuori delle nostre tradizioni?
[Il silenzio dei violini pagg. 45-47]
Nota dell'autore
Ho scritto le poesie di questa raccolta esprimendo in prima persona la voce dei
Rom e Sinti di cui ho raccolto le storie tramandate oralmente. Ne consegue che
se queste sono opere scritte da me, le esperienze e le testimonianze sono loro.
SPOT
Il calendario dell'associazione 21 luglio puoi anche scaricarlo in formato .pdf
Clicca sull'immagine
Di Fabrizio (del 15/12/2013 @ 09:08:59, in Italia, visitato 1596 volte)
da
napolimonitor (emma ferulano)
Le immagini del breve documentario proiettato martedì scorso nell'ambito del
Festival Cinema e Diritti Umani sulla vita quotidiana nel campo di Masseria del
Pozzo a Giugliano dove vivono almeno trecentocinquanta persone, rom, sono
immagini di guerra. Una guerra istituzionale, silenziosa e spaventosa che si
consuma sul territorio campano, vicina a tutti noi, da molto tempo. L'ultimo
atto è stata la delibera del comune di Giugliano che, esattamente a dicembre di
un anno fa, stabiliva il trasferimento immediato e temporaneo - che ancora dura
- di questo nucleo di "popolazione rom" in un'area che, secondo quanto ammette
con una certa indignazione il commissario alle bonifiche della Regione Campania
De Biase, invitato a partecipare all'incontro, non è semplicemente inquinata, ma
una vera e propria discarica, tra i siti più inquinati della regione, oggetto di
indagini della magistratura.
Il trasferimento e l'allestimento minimo dell'area attrezzata (recinzioni, brecciolino, quadro elettrico e pochi bagni da campeggio, tubature già intasate)
sono costati 379.210,00 euro da fondi PON del ministero dell'interno. La
prefettura di Napoli ha assicurato il supporto al comune di Giugliano
(commissariato ora come allora), una volta che questo avesse accertato
l'"effettiva utilizzabilità del sito prescelto", cosa che effettivamente accade,
compreso il parere favorevole dell'ASL 2. Amministratori locali, esponenti del
volontariato e, secondo la delibera, almeno "un capo villaggio rom", si
ritengono soddisfatti di questa scelta e si dispone l'esecuzione immediata del
provvedimento.
Martedì si è svolta una giornata per denunciare una situazione che non può
restare nascosta né cronicizzarsi come molte altre. Un gruppo informale ha
contribuito alla costruzione del piccolo evento, a Giugliano, che ha visto anche
la numerosa partecipazione dei rom, tra cui molti giovani e bambini, che vivono
nel campo e si sono rivisti in quelle immagini. L'intento è di proseguire
l'azione di denuncia anche oltre la giornata, sperando di ottenere risultati
concreti, in termini di alternative abitative e di smantellamento di un luogo in
cui è difficile pensare di trascorrere un anno di vita.
I rom provenienti da Bosnia ed ex-Jugoslavia vivono a Giugliano da circa
trent'anni; comunità storiche, frammentate, che evidentemente hanno trovato
negli anni la capacità di articolare radicate strategie di sopravvivenza e di
relazioni in un territorio che si racconta come ostile ma in cui tutti
convivono. Parlare di emergenza e agire con quest'unico principio ispiratore,
che ha portato alla recente infausta scelta istituzionale giuglianese, oggi vuol
dire non solo che il piano della discussione è fuori dal tempo e dalla storia,
ma anche che a livello sistemico - sul piano politico, culturale, sociale - è
ancora tabù parlare di scelte "diverse", dignitose e non discriminanti per i
rom. Il "superamento dei campi" è ancora un discorso che, nel profondo, non
viene accettato dalla società maggioritaria, la nostra. Resta appannaggio di
pochissimi, spesso perdenti, che si rompono la testa a furia di parlare una
lingua che forse non si comprende.
Il campo di Giugliano è la punta di diamante di quello che sono tutti i campi
rom d'Italia e d'Europa. È l'esemplare peggio riuscito, l'errore madornale di
cui non si può tacere, perché avviene qui e ora, in un momento in cui l'intera
Europa prova a dare un'altra impronta - e con essa importanti fondi - "per le
politiche di inclusione dei rom" (Purtroppo, bisogna ammetterlo, questo
significa anche che siamo appena all'inizio dell'industria e della rete di
progetti che avviluppano le comunità rom e probabilmente finché esisteranno
progetti ad hoc per i rom, i rom resteranno una minoranza che va verso la specie
protetta nell'immaginario di tutti).
Nel nuovo campo istituzionale, accade tutto quello che accade nei vecchi campi
istituzionali: la scuola è un servizio che stenta ad affermarsi, la sanità non è
un servizio a cui tutti accedono, i servizi di base scarseggiano per le
operazioni quotidiane minime; quando piove si allaga tutto, la distanza dal
resto del mondo è di anni luce, il campo infatti è in una zona ai margini dei
margini, non tutti hanno i documenti, il lavoro non è nemmeno tema di
discussione... Non si può parlare del campo di Giugliano in maniera isolata, non
se ne può parlare "solo" in relazione al disastro ambientale, da cui bisogna
mettere tutti al riparo con urgenza ma anche attraverso battaglie trasversali
che si svolgono sull'intero territorio regionale in maniera sempre più
consapevole.
La rete civica e politica può e dovrebbe essere internazionale, bisogna provare
a uscire dall'isolamento di un sud Italia che vuole considerarsi e crogiolarsi
nei suoi mali, e far uscire dall'isolamento le questioni che riguardano i rom
che non possono essere sempre un settore a parte, speciale e da specialisti.
Così come l'informazione dovrebbe uscire da una certa retorica improvvisamente
indignata che "salva" e si spende per i rom un po' più facilmente quando sono
evidenti, e innocue, vittime di un sistema impazzito.
Un rom che interviene dal palco ringraziando tutti per essere lì, esprime molto
chiaramente quelle che sono le richieste essenziali: poter mandare i figli a
scuola con gli altri bambini, non in classi speciali inventate per l'occasione
e, con un riso quasi amaro, sommesso e ironico, di poter aspirare in futuro a
qualcosa di meglio di un campo. Con il coinvolgimento paziente, graduale,
diretto dei rom, dei cittadini, dei territori, i tempi possono essere maturi per
denunciare e capovolgere la situazione, non solo quella di Giugliano.
Di Fabrizio (del 12/12/2013 @ 09:01:34, in Italia, visitato 1971 volte)
AL DIRETTORE de "IL GIORNO"
Gentile Signor Giancarlo Mazzuca,
nei giorni scorsi il giornale da Lei diretto ha pubblicato un articolo che ci
ha molto spiacevolmente colpiti, a partire dal titolo: "Illuminavano il campo
rubando la luce pubblica" e quindi, deduce il titolista nell'occhiello, "Nei
guai i Sinti del Terradeo" (vedi
QUI ndr.).
Passato, si fa per dire, il primo sconcerto, ci siamo chiesti come fosse
possibile che un importante quotidiano pubblichi una simile... 'notizia'
senza alcuna verifica, additando un'intera comunità di persone all'opinione
pubblica di una città, dove hanno finora vissuto con una certa tranquillità, in
un periodo di difficoltà economiche generalizzate che facilmente riscaldano gli
animi. Oltretutto, la signora Santolini conosce il Terradeo, ci è stata, conosce
noi e l'associazione: sarebbe bastata una telefonata, una mail, per avere tutte
le spiegazioni del caso.
Dunque, i Sinti del Terradeo nei guai ci stanno per tante ragioni, anche
senza bisogno di... raccomandazioni, a partire dal lavoro che non si trova, ma
certo non per i motivi di fantasia che 'il Giorno' attribuisce loro.
Ma ci può essere di peggio? C'è: in tutte le edicole di Buccinasco è apparsa
una locandina che a lettere cubitali denuncia: "campo nomadi illuminato rubando
la corrente". A parte il grottesco 'nomadi' per persone registrate in anagrafe
da trent'anni, le cose stanno ben diversamente.
Non stiamo a ricordare la legge sulla stampa, né cosa possa comportare questo
modo di trattare una minoranza già emarginata e, altrove finora, malvista. Ci
aspettiamo, però, un articolo che racconti le cose con pari evidenza e in modo
più realistico, e le accludiamo una lettera sull'argomento. Essa si conclude con
un invito, che rivolgiamo anche a lei e alla Signora Santolini, per sabato 14,
alle 10.30, al Quartiere Terradeo, dove spiegheremo, documenteremo e, ancor più,
mostreremo come stanno realmente le cose.
Gradisca i saluti di Ernesto Rossi e
Augusto Luisi, dell'associazione
"ApertaMente di Buccinasco".
Tel.3338628466 - 3355324525
10 dicembre 2013
ALLEGATO: da
Buccinasco - Rino Pruiti
#Buccinasco - Fornitura dell'Enel al quartiere Terradeo:
'precisazioni'
Il sindaco Giambattista Maiorano interviene sulle polemiche dei giorni scorsi
respingendo le accuse diffamatorie di chi gli ha attribuito dichiarazioni e
volontà mai espresse. Intanto la fornitura dell'energia è stata riattivata con
regolare contratto a forfait
Buccinasco (10 dicembre 2013) - La vicenda è ormai nota, dopo la pubblicazione
sulla stampa e su un blog locale: la scorsa settimana è stata sospesa
l'erogazione di energia elettrica al blocco servizi (bagni e docce comuni) del
quartiere Terradeo in via dei Lavoratori, lasciando gli utenti privi dell'acqua
calda. Meno noto, e anzi raccontato sul web in modo non corrispondente al vero,
è quanto accaduto nei giorni scorsi. Tanto da spingere il sindaco Giambattista Maiorano a presentare una formale
denuncia di diffamazione.
La sospensione del servizio fornito da Enel risale allo scorso 2 dicembre: in
quella data ne viene informato il primo cittadino che il giorno successivo aveva
già in programma un incontro con i rappresentanti dell'associazione Apertamente
(di cui fanno parte alcuni abitanti del quartiere), il maresciallo della locale
Stazione dei Carabinieri e il comandante della Polizia locale: i sinti non sono
stati convocati dunque per offrire loro una via d'uscita né tanto meno l'offerta
di un obolo pagato di tasca propria dal sindaco o addirittura dai cittadini di Buccinasco. In qualità di primo cittadino, in quella circostanza e con una nota
scritta, Maiorano ha chiesto però ad Enel di riattivare il servizio considerata
la presenza di numerosi minori nel quartiere e garantendo l'immediata firma di
un contratto (non da parte del Comune ma a nome degli abitanti del campo).
E' vero che Enel ha rilevato una serie di anomalie e per questo è stato sospeso
il servizio: solitamente il blocco servizi è alimentato dai pannelli solari del
quartiere e solo nei periodi di cattivo tempo negli anni è sempre stato
sottoscritto dalle famiglie del Terradeo una forma contrattuale forfettaria (con
pagamento in anticipo). Quest'anno evidentemente non è stato fatto ma il
problema è già stato risolto: in seguito ad un nuovo incontro con i
rappresentanti dell'associazione, il giorno 6 dicembre è stato formalizzato un
regolare contratto presso gli uffici Enel di Corsico. Per quanto concerne le
utenze private abbinate ai singoli nuclei familiari, lo stesso sindaco ha
comunicato ai rappresentanti del quartiere che qualora ci fossero degli
insoluti, la società adotterbbe quanto previsto per tutti i cittadini.
"Ritengo pertanto assolutamente diffamatoria e calunniosa - dichiara il sindaco Maiorano - ogni altra versione dei fatti, come quella fornita dal sito internet
'La Città Ideale', proprio per questo ho presentato una denuncia per
diffamazione ai carabinieri. Il rischio di tutte queste notizie infondate è la
creazione di un clima che potrebbe sfociare in atti di intolleranza verso una
comunità che faticosamente tenta di integrarsi a Buccinasco".
Ufficio stampa Comune di Buccinasco
Di Fabrizio (del 05/12/2013 @ 09:02:26, in Italia, visitato 1380 volte)
di Jacopo Paoletti su
MARINO24ORE
Da qualche anno a questa parte esiste una realtà molto positiva sul territorio
italiano, che ha fatto e sta facendo davvero molto per migliorare l'interazione
degli immigrati nella quotidianità del tessuto sociale del nostro Paese, in
particolare a Roma. Questa realtà ha il nome e i volti degli operatori e dei
volontari dell'associazione Popica Onlus. La mission dell'organizzazione di
promozione sociale è il sostegno e la tutela delle persone con difficoltà
socio-economiche, a partire dai rom provenienti dall'Europa Balcanica.
Interviene, inoltre, nella delicata situazione dei bambini e adolescenti in
Romania. Il nome Popica (che in italiano significa birillo) deriva proprio dal
nomignolo di uno dei tanti bambini di strada per il quale l'associazione ha
lavorato. Insieme a Christian Picucci, referente di Popica Onlus a Roma per
quanto riguarda gli interventi di inserimento scolastico dei bambini rom, e a
Mauro Nicolò Cipriano, che da un paio di anni si occupa del progetto di sostegno
all'apprendimento dei rom nelle elementari, esploriamo più da vicino la
situazione capitolina e il mondo del volontariato.
Christian, quando è nata Popica Onlus? E' nata nel 2006 con progetti attuati in
Romania in favore dei bambini di strada e nel 2008 ha esteso il suo raggio
d'azione a Roma, in particolare sviluppando interventi di sostegno nei confronti
dei rom presenti nella Capitale. Vorrei sottolineare che a Roma, sui campi rom
cosiddetti "autorizzati" o "tollerati", esiste già un intervento di
scolarizzazione ma contemporaneamente sono sorti, specialmente a seguito delle
ultime ondate migratorie, tantissimi altri insediamenti di rom romeni che
possiamo definire spontanei e proprio in questa nicchia si è inserita Popica
Onlus dato il pazzesco ritardo delle istituzioni in questa situazione.
Quali sono stati i primi passi mossi dall'associazione? Nel novembre del 2008,
in collaborazione con altre associazioni, è stato avviato un progetto di
monitoraggio e di mappatura dei campi rom abusivi, al fine di sopperire alle
esigenze primarie delle persone che vivevano in questi insediamenti. Poi, una
volta riscontrati dei casi urgenti si è passati alla fase di intervento, ad
esempio con gli accessi alle scuole, l'accesso alla sanità e l'orientamento
verso le strutture del territorio. Terminata la collaborazione Popica ha
continuato il proprio lavoro dedicandosi all'inserimento scolastico dei bambini,
seguendo con costanza la relativa frequenza e soprattutto l'apprendimento.
Operiamo come supporto alle scuole, anche perché alcune volte gli stessi
insegnanti non sono pronti, visti i notevoli problemi della scuola italiana, a
cogliere le diversità.
Come hanno vissuto i
bambini l'avvicinamento alla scuola? Abbiamo iniziato, sempre nel 2008, con
delle realtà in cui i bambini rom neanche sapevano cosa fosse la scuola. Poi,
col tempo, abbiamo registrato un notevole riscontro. Molti bambini e adolescenti
sono passati da una totale estraneità alla scuola ad una completa frequenza
quotidiana. Alcuni hanno perfino conseguito la terza media. E' veramente
importante la positività dell'apprendimento per questi bambini.
Alcuni anche grandicelli - interviene Mauro -, che presentavano delle lacune
rispetto ai pari età italiani, attraverso l'inserimento e il sostegno scolastico
sono riusciti a colmarle. Questo testimonia che il lavoro condotto, da tutti i
punti di vista, non è assolutamente inutile.
C'è una storia particolare che ti è rimasta impressa più delle altre? Mi ricordo
lo sguardo fiero e commosso dei genitori che osservavano i propri figli
accingersi ad entrare in classe per il primo giorno di scuola. In quel caso ho
percepito che l'ambiente scolastico è anche una forma di riscatto per i rom.
Purtroppo, però, è anche vero che buona parte dell'associazionismo di settore si
è spesso mosso su binari di mero assistenzialismo, vissuto come una sorta di "scambio" da parte degli stessi genitori, nel senso
"io ti do mio
figlio, tu che cosa mi dai?". Un disinteresse nel seguire i propri figli
nella vita scolastica in cui Popica ha cercato di essere presente per sopperire
a questa mancanza, stando anche a stretto contatto con gli insegnanti.
E lo sport? Quanto
può aiutare nel processo di interazione? E' determinante quanto la scuola
-
spiega Christian -. Da quasi tre anni abbiamo affiancato a Popica l'attività
calcistica dei bambini sfociata, poi, nella nascita dell'Associazione Sportiva
Dilettantistica Birilli (che ha a disposizione le categorie Pulcini, Esordienti
e Giovanissimi ndr), di cui sono il presidente e Mauro, insieme a Lorenzo
Bartolomei, è uno dei soci fondatori nonché allenatore. Si tratta di
un'esperienza di sport sociale per Roma, con lo scopo in primis di insegnare il
rispetto per compagni ed avversari. Una tappa fondamentale di questo percorso è
stata Palermo dove, nel 2011 e quest'anno, abbiamo partecipato al Mediterraneo
Antirazzista insieme ad una squadra di rifugiati. Proprio nell'edizione di due
anni fa ci siamo accorti che potevamo espandere l'attività di Popica ed è
germogliata l'idea di costituire l'Asd Birilli, il frutto di una continuità del
lavoro seminato in precedenza. Vorrei ringraziare la Uisp (Unione italiana sport
per tutti), che ci ha aiutato a muovere i primi passi; l'Asd Sporting Tor
Sapienza che ci ha da subito supportato con donazioni di materiale sportivo;
Daniele e l'Atletico San Raimondo di Anagnina che tante volte ci ha ospitati per
allenamenti e amichevoli. Un ringraziamento particolare va sicuramente ai
Blocchi precari metropolitani e all'occupazione del Metropoliz che ci hanno
ospitati per gli allenamenti, dando un contributo fondamentale alla nostra
partecipazione al Mediterraneo del 2011. Al Metropoliz, oltretutto, alcuni rom
ripetutamente sgomberati dalle baraccopoli senza una soluzione abitativa
alternativa hanno trovato una casa, insieme a italiani, peruviani e altri. Un
altro ringraziamento particolare va a Silvia e al centro sociale Corto Circuito
di Cinecittà, che settimanalmente mette a disposizione dei ragazzi il campo da
calcetto Auro Bruni e la struttura del centro sportivo, unitamente a competenze
e materiale per gli allenamenti, per non parlare della campagna "porta un
birillo a Palermo", con cui si è contribuito a finanziare la nostra discesa al
Mediterraneo l'estate scorsa.
Quali altri progetti sono stati realizzati o avete in mente di concretizzare? Di
recente abbiamo collaborato ad un progetto dell'OSCE (Organizzazione per la
sicurezza e la cooperazione in Europa) in partnership con Amnesty International,
rivolto agli abitanti rom romeni delle baraccopoli di Roma. E' stata attuata una
forte campagna di sensibilizzazione dal titolo "Conosci i tuoi Diritti",
elaborando un opuscolo informativo in italiano e romeno, realizzato da alcuni
rom da noi formati, su argomenti di rilievo come l'accesso alla scuola, alla
sanità e ad altri servizi primari. E' stato ideato anche un video proiettato
nelle baraccopoli. Per il futuro speriamo che altri progetti presentati per dei
bandi, anche europei, vengano finanziati.
Il volontariato s'inserisce lì dove c'è un'assenza dello Stato. Cosa si dovrebbe
o si potrebbe fare per migliorare l'integrazione? Tutto ciò che riguarda lo
stato sociale dovrebbe essere un qualcosa di pubblico. Il nostro obiettivo è
quello di diventare un giorno "inutili", significherebbe l'autonomia
delle persone. Lo Stato in alcuni settori è carente e noi cerchiamo di sopperire
a questa assenza con il sostegno e l'orientamento, senza nessuna intenzione di
lucrare sull'emergenza. Il giorno che i rom saranno "integrati",
termine che peraltro non ci entusiasma e a cui preferiamo quello di "non
esclusi", ci occuperemo di altro.
Grazie al vostro lavoro, avete notato dei cambiamenti socio-culturali riguardo
alla situazione dei rom? Qual è il vero valore del volontariato in questo senso?
Inviterei tutti a trovare altre fonti d'informazione che non siano i giornali o
la televisione perché, dietro alla situazione dei rom, c'è un mondo positivo che
spesso e volentieri non è raccontato - afferma deciso Mauro -. Devo ringraziare
il mio vecchio amico Lorenzo, che mi ha avvicinato al volontariato e per me è
stato un modo per riempire il tempo in maniera costruttiva per gli altri. E'
vero che esiste una situazione di volontariato "egoista", cioè il
sentirsi utili a tutti i costi, tuttavia la mia esperienza personale mi ha
portato a conoscere una nuova realtà che mi ha arricchito totalmente, anche in
altri ambiti diversi dalla situazione dei rom. Bisognerebbe essere un po' più
altruisti, pensare al prossimo in qualsiasi ambiente e ne esistono davvero tanti
nella nostra società in cui c'è bisogno di una mano.
Non posso che essere in totale accordo - ribadisce Christian -. Credo che nella
vita di ognuno di noi, oltre alla famiglia, al lavoro e agli amici, ci debba
essere un po' di spazio per dedicare del tempo al prossimo. Ho iniziato a
conoscere i rom nel 1999 e, come la stragrande maggioranza delle persone, ero
convinto che fossero tutt'altro rispetto a quanto ho poi scoperto: un mondo
davvero colmo di positività."
Di Fabrizio (del 03/12/2013 @ 09:06:23, in Italia, visitato 1533 volte)
Amalia Chiovaro 1 dicembre 2013 su
corriere delle migrazioni
Via Boito n. 7, la palazzina in cui era situato il centro si trova nel
quartiere Malaspina, a pochi passi dalla centralissima Via Notarbartolo. Il
Laboratorio Zeta era il luogo sempre aperto ed accogliente in cui incontrarsi,
pensare iniziative, realizzare quello che decenni di amministrazioni
inadempienti non avevano voluto o potuto garantire ad un pezzo di Palermo. "La
ragione di questa decisione consiste principalmente nell'impossibilità di
continuare a coniugare le attività del centro sociale con l'accoglienza di
rifugiati politici e quindi con la dimensione abitativa", si legge nel
comunicato, pubblicato sul sito del collettivo, che ha dichiarato conclusa
l'esperienza dello Zeta Lab, così era chiamato lo stabile che l'ha ospitato per
oltre dieci anni.
Si tratta di un centro sociale nato nel 2001, considerato fin da subito uno
dei centri pulsanti della città, che ha preso forma dall'incontro di diverse
anime, esperienze e realtà sociali, tutte accomunate dalla voglia di cambiamento
e da "no" risoluti verso razzismo, guerra, globalizzazione e ingiustizia
sociale. Un gruppo che si è organizzato, fin da subito, in base al principio
dell'autogestione e al potere decisionale dell'assemblea.
Ma lo Zeta Lab è stato anche di più, e chi l'ha vissuto o semplicemente
attraversato questo lo sa. Laboratorio di idee, spazio politico e aggregativo,
ha assunto negli anni un ruolo esemplare rispetto a pratiche di accoglienza e
inclusione sociale, in materia di politiche migratorie.
Era il primo marzo 2003, quando una cinquantina di Sudanesi, riunitisi
davanti alla Prefettura di Palermo, chiedevano asilo politico e un'accoglienza
degna di uno Stato democratico. Di fronte al silenzio dell'amministrazione, lo
Zeta Lab si fece carico di questa emergenza, pur non essendo attrezzato allo
scopo. Gli stanzoni umidi, nel giro di poco tempo, divennero i luoghi più
"caldi" che la città potesse offrire loro. Quell'ospitalità immaginata
provvisoria si trasformerà in definitiva, dando vita a una lunga esperienza di
cogestione.
Circa seicento migranti, provenienti da diverse parti del mondo, hanno
attraversato, negli anni, questo spazio che, grazie al contributo di molti
volontari e militanti, è divenuto oggi un luogo simbolo. La sua storia, infatti,
è un intrecciarsi di percorsi di singoli e associazioni che ne hanno fatto casa
propria.
È stato promotore di manifestazioni di ogni tipo e diversi progetti sono
decollati da lì, esempio ne è il caso della Rete Antirazzista Siciliana,
protagonista di numerose vertenze locali e nazionali.
Tra sgomberi e ri-occupazioni, - si tratta di uno stabile mai assegnato
formalmente a scopi sociali - lo Zeta è riuscito a costruire uno spazio pubblico
per la città, regalandole concerti, dibattiti, presentazioni di libri,
cineforum, una biblioteca, una scuola di italiano per stranieri e uno sportello
legale. Una grossa perdita, questa, per una città già sofferente, carente di
servizi sociali e di spazi d'aggregazione. Ma suo contributo lo si è visto anche
su altri fronti sociali, come quello della lotta antimafia, terreno su cui il
centro è sempre stato molto determinato, dei senzacasa e dei beni comuni.
Dario Librizzi, una della anime del collettivo, spiega così le ragioni della
chiusura e ci chiarisce: "Lo Zeta Lab non è nato per fare accoglienza, gli spazi
erano stati pensati e destinati ad altre attività. In più di dieci anni, nessuna
amministrazione ha trovato alcuna struttura da destinare ai ragazzi sudanesi,
ritrovandoci a supplire questo vuoto istituzionale. Ma adesso non è più
possibile. Da una parte questa decisione nasce dall'impossibilità di occuparsi
di accoglienza, e dall'altra da una sofferta convivenza e dall'incapacità di
trovare regole comuni. Attualmente sono rimasti circa sette sudanesi nei locali
e con alcune di queste persone ci sono stati problemi personali molto gravi.
Negli ultimi due anni lo Zeta è diventato un bivacco vero e proprio, non più un
punto di partenza per provare a cambiare la propria vita, ma uno stallo". Ma si
ragiona anche di futuro altrove per lo Zeta: "Stiamo ragionando - continua Dario
Librizzi - su varie ipotesi. Il collettivo continua a riunirsi, discute e
partecipa alla vita politica della città. Insomma lo Zeta Lab esiste e resiste".
Oggi lo stabile di via Boito è diventato sede del Centro Culturale Sudanese
Baobab. Lo spazio, infatti, è stato lasciato agli ultimi profughi sudanesi
rimasti, declinando a loro ogni responsabilità nella gestione, come è stato
dichiarato. "Le lotte dello Zeta - però - continueranno ad essere portate
avanti, ma in altre forme, in altri luoghi e con altri nomi". Lo hanno promesso.
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