Riprendo questo post su
Globalist, probabilmente perché è esteticamente bello, ma anche lacerante. Almeno per
me... che Lolli e Manfredi me li ricordo giovani, un po' come fratelli
cresciuti, e li ho poi seguiti nel loro apparire e tornare, loro sì NOMADI, ma
esistenziali. E quella canzone manifesto: HO VISTO ANCHE ZINGARI FELICI, tanto
bella quanto bugiarda. Quando poi gli zingari li ho visti per davvero, erano
disperati, e quasi mai liberi. Ma era bello credersi zingari, o forse era solo
una moda.
di Gianfranco Manfredi*
Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l'amore
e rotolarsi per terra,
ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.
Mi rileggo il testo della canzone di Claudio e d'istinto mi viene da ricollegare
la metafora degli "zingari felici" alle tante altre usate in quegli anni,
metafore con cui la nostra generazione cercava di definirsi, il più delle volte
in contrapposizione con quelle che ci venivano schiaffate addosso dalla stampa e
nelle quali non potevamo riconoscerci.
Certo nemmeno riuscivamo più ad accontentarci del "Compagni dai campi e dalle
officine" perché sinceramente i campi non ce li ricordavamo neppure e le
officine, dio bono, per noi la Fabbrica mica erano le officine. Se si doveva
cantare la Fabbrica allora era meglio citare Majakovskij:
"Sono anch'io una fabbrica. E se mi mancano le ciminiere, forse, senza di esse,
ci vuole ancor più coraggio".
Le metafore che usavo io, nelle mie canzoni, "gli zombi", "gli ultimi mohicani",
"i clandestini", parlavano sì, anch'esse in qualche modo, "di vendetta e di
guerra".
Eppure per quegli strani, ma giustificabili luoghi comuni da cui neppure il
Movimento poteva dirsi immune, Claudio e io, per quanto spesso accostati,
indossavamo maschere diverse. Una malinconica (la sua) e una irridente (la mia).
Ma era poi così? Con gli zombi non c'era da star troppo allegri, tanto meno con
gli indiani delle riserve metropolitane, quanto alla clandestinità dell'animo,
spesso più pesante di quella fisica, certo non consente troppa cordialità. Se
ripenso alle mie esperienze di quegli anni, alle migliori, sono stato più uno
"zingaro felice" che uno zombi indiano e clandestino, per fortuna.
La metafora di Claudio parlava di qualcosa che lui aveva visto, non
nell'immaginazione, ma in piazza, traducendolo in versi così com'era.
Claudio parlava della felicità che avevamo conosciuto, che era quella "del far
l'amore e rotolarsi per terra". C'è poco da immalinconirsi per questo, neppure
pensando che "avec le temps, avec le temps va, tout s'en va". La felicità,
proprio quella, che non si compra e non si vende a nessun prezzo, è molto più di
una metafora e molto più di uno stato d'animo. La felicità è un'esperienza
contagiosa, che si scambia al di là della merce. Una volta insediata, non ti
abbandona. E il suo significato noi lo conosciamo bene, perché lo abbiamo
sperimentato, proprio come il significato di questi altri versi di Majakowskij:
"Il comunismo non vive soltanto nella terra, nel sudore delle fabbriche. E'
anche nelle case, a tavola, nei rapporti, nella famiglia, nel modo di vivere".
Io non ho dubbi sul fatto che il più majakowskiano dei cantori degli anni
settanta sia stato Claudio Lolli con i suoi "zingari felici".
* tratto da "Da una finestra sbagliata. Gli zingari felici di
Claudio Lolli" a cura di Gianluca Veltri, Luciano Vanni Editore, 2006