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Lo zingaro in testa
Di Fabrizio (del 17/07/2013 @ 09:04:15, in musica e parole, visitato 1829 volte)

Riprendo questo post su Globalist, probabilmente perché è esteticamente bello, ma anche lacerante. Almeno per me... che Lolli e Manfredi me li ricordo giovani, un po' come fratelli cresciuti, e li ho poi seguiti nel loro apparire e tornare, loro sì NOMADI, ma esistenziali. E quella canzone manifesto: HO VISTO ANCHE ZINGARI FELICI, tanto bella quanto bugiarda. Quando poi gli zingari li ho visti per davvero, erano disperati, e quasi mai liberi. Ma era bello credersi zingari, o forse era solo una moda.

di Gianfranco Manfredi*

Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l'amore
e rotolarsi per terra,
ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.

Mi rileggo il testo della canzone di Claudio e d'istinto mi viene da ricollegare la metafora degli "zingari felici" alle tante altre usate in quegli anni, metafore con cui la nostra generazione cercava di definirsi, il più delle volte in contrapposizione con quelle che ci venivano schiaffate addosso dalla stampa e nelle quali non potevamo riconoscerci.

Certo nemmeno riuscivamo più ad accontentarci del "Compagni dai campi e dalle officine" perché sinceramente i campi non ce li ricordavamo neppure e le officine, dio bono, per noi la Fabbrica mica erano le officine. Se si doveva cantare la Fabbrica allora era meglio citare Majakovskij:

"Sono anch'io una fabbrica. E se mi mancano le ciminiere, forse, senza di esse, ci vuole ancor più coraggio".

Le metafore che usavo io, nelle mie canzoni, "gli zombi", "gli ultimi mohicani", "i clandestini", parlavano sì, anch'esse in qualche modo, "di vendetta e di guerra".

Eppure per quegli strani, ma giustificabili luoghi comuni da cui neppure il Movimento poteva dirsi immune, Claudio e io, per quanto spesso accostati, indossavamo maschere diverse. Una malinconica (la sua) e una irridente (la mia). Ma era poi così? Con gli zombi non c'era da star troppo allegri, tanto meno con gli indiani delle riserve metropolitane, quanto alla clandestinità dell'animo, spesso più pesante di quella fisica, certo non consente troppa cordialità. Se ripenso alle mie esperienze di quegli anni, alle migliori, sono stato più uno "zingaro felice" che uno zombi indiano e clandestino, per fortuna.

La metafora di Claudio parlava di qualcosa che lui aveva visto, non nell'immaginazione, ma in piazza, traducendolo in versi così com'era.

Claudio parlava della felicità che avevamo conosciuto, che era quella "del far l'amore e rotolarsi per terra". C'è poco da immalinconirsi per questo, neppure pensando che "avec le temps, avec le temps va, tout s'en va". La felicità, proprio quella, che non si compra e non si vende a nessun prezzo, è molto più di una metafora e molto più di uno stato d'animo. La felicità è un'esperienza contagiosa, che si scambia al di là della merce. Una volta insediata, non ti abbandona. E il suo significato noi lo conosciamo bene, perché lo abbiamo sperimentato, proprio come il significato di questi altri versi di Majakowskij:

"Il comunismo non vive soltanto nella terra, nel sudore delle fabbriche. E' anche nelle case, a tavola, nei rapporti, nella famiglia, nel modo di vivere".

Io non ho dubbi sul fatto che il più majakowskiano dei cantori degli anni settanta sia stato Claudio Lolli con i suoi "zingari felici".

* tratto da "Da una finestra sbagliata. Gli zingari felici di Claudio Lolli" a cura di Gianluca Veltri, Luciano Vanni Editore, 2006