Aggiornamenti su una storia già apparsa su Mahalla (1
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20 gennaio 2013 |
Corriere Immigrazione
Un "matrimonio combinato" in un campo rom dà il via a una lunga vicenda
giudiziaria: i rom sono accusati di aver ridotto in schiavitù la giovane sposa.
Ma la versione dell'accusa non regge. Ecco cosa è successo
Tratta di esseri umani, riduzione in schiavitù, violenza sessuale di gruppo e
favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Sono i pesantissimi capi di
imputazione a carico di cinque rom, tutti residenti nel campo di Coltano a Pisa:
colpevoli, secondo l'accusa, di aver portato in Italia una minorenne kosovara,
costringendola prima a sposarsi con un giovane del campo, poi a vivere segregata
nella sua baracca. Il processo in Corte d'Assise, durato più di due anni, sta
arrivando alle battute conclusive: Venerdì si sono tenute le arringhe del Pm e
di tre difensori, e per il 15 marzo è attesa la sentenza. Nel frattempo, la
versione dell'accusa è stata pesantemente ridimensionata: vale la pena vedere
cosa è successo.
Il matrimonio combinato e la "sposa bambina"
La vicenda risale a due anni fa, quando la polizia fa irruzione a Coltano e
arresta i cinque attuali imputati. E' il 27 ottobre 2010. Pochi mesi prima, la
comunità rom aveva festeggiato un evento speciale: il matrimonio tra un ragazzo
di quindici anni e una sua coetanea, che aveva richiamato decine di rom da tutta
Italia. La sposa, peraltro, non aveva mai visto il campo di Coltano: nata e
cresciuta in Kosovo, aveva deciso di trasferirsi a Pisa per raggiungere il
promesso sposo.
I due ragazzi si erano conosciuti tramite un'amica comune, e avevano cominciato
a "chattare" su internet. Poi, com'è d'uso in questa comunità, le famiglie si
erano accordate e avevano combinato il matrimonio: i parenti del ragazzo avevano
versato la dote, ed erano andati a prendere la giovane per portarla a Pisa.
Questa, almeno, è la versione dei rom.
Qualcosa però era andato storto. La ragazza non si era trovata bene a Coltano. E
a un certo punto aveva deciso di sporgere denuncia contro il marito, i suoceri e
il cognato: accusandoli di averla portata in Italia con la forza, di averla
fatta oggetto di minacce e ripetute violenze. Di qui l'arresto e l'avvio del
processo. E torniamo così al 27 ottobre 2010, data in cui comincia questa lunga
e complicata storia.
Le polemiche in città
Com'è prevedibile, l'arresto dei cinque rom finisce su tutti i giornali locali.
Tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre 2010, i cronisti si scatenano: il
"matrimonio combinato", la tenera età degli sposi, la violenza su una ragazza di
appena quindici anni, le "tradizioni" rom in contrasto con la "modernità". Un
copione consolidato, che mette sotto accusa non solo gli imputati, ma l'intera
comunità rom: le cui usanze, spiega il Presidente del Tribunale, «nel nostro
paese si configurano come reati».
A gennaio, interviene anche il Comune. Che provvede a sfrattare la madre dello
sposo dalla sua casetta al campo di Coltano. Il 31 gennaio 2011, il giorno più
freddo dell'anno, la donna viene allontanata con la forza dalla polizia
municipale. «Lo stesso fatto di essere imputata per reati di tale gravità», si
legge nel provvedimento di sfratto, «denota la fuoriuscita dal percorso di
integrazione». L'associazione Africa Insieme, da sempre vicina ai rom, e Padre
Agostino, il prete che vive al campo nomadi, protestano inutilmente: in questo
modo, dicono, la donna è già dichiarata colpevole, prima ancora della sentenza.
La vicenda processuale e i dubbi sulla versione dell'accusa
Nella Primavera 2011, la vicenda entra in un cono d'ombra, e nessuno ne parla
più. Ma il processo prosegue: vengono visionati filmati e fotografie del
matrimonio, si ascoltano i testimoni e gli imputati, si leggono le
intercettazioni telefoniche. E gradualmente si fanno largo i dubbi sulla
versione dell'accusa.
Gli avvocati difensori si concentrano in un primo momento sul giorno del
matrimonio: tutte le fotografie ritraggono la sposa sorridente e felice,
abbracciata al marito e ai suoceri, intenta a conversare con amici e parenti. I
testimoni ricordano il clima di festa, i video la sorprendono mentre danza con
le amiche e taglia la torta. Come è possibile che una ragazza così felice,
almeno in apparenza, sia ridotta in schiavitù?
Tutti i testimoni - compreso Padre Agostino, il prete cattolico che vive a
Coltano insieme ai rom - ricordano che la ragazza non era segregata nella sua
baracca, ma circolava liberamente. La parrucchiera del paese dice di averla
vista più volte al suo negozio. Altri ricordano la partecipazione della ragazza
alle feste di Camp Darby, la base militare americana a due passi dal campo.
L'accusa risponde ricordando che anche alle prostitute vittime di tratta si
concedono brevi momenti di serenità: perché la violenza non è fatta solo di
calci e pugni, ma si nutre di soggezione e dipendenza psicologica, di premi e
punizioni, di attimi di gioia che si alternano a periodi cupi di minacce e
intimidazioni.
Vi sono tuttavia altre circostanze che gettano un'ombra sulla versione del Pm.
Dopo l'inizio del processo, il telefono della giovane sposa viene messo sotto
controllo. Le intercettazioni registrano i colloqui con il padre, che spiega
alla figlia quel che deve dire agli inquirenti: mi raccomando - implora il
genitore - dì che sei stata costretta ad andare a Coltano, dì che sei stata
segregata, dì che sei stata picchiata e violentata. La famiglia della sposa
riceve anche una telefonata della madre del giovane marito: ignara di essere
intercettata, la donna implora i consuoceri, «dite a vostra figlia di raccontare
la verità...». Non sembrano le parole di chi ha qualcosa da nascondere.
Non basta. La polizia, che ha condotto le indagini, dice di aver trovato la
ragazza in stato di soggezione, costretta a vivere nella sua baracca senza poter
mai uscire. Ma i carabinieri, che ogni giorno si recano al campo per controllare
un rom agli arresti domiciliari, non si sono mai accorti di nulla. Possibile?
La versione della difesa
Ma perché una ragazzina di 15 anni dovrebbe inventare una storia del genere? Ed
è qui che la versione della difesa appare abbastanza plausibile. La ragazza
aveva un altro fidanzato in Kosovo: nulla di male - tiene a precisare l'avvocato Giribaldi nella sua arringa - cose che succedono, soprattutto in età
adolescenziale. Trovatasi a Coltano lontana da casa, in mezzo a persone di cui
non capiva la lingua (la sposa parlava solo albanese), ha cominciato a sentire
nostalgia per la sua terra. Le intercettazioni rivelano anche contatti frequenti
con l'ex fidanzato in Kosovo, al quale la giovane prometteva di tornare presto.
Secondo i difensori, la ragazza avrebbe maturato la volontà di tornare a casa.
Ma la rottura del matrimonio avrebbe significato, per la famiglia, restituire la
"dote" ai genitori dello sposo: e proprio la restituzione di quel denaro avrebbe
messo in grave difficoltà il padre e la madre della ragazza. Così, ecco la via
di fuga. Andare alla polizia, e raccontare quello che gli agenti vogliono
sentirsi dire: una storia di violenza e di usanze "primitive", che assecondi gli
stereotipi sui rom "arretrati" e "incivili".
Come andrà a finire il processo nessuno lo sa. Finora, il dibattito cittadino si
è concentrato sulle "usanze" dei rom: il matrimonio combinato, gli sposi
bambini... Si tratta, certo, di usanze che possono non piacere: ma da qui a
parlare di tratta degli esseri umani ce ne corre. Violenze, minacce e riduzione
in schiavitù non sono la diretta conseguenza di quelle "usanze", ma reati
gravissimi che vanno provati e circostanziati. E di prove, nel corso del
processo, ne sono emerse davvero poche. Staremo a vedere.
Sergio Bontempelli