Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Di Fabrizio (del 28/02/2013 @ 10:07:03, in Italia, visitato 2862 volte)
6 marzo 2013, ore 18.00 presso Libreria Popolare, via Tadino
18, Milano
Presentazione di SULLA PELLE DEI ROM
Ne parliamo con:
- Carlo Stasolla (autore del libro SULLA PELLE DEI
ROM)
- Corrado Mandreoli (coordinatore Tavolo Rom di Milano)
Modera:
- Fabrizio Casavola (redazione di MAHALLA)
Negli ultimi anni la "questione Rom" è stata agitata con particolare cinismo
per raccogliere un facile consenso elettorale. Nel libro "Sulla pelle dei rom"
un'approfondita analisi delle politiche promosse da amministrazioni di ogni
colore, culminate in un colossale fallimento sociale ed economico...
continua a leggere la prefazione di
Ulderico Daniele
Organizzano:
-
Città Nuova 23-02-2013 a cura di Antonio Cecchine
Intervista a due operatori sanitari di un'Asl romana che opera nei
campi nomadi. Il pregiudizio, l'amicizia, le cose da cambiare
Dopo la denuncia e la proposta lanciata dal presidente dell'associazione 21
luglio a proposito dei campi rom nella Capitale, cominciamo un viaggio nella
vita quotidiana di un medico pediatra (Riccardo) e di una infermiera (Stefania)
chiamati ogni giorno ad intervenire dentro un contesto sociale poco conosciuto e
che genera incomprensioni e pregiudizi. Per motivi di riservatezza i nomi sono
di fantasia.
E' un mondo, quello dei rom, che sembra da sempre "fuori posto". Al massimo gente
da tollerare...
Riccardo: "È l'approccio peggiore! È come dichiararsi sconfitti in partenza. E
poi non dimentichiamo che "fuori posto" ci sono stati messi. Gli zingari hanno
una storia antica di persecuzioni e deportazioni feroci. Pensate ai tempi del
nazismo. Ma anche recentemente (vedi rom della Bosnia) molti sono dovuti fuggire
dalla loro terra per salvare la pelle: persone che avrebbero diritto allo status
di rifugiati. Comunque sia, è vero che i rom hanno una loro originalità, e si
infilano in genere tra gli spazi di degrado urbano delle nostre periferie. È un
universo parallelo, alternativo, nomade: il them romanò, in effetti abbastanza
allergico alle strutture".
Ma allora come riuscite a dare continuita' al vostro lavoro, vista questa
condizione nomade?
Riccardo: "Forse è utile partire da un po' di storia. La realtà dei rom, dei sinti e dei camminanti
è complessa e antica. Nell'area romana la presenza
zingara risale al XVI secolo, nel rione Monti c'è ancora la lunga via degli
Zingari a confermarlo. Dietro alla parola "nomade" o zingaro o rom in realtà c'è
un universo complesso. Il nomadismo stesso –anche se in realtà i rom sono ormai
una realtà quasi del tutto stanziale, in Italia – non va pensato come una cosa
strana, appartiene alla storia dell'umanità. Un tempo eravamo tutti dei nomadi.
Nell'anima il popolo rom continua a vivere così, giorno per giorno, senza
preoccuparsi del futuro. Di fatto, vive nei campi, ma la stanzialità è, in
genere, gestita male. Il campo è spesso sinonimo di ghetto".
Considerando la loro diffidenza per le strutture, non deve essere semplice
"inquadrare le situazioni sanitarie", come vi muovete?
Riccardo: "L'esperienza di questa equipe partita nel 2006 è stata quella di
partire dai loro bisogni di salute senza imporre schemi rigidi. Anche se è
chiaro che la prima cosa che salta alla vista è la necessità di curare. Di
prevenire. Ma abbiamo capito che per riuscire era importante partire dalle loro
richieste e soprattutto costruire appunto rapporti di fiducia".
Quindi accettano la vostra offerta di cure?
Stefania: "Dopo anni di lavoro, ormai direi di sì. Certo, c'è ancora un grande
percorso da fare, anche come integrazione sanitaria, ma sta andando bene.
Prendete il campo della Cesarina. Dopo 7 anni di presenza continua e rispettosa
della loro identità e diversità cultuale, le risposte arrivano. Il tasso di
vaccinazioni dei rom bosniaci è intorno al 90 per cento, cosa impensabile anni
fa. L'affluenza negli ambulatori dedicati a Stp ed Eni (acronimo dei codici
sanitari per Stranieri temporaneamente presenti o Europei non iscritti) con
richiesta di visite ginecologiche e pediatriche e specialistiche è aumentata".
Che patologie sono riscontrabili in campo pediatrico?
Riccardo: "Fare il medico nei Campi per visitare i bambini rom è un po' come
compiere un balzo spazio-temporale. All'indietro. Si ritrovano patologie antiche
come la Tbc, o altre ancora presenti tra noi, ma più diffuse".
E riuscite a curarle?
Riccardo: "Si tamponano le urgenze come si farebbe per qualunque altro bambino. E
si lavora sulla prevenzione, vedi vaccinazioni a tappeto. Ma il vero nodo
starebbe nel migliorare le condizioni sociali, igieniche e alimentari. Nel poter
fare un'educazione sanitaria continua. Tutte cose che hanno fatto miracoli per i
bambini italiani, dal dopoguerra in poi. La nostra esperienza ci fa dire che
l'unica è partire dalle donne, vero fulcro della famiglia rom, per arrivare ai
bambini, che sono –per loro come per noi- il futuro".
Come va con la scuola nei campi?
Riccardo: "Finché i bambini nei campi vivranno in condizioni sub-umane, è pura
utopia pensare la continuità scolastica. Sapete che al campo della Cesarina,
dove sono stati investiti centinaia di migliaia di euro, adesso non c'è più
nemmeno l'acqua, visto che l'attuale gestione pare l'abbia tolta? Anche l'unica
fontanella del Comune non c'è più. E la gente va a comprare le bottiglie di
acqua minerale non solo per fare da mangiare, ma anche per lavarsi e lavare i
bambini... Condizioni fatiscenti e potenzialmente a rischio epidemia".
Resta prevalente,quindi, l'aspetto sanitario?
Riccardo: "Proprio così! E' chiaro che anche per un sanitario che si impegni a
"diagnosticare e prescrivere", insomma curare, è frustrante se mancano i
presupposti fondamentali della salute, come l'igiene. Come l'accesso all'acqua,
vero diritto fondamentale. Ed è per questo che anche noi non possiamo starcene
zitti".
E come sono i bambini rom?
Stefania: "Sono vispi, acuti, maturano molto presto. Interessati a tutto, hanno
uno sviluppo cognitivo accelerato, con autonomia e intraprendenza incredibili.
Sulla breve distanza avrebbero da dare molti punti ai nostri bambini, cresciuti
nella bambagia".
Riccardo: "Quando li vedi giocare o danzare ti accorgi di tutto un patrimonio
che potrebbe essere valorizzato. Ed esistono moltissime esperienze positive a
riguardo nate dal volontariato, che fa un lavoro preziosissimo nei Campi.
Purtroppo sono talenti che vengono bruciati in fretta perché qui l'infanzia
è
breve, si diventa presto adulti".
Stefania: "Ci dovremmo chiedere: come sfruttare questo patrimonio umano che
abbiamo? Domanda che una società civile dovrebbe farsi non solo per i bambini
rom, ma per tutti i bambini stranieri nati in Italia, e che ancora non hanno
diritto di cittadinanza. Con i rom sarebbero utili offerte di tipo sportivo, o
teatrale, o musicale. E avremmo risultati eccellenti".
U Velto (foto da
La Gazzetta di Mantova)
Respingo
le accuse strumentali dell'assessore provinciale Elena Magri e la invito a
leggersi le relazioni inviate annualmente. Per l'annualità 2012 è stato chiesto
all'associazione Sucar Drom di prolungare l'annualità 2012 fino al mese di
febbraio 2013, noi eravamo contrari perchè tale scelta ci ha esposto
finanziariamente in maniera evidente per mantenere i servizi richiesti dai
territori. Nel mese di marzo sarà inviata la rendicontazione. Inoltre,
sottolineo che non è mai giunta all'associazione, dall'Assessore Elena Magri,
nessuna richiesta di spiegare come è condotta la mediazione culturale. Ricordo
però all'assessore che la stessa Provincia di Mantova ha pubblicato il libro “la
mediazione culturale: una scelta, un diritto” dove è spiegato come
l'associazione conduce la mediazione culturale.
Ritengo scorretto spostare l'attenzione pubblica su qualcosa di inesistente per
coprire la propria ostilità all'unica proposta seria e concreta su come offrire
un habitat diverso da un ghetto a famiglie mantovane.
L'assessore Elena Magri non è riuscita a formulare in due anni una proposta: ne
per la chiusura del cosiddetto “campo nomadi”, ne per implementare la
scolarizzazione, ne per tutelare le culture sinte e rom e neppure per aiutare le
famiglie sul tema fondamentale del lavoro. Dopo un primo incontro con le donne
sinte l'assessore è sparita, ma può incontrare le mantovane e i mantovani
appartenenti alle minoranze linguistiche sinte e rom, quando vuole. Certo, c'è
almeno da convocare le persone e quindi un piccolo sforzo è da fare; come quello
di mandare una comunicazione ufficiale della avvenuta stipula di un protocollo
d'intesa agli Uffici competenti ed è ridicolo pensare che l'Ente Provincia di
Mantova non sia in grado di mandare una semplice comunicazione. Io penso che non
l'abbia voluto fare.
Al contrario l'unica proposta che ho sentito dall'Assessore Magri è quella di
non chiudere il cosiddetto “campo nomadi”. Proposta fatta al Tavolo “Men Sinti”
alla presenza di tutti i partner che si sono guardati negli occhi stupiti e
scioccati perchè eravamo in procinto di firmare il protocollo d'intesa con
l'obiettivo di smantellare l'area di viale Learco Guerra. Ogni commento è
superfluo.
L'assessore Elena Magri spieghi ai mantovani, in particolare ai sinti, cosa
intende fare sui temi della scuola, dell'abitare, del lavoro, della cultura, ma
lasci all'associazione Sucar Drom il diritto di indire manifestazioni dove e
come lo ritiene opportuno nel rispetto della legge. Io non ricatto nessuno e
quindi respingo al mittente tale accusa. L'associazione Sucar Drom ha fatto in
questi anni decine di manifestazioni per mettere in evidenza le mancanze di
Assessori di tutti i colori politici, ma per l'assessore Elena Magri il dissenso
verso le sue mancanze sono da bollare come ricatti. La stessa identica tesi
ideologica delle frange più xenofobe mantovane.
L'associazione Sucar Drom non svolge solo attività di mediazione culturale, ma
svolge anche un ruolo politico. Questo ruolo lo rivendico con forza e decisione
perchè è chiaro a tutti che senza tale ruolo la situazione a Mantova non sarebbe
diversa da quella di altre città lombarde. E' chiaro che anche dentro alla
sinistra i bisogni espressi dai cittadini italiani, appartenenti alle minoranze
sinte e rom, non sono bisogni legittimi. Gli stereotipi e i pregiudizi che
pervadono la società italiana non vedono le persone che si professano di
sinistra immuni. A peggiorare le cose c'è un'idea che le questioni debbano
essere affrontate sull'onda delle emozioni e poi abbandonate al loro destino. Il
lavoro quotidiano di condivisione e di cammino anche nei momenti più difficili è
un concetto che non appartiene a molti perchè è più semplice fare il solito
progettino dove le questioni sono affrontate in maniera superficiale. Io le
affronto in tutta la loro complessità con passione e serietà e non solo un
pomeriggio alla settimana per un paio di mesi. Se non fosse così l'associazione
che ho formato, insieme a tanti altri mantovani appartenenti alla minoranza
sinta, non avrebbe la credibilità che invece ha a Mantova e non solo.
di Carlo Berini, vice presidente dell'associazione Sucar Drom
Di Fabrizio (del 20/02/2013 @ 09:04:12, in Italia, visitato 1308 volte)
Corriere Immigrazione - di Sergio Bontempelli
Allarmi strategici, politiche securitarie ed esclusione dei migranti: una
ricerca sul caso di Pisa, ex città rossa molto tentata ormai dal rosa cipria.
Corriere Immigrazione si
è già occupato del "caso pisano". Piccola città
dell'Italia centrale, roccaforte dell'elettorato "rosso" e con una robusta
tradizione di sinistra, a suo tempo "patria" del Sessantotto e dei movimenti
studenteschi, negli ultimi anni Pisa è divenuta l'epicentro delle "politiche di
sicurezza": Marco Filippeschi, Sindaco Pd eletto nel 2008, ha dichiarato guerra
a rom e venditori ambulanti senegalesi, facendo delle "politiche securitarie" la
cifra del suo agire amministrativo.
In un bel libro uscito da pochi giorni (Xenofobia, sicurezza, resistenze.
L'ordine pubblico in una città "rossa", edizioni Mimesis), il giovane
ricercatore Tindaro Bellinvia ha fatto di Pisa un vero e proprio "case study":
ricostruendo non solo gli eventi - ordinanze, campagne di stampa, sgomberi e
"retate" di polizia - ma anche il loro significato più ampio.
La volpe e il porcospino: due modelli di città
"Ci sono società urbane più simili alla volpe e altre che assomigliano al
porcospino: le prime favoriscono la varietà, la coltivano e la incrementano; le
seconde investono in una sola direzione, verso cui orientano il loro sviluppo".
Così l'antropologo Ulf Hannerz, citando un verso dell'antico poeta greco
Archiloco, identifica due modelli possibili di governo del territorio.
Secondo Bellinvia, le politiche locali a Pisa hanno guardato al modello del
"porcospino": hanno costruito cioè "un'economia tutta incentrata
sull'accoglienza dei turisti e delle élite in cerca di luoghi raffinati e
rassicuranti". Dismessa ogni vocazione industriale (Pisa è stata per decenni una
"città operaia" sede di importanti fabbriche), le politiche urbane si sono
rivolte al turismo, e ai connessi investimenti immobiliari: alberghi, ville,
residenze di lusso, persino un porto per gli yacht sul litorale tirrenico...
Il "marchio" della città e la sicurezza-spettacolo
In questo modello di governo locale, diventa decisivo il "marchio" della città.
O, per usare le parole di Bellinvia, il suo "rating". Si deve cioè diffondere la
fama di una sede tranquilla, immune da conflitti: un luogo ideale dove
un'azienda possa effettuare un investimento, una famiglia benestante trasferire
la propria residenza. L'"immagine" della città diventa un tassello decisivo per
il suo sviluppo.
In una logica di "marketing", bisogna quindi promuovere il "decoro", la
"rispettabilità". Le classi pericolose - i poveri, i migranti, i "marginali"
-
devono essere nascoste, come si nasconde la polvere sotto il tappeto:
allontanate dal centro, ammassate nei piccoli comuni del circondario, a loro
volta trasformati in "luoghi dell'eccedente umano".
Soprattutto, si dovranno mettere al bando le attività che compromettono
l'"immagine pubblica" di Pisa: l'elemosina, la vendita ambulante, i senza fissa
dimora che dormono alla Stazione, i rom che si "accampano" in periferia, i
poveri che fanno la fila alle mense della Caritas. E si dovranno compiere gesta
spettacolari: esibite al mondo, come si esibisce il "marchio" di un prodotto da
vendere.
Di qui la logica delle "ordinanze", finalizzate non al governo di fenomeni
sociali ma, appunto, all'esibizione spettacolare. Le "gesta"
dell'amministrazione comunale hanno un carattere provocatorio, a tratti persino
ridicolo (perché anche il ridicolo serve a far parlare di sé...). Per
allontanare i venditori ambulanti si emette l'ordinanza "antiborsoni", con
severissime sanzioni per chi si aggiri nel centro storico munito di grosse borse
(!); per cacciare i senza dimora si multa la suora che porta da mangiare ai
poveri della Stazione; per sbarazzarsi dei rom si fanno sgomberi in stile
militare; e per le prostitute si punisce l'abbigliamento femminile che "offenda
la pubblica decenza e il decoro".
"Volpi" pisane: c'è chi dice no
In questo modo Pisa - ma lo stesso fenomeno ha riguardato molte altre città - ha
perso una caratteristica fondamentale dell'"Italia di mezzo", cioè dei territori
"rossi" della Toscana e dell'Emilia: quella di "di far convivere diverse
tipologie di attività economiche e culturali". Per usare le parole di Hannerz,
Pisa diventa "porcospino" e dismette la sua storica identità di "volpe".
Ma le "volpi" continuano a esistere. Le politiche del Sindaco Filippeschi,
infatti, sono state fortemente contestate da un ventaglio molto ampio di
"cittadini attivi": studenti, professionisti ed esperti di urbanistica, docenti
universitari e intellettuali, organizzazioni di volontariato e comunità
migranti.
Il vero e proprio cuore pulsante di questa "resistenza" è stato, secondo
l'autore del volume, il Progetto Rebeldia: un network di trenta associazioni,
che fino al 2010 ha avuto sede nel quartiere della Stazione (molto frequentato
dai migranti e per questo "epicentro" degli interventi repressivi del Comune).
Le associazioni di Rebeldia hanno organizzato non solo un'opposizione radicale
alle politiche securitarie - avviando tra l'altro azioni legali contro le
ordinanze di Filippeschi - ma anche forme di socialità e di cultura alternative:
nel quartiere della Stazione, Rebeldia ha rappresentato un luogo di incontro tra
migranti e "nativi", concretizzatosi in momenti conviviali, feste, cene popolari
e competizioni sportive.
Una "guerra di simboli"
Rebeldia ha dunque mantenuto in vita l'idea di una città "volpe". Ma ha
soprattutto avviato quella che Anna Maria Rivera chiamerebbe una "guerra dei
simboli": ed è qui che l'analisi di Bellinvia si rivela particolarmente
originale e feconda. Per l'autore del volume, la "sicurezza" è un insieme di
discorsi e di significati socialmente costruiti. Solo per fare un esempio, non è
affatto naturale che un senza fissa dimora sia percepito come un problema di
"sicurezza", come una minaccia all'incolumità dei "cittadini": perché questo
avvenga, occorre che si diffonda un senso comune che associa la povertà alla
pericolosità. E proprio associazioni mentali di questo genere sono diffuse da
giornali e televisioni, così come da Sindaci e politici.
In altre parole, la "sicurezza" è un "codice simbolico": non un dato di fatto ma
una percezione, alimentata dalla comunicazione pubblica e dai mass-media. Per
contrastarla, dice Bellinvia, occorre "dotarsi di un codice simbolico
alternativo". E proprio questo hanno fatto le "volpi" che si sono opposte alle
politiche del Sindaco.
Per il momento, la guerra è stata vinta dai "porcospini", cioè
dall'amministrazione comunale. Ma Bellinvia dubita che si tratti di una vittoria
definitiva: "non crediamo", scrive, che "perseguitare sbandati e persone
sospette diminuirà l'insicurezza. Pensiamo piuttosto che questa ossessione per
il controllo porterà nuove paure e nuovi timori". La volpe, qui, sembra
destinata ad essere come la talpa di cui parlava Marx: avanza silenziosamente,
sembra sparita... e poi salta fuori quando meno te l'aspetti!
Di Fabrizio (del 11/02/2013 @ 09:08:13, in Italia, visitato 1350 volte)
08 febbraio 2013 - Presentato il rapporto "In the Sun": sono 800
secondo le cifre ufficiali, ma secondo lo studio sarebbero decine di migliaia.
Il numero degli apolidi in Italia è incerto e sottostimato. Secondo le
statistiche ufficiali sarebbero appena 800, ma potrebbero essere in realtà
decine di migliaia. E' quanto emerso in occasione della presentazione del
rapporto finale del progetto In the Sun (Alla luce del sole), realizzato dal
Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) con la collaborazione di Opera Nomadi e
Federazione Rom e Sinti insieme e con il supporto di Open Society Foundations.
La ricerca è stata condotta su tre città campione: Roma, Napoli e Milano,
attraverso un questionario somministrato in alcune comunità Rom. Su 239
intervistati, ben 139 sono risultati senza alcuna cittadinanza. Tra questi
ultimi, 105 hanno intenzione di chiedere la cittadinanza, mentre solo 23 hanno
dichiarato di voler intraprendere il procedimento per il riconoscimento dello
status di apolide e solo 6 lo hanno effettivamente intrapreso.
Il gruppo maggiore di persone apolidi di origine Rom in Italia sembra essere
costituito dalle comunità giunte negli anni Novanta a causa della guerra e della
dissoluzione della ex Jugoslavia. Questi apolidi "di fatto", anche quando
chiedono di ottenere la certificazione ufficiale dello status di apolidi, si
trovano in una situazione paradossale. La via amministrativa, attraverso il
Ministero dell'interno, è troppo "esigente", perché si chiedono documenti come
la residenza che queste persone non possono avere, anche se vivono da
generazioni in Italia. L'altra via è quella di ricorrere al giudice, ma in
questo caso la normativa e i procedimenti sono incerti e quindi passano tanti
anni prima di vedersi riconosciuto lo status di apolide.
(Red.)
Di Fabrizio (del 02/02/2013 @ 09:04:49, in Italia, visitato 1478 volte)
di Giulio Cavalli | 31 gennaio 2013
Una lettera, chiara ed efficace, dal campo Rom di Baranzate:
"Mancano due settimane alla data che tormenta le nostre notti e i nostri giorni.
Il 15 febbraio, secondo quanto Infrastrutture Lombarde Spa ha detto ad alcuni di
noi, verranno a sgomberare il nostro campo, a due passi da Rho, proprio a
ridosso dell'autostrada dei Laghi, nel territorio di Baranzate. Un campo che
sorge su terreni che abbiamo regolarmente comprato, circa 25 anni fa, e in cui
viviamo da allora.
Devono fare l'Expo, ci dicono. Devono costruire una strada di collegamento tra
Molino Dorino e l'autostrada. Siamo proprio nel mezzo, dobbiamo andare via.
Sono venuti da noi quelli di Infrastrutture Lombarde Spa, a metà settembre del
2012, hanno scattato delle foto. Alle nostre case e alla nostra terra. Ci hanno
fatto firmare delle carte. Anzi le hanno fatte firmare a chi non sa leggere né
scrivere in italiano. Ci hanno detto che erano per la privacy. In realtà erano
documenti che stabilivano la presa in possesso dei terreni ad un prezzo
bassissimo, sette euro a metro quadro.
Sette euro, tanto valgono per loro la nostra vita, la nostra storia, due decenni
di vita in un terreno comprato da noi. Un terreno edificabile, adesso. Quando ci
hanno fatto pagare le multe per le casette che abusivamente abbiamo costruito
sui nostri campi, non siamo riusciti ad ottenere la variazione di destinazione
d'uso da agricolo ad edificabile. Non era possibile. Non potevano mettere in
regola i tetti che abbiamo tirato su per i nostri figli.
Poi, però, con l'avvento dell'Expo, il cambio di destinazione è stato
magicamente possibile ed è stato inserito nel nuovo Pgt. Che strano. D'altra
parte, noi Rom, per loro, valiamo molto meno di un'esposizione internazionale.
Ma lo sappiamo già. Non ci stupisce. Noi non pretendiamo di essere lasciati
nelle nostre terre. Possiamo anche abbandonare il campo, pacificamente. Vogliamo
che il prezzo di vendita sia quello di mercato, ma di questo e delle procedure
ingannevoli utilizzate nei nostri confronti si stanno occupando i nostri legali.
Quello che più ci preme, ora, è che la nostra dignità venga rispettata.
Chiediamo solo di non essere mandati in mezzo ad una strada. Lo chiediamo per i
nostri figli. Che studiano qui in zona per migliorare, per costruirsi un
avvenire in questo Paese in cui sono nati.
Vogliamo che i nostri bambini, che ci emozionano quando leggono e scrivono in
italiano, non vengano allontanati dalle loro scuole e dalla rete di amicizie che
hanno costruito con fatica. Vogliamo che non perdano la quotidianità
conquistata, nonostante le tante difficoltà, dai propri genitori.
Chiediamo al Comune di Milano, che continua a prendere tempo senza darci una
garanzia chiara e una risposta precisa, quantomeno di attrezzare un'area, non
lontana dal campo, dove poter continuare a vivere in attesa di una soluzione. E
all'assessore Granelli chiediamo di farlo prima che arrivi lo sgombero. E che ci
dia una scadenza certa, non oltre mercoledì 6 febbraio, per presentarci la sua
soluzione e dirci chiaramente cosa accadrà. Non siamo terremotati, è vero, ma
siamo 350 persone, alcuni anziani e qualche malato, che in una notte potrebbero
perdere tutto. Ci sono dei neonati, 60 bambini vanno a scuola, 2 ragazzi
frequentano con orgoglio le superiori, non siamo "involuti" come fa comodo
credere e far credere.
Se Milano è una città che ama i diritti, una città di inclusione, ci dimostri
davvero di esserlo. Anche se noi non siamo elettori, non siamo portatori di
voti, abbiamo comunque dei diritti. Il diritto di non vedere i nostri figli
finire sotto un ponte, senza un tetto, fuori dalla scuola ed estromessi dal loro
futuro. Dal loro diritto al futuro. Che in un Paese civile dovrebbe essere
universale.
Gli abitanti del campo Rom di Baranzate"
Di Fabrizio (del 01/02/2013 @ 09:05:50, in Italia, visitato 1253 volte)
Questo è il punto cui è arrivata l'esperienza una volta esemplare del
Quartiere Terradeo di Buccinasco. Oltre un anno di gestione commissariale,
resistenze e incapacità amministrative... più la crisi, che notoriamente picchia
in basso.
Ci auguriamo -e cerchiamo di fare il possibile- perché sia un punto e a capo.
Ernesto Rossi - APERTAMENTE di Buccinasco
LETTERA APERTA DELLA COMUNITA' SINTA DI BUCCINASCO
Come è difficile la vita di un "NOMADE STANZIALE". Così ci ha paradossalmente
definiti in un suo recente articolo una giornalista del quotidiano "Il Giorno ".
I nostri avi SINTI sono giunti in Italia attorno al 1400. Mentre la nostra
comunità, di fatto una famiglia allargata, risiede a Buccinasco da oltre
trent'anni. Quindi noi e le nostre famiglie siamo cittadini di Buccinasco, e i
nostri bambini da alcune generazioni frequentano le locali scuole dell'obbligo.
Sino a che la "crisi" non ha colpito tutti, almeno un membro di ognuna delle
nostre famiglie aveva un regolare lavoro, che ci permetteva di vivere
decorosamente nel nostro Quartiere Terradeo, con il valido aiuto delle
Amministrazioni che si sono succedute nel nostro Comune e di alcune
Associazioni.
Sei più una delle nostre famiglie (le più numerose) hanno nel tempo investito
tutti i loro risparmi per costruirsi, in alternativa alle precedenti roulotte,
sette casette in legno appoggiate su di una piastra in cemento per vivere una
vita più confortevole.
Lo scorso inverno il Commissario, che in quel periodo governava Buccinasco,
ha ordinato la demolizione, attraverso una raffica di ordinanze (oltre venti)
sotto il controllo costante delle Forze dell'Ordine, di tutte e sette le
costruzioni, e già che c'era ha fatto abbattere anche sei casotti in legno 2X2,
utilizzati come ripostigli. Questa operazione è andata avanti per diversi mesi.
Motivo dell'intervento: l'edificazione delle casette, con molti incoraggiamenti,
ma senza alcun permesso formale delle preposte Autorità.
Va precisato che per avere il permesso di costruzione era necessario che il
Parco Agricolo Sud Milano autorizzasse, prima, l'esistenza del Quartiere, dove
da anni vivono le nostre famiglie, allestito sopra un terreno di proprietà del
Comune ma collocato entro il Parco Sud.
L'attuale Amministrazione comunale ci sta riprovando, così come ci hanno
provato quelle precedenti, e siamo in attesa che l'annoso problema venga
positivamente risolto.
Nel frattempo, come per buona parte delle famiglie italiane, le condizioni di
vita delle nostre famiglie, che già da prima erano difficili, in questi ultimi
tre anni sono notevolmente peggiorate e la maggior parte dei nostri capi
famiglia ha perso il lavoro. Si sopravvive effettuando lavori precari, cercando
di far fronte ogni mese alle spese fisse, mangiare, luce, gas, trasporti,
affitto, ecc.
In questo contesto e con diversi problemi ancora irrisolti, sono
avvenuti i fatti in un pomeriggio della scorsa settimana.
Una buona parte delle famiglie del Terradeo ed alcuni parenti invitati,
stavano festeggiando il battesimo di un nostro bambino in un ristorante della
zona. Dopo pranzo, alcune coppie stavano ballando al suono della musica del
locale, che qualcuno ha ritenuto di volume eccessivo, tanto da richiedere
l'intervento di una pattuglia di Vigili Urbani.
Quello che è avvenuto all'arrivo dei Vigili è estremamente sgradevole: un
paio di noi, evidentemente "alticci", si sono comportati in modo poco urbano e
con poco rispetto nei confronti dei tutori dell'ordine, nonostante l'intervento
moderatore di altri commensali.
Il giorno successivo due delle persone interessate al fatto, si sono recate
presso il locale comando di Polizia Urbana per porgere le loro scuse per
l'accaduto.
A queste scuse aggiungiamo quelle delle nostre famiglie, poiché riconosciamo ai
nostri Vigili la serietà e la correttezza nello svolgere il loro non facile
compito quotidiano in situazioni difficili come quelle sopra ricordate, in cui
ci siamo trovati anche noi coinvolti.
Vorremmo comunque far presente che in casi come questi, che ci auguriamo non
abbiano più a ripetersi, gli autori delle eventuali azioni perseguibili dalle
leggi del nostro Stato, rispondono personalmente di fronte alla giustizia e
quindi riteniamo giusto sottolineare e chiedere che anche chi riporta i fatti
debba evitare generalizzazioni o ancor peggio la criminalizzazione di una intera
Comunità, come spesso è accaduto nel passato sui mass media.
Le Famiglie del Quartiere Terradeo di Buccinasco
L'Associazione APERTAMENTE di Buccinasco
Buccinasco, 23.01.2013
24 gennaio 2013
Il Porrajmos, l'olocausto di Rom e Sinti, è stato per decenni tenuto
sostanzialmente sotto silenzio. A distanza di quasi 70 anni dalla fine della
seconda guerra mondiale, qualcosa sembra modificarsi. Tra le varie iniziative
volte a far emergere la memoria del Porrajmos figura MEMORS, il primo museo
virtuale del Porrajmos.
"Porrajmos significa divoramento" - commenta Carlo Berini, dell'associazione
Sucar Drom di Mantova - "ed è il termine con cui Rom e Sinti si riferiscono
all'immane tragedia dell'olocausto". L'associazione Sucar Drom ha collaborato
con lo storico Luca Bravi nella costruzione del museo virtuale. "La nostra
attività di ricerca" - spiega Carlo Berini - "si concentra soprattutto su quanto
accaduto nell'Italia fascista. L'internamento vero e proprio nei campi di
concentramento inizia nel 1940, e nel 1943, dopo l'armistizio e la nascita della
repubblica di Salò, assistiamo al sistematico invio verso i campi di sterminio
in Germania e Polonia."
L'Italia non ha mai riconosciuto ufficialmente la persecuzione di Rom e Sinti,
tanto che il Porrajmos non viene citato nella legge del 2000 che istituisce il
giorno della memoria per il 27 gennaio e non viene incluso nelle celebrazioni
istituzionali. "Inoltre" - sottolinea Berini - "Rom e Sinti sono le uniche due
minoranze storico-linguistiche a non essere riconosciute dalla legge italiana, e
diventano facilmente il capro espiatorio per occultare i veri problemi del paese
e l'incapacità dei politici di far loro fronte".
La puntata di Passpartù di questa settimana sarà dedicata a un approfondimento
sul Porrajmos e all'analisi delle attuali politiche messe in campo nei confronti
di queste comunità nel nostro paese.
Intervista a Carlo Berini, associazione Sucar Drom - Mantova
Di Fabrizio (del 25/01/2013 @ 09:05:17, in Italia, visitato 1737 volte)
Aggiornamenti su una storia già apparsa su Mahalla (1
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20 gennaio 2013 |
Corriere Immigrazione
Un "matrimonio combinato" in un campo rom dà il via a una lunga vicenda
giudiziaria: i rom sono accusati di aver ridotto in schiavitù la giovane sposa.
Ma la versione dell'accusa non regge. Ecco cosa è successo
Tratta di esseri umani, riduzione in schiavitù, violenza sessuale di gruppo e
favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Sono i pesantissimi capi di
imputazione a carico di cinque rom, tutti residenti nel campo di Coltano a Pisa:
colpevoli, secondo l'accusa, di aver portato in Italia una minorenne kosovara,
costringendola prima a sposarsi con un giovane del campo, poi a vivere segregata
nella sua baracca. Il processo in Corte d'Assise, durato più di due anni, sta
arrivando alle battute conclusive: Venerdì si sono tenute le arringhe del Pm e
di tre difensori, e per il 15 marzo è attesa la sentenza. Nel frattempo, la
versione dell'accusa è stata pesantemente ridimensionata: vale la pena vedere
cosa è successo.
Il matrimonio combinato e la "sposa bambina"
La vicenda risale a due anni fa, quando la polizia fa irruzione a Coltano e
arresta i cinque attuali imputati. E' il 27 ottobre 2010. Pochi mesi prima, la
comunità rom aveva festeggiato un evento speciale: il matrimonio tra un ragazzo
di quindici anni e una sua coetanea, che aveva richiamato decine di rom da tutta
Italia. La sposa, peraltro, non aveva mai visto il campo di Coltano: nata e
cresciuta in Kosovo, aveva deciso di trasferirsi a Pisa per raggiungere il
promesso sposo.
I due ragazzi si erano conosciuti tramite un'amica comune, e avevano cominciato
a "chattare" su internet. Poi, com'è d'uso in questa comunità, le famiglie si
erano accordate e avevano combinato il matrimonio: i parenti del ragazzo avevano
versato la dote, ed erano andati a prendere la giovane per portarla a Pisa.
Questa, almeno, è la versione dei rom.
Qualcosa però era andato storto. La ragazza non si era trovata bene a Coltano. E
a un certo punto aveva deciso di sporgere denuncia contro il marito, i suoceri e
il cognato: accusandoli di averla portata in Italia con la forza, di averla
fatta oggetto di minacce e ripetute violenze. Di qui l'arresto e l'avvio del
processo. E torniamo così al 27 ottobre 2010, data in cui comincia questa lunga
e complicata storia.
Le polemiche in città
Com'è prevedibile, l'arresto dei cinque rom finisce su tutti i giornali locali.
Tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre 2010, i cronisti si scatenano: il
"matrimonio combinato", la tenera età degli sposi, la violenza su una ragazza di
appena quindici anni, le "tradizioni" rom in contrasto con la "modernità". Un
copione consolidato, che mette sotto accusa non solo gli imputati, ma l'intera
comunità rom: le cui usanze, spiega il Presidente del Tribunale, «nel nostro
paese si configurano come reati».
A gennaio, interviene anche il Comune. Che provvede a sfrattare la madre dello
sposo dalla sua casetta al campo di Coltano. Il 31 gennaio 2011, il giorno più
freddo dell'anno, la donna viene allontanata con la forza dalla polizia
municipale. «Lo stesso fatto di essere imputata per reati di tale gravità», si
legge nel provvedimento di sfratto, «denota la fuoriuscita dal percorso di
integrazione». L'associazione Africa Insieme, da sempre vicina ai rom, e Padre
Agostino, il prete che vive al campo nomadi, protestano inutilmente: in questo
modo, dicono, la donna è già dichiarata colpevole, prima ancora della sentenza.
La vicenda processuale e i dubbi sulla versione dell'accusa
Nella Primavera 2011, la vicenda entra in un cono d'ombra, e nessuno ne parla
più. Ma il processo prosegue: vengono visionati filmati e fotografie del
matrimonio, si ascoltano i testimoni e gli imputati, si leggono le
intercettazioni telefoniche. E gradualmente si fanno largo i dubbi sulla
versione dell'accusa.
Gli avvocati difensori si concentrano in un primo momento sul giorno del
matrimonio: tutte le fotografie ritraggono la sposa sorridente e felice,
abbracciata al marito e ai suoceri, intenta a conversare con amici e parenti. I
testimoni ricordano il clima di festa, i video la sorprendono mentre danza con
le amiche e taglia la torta. Come è possibile che una ragazza così felice,
almeno in apparenza, sia ridotta in schiavitù?
Tutti i testimoni - compreso Padre Agostino, il prete cattolico che vive a
Coltano insieme ai rom - ricordano che la ragazza non era segregata nella sua
baracca, ma circolava liberamente. La parrucchiera del paese dice di averla
vista più volte al suo negozio. Altri ricordano la partecipazione della ragazza
alle feste di Camp Darby, la base militare americana a due passi dal campo.
L'accusa risponde ricordando che anche alle prostitute vittime di tratta si
concedono brevi momenti di serenità: perché la violenza non è fatta solo di
calci e pugni, ma si nutre di soggezione e dipendenza psicologica, di premi e
punizioni, di attimi di gioia che si alternano a periodi cupi di minacce e
intimidazioni.
Vi sono tuttavia altre circostanze che gettano un'ombra sulla versione del Pm.
Dopo l'inizio del processo, il telefono della giovane sposa viene messo sotto
controllo. Le intercettazioni registrano i colloqui con il padre, che spiega
alla figlia quel che deve dire agli inquirenti: mi raccomando - implora il
genitore - dì che sei stata costretta ad andare a Coltano, dì che sei stata
segregata, dì che sei stata picchiata e violentata. La famiglia della sposa
riceve anche una telefonata della madre del giovane marito: ignara di essere
intercettata, la donna implora i consuoceri, «dite a vostra figlia di raccontare
la verità...». Non sembrano le parole di chi ha qualcosa da nascondere.
Non basta. La polizia, che ha condotto le indagini, dice di aver trovato la
ragazza in stato di soggezione, costretta a vivere nella sua baracca senza poter
mai uscire. Ma i carabinieri, che ogni giorno si recano al campo per controllare
un rom agli arresti domiciliari, non si sono mai accorti di nulla. Possibile?
La versione della difesa
Ma perché una ragazzina di 15 anni dovrebbe inventare una storia del genere? Ed
è qui che la versione della difesa appare abbastanza plausibile. La ragazza
aveva un altro fidanzato in Kosovo: nulla di male - tiene a precisare l'avvocato Giribaldi nella sua arringa - cose che succedono, soprattutto in età
adolescenziale. Trovatasi a Coltano lontana da casa, in mezzo a persone di cui
non capiva la lingua (la sposa parlava solo albanese), ha cominciato a sentire
nostalgia per la sua terra. Le intercettazioni rivelano anche contatti frequenti
con l'ex fidanzato in Kosovo, al quale la giovane prometteva di tornare presto.
Secondo i difensori, la ragazza avrebbe maturato la volontà di tornare a casa.
Ma la rottura del matrimonio avrebbe significato, per la famiglia, restituire la
"dote" ai genitori dello sposo: e proprio la restituzione di quel denaro avrebbe
messo in grave difficoltà il padre e la madre della ragazza. Così, ecco la via
di fuga. Andare alla polizia, e raccontare quello che gli agenti vogliono
sentirsi dire: una storia di violenza e di usanze "primitive", che assecondi gli
stereotipi sui rom "arretrati" e "incivili".
Come andrà a finire il processo nessuno lo sa. Finora, il dibattito cittadino si
è concentrato sulle "usanze" dei rom: il matrimonio combinato, gli sposi
bambini... Si tratta, certo, di usanze che possono non piacere: ma da qui a
parlare di tratta degli esseri umani ce ne corre. Violenze, minacce e riduzione
in schiavitù non sono la diretta conseguenza di quelle "usanze", ma reati
gravissimi che vanno provati e circostanziati. E di prove, nel corso del
processo, ne sono emerse davvero poche. Staremo a vedere.
Sergio Bontempelli
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