Bordeaux: Un polemico clip rap mette in scena la vita dei manouches
- Publié le 13 décembre 2012 dans Actualités, Faits divers, Vidéo -
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INFO BORDEAUX
Una volta di più. il rapper Morsay (Mohamed Mehadji) potrebbe avere
oltrepassato i confini della legalità. Il clip girato presso Berdeaux, a Taillan-Médoc,
concentra un cocktail di numerosi crimini: uso di armi da fuoco, infrazioni al
codice della strada, insulti alle forze dell'ordine ("fanculo a tutti i
condé") e minacce ripetute (s'illumina il kalache(nikov)"):
Per Cyril Martinez (Alias), già
citato in giudizio a giugno 2011 per "incitamento alla violenza",
l'obiettivo era parlare della gens du voyage e della loro situazione: "E'
la prima volta che facciamo un video con dei manouches, Volevamo mostrare che i voyageurs
in Francia non sono dimenticati."
Nessun dubbio che riunendo tre rapper molto controversi (Morsay, Alias e Angelo),
questo video farà parlare di sé.
Fondatore del collettivo "Truand 2 La Galère", Mohamed Mehadji afferma qui di
"non dimenticare l'Algeria, paese da cui vengo." Alcuni commentatori su
Internet suggeriscono che un ritorno in questo paese "sarebbe un vantaggio
per tutti."
[cc] Infos Bordeaux, 2010-2012, Dépêches libres de copie et diffusion sous
réserve de mention de la source d´origine [http://www.infos-bordeaux.fr/].
Concerto di raccolta fondi per un progetto post-terremoto
con INGRESSO A SOTTOSCRIZIONE Giovedì 7 febbraio, ore 21.30 Enoteca Ligera,
via Padova 133
Tutto a posto? Ad oltre sei mesi dal terremoto, l'Emilia è dimenticata con ancora tutte
le ferite aperte. Sta succedendo lo stesso agli scampati del terremoto a
L'Aquila.
Abbiamo cercato dei referenti in Emilia, che seguissero un progetto tangibile e
già in corso, per continuare a dimostrare la solidarietà emersa a fine maggio.
L'abbiamo trovato con Sisma punto
dodici e col loro progetto di autocostruzione.
Furono i primi a far conoscere le storie e la musica dei Rom rumeni a Milano.
Poi, come succede spesso, il gruppo si divise: qualcuno andò a lavorare in
campagna, qualcuno tornò in Romania, altri continuarono a girare tra campi rom
sempre più malmessi. Altri cammineranno sul percorso tracciato da loro.
Ma non puoi fermare la passione che scorre nelle vene di un musicista, la
necessità di mettersi in gioco ancora una volta.
E... hanno pensato, noi che si è sempre vissuto in tende e roulottes, non
vogliamo essere SPORCHI ZINGARI, anzi, possiamo impegnarci per il paese
che ci ospita da anni: con questo concerto
fortemente voluto: brani del repertorio romanì e del folklore rumeno,
per
scoprire le tante radici che legano popoli e culture. Una serata per ballare - certo, per riflettere - forse, per conoscersi
e stare insieme.
Un mondo che intravediamo appena, che non vogliamo vedere, che magari ci fa
paura. Sergio Pretto, romano, 73 anni, giornalista prima della carta stampata
poi alla Rai, racconta gli zingari attraverso un secolo di storia in Novecento
Rom (Cartacanta, 400 pagine, 18 euro). Narra la storia di una famiglia, dagli
anni Trenta al 2010, tessendo un arazzo di rapporti intrecciati. Se ne esce
incantati da una scrittura a immagini, frammentata, a volte straniata, che si
avvicina alla poesia.
Nella quarta di copertina si legge che lei è stato avviato alla scrittura da
Pier Paolo Pasolini. Come?
Pasolini l'ho conosciuto da ragazzo su un campetto di calcio. Era un uomo che, a
prima vista, intimoriva, dai tratti spigolosi, e che poi, invece, scoprii
umanissimo. Diede una gran pallonata, che colpì il "palo" della nostra "porta",
fatto da libri e quaderni di scuola legati con l'elastico, come si usava allora.
Si scusò moltissimo, ma si soffermò sui quaderni. Soprattutto sul mio, quello
dei temi e lì, subito, a darmi consigli, a dirmi di infrangere le regole, di
esplorare le cose e insieme di aggredirle. E io cambiai il mio modo di scrivere.
Lo cambiai più volte, dopo, anche sotto l'influsso del surrealismo di Calvino e
del realismo magico di Màrquez, scrittori che riportano, anche se a prima vista
non sembra, allo scavo nel torbido di PPP.
Perché si è interessato ai Rom?
È stato proprio Pasolini a insegnarmi a guardare agli ultimi. Il primo contatto
l'ho avuto attraverso un'assistente sociale: cercavo informazioni per un altro
libro, che stavo scrivendo. Abbiamo incontrato un giovane Rom, quello che nel
romanzo io chiamo Decebal. Non è stato facile né da parte mia, né da parte sua.
Ci dividevano mille pregiudizi. Ma mi sono reso conto che quello che noi vediamo
- la sporcizia, il furto... - è la punta di un iceberg. Sotto c'è una cultura
straordinaria, musicale, umanitaria, una solidarietà che non possiamo percepire.
Siamo fermi agli stereotipi. E invece ci sono zingari docenti universitari,
sportivi di fama (Andrea Pirlo, il calciatore), avvocati, pugili... C'è
un'orchestra sinfonica di violinisti, tutti zingari, che sta girando l'Europa
riscuotendo enorme successo. Una zingara di vent' anni, Laura Halinovic, ha
vinto il Festival audiovisivo di Montecarlo con il documentario Io, la mia
famiglia Rom e Woody Allen.
Come ha fatto a documentarsi?
Ho passato mesi tra i Rom. Decebal, una volta che siamo riusciti ad intenderci,
mi ha detto che qui in Italia sono tutti giovani: per ascoltare la loro storia
dovevo andare a Craiova, in Romania. Ho fatto partire il mio romanzo-verità da
laggiù, quando Simplon, il padre di Decebal, decide di raccontare ai suoi figli
la tragedia del Porrajmos, come gli zingari chiamano il genocidio pianificato
dai nazisti: nei lager morirono 600mila Rom e Sinti. Simplon è depositario di
testimonianze dirette, dal padre Ofiter e dalla madre Limpiana. Racconta come
dei gitani si siano salvati nelle "marce della morte" verso i campi di
sterminio. Quando seppellivano le vittime, alcuni si gettavano vivi nelle fosse:
poi una coperta, quindi i morti, poi badilate di terra. L'ultimo della fila
batteva sul tumulo cinque colpi: il segnale che la colonna si allontanava, così
i sepolti vivi potevano uscire dalle fosse. Questo stratagemma l'avevano
escogitato grazie alla loro antica tradizione di seppellire i morti durante il
cammino. Non esistono cimiteri Rom o Sinti fino ai primi del Novecento: nomadi,
gli zingari seppellivano i loro morti lungo la strada.
Rimangono impresse le figura femminili del libro. Ce ne vuol parlare?
Grifina era una giovane zingara dalla bellezza fiera e singolare. L'ufficiale
medico del lager la notò e se la prese come infermiera e amante. Lei sopravvisse
alle sevizie, accudendo una bambina che aveva trovato nel campo, sperduta, e con
la certezza che un giorno si sarebbe vendicata. Alla fine, lo fece: uccise con
il bisturi l'ufficiale medico. La giovane Jonela è invece l'esempio del
contrasto tra gli anziani e i giovani. I ragazzi vedono i lati positivi della
nostra società, quella di noi gagé, come ci chiamano i Rom. Jonela, cresciuta il
Romania sotto il regime di Ceausescu, preferiva i jeans alle gonne a fiori e non
voleva più camminare sempre un passo dietro al suo uomo...
I Rom sono così maschilisti?
Questo è un argomento, forse il primo, su cui ci siamo trovati a discutere. Ho
parlato ai Rom di grandi donne di cui non conoscevano l'esistenza: le americane
che nel 1908 scioperarono per protestare contro le terribili condizioni in cui
erano costrette a lavorare e morirono nell'incendio scoppiato l'8 marzo. Madame
Curie, Rita Levi Montalcini... Le donne, che prima si ritraevano, hanno
cominciato a sorridermi, ad invitarmi a mangiare. Gli uomini a considerare le
loro compagne in una nuova dimensione. Non ci siamo messi d'accordo, invece,
sulla scuola. "L'istruzione", mi hanno detto, "dovrebbe portare alla felicità.
Perché noi dovremmo accettare, senza discutere, la vostra?"
Apertesi le frontiere dell'Europa orientale, la famiglia di Decebal ha lasciato
la Romania per Francoforte, quindi Roma: nel campo al Casalino, che poi è stato
spazzato via, e infine al Tiburtino. La storia è chiusa?
Spero in un finale aperto. Finché noi li ghettizziamo, saranno sempre pronti a
ripagarci con il peggio perché a questo porta la disperazione. Ci chiedono di
lavorare, anche lavori umilissimi - li ho visti io stesso farli, insieme agli
immigrati - e ci chiedono di non dover rinunciare all'essenza della loro
cultura. Sono il popolo meno sanguinario del mondo, che non ha mai combattuto
una guerra, anche perché non ha confini da difendere.
CONSERVATORIO DI MILANO-SALA VERDI: Via Conservatorio, 12 Milano Domenica 3 marzo
2013. h. 16.30
Nella splendida cornice della Sala Verdi del Conservatorio di Milano, Claudio
Bisio, insieme a un ensemble urbano-sinfonico-multiculturale e ai colori di
bellissimi acquarelli, ci racconta le avventure di Pierino, di un bruco e di
come, insieme, diventano farfalla contro la prepotenza e contro ogni forma di
pregiudizio e di solitudine.
Una prima esecuzione, un evento unico, organizzato in collaborazione con il
Conservatorio di Milano e i cui proventi saranno devoluti alla ONLUS Soleterre,
organizzazione umanitaria che da 10 anni si occupa di diritti umani, con una
particolare attenzione a bambini e ragazzi.
Pierino e il bruco è una storia contro il bullismo che valorizza la ricchezza
della diversità, in tutte le sue forme. Una storia per grandi e piccini. Una
storia in cui, chi ha trascorso del tempo guardando le nuvole, non può non
ritrovare anche se stesso nelle vicende del nostro protagonista.
L'autore delle musiche è Stefano Corradi, il cui percorso artistico va dalla
musica classica al jazz con un grande amore per la "musica del mondo". Questa
varietà è il frutto di intense collaborazioni con diversi gruppi multiculturali
come la StageOrchestra di Moni Ovadia, l'Orchestra di Via Padova e la Bantu
Band, collaborazioni di cui ha voluto portare testimonianza nello spettacolo di
Pierino e il bruco coinvolgendone alcuni musicisti.
Sul palcoscenico ci saranno quindi artisti di diverse provenienze, sia culturali
che geografiche. I grandi solisti jazz Tino Tracanna, Giovanni Falzone e Bebo
Ferra affiancati dal fisarmonicista rom Albert Mihai, dagli studenti del
Conservatorio fino al percussionista ivoriano Pegas Ekamba, formeranno
un'orchestra di circa 30 musicisti che accompagneranno Pierino in un viaggio
variegato ed emozionante, dove sono i piccoli gesti a costruire le singole
esistenze e salvare il mondo.
La storia è stata scritta da Laura Rossi, la cui esperienza attinge al mondo del
teatro e dei ragazzi. E' passata per il Piccolo Teatro di Milano, frequentando
l"Officina degli scrittori" e il Masterclass diretto da Luca Ronconi, per il
teatro Franco Parenti e la StageOrchestra di Moni Ovadia come assistente alla
regia. Ha condotto per diversi anni laboratori teatrali per studenti delle
scuole medie e superiori. E' autrice del libro "L'identità e la maschera", un
confronto tra le figure femminili in Ibsen e Pirandello.
I "colori" delle musiche sono anche i colori delle scenografie, realizzati da
Jacopo Ziliotto, illustratore, visualizer, autore di fumetti, creativo.
Apertura porte h. 15,30
Inizio spettacolo h.16,30
Biglietto: 15,00 euro intero; 10,00 euro ridotto per ragazzi fino a 16 anni.
Prevendite, dal 12/2/2013 on-line su:
VivaTicket
CONSERVATORIO DI MILANO-SALA VERDI: Via Conservatorio, 12 Milano
Per Informazioni e prenotazioni:
lun-ven h 13,00 – 14,00 / sabato 10,00-13,00 - tel 3343149628
E-mail : info@lagrandejatte.it
L'ExpressIsrael Galvan: "danzare l'impossibile", il genocidio dei
gitani - Par AFP, publié le 13/02/2013 à 09:52
PARIGI - Il sivigliano Israel Galvan danza dal 12 al 20 febbraio al "Théatre
de la Ville" di Parigi "L'impossibile da danzare": il genocidio tzigane da parte
dei nazisti, con il suo nuovo spettacolo "Le Réel, Lo Real, The Real".
Dimenticatevi del flamenco tradizionale, delle balze e degli "olé":
il flamenco di Galvan è aspro, senza concessioni.
E' a torso nudo, dove si disegnano le costole, danzando sulla scena
quasi vuota. Un piano stonato, dal quale verrà fuori il filo spinato dei campi
di concentramento, dei binari cigolanti: ecco, la scenografia è montata. Lo
spettatore trattiene il fiato: si soffre con lui.
Quando una ballerina irrompe, è vestita come una rom, come in segno di
solidarietà con le persecuzioni di oggi.
Silhouette longilinea vestita di una calzamaglia nera, c'è un uomo
dolcissimo, agli antipodi del solito ballerino brillante, il quale si esprime
tramite interviste, attento alle domande, esitante nell'agganciare delle parole
ai movimenti del corpo.
Cascato piccolino nel flamenco - i suoi genitori sono ballerini e suo padre
insegnante in una scuola di flamenco a Siviglia - traccia rapidamente il proprio
cammino, rischiando di sconvolgere i puristi.
"Hanno il loro posto, è importante conservare la tradizione" afferma Galvan,
"ma il flamenco è in costante evoluzione, e mi sento molto libero".
Libero di scegliere un tema scottante come il genocidio dei gitani, e di
introdurvi "anche della gioia", perché conviene celebrare tanto la loro
sopravvivenza quanto la loro sofferenza.
Il genocidio era presente già nella sua infanzia, "se ne parlava molto a
casa, per motivi religiosi", dice Galvan. I suoi genitori appartengono ai
Testimoni di Geova, perseguitati e deportati dai nazisti a motivo dei loro
legami internazionali e della loro opposizione al potere e alla guerra.
Sua madre è tzigana: il genocidio fa doppiamente parte della storia
familiare. Però, Israel Galvan si è ispirato anche da documentari, libri,
canzoni ("Hitler in my heart" del gruppo Antony and the Johnsons) per la sua
creazione. Dice che come sempre, lo spettacolo risponde a "un'esigenza".
Con una dozzina di creazioni in 15 anni, Israel Galvan si è forgiato la
reputazione di un ballerino profondamente innovatore nell'ambito molto
codificato del flamenco. Applaudito a Parigi e nel nord-europeo da molto tempo,
ha visto il suo lavoro riconosciuto per la prima volta a dicembre, dal Teatro
Real di Madrid, che ha prodotto "Il Réel".
Questo "ballerino delle solitudini", secondo il titolo di un libro che gli è
stato consacrato dal filosofo e storico dell'arte francese Georges Didi Huberman
(2006), è stato per la prima volta - per "Il Réel"- affiancato da due
virtuose ballerine, Belén Maya e Isabel Bayon. Una decina di cantanti e musicisti fanno
molto più che accompagnarlo, essendo la vera spina dorsale dello spettacolo.
Tra i suoi progetti, un duo con il ballerino britannico originario del
Bangladesh Akram Khan, la cui danza è ispirata dal kathak, un'arte tradizionale
indiana vicina al flamenco.
Israel Galvan vorrebbe anche "esplorare il suo lato femminile". Osserva che
"Nel flamenco, l'uomo deve danzare da ++macho++ e la donna, in modo femminile". A
lui piacerebbe "cambiare un po'". Butta là sorridendo: "Ho sempre danzato da
uomo, è un po' stancante".
Una trasgressione fedele al suo percorso, che spiega però, senza alcuna
aggressività. La violenza, la morte, onnipresenti nei suoi spettacoli, li
conserva per la scena. In città, è un uomo timido, che parla dei suoi
figli, tra cui c'è una bambina che danza già "il balletto".
Le ParisienIsrael Galvan danza per i rom di Ris-Orangis Publié
le 15.02.2013, 21h24
Nel bel mezzo di un accampamento di Rom a Ris-Orangis, la nuova stella del
flamenco Israel Galvan, batte i tacchi con passione. Habitué delle grandi sale
prestigiose d'Europa, è venuto qui per "confrontarsi con la realtà".
I rom dell'accampamento, autentica bidonville a 20 km al sud-est di Parigi,
hanno terminato la costruzione della scena venerdì mattina, in modo da potere
accogliere il ballerino, attualmente presente sulla locandina del Théatre de la
Ville di Parigi.
All'inizio della serata, la silhouette longilinea d'Israel Galvan, pantalone
colore arancio e piumino marrone, appare nel campo, atteso da circa 70 persone,
abitanti del bidonville e membri di alcune associazioni di sostegno. I bambini,
appena usciti dalla scuola o dal liceo dove alcuni di loro sono scolarizzati, si
spazientiscono in mezzo al fango e alle capanne, costruite lungo la strada N7.
Petto all'infuori, accompagnato da due "cantaores" (cantanti di flamenco) esegue
alcuni passi di danza per alcuni minuti, picchiando il suolo in modo rude e
virile, come un torero atletico.
Ma è soprattutto felice d'invitare gli rom a ballare in mezzo alla piccola
scena, fatta di travi di legno e decorata di ghirlande, che danno al posto delle
arie di parco di divertimenti.
Una donna, la gonna nera della quale sfiora il pavimento, esita, poi finalmente
si lancia nel cerchio sotto lo sguardo benevolo d'Israel Galvan.
Durante la serata, gli rom tirano fuori i propri strumenti: violini,
fisarmoniche e tamburelli colpiti con l'aiuto di bottiglie di plastica.
"E' buono per i bambini, per noi, per la musica", dice Jorge, il quale abita
nell'accampamento da circa otto mesi. "Apporta gioia!"
"Altro tipo di energia"
Figlio di una gitana, Israel Galvan percepisce qui una familiarità con ciò che
conosce.
"Quando guardo la gente, vedo certi volti che potrebbero essere quello di mia
nonna", dice sorridendo, all'AFP.
Aggiunge: "Ciò che mi colpisce, è che nonostante le difficoltà che incontrano
queste popolazioni, riescono a fare venire fuori una gran gioia nel loro modo di
vivere".
Nel suo spettacolo battezzato "Le réel" (il reale), egli evoca senza
concessioni, la sorte tragica – e abbondantemente occultata – che fu riservata
agli tzigani durante la Seconda Guerra Mondiale, perseguitati e sterminati dagli
nazisti.
"Per creare il mio spettacolo, mi sono ispirato a libri e foto antiche di
zigani. Ma venire qui, è la situazione la più reale alla quale mi sono trovato
confrontato" spiega colui che, durante questi ultimi anni, si è tagliato una
reputazione di ballerino profondamente avanguardista e novatore.
Considera: "Non ho mai ballato in questo genere di luoghi prima, ma è importante
per un ballerino, venire a respirare un altro tipo di energia, diverso da quello
dei teatri".
L'incontro, con l'iniziativa della rivista culturale "Mouvement" e
dell'associazione "Perou" che viene in aiuto ai rom, non si ferma qui. Durante
quattro sere, Israel Galvan invita dodici abitanti del bidonville a venire per
assistere al suo spettacolo al Théatre de la Ville, che continuerà fino al 20
febbraio.
Dice che è importante che vengano a vedere lo spettacolo, in quanto questo parla
della loro storia.
Provengono da un villaggio romeno, non lontano dal confine con la Moldavia.
Da lì, con la loro esuberanza e vitalità, sono partiti per il mondo. Sono i
Fanfare Ciocarlia
"A volte, quando dico alla gente che vengo da Zece Prajini, pensano che venga
dall'altro capo del mondo. Ma qui, all'altro capo del mondo, non lontano dai
confini con la Moldavia, è il giusto posto per fare musica". Sono le parole di Costica "Cimai" Trifan, trombettista di una delle più interessanti realtà
dell'intellighenzia musicale facente capo a Bucarest: Fanfare Ciocarlia.
Fanfare è una parola di origine francese, e indica la classica band balcanica;
Ciocarlia è, invece, un termine romeno con cui si designa un piccolo
passeriforme tipico di gran parte delle regioni europee.
Le radici nella storia
Per introdurre una band di simile spessore è necessario un breve excursus
storico. La Romania, infatti, come molti altri paesi dei Balcani e del Medio
Oriente, è stata soggetta al dominio turco. Gli ottomani misero a ferro e fuoco
mezza Europa e le propaggini occidentali dell'Asia, dal 1299 al 1922: per 623
anni di fila dettarono regole, mode e paradigmi culturali. È per questo motivo
che, ancora oggi, molti paesi che hanno subito la loro influenza, in un certo
senso continuano a "parlare" turco.
Fanfare Ciocarlia, con la sua esuberanza e vitalità, non può, dunque,
prescindere da questo background storico: nel suo sangue scorre ancora ciò che
rimane del mondo e della cultura ottomana. Lo prova l'utilizzo ostentato di
fiati e l'incedere di ritmi che inevitabilmente rimanda alle bande turche che
proposero i loro brani dal Diciannovesimo secolo in poi, in tutta l'area
compresa fra i Balcani e il Caucaso.
Il valore di simili ensemble musicali è, peraltro, provato ancora oggi dal fatto
che l'orchestra militare più antica del mondo è la banda Mehter, fondata a Bursa
(località situata a sud del mar di Marmara, alle pendici del monte Uludag) nel
1326, che per secoli ha affiancato i soldati ottomani imbracciando strumenti
come trombe, oboi, timpani, grancasse, cimbali...
L'universo musicale della Fanfare Ciocarlia, però, non riguarda solo il
macrocosmo turco, ma anche quello, altrettanto brillante e influente, dei rom.
Fanfare Ciocarlia, di fatto, è un'orchestra rappresentata da musicisti romanì,
che nel loro eterno peregrinare dall'India dell'anno Mille, hanno assorbito
generi e tecniche pentagrammate provenienti da ogni paese. Alla luce di ciò è
facile comprendere il motivo per cui si sono fatti portavoce di un genere
ibrido, figlio di questi due universi musicali, contaminati in più da micro
realtà musicali come quella bulgara, macedone e slava, che con il loro
eccezionale bagaglio di storia popolare, hanno sempre avuto molto da dire non
solo nell'ambito delle sette note.
Anni '90
Le prime esperienze della Fanfare Ciocarlia risalgono a metà degli anni Novanta.
Zece Prajini, punto di partenza dell'avventura musicale della band, è un piccolo
paese, di quattrocento anime, dove l'amore per canti e danze regna sovrano e
ogni occasione è buona per far festa a suon di trombe e fisarmoniche. La band
comincia a farsi notare e a delineare il suo stile durante le cerimonie più
tradizionali, quali battesimi e matrimoni.
Boatca, Balusesti, Manastirea, Piscu Rusului, sono i paesi del circondario, dove
il loro nome prende a circolare con sempre maggiore vigore, auspicando per la
prima volta un futuro che possa travalicare i confini della Romania. Sono forti
di una tradizione musicale tramandata di generazione in generazione, che viene
intercettata dalla lungimiranza di Henry Ernst, un produttore tedesco che si
presta per organizzare il primo tour ufficiale della band; sodalizio che
prosegue ancora oggi, con un migliaio di concerti alle spalle, in una
cinquantina di paesi.
12 virtuosi
Fanfare Ciocarlia è rappresentata da dodici virtuosi, a loro agio con un
infinito numero di strumenti musicali, a cominciare dai capisaldi della cultura
rom/ottomana, trombe, tube, clarinetti, sassofoni, percussioni... Spesso i ritmi
delle loro canzoni sono frenetici, anche più di duecento battiti per minuto.
Benché vari brani siano solo musicali, compongono le loro canzoni in lingua rom,
antico idioma di origine indiana: il vlax romanì, in particolare, è usato in
Romania, ma anche in Bosnia e Albania, ed è il dialetto gipsy più utilizzato.
Negli anni la loro matrice musicale originaria subisce progressive modifiche e
aggiustamenti, fino a portare a un suono che si può tranquillamente definire
"cosmopolita".
Debuttano sul mercato internazionale con Radio Pascani, disco del 1998,
registrato l'anno prima in uno studio di Bucarest. Il mix avviene presso lo
Schalloran Tonstudio di Berlino. Distribuito dalla Piranha Musik, desta
immediatamente successo in gran parte dei Balcani e in USA, sollecitando varie
strutture discografiche, non solo europee, ad appoggiare i virgulti musicali
provenienti dall'est. Molti brani non arrivano a due minuti; come la title track
che si chiude al 45esimo secondo. Alcuni pezzi sollevano più clamore degli
altri, come "Ah ya Bibi", coverizzata da Balkanarama, band statunitense di
Seattle, specializzata in gipsy music, che introduce il brano nel disco
d'esordio Nonstop del 2000. La stessa canzone è presentata dal vivo dagli
Estradasphere, band originalissima di Santa Cruz (California), che al balkan
sound associa liberamente funk, techno, pop, heavy metal e new age.
Baro Biao Baro Biao - World Wide Wedding - giunge l'anno successivo, appoggiandosi allo
stesso entourage del lavoro di esordio. Contiene gemme come "Asfalt Tango",
anch'essa ripresa da vari artisti, fra cui la Hungry March Band - ensemble di
New York a suo agio con i repertori più diversi, dai Sonic Youth ai Black
Sabbath - che la registrano nel cd On The Waterfront. Il brano arriva anche alle
orecchie dei Basement Jaxx, band elettronica britannica che la impiega per
l'album Crazy Itch Radio del 2006.
L'avventura musicale della Fanfare Ciocarlia prosegue nel 2001 con Iag Bari -
The Gypsy Horns From The Mountains Beyond, ancora sotto la supervisione di Henry
Ernst. Nel disco viene ridato lustro alla storica "Lume, lume", interpretata da
molti autori romeni: è una canzone antica, assai cara all'immaginario rom,
proveniente dalla valle del fiume Bistra, nella regione del Banato, un inno agli
affetti più sinceri, alla solidità della famiglia, antidoti alla tristezza. La
versione più nota è quella di Maria Tanase, probabilmente la più importante
cantante romena.
Gili Garabdi - Anciet Secrets Of Gypsy Brass esce per la Asphalt Tango Records
nel 2005 e viene in parte registrato nel paese di origine dell'ensemble
musicale: Zece Prajini. Si apre con "007 (James Bond Theme)", marcando più o
meno consapevolmente la soddisfazione di avere fatto centro anche
nell'inarrivabile America. "Caravan" è un brano di Duke Ellington, fra i più
grandi jazzisti della storia statunitense. Molti i rimandi alla musica klezmer
(con cui da sempre la musica rom condivide mondi e orizzonti) e a stesure in
chiave minore. Altrettanto significativi "Alili", "Sirba modoveneasca" e "Godzila".
L'opera coinvolge vari musicisti, fra cui Grigorescu Calin al banjo e Jony Iliev
alla voce, e si aggiudica l'Awards World Music nel 2006.
Queens And Kings è il quinto e ultimo disco ufficiale della band, edito nel
2007. Vede la partecipazione di molti artisti fra cui la regina della musica
gipsy,
Esma Redzepova (che canta in "Ibrahim"),
Saban Bajramovic, musicista
serbo (scomparso nel 2008), e Monika Juhasz Miczura, cantante, conosciuta come
Mitsu (coinvolta in vari film del regista "gitano", Tony Gatlif).
28 marzo 2013 h.20.45 PAPACQUA, via Daino 1 - MANTOVA.
Introduzione di Igor Costanzo. Durante la
serata proiezione di fotografie in
collaborazione con Paola Castagna.
5 aprile 2013 h. 21.00
LE STORIE DEL MANEGHETO, vicolo Cere 24, VERONA Non ci sono confini agli orti di Spagna: storie, poesie, immagini e
musica di gente di viaggio. Con la fisarmonica di Tommaso Tommo Castagnini e le
immagini di Paola Castagna. Cena alle 19.30 - meglio prenotare 045-8014299
7 aprile 2013 h.17.30 TEATRO Valle Occupato, via del Teatro Valle
21, ROMA. Il tempo dei Rom, con Paul
Polansky, Pino Petruzzelli, Bianca Stancanelli,
la musica di Djovedì Django e degli Errichetta
Underground, la danza di Barbara Breyhan e
Daniela Evangelista, il canto di Debora Longini
e Daniela Bruno accompagnate da Ivan Macera e da
Mauro Tiberi, Stefano Liberti ed Enrico Parenti,
autori del documentario prodotto da ZaLab "Campo
sosta". Il tutto allietato dalla cucina rom.
9 aprile 2013 h.21.00 LIBRERIA
POPOLARE, via Tadino 18 - MILANO.
Presentazione "Il pianto degli zingari"
11 aprile 2013 h.21.00 ARCI Via d'Acqua,
viale Bligny 83, PAVIA. Impegno, musica,
poesia: programma in via di definizione
13 aprile 2013 h. 18.30
SUNSET CALDE' Piazza del Lago, 3 - 21010 - Castelveccana (VA) SLAM POETRY
15 aprile 2013 h.21.00
C.A.M. Ponte delle Gabelle, via san Marco 45 -
MILANO. Presentazione "Il pianto degli zingari"
16 aprile 2013 h.10.00
Isis GIOVANNI FALCONE, Via Matteotti 3, GALLARATE
(VA). Le parole sono luce: dialogo con gli
studenti. Introduzione di Ernesto Rossi.
Accompagnamento musicale di Mario Toffoli
17 aprile 2013 h. 18.30 LIBRERIA UTOPIA,
via Vallazze 34, MILANO. Chiusura tour
milanese
18 aprile 2013 h. 19.30
Spazio CENTO-TRECENTO, via Centotrecento 1/a BOLOGNA Chiusura tour italiano
Il pianto degli zingari
Danica è una ragazza intelligente. Nella scuola che frequenta a Monaco prende
ottimi voti, aiuta i compagni in grammatica. Forse farà l'insegnante, o forse la
dottoressa. Ma dalle quattro di una mattina d'inverno, di punto in bianco deve
lasciare casa libri amici lingua futuro, salire a forza con i genitori e la
sorellina su un aereo pieno di rom diretto a Pristina e a un incubo seppellito
nella mente dieci anni prima assieme a una lingua.
"Avna o nemcoja", aveva gridato suo padre quella mattina di giugno del 1999.
"Arrivano i tedeschi!", lo spauracchio che tornava nei racconti del nonno sulla
seconda guerra mondiale e sui nazisti in cerca di vergini da violentare. Ma
erano stati i vicini albanesi, vestiti di scuro, a cacciarli di casa agitando
asce e forconi. Lei aveva sette anni. Ora, alle quattro di mattina, il passato
ritorna a sfondare la porta di casa. Ma lei non è tedesca? Ha l'uniforme
scolastica, ha vinto una borsa di studio. E questa vicina che piange e protesta
coi poliziotti la considera come una figlia.
Lo stile spoglio e fattuale di Polansky è perfetto per una storia raccontata da
un'adolescente. Il reportage trasfigurato in racconto in versi è una denuncia
che rimane oltre il tempo dell'emergenza. Se non ci fossero emergenze senza
scadenza.
Il pianto degli zingari è un libro per tutti e dovrebbe entrare nelle aule
scolastiche, per animare i concetti di dignità umana, diritti dei minori,
cittadinanza, accoglienza, integrazione col volto e la voce di Danica. Roberto Nassi
Note: Autore: Paul Polansky Edizione: Volo press Postfazione:
Rainer Schulze
Immagini: Stephane Torossian
Traduzione: Fabrizio Casavola
Euro 10,00
Riprendo questo post su
Globalist, probabilmente perché è esteticamente bello, ma anche lacerante. Almeno per
me... che Lolli e Manfredi me li ricordo giovani, un po' come fratelli
cresciuti, e li ho poi seguiti nel loro apparire e tornare, loro sì NOMADI, ma
esistenziali. E quella canzone manifesto: HO VISTO ANCHE ZINGARI FELICI, tanto
bella quanto bugiarda. Quando poi gli zingari li ho visti per davvero, erano
disperati, e quasi mai liberi. Ma era bello credersi zingari, o forse era solo
una moda.
Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l'amore
e rotolarsi per terra,
ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.
Mi rileggo il testo della canzone di Claudio e d'istinto mi viene da ricollegare
la metafora degli "zingari felici" alle tante altre usate in quegli anni,
metafore con cui la nostra generazione cercava di definirsi, il più delle volte
in contrapposizione con quelle che ci venivano schiaffate addosso dalla stampa e
nelle quali non potevamo riconoscerci.
Certo nemmeno riuscivamo più ad accontentarci del "Compagni dai campi e dalle
officine" perché sinceramente i campi non ce li ricordavamo neppure e le
officine, dio bono, per noi la Fabbrica mica erano le officine. Se si doveva
cantare la Fabbrica allora era meglio citare Majakovskij:
"Sono anch'io una fabbrica. E se mi mancano le ciminiere, forse, senza di esse,
ci vuole ancor più coraggio".
Le metafore che usavo io, nelle mie canzoni, "gli zombi", "gli ultimi mohicani",
"i clandestini", parlavano sì, anch'esse in qualche modo, "di vendetta e di
guerra".
Eppure per quegli strani, ma giustificabili luoghi comuni da cui neppure il
Movimento poteva dirsi immune, Claudio e io, per quanto spesso accostati,
indossavamo maschere diverse. Una malinconica (la sua) e una irridente (la mia).
Ma era poi così? Con gli zombi non c'era da star troppo allegri, tanto meno con
gli indiani delle riserve metropolitane, quanto alla clandestinità dell'animo,
spesso più pesante di quella fisica, certo non consente troppa cordialità. Se
ripenso alle mie esperienze di quegli anni, alle migliori, sono stato più uno
"zingaro felice" che uno zombi indiano e clandestino, per fortuna.
La metafora di Claudio parlava di qualcosa che lui aveva visto, non
nell'immaginazione, ma in piazza, traducendolo in versi così com'era.
Claudio parlava della felicità che avevamo conosciuto, che era quella "del far
l'amore e rotolarsi per terra". C'è poco da immalinconirsi per questo, neppure
pensando che "avec le temps, avec le temps va, tout s'en va". La felicità,
proprio quella, che non si compra e non si vende a nessun prezzo, è molto più di
una metafora e molto più di uno stato d'animo. La felicità è un'esperienza
contagiosa, che si scambia al di là della merce. Una volta insediata, non ti
abbandona. E il suo significato noi lo conosciamo bene, perché lo abbiamo
sperimentato, proprio come il significato di questi altri versi di Majakowskij:
"Il comunismo non vive soltanto nella terra, nel sudore delle fabbriche. E'
anche nelle case, a tavola, nei rapporti, nella famiglia, nel modo di vivere".
Io non ho dubbi sul fatto che il più majakowskiano dei cantori degli anni
settanta sia stato Claudio Lolli con i suoi "zingari felici".
* tratto da "Da una finestra sbagliata. Gli zingari felici di
Claudio Lolli" a cura di Gianluca Veltri, Luciano Vanni Editore, 2006
The QuietusJosh Hall , August 12th, 2013 08:03 (lungo, ma con registrazioni
originali dell'epoca, vale la pena quando siete stanchi di leggere, NDR)
Josh Hall parla con Philip Knox, co-curatore della nuova compilation sul
gipsy-pop nella Jugoslavia di Tito, per discutere sulle condizioni politiche e
sociali da cui nasceva questa notevole musica innovativa
Gli anni '60 e '70 sono stati un periodo fiorente per i Rom della Jugoslavia.
Anche se Tito aveva riempito i campi di prigionia al largo dellle coste
adriatiche, in patria i Rom ottenevano per la prima volta il riconoscimento
ufficiale. Tito avevi conferito agli Jugoslavi il diritto di identificarsi
secondo il proprio gruppo, ed i Rom - storicamente perseguitati e soltanto pochi
decenni prima assassinati a decine di migliaia dagli ustascia fascisti - furono
tra i maggiori beneficiari. La cultura rom venne improvvisata elevata.
La musica di quel periodo è stata catturata in una nuova collezione del pop e
folk prodotto tra il 1964 e il 1980 dai Rom della Macedonia, Kosovo e Serbia
meridionale. Stand Up, People (Opre Roma) è un set straordinario di
tracce che dimostrano lo spirito pionieristico di quel periodo, in cui i
musicisti prendevano le forme tradizionali e le declinavano senza posa nel senso
della modernità. Le canzoni pulsavano dei tradizionali ottoni della musica folk
slava, ma erano contrapposti all'ampiezza dei nuovi stili a cui erano esposti
queste comunità. La collection è pervasa di pop occidentale, psichedelia, e
della tradizione subcontinentale da cui i Rom sono originari e con cui c'era uno
scambio diffuso, grazie alle comune posizione di India e Jugoslavia come stati
non allineati. Il risultato è un volo vertiginoso di malinconica innovazione.
Curata dai londinesi Philip Knox e Nat Morris, Stand Up, People è il
risultato di mesi passati a scavare nei mercatini delle pulci dei Balcani, nel tentativo
di gettare nuova luce su ciò che Knox descrive come "qualcosa che si è perso
nella narrazione standard della musica di quella parte del mondo." Nella
tradizione classica la registrazione viene completata da esaurienti e deliziose
note di introduttive sui testi di ogni traccia. Nelle traduzioni, la
combinazione di lacrimosità e di festa così palpabile è resa ancora più forte.
Questa dolente baldoria è il segno della qualità della collection.
Il Rinascimento rom collassò brutalmente dopo la morte di Tito. I proponenti
furono da un lato sottomessi alla musica nazionale dei nuovi stati nati nel
sangue, o semplicemente sparirono dalla pubblica vista. Le tradizioni romanì
divennero nuovamente affari privati, divorziando dalle correnti principali in
cui erano brevemente fiorite. I Rom nel mondo rimangono oggetto di persecuzione
quotidiana. Per questo Stand Up, People è importante, non solo come
documento storico, ma come controreplica a quanti tuttora intendono i Rom come
qualcosa di indesiderabile. E' una registrazione celebrativa di un tempo in cui
a questa cultura perennemente tiranneggiata fu permesso di esplorare se stessa
pubblicamente, e di una storia affascinante di un periodo di notevole
innovazione.
Abbiamo raggiunto Knox per discutere il processo di compilazione di Stand
Up, People, con le storie turbolente e gli sconvolgimenti politici e
sociali che si verificavano mentre il tutto era iin fase di creazione.
Il trip, il viaggio, è che l'articolo è di quasi due anni fa. Fu un viaggio
di sei settimane, due mesi. Lo scorso dicembre siamo tornati a Belgrado, perché
molto del materiale finito nel CD proveniva dall'Archivio Nazionale [di Serbia].
Sapevamo che quelle registrazioni esistevano, ma in tutte le nostre ricerche non
le avevamo mai trovate. Alcuni pensavano che non esistessero, ma indagando negli
scaffali dell'Archivio nazionale li abbiamo trovati. Per fortuna c'erano molte
cose che volevamo davvero, a nostra volta avevamo del materiale che interessava
loro, così abbiamo raggiunto un accordo e abbiamo potuto, temporaneamente,
prendere in prestito quei reperti, digitalizzarli e restaurarli a Londra.
Quindi a Belgrado esiste un grande spazio di archiviazione pieno di
registrazioni?
Sì, è piuttosto sorprendente. Sotto Tito si archiviavano copie col copyright,
in teoria praticamente da tutto. Quando ci siamo andati era abbastanza caotico.
Avevano appena riaperto e penso che eravamo tra i primi a varcare l'ingresso.
Incredibilmente, in una maniera impensabile in Gran Bretagna, con assoluto stile
balcanico, questa amabile bibliotecaria ci disse: "OK, entrate e date
un'occhiata." Così abbiamo frugato tra gli scaffali, facendocela addossa dal
tanto materiale che c'era e stavamo cercando così disperatamente. Abbiamo potuto
fotografare alcune copertine, come prova che questo materiale esisteva - in
particolare alcune delle prime cose di Shaban Bajramovic' [che appare tre volte
nella compilation], che poi divenne una specie star della world music, ed è
relativamente noto in Europa. Ma nessuno credeva che avesse inciso prima del
1991, nessuno credeva che fosse disponibile. Così abbiamo trovato un sacco di
roba sua, e ne eravamo davvero entusiasti, ma non potevamo ascoltare niente,
perché non c'era una sala video-audio. Questa è la ragione per cui siamo tornati
dicembre scorso - controllare realmente quel materiale. Anche se eravamo allora
a buon punto con i CD, e sapevamo cosa farne, in realtà non sapevamo che suono
restituissero quei reperti. E' stato come un azzardo.
Come avete fatto a selezionare le tracce?
La questione fondamentale era quello che ci piaceva realmente. C'era
materiale che volevamo includendo alcune tracce. Volevamo rappresentare molte
cantanti, e poi un sacco di roba che fosse davvero inusuale, all'opposto di
quanto si aspettasse la gente. Per coincidenza, questo corrispondeva a ciò che
ci piaceva.
Quella forza delle cantanti è rappresentativa della scena nel suo
assieme?
Penso di sì, yeah. Essere donna tra i Rom è abbastanza difficile. E' una
società piuttosto patriarcale, e se sei una donna in una simile società che è
oltretutto più marginalizzata di qualsiasi altra, sei ancora più al margine
delle cose. Allora, è stato importante trovare cantanti femmine di così grande
successo, che dirigevano i prori gruppi musicali, che andavano in tour. Alcune
di loro hanno avuto storie difficili associate a ciò; non era un paradiso. C'è
una cantante, Ava Selimi, che ha pubblicato un solo 7" su cui abbiamo messo le
mani. Non siamo mai riusciti a rintracciarla, ma abbiamo molti aneddoti di gente
che la conosceva. Si dice che sia stata rifiutata dalla famiglia e dalla sua
comunità semplicemente [per] essere una musicista di successo ed essere
single, invece di svolgere il ruolo tradizionale che ci si aspettava. Si pensa
che non abbia mai lasciato la sua città nel Kosovo per quella ragione, ora
vivrebbe in un'isola della Croazia.
Parliamo un poco di Esma Redzhepova, che caratterizza fortemente
l'album.
Esma Redzhepova è tuttora una celebrità in Macedonia. Recentemente ne ha
parlato la stampa, per la sua partecipazione per la Macedonia ad Eurovision
dello scorso maggio, assieme ad un cantante di rubbish-rock che non mi ricordo.
Divenne molto celebre ai suoi tempi, negli anni '60 e '70. In quanto giovane,
donna e radicata nel ghetto, penso che ebbe da lottare. Ha dovuto uscire dalla
casa di famiglia, e la sua famiglia era del tutto contraria alla sua carriera,
non solo all'interno delle comunità rom, ma anche nazionale e internazionale in
quanto jugoslava.
Ci sono stati altri artisti che allora raggiunsero un simile
successo?
Lei è praticamente unica. Shaban Bajramovic', un po' più tardi - erano
dipinti come il re e la regina della musica gitana, anche se provenivano da
luoghi diversi e non penso si siano mai esibiti assieme. Raggiunse una buona
notorietà, in particolare con alcune registrazioni alla fine degli anni '90, che
erano quasi in stile Buena Vista Social Club. Ma allora Esma era praticamente
unica in termini di enormità del successo.
Potresti dire che gli anni '60 e '70 sono stati il periodo più
importante per quel tipo di musica, o è qualcosa che continua tutt'oggi?
C'è ancora moltissima musica dei rom incredibile nella regione, e molti
interpreti rom, ma non è detto che siano conosciuti come tali. Sono soltanto
cantanti pop o qualsiasi altra cosa - non pretendono di fare musica folk. Ma
secondo me l'era dei musicisti romanì che cantavano romanì, identificandosi
completamente e senza problemi come Rom, e consumati come tali a livello
nazionale - è definitivamente passata. Penso dipenda soprattutto dalle guerre
etniche degli anni '90, dove la gente è diventata così iper-tribale che i Rom
sono sempre stati esterni a ognuno di questi gruppi frammentati, e sono sempre
stati perseguitati un poco di più, soprattutto in Kosovo, dove credo che la
popolazione si sia ridotta dell'80%, in parte con esecuzioni di massa e in parte
con [l'esodo dei] rifugiati, molti di loro sono finiti in Macedonia.
Ora è la Macedonia il fulcro della comunità rom?
C'è il più grande insediamento rom nel mondo, appena fuori Skopje - un posto
chiamato Shuto Orizari. E' qualcosa di unico. Cammini per strada e senti parlare
ovunque romanés, le insegne sono in romanés. E' incredibile. Ma in termini di
popolazione, c'è un numero enorme di Rom in Serbia, e da altre parti dei Balcani
oltre la ex Jugoslavia, come in Romania e Bulgaria. Se la Macedonia costituisca
il fulcro culturale è difficile da stabilire - sono tutti molto diversi. Mentre
in Serbia possono essere più urbanizzati e vivere in maniera maggiormente
integrata, questo non li rende necessariamente meno rom o meno culturalmente
significativi.
Anche se c'è una popolazione rom relativamente numerosa in Bosnia e Croazia, è
una popolazione stranamente tranquilla. Non hanno la percezione di suonare
musica rom, anche se molti di loro sono musicisti e suoneranno musica folk
locale. Ma non esiste una scena, e non c'era nemmeno negli anni '60 e '70, anche
se era pieno di Rom ed erano culturalmente e politicamente attivi. Eravamo
curiosi e abbiamo chiesto a dei contatti rom in Bosnia perché avessimo questa
impressione, e loro in modo abbastanza deprimente l'hanno attribuita al successo
delle campagne antirom dei fascisti ustascia nella II guerra mondiale, quando se
sembravi rom o se parlavi romanés ti potevano sparare. La cultura è stata
trainata dei sotterranei e non è mai emersa realmente, anche quando farlo era
diventato sicuro. E' diventata una cosa domestica e privata, cosa che allora non
successe quasi mai in Macedonia, Serbia e in Kosovo.
Foto del viaggio a Belgrado di Knox e Morris
E' interessante che ci fu questa fioritura di cultura rom durante Tito,
che nel contempo era molto avverso con le espressioni del nazionalismo. Come
concili le due cose?
Penso siano precisamente parallele, l'una la conseguenza dell'altra. Cercando di
riconciliare una parte di mondo estremamente diversa e storicamente frazionata,
la strategia di Tito era di affrancare in qualche modo qualsiasi minoranza. Le
gerarchie erano diverse. Potevi dichiararti della nazione dei Croati, o della
nazione dei Serbi, e avevi un'identità in quel senso. Ma anche i Rom e gli
Albanesi avevano questa possibilità di identificarsi o le loro carte d'identità.
Penso, come conseguenza di presentare un modo leggermente più inclusivo di
essere Jugoslavi, senza tuttavia dover rinunciare alla propria identità
precedente, i Rom ottennero per la prima volta un riconoscimento. Tutte le
identità andavano rappresentate, altrimenti non avrebbe funzionato.
Avevano modo di identificarsi pubblicamente. Avevano gruppi culturali in molti
villaggi, alla stessa maniera che se fossero stati gruppi culturali Albanesi o
Turchi, stavano assieme e organizzavano musiche e concerti, probabilmente
diffondendo anche dottrina di partito. Così, è un periodo inusuale e unico, in
netto contrasto con la strategia seguita, ad esempio, dalla Bulgaria, che era
offensivamente monoculturale, e parlare o cantare in romanés era illegale. I Rom
continuavano a stare lì, producendo molta musica, ma era tutta musica bulgara
prodotta da Rom che fingevano di essere Bulgari.
Rimane un caso?
Tutta quella parte di mondo resta orribilmente razzista verso i Rom. Il
pregiudizio preesistente è diventato pubblico dopo Tito. Ma la Bulgaria è
leggermente migliorata da allora. Almeno, non c'è nessun apparato statale
ufficiale che spenga attivamente le voci rom, anche se il pregiudizio a livello
di comunità è sempre più duro da sorvegliare e valutare.
E quanto velocemente terminò quel boom, dopo Tito?
Difficile da dire. La società iniziò a collassare rapidamente dopo la morte di
Tito, ed in qualche modo si era già verso la fine. La sua morte coincise con
l'emergere di un sacco di ordini del giorno nazionalisti. Già prima di morire,
nel 1980, la cultura stava cambiando in maniera percettibile. Globalmente,
stavano iniziando ad emergere i primi vagiti della fine della guerra fredda, ed
il nazionalismo andava prendendo corpo. Ed anche la stessa musica - è quando
inizia ad emergere quella cosa chiamata turbo-folk. Quella fu la colonna
sonora delle guerre balcaniche, che ironicamente sembrava saltar fuori da
qualcuno di questi cantanti rom, che sempre andavano perseguendo il suono più
moderno e orecchiabile. Il risultato finale fu uno stile che venne per lo più
associato agli squadroni serbi della morte, uno di quegli strani colpi di scena
così difficili da conciliare.
Gli anni '80 furono un periodo diverso solo dal punto di vista stilistico. I
valori di produzione erano appena caduti, soprattutto in Jugoslavia. Quindi era
praticamente impossibile dire "Qui è l'età dell'oro", mentre la società andava
collassando anche le strutture che avevano permesso la produzione di quella
musica crollarono. I cantanti che riuscirono a mantenere il successo, smisero di
essere cantanti rom. Molti proseguirono - Esma andò avanti attraverso la guerra.
Smise di cantare in romanés, e smise con le canzoni zingare. Uno degli esempi
più estremi è questo ragazzo chiamato Muharem Serbezovski,
un Rom macedone. La maggior parte dei Rom macedoni è musulmana, e lui passò
molta della guerra a Sarajevo, identificandosi fortemente con la causa bosniaca.
Iniziò a cantare inni di guerra della Bosnia, si naturalizzò totalmente come
Bosniaco. Dopo la guerra, entrò come politico nell'Assemblea Nazionale di
Bosnia. Probabilmente aveva qualche affinità con la Bosnia perché era la
capitale della sua religione, ma smise di essere un Rom jugoslavo che cantava in
romanés e in altre lingue, diventando un Bosniaco.
Una delle cose più straordinarie sulla raccolta è l'incredibile volume
di suoni e stili che sono presenti. L'altra musica a quel periodo era
accessibile?
E' incredibilmente varia. Ci sono ballate pop abbastanza standard, e musica
tradizionale di fisarmonica, molto potente. E' distante da una raccolta
rappresentativa universalmente, anche della sola musica rom. Ci sono differenze
al nord. Dove c'è molta popolazione ungherese, la musica è più martellante,
quattro quarti, col violino che invita alla danza. Penso che molti di questi
pezzi, senza la necessaria familiarità, sembrerebbero piuttosto sorprendenti. La
gente era abituata ad una varietà musicale, ma se tu fossi stato, per esempio,
un ragazzo non-rom alla moda nella Belgrado degli anni '60, e avessi ascoltato
qualcosa della folle musica rom del Kosovo, penso l'avresti trovata abbastanza
aliena. Ma la gente la comprava, e questa è una cosa interessante, ma anche
difficile da spiegare. Tutto era iper-locale e iper-specifico, ma era
distribuito dalle etichette discografiche in tutti centri urbani, ed
apparentemente per essere comprato e goduto.
Quindi l'impresa era anche redditizia?
Tutte le etichette erano in parte statali. Era un'area grigia ambigua, in parte
nazionalizzata. Non è chiaro sin dove le decisioni fossero controllate dallo
stato. Probabilmente non in maniera enorme, perché c'era troppa roba in
circolazione e nessuno avrebbe avuto il tempo di verificare tutto. Ma la gente
comprava i dischi. Gli Jugoslavi erano abbastanza ricchi rispetto agli altri
paesi socialisti dell'Europa Orientale. Potevano viaggiare, e lo facevano.
Potevano importare beni dall'Occidente; importavano anche musica occidentale.
Cose che si cercava sempre di vendere a caro prezzo nei negozi di dischi dei
Balcani, erano le incisioni jugoslave dei Beatles o di Stevie Woneder, che
qualche collezionista pazzo sta cercando di ottenere.
Un altro momento chiave della storia è la raccolta delle registrazioni.
Quanto tempo avete impiegato?
Me ne sono interessato per anni, in maniera abbastanza amatoriale. Ci sono un
paio di etichette che stanno facendo delle cose interessanti, in particolare con
queste brass band, alcune dalla Macedonia, altre dalla Romania, che sono
piuttosto funky e hanno un senso di rinascita: Mahala Rai Banda e Kociani
Orkestar, piacciono alla gente. Ero davvero coinvolto, e così Nat, ne abbiamo
discusso assieme e abbiamo viaggiato indipendenti l'uno dall'altro per un po'
nei Balcani.
Esma Redzhepova venne e suonò a Londra attorno al 2006 con la Mahala Rai Banda,
e fu un concerto incredibile. Stranamente, per un pubblico londinese abituato
alla "world music", fu un grande avvenimento. Ho sempre cercato di collezionare
pezzi e mettere le mani sugli originali, in modo abbastanza da nerd, e mi
chiedevo dovrei avrei potuto trovare i LP di Esma. Cominci a cercare su internet
e trovi delle cose. Dopo un paio di assaggi pensai: "Cazzo, questo è buono
davvero!". Poi iniziamo ad impegnarci più seriamente, raccogliendo tutto quel
che trovavamo. E poi, quando ammassammo una certa pila di registrazioni, ci
sembrò qualcosa di importante che era andato perso dalla narrativa standard di
quella parte del mondo. Fu allora che la prendemmo davvero sul serio, e andammo
lì col preciso intento di raccogliere registrazioni, e nel contempo di
incontrare i musicisti e cercare di imparare di più sugli scenari e sulle
circostanze della produzione e della distribuzione.
Questi artisti si conoscevano tra loro? Suonavano assieme?
C'è questa voce che circolava su Esma e suo marito. Lui non era Rom, ma era uno
attorno a cui la musica girava. Molti musicisti passarono attraverso questa
sorta di accademia. Molti musicisti rom venivano assunti, e poi si mettevano in
proprio. Così fu per Muharem Serbezovski - i suoi primi concerti furono con
l'ensemble di Esma. E Elmo Chun, che interpreta la penultima traccia del
disco, quella strumentale, la cui importanza per la scena musicale rom non può
essere sottolineata abbastanza - fece parecchi arrangiamenti, fu un fulcro vero
- il suo primo lavoro fu il clarinettista per Esma.
Sembra il mondo del jazz, dove ci sono frontmen e sidemen.
Si intenda una grandissima similarità col jazz, non solo nella struttura di
mercato, ma anche per la fusione di personalità, improvvisazioni, assoli che
sono parte della tradizione. E' una delle cose che lo rende interessante,
soprattutto se assisti dal vivo a un matrimonio, dove un clarinettista e un
sassofonista si confrontano per dieci minuti. Uno spettacolo incredibile.
Hai detto che le grandi etichette discografiche erano di proprietà
statale ma, a parte questo, esisteva una cultura indipendente?
Le etichette erano relativamente poche. Non erano controllate centralmente in
quanto tali. Tutte le maggiori città ne avevano una, o diverse. Particolarmente
Belgrado. Quindi esiste la branca editoriale regionale della compagnia di stato,
poi ce ne sono di più piccole, che dovrebbero essere più indipendenti, ma non si
notano differenze nella qualità o nella natura delle registrazioni che uscivano.
C'erano etichette specializzate in quel tipo di musica?
Non molte - è questo che è strano. Troverai estremamente misterioso della musica
rom prodotta da quella che era la più grande etichetta, Radio-Televisione Belgrado,
tutta in romanés da un oscuro angolo del Kosovo. Poi trovi musica di successo
rilasciata da un piccolo studio fuori Belgrado. Un fenomeno abbastanza surreale.
Non so se è la natura di come funzionassero le cose in questo quasi-mercato, ma
non mi sembra che potesse essere competitivo, con gli artisti più grandi che
andavano verso le maggiori etichette e quelli più piccoli verso le minori.
Com'è stato il processo per ottenere le licenza di queste incisioni?
Incubo assoluto. E' stato di gran lunga il compito più duro, difficile, lungo e
meno divertente. Queste etichette erano possedute in parte da uno stato che non
esiste più, o sono adesso proprietà parzialmente privata o parzialmente statale
di nuovi stati. Molti di questi non sono a conoscenza di possedere i diritti di
queste incisioni, e per prima cosa li devi convincere di questo, se vuoi
ottenere una licenza. E' uno dei motivi per cui una release come questa ha
dovuto impiegare tanto tempo per uscire. Nessun altro sarebbe stato così pazzo
da trascorrere due anni su Skype con dei Serbi veramente arrabbiati.
E' valido per la Jugoslavia degli anni '60 come per la maggior parte della
musica oggi - è interamente impostata per ridurre al minimo la quantità di
denaro che gli artisti ricevono, se non di eliminarla del tutto. Il diritto di
proprietà degli artisti è così piccolo. E' qualcosa con cui abbiamo lottato
davvero, perché volevamo dare qualcosa agli artisti quando ne trovavamo qualcuno
che fosse ancora vivo. Una cosa rattristante e piuttosto deprimente di questo, è
che incoraggiamo questi artisti a firmare per questi incredibili complessi
sistemi collettivi internazionali, così che possano avere qualche soldo, ma
impiegare tutto questo tempo non serve a chi non è di madrelingua inglese, o non
ha familiarità col computer.
Vedi il potenziale per un risorgere dell'interesse verso questa musica?
I giovani dei paesi dell'ex Jugoslavia, quando parliamo loro di questo, sono
completamente confusi e perplesso. Puoi gli suoniamo questa musica e sono
esterrefatti che ci sia qualcosa del genere dalla loro cultura e che possa
suonare così. Molta della idea dei non-Rom sulla musica dei Balcani, anche in
quella parte del mondo, è totalmente conformata a tutti quei coglioni come [Emir]
Kusturica. Davvero, la gente è monopolizzata dall'idea che la loro musica sia -
qualcosa di veramente primitivo che spassionatamente spilla da loro; non
qualcosa sotto il loro controllo; possono rubarti il televisore ma fanno anche
questa bella musica. Allora la gente si sorprende di questa musica
incredibilmente sofisticata, sensibile ad idee complesse. Penso che se la gente
ci mettesse la testa, sarebbe davvero grande, e potrebbe significare che alcuni
dei musicisti che sono ancora in circolazione potrebbero rivisitare alcuni
pezzi.
La compilation
Stand Up, Peopleè ora disponibile su CD e formati digitali, via Asphalt Tango Records
Glielo giuro, signor colonnello, non è colpa mia!!!
Non sono colonnello, sono commissario...
Ecco, giusto... commendatore! Stavolta sono innocente!!!
Vabbè, lasciamo perdere. Non urli e mi illustri la dinamica precisa dello
svolgimento dei fatti.
Mi può ripetere tutte le ultime parole? Sa, son foresto...
Cos'è successo! E lei, appuntato, scriva...
Aahhhh, ecco. Vede, due sere fa ero in giro con mia zia, a cercare un po' di
citofoni che non ci avessero scritto sopra. E' una nostra tradizione, sempre gli
stessi segni da anni, ma ormai di citofoni puliti non ne troviamo più...
Scusi la curiosità, perché sempre gli stessi segni?
Così... come lo chiamate voi? Copyright?
Continui. Scusi l'interruzione.
Insomma, lei conosce le case e io so scrivere, così lavoriamo in coppia come
i carabinieri. Ma per non farci riconoscere, lei aveva la gonna lunga, era senza
scarpe e col foulard. Io ero bellissimo: avevo arricciato i baffi col lardo, e
suonavo il violino. Sull'archetto avevo montato uno scalpello, è così che si
fanno i segni... vuole che le faccia vedere?
No! Vada avanti. Appuntato, sta prendendo nota?
Certo, ma le assicuro che non è facile. C'era gente che andava, veniva, sa...
non hanno niente da fare, e così ci chiedevano: "Chi siete? Cosa fate?" E io,
mostrando la tessera della mensa: "CENSIMENTO!"
Sì, ma poi?
Così in nove secondi e sette decimi (come Bolt a Mosca, faccio notare) ci
siamo trovati circondati da tutto il quartiere. forse, erano tutti lì per il
censimento... Noi gli abbiamo detto che avevamo terminato i moduli, ma quelli,
non so perché, ci hanno riempito di mazzate.
Finito?
No, signor ingegnere. La sera dopo, che mi facevano ancora male tutte le
ossa, tornano mio cugino con suo figlio e un amico. Guardano i citofoni,
sorridono alle telecamere a circuito chiuso, chiedono in giro se c'è qualcuno
che incideva dei segni. Niente, non riuscivano a trovare il citofono giusto! Per
fortuna avevano l'IPHONE, così hanno scaricato l'applicazione per ritrovarlo,
tanto, non lo sanno adoperare, l'IPHONE intendo. Nel
frattempo, s'era fatto notte, e han tirato fuori la torcia elettrica; ma loro,
furbi, mica l'accendevano, col rischio di farsi trovare. Insomma, era buio pesto
e non ci si vedeva niente, vallacapì se un segno significava una cosa o quella
opposta!
Dobbiamo stare qui ancora tanto???
Nooo. Le dico subito tutto, ma io non c'entro. Alla fine hanno suonato i
citofoni, svegliando tutto il palazzo, che li ha creduti dei testimoni di Geova
e ha mazzolato anche loro. Sono scappati, e trovano una porta aperta, proprio
dove eravamo passati noi la sera prima. Entrano e... l'appartamento è
completamente vuoto. La "concorrenza" aveva visto i segni prima di loro... A
questo punto, siete arrivati voi. Che vitaccia, signor commodoro!
Disclaimer - agg. 17/8/04 Potete
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