Rom e Sinti da tutto il mondo

Ma che ci fa quell'orologio?
L'ora si puo' vedere dovunque, persino sul desktop.
Semplice: non lo faccio per essere alla moda!

L'OROLOGERIA DI MILANO srl viale Monza 6 MILANO

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\\ Mahalla : Storico per mese (inverti l'ordine)
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Fabrizio (del 21/11/2013 @ 09:09:29, in musica e parole, visitato 1724 volte)

clicca sull'immagine per ulteriori informazioni

Dall'introduzione: E TU, QUANTI ZINGARI CONOSCI? Era lo slogan di una campagna dell'UNAR dell'anno scorso. Questo piccolo volume non parlerà della cultura rom, o delle origini della loro lingua, o delle persecuzioni che hanno subito... Parla del conoscersi.

I Rom e i Sinti sono in mezzo a noi, ovunque in Italia e in Europa, e quando viene loro concesso, lavorano tra noi, mandano a scuola i loro figli assieme ai nostri. Perché a Pessano deve essere diverso? Perché aspettarsi che possano migliorare, se si nega loro la possibilità di affrancarsi dalla miseria?

Ma questi fogli raccontano anche di una cultura, che magari non si trova nei testi di antropologia, che è vivere quotidiano, proprio in questo Nord-Est milanese. In parole povere: per una volta non si scrive di tutto ciò di cui avrebbero bisogno (anzi: avrebbero diritto), ma di quello che potrebbero insegnarci, anche da subito, se ne avessero la possibilità. Sempre per la solita ragione: sono in mezzo a noi tutti i giorni.

Testimonianze pratiche: sono sicuro che a tutti (anche a chi non sopporta gli zingari), interessa conoscere qualcosa su STAR BENE e MANGIARE. Scoprirete che anche un'anziana romnì può avere qualcosa da insegnarci.

QUESTA E' LA PRIMA RAGIONE. La seconda è che queste famiglie, che stiano accanto a noi (magari insegnandoci qualcosa) o che vadano via (ad insegnarlo altrove), potrebbero vivere in una roulotte, in una casa, sotto un ponte, in un campo... non cambierebbe niente nella loro cultura.

Ma, dovunque andranno o si fermeranno, dovranno trovare la possibilità e i mezzi per vivere. Il terzo punto, altrettanto interessante, è GUADAGNARE, tutti (voi con Maria e la sua famiglia): non vi chiediamo carità, ma rispetto e condivisione. Se una persona dovesse dipendere per sempre dal vostro buon cuore, rimarrà sempre qualcuno "ai margini" di cui sarà facile disfarsi. Se invece troverete interessante quello che ha scritto Maria, a voi costerà poco, ma per lei il ricavato della vendita di queste pagine sarà importante.

Per i soldi, certo, ma anche perché dopo tanto tempo ASSIEME si sarà cominciato a costruire una relazione.

A tutti i lettori, un sincero augurio di continuarla.

[...]

    L'autrice: Hajrija Seferovic (Maria) è nata da genitori Kalderasha nel 1938 a Tramnik, nell'ex Jugoslavia, prima di cinque figli. La famiglia si spostava spesso per guadagnarsi da vivere con la vendita di cavalli, e facendo pentole e piatti di rame che vendevano ai mercati. Maria si ricorda una gioventù bella, sotto le tende in una grande "kumpanja". Nei vari spostamenti il suo gruppo veniva spesso in Italia. All'inizio della guerra in Bosnia la famiglia è scappata con l'aiuto di organizzazioni umanitarie (ONU). Alcuni dei suoi familiari sono andati a vivere in Francia, altri in Germania e negli Stati Uniti, lei e la sua famiglia a Torino dove hanno vissuto per 10 anni, e da dove dopo sono stati sgomberati. Da allora hanno cercato di mettere radici a Napoli, in Sicilia, a Roma, e Bologna ma sono sempre stati sgomberati.
    All'inizio del 2000 si sono nuovamente spostati arrivando a Pessano con Bornago, ove hanno comperato un piccolo terreno agricolo con l'intento di fermarsi, per essere vicini al marito di Maria che era in cura a San Raffaele per una grave malattia, che lo ha portato alla morte.
    Maria allora decise di fermarsi a Pessano ma ciò non fu possibile a causa dei continui sgomberi. In questo momento Maria sta a Trezzo sull'Adda in una povera roulotte, dove continua a curare suo figlio cieco dalla nascita ed ha vicino la maggiore parte dei suoi numerosi figli.

Coordinamento editoriale:

  • Natalija Halilovic
  • Frances Oliver Catania
  • Fabrizio Casavola

Copertina:

  • Rebecca Covaciu

Dettagli:

  • Copyright A.S.D. La Comune, via Novara, 97 Milano (Licenza di copyright standard)
  • II edizione
  • Pubblicato il 20 novembre 2013
  • Lingua Italiano
  • Pagine 30
  • Formato del file PDF
  • Dimensioni del file12.86 MB
  • Prezzo 2,50 euro

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Di Fabrizio (del 22/11/2013 @ 09:05:55, in scuola, visitato 1421 volte)

di Cinzia Gubbini - Intervista a Luigi Guerra, direttore del Dipartimento di Scienze dell'Educazione dell'Università di Bologna su Cronache di Ordinario Razzismo

La scuola media Besta di Bologna, nel quartiere periferico di San Donato, ha smesso di turbare il dibattito pubblico. La decisione del preside della scuola e del Consiglio dei docenti di formare una prima classe "sperimentale", composta soltanto di alunni di origine straniera, ha dapprima suscitato qualche indignazione, per poi essere giudicata praticamente all'unanimità un atto coraggioso, necessario a risolvere una situazione complicata. Il dirigente scolastico Emilio Porcaro, infatti, dopo le prime notizie aveva tenuto a precisare che si trattava di un modo per permettere innanzitutto a questi ragazzi, arrivati in Italia a agosto a classi già formate, di frequentare la scuola - visto che altre scuole li avrebbero rifiutati - e di inserirli solo successivamente nelle classi "normali", una volta insegnato loro l'italiano. Eppure c'è chi, pur lodando il tentativo della scuola, sin dal primo momento non ha rinunciato a evidenziare gli aspetti dannosi di questo metodo. Tra questi c'è una voce autorevole: quella di Luigi Guerra, direttore del Dipartimento di Scienze dell'Educazione dell'Università di Bologna e professore di didattica e pedagogia speciale.

Professore, lei ha detto che il metodo della scuola Besta è "pedagogicamente sbagliato": cosa intende?
Vorrei premettere che stimo molto il dirigente e gli insegnanti di quella scuola. Penso che abbiano fatto tutto quel che era nelle loro possibilità, considerata la situazione difficile. Detto questo non è accettabile comporre una classe di soli migranti. Che siano tre, dieci, otto. E' un metodo inammissibile, perché è l'esatto contrario del concetto di inclusione. Qualsiasi insegnante di linguistica sa cosa succede in queste situazioni: gli individui tendono a rinchiudersi in aree di linguaggio omogenee. Potrebbe accadere che il tunisino parli con il marocchino in francese o il filippino con il peruviano in spagnolo, ma tendenzialmente accade esattamente quel che accade ai nostri figli quando li mandiamo a Londra con gli amici per imparare l'inglese: normalmente non imparano nulla, perché continuano a muoversi in un contesto in cui a prevalere è la lingua italiana. E' un discorso che ovviamente funziona anche quando in una classe ci sono quindici stranieri e otto italiani. La lingua si impara per immersione: e quando mi immergo c'è tanta acqua.

Eppure le motivazioni addotte dal preside sembrano molto ragionevoli: sono ragazzi che non sanno neanche una parola di italiano, vogliamo solo introdurli alla lingua e a questo sistema scolastico che non conoscono, poi verranno introdotti nelle altre classi. Insomma, è una classe ponte. Cosa c'è di sbagliato?
Ma non funziona così. La scelta più giusta, a mio avviso, doveva essere: ti metto in una classe normale poi, caso mai, per due ore al giorno mi dedico a te con un progetto speciale, un laboratorio linguistico funzionale all'apprendimento della lingua italiana. D'altronde questo dovrebbe essere il modo in cui si accolgono tutti i bambini con dei bisogni speciali in una scuola.

Al di là del "giusto modo" di accogliere una persona, c'entra anche l'apprendimento tra pari?
C'entra eccome, ed è stato dimostrato che l'insegnamento tra pari è uno dei principali e più efficaci veicoli di apprendimento linguistico. I bambini apprendono dagli altri bambini: imparano l'italiano litigandosi la merenda o chiedendo dov'è il bagno. Il lavoro dell'insegnante è certamente importante, ma ha soprattutto la funzione di purificazione e formalizzazione.

Lei dice che bisognerebbe accogliere in modo speciale bambini speciali, ma come si fa se non ci sono risorse sufficienti?
Beh certamente: se le risorse sono scarse ci tocca usare modelli approssimativi. L'importante, però, è non far coincidere il "meglio che potevano" con il modello pedagogicamente corretto. E' come quando due genitori che lavorano mi dicono: riesco a stare solo mezz'ora al giorno con i miei figli, va bene? Certo che non va bene, ma se non si può fare a meno di fare quel tipo di lavoro c'è solo da cercare di fare il meglio in quella mezz'ora.

La scarsità di risorse peraltro diventa spesso una "condanna" per le scuole migliori, più avanzate e "ricche" di esperienze. Il preside della scuola Besta ha raccontato di essersi trovato in "emergenza" proprio perché sulla sua scuola sono ricadute le domande di tutte le famiglie che sono riuscite a ricongiungersi con i loro figli solo in estate. Le altre scuole li avrebbero rifiutati...
Purtroppo accade spesso, troppo spesso. Conosco il caso di una scuola di 200 alunni in cui sono arrivati in tre anni 150 alunni migranti. Cosa è successo? Che quella scuola ha chiuso i battenti. Sono cose che non dovrebbero accadere, anche perché una programmazione è possibile. Ma, soprattutto, bisognerebbe avere una cultura di sistema, che parta dal territorio innanzitutto. Dovrebbe esistere una rete reale e capace di parlarsi e organizzarsi. Non esisterebbero emergenze.

Tra i soggetti che potrebbero fare rete e diffondere una cultura dell'interculturalità, però, ci sono anche le università. Cosa fate voi, come voce forte e competente?
Noi diventiamo matti pur di fare qualcosa: e prima di tutto formiamo insegnanti. Li formiamo come possiamo, in modo gratuito. Con gli insegnanti interessati e che per venire a seguire i nostri corsi devono scappare di scuola, perché difficilmente vengono incentivati gli spazi di formazione. Ma lo facciamo, anche noi, in emergenza: nel mio Dipartimento il prossimo anno chiudiamo due corsi di laurea e mandiamo a spasso 300 studenti che ci avevano investito. Questa è la realtà. Dunque è ovvio che per fare buona integrazione e promuovere l'interculturalità sarebbero necessarie altre premesse.

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Di Fabrizio (del 23/11/2013 @ 09:08:18, in musica e parole, visitato 1609 volte)

Il titolo significa poco... solo alcuni pensieri randagi. Da qualche giorno si sta ricordando il cinquantenario dell'assassinio di Kennedy. Ieri sera, una radio per ricordare quei tempi trasmetteva il brano che trovate in fondo. Ascoltavo quel pezzo, vecchio e stranoto, come se fosse la prima volta. Strade da percorrere all'infinito, una pace impossibile da trovare, morti, pianti e gente che non vuol vedere e non vuol sentire... Non soltanto una frontiera, un equilibrio da cercare, ma la storia, quasi didascalica, di quelle genti ospiti delle pagine di Mahalla. Senza essere un flamenco, senza essere balcanica, quella è una canzone rom.

Credo che Bob non se ne sia reso conto, aveva 21 anni nel 1963... Ma, se un gagio con radici ebraiche, è stato capace di fare un manifesto generazionale di quella ricerca e di quel vagare, significa che la "condizione esistenziale" dei Rom e dei Sinti è qualcosa che anche noi possiamo intendere e sentire sulla nostra pelle. Sentirli, ogni tanto, quasi fossero vicini, forse fratelli (no, forse sto esagerando), con cui dividere un inno.

E non alieni portatori di una cultura (ma cosa significa, cultura????) inconciliabile col nostro modo di vita.

How many roads must a man walk down
Before you call him a man?
Yes, 'n' how many seas must a white dove sail
Before she sleeps in the sand?
Yes, 'n' how many times must the cannon balls fly
Before they're forever banned?
The answer, my friend, is blowin' in the wind,
The answer is blowin' in the wind.

How many times must a man look up
Before he can see the sky?
Yes, 'n' how many ears must one man have
Before he can hear people cry?
Yes, 'n' how many deaths will it take till he knows
That too many people have died?
The answer, my friend, is blowin' in the wind,
The answer is blowin' in the wind.

How many years can a mountain exist
Before it's washed to the sea?
Yes, 'n' how many years can some people exist
Before they're allowed to be free?
Yes, 'n' how many times can a man turn his head,
Pretending he just doesn't see?
The answer, my friend, is blowin' in the wind,
The answer is blowin' in the
wind.

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Di Fabrizio (del 24/11/2013 @ 09:04:28, in sport, visitato 2383 volte)

di Andrea De Benedetti, 22 novembre 2013 su DONNEUROPA
Quattro ragazze italiane e quattro rom, unite da una maglia, partita dopo partita. Un'associazione che in campo porta solidarietà e integrazione. Insieme sono uno sport, il calcio, quando sa essere il più bello del mondo

C'è Sara, che pratica da anni ginnastica ritmica, ma non rinuncerebbe all'allenamento del giovedì per tutto l'oro del mondo. C'è Florina, che sa di essere bella e a volte fa un po' la leziosetta beccandosi gli implacabili cazziatoni del mister. Ci sono Lucrezia e Serena, che una volta alla settimana risalgono la corrente del traffico torinese da Sud a Nord per sudare e giocare con Adelina e Lavinia. Ci sono Alice e Arianna, che secondo Sara sono le più brave di tutte, o forse no, ma comunque sono quelle che tirano il gruppo. E c'è, anzi c'era, Ionela, che tirava certe legnate da far paura, ma adesso è andata ad abitare altrove e ha lasciato un vuoto grande così nel gruppo.

Insieme si chiamano New Team, e non c'è squadra, in Italia, che possa dirsi più nuova di questa. Quattro ragazze rom e quattro italiane unite dalla stessa maglia, un esperimento di integrazione sociale e convivenza con il pallone nel ruolo che meglio gli si confà: quello di mediatore culturale. Perché il pallone, là dove c'è da far dialogare mondi, la sua parte la fa sempre: non c'è link sociale più efficace di un assist, non c'è modello di scambio culturale più perfetto di una triangolazione ben riuscita.

Non che le otto ragazze abbiano ancora imparato a triangolare o a colpire la palla come dio comanda: "Dico la verità: per il momento sono un mezzo disastro", spiega Mister T, al secolo Timothy Donato, allenatore e presidente dell'associazione Nessuno Fuorigioco di cui la New Team è il progetto cardine: "è quasi un anno che cerco di insegnare loro a stoppare un pallone, e va già bene se adesso si ferma a sei metri. Però hanno entusiasmo da vendere e tantissima voglia di imparare e stare insieme: per noi è quello che conta".

Il progetto è nato quasi due anni fa con la squadra maschile dei pulcini. Tutti rom dei campi nomadi di Lungo Stura e di via Germagnano, a Torino, le zone rosse di una marginalità sociale che i media si ostinano a declinare con le parole spaventate di sempre: emergenza, allarme, problema. Timothy e gli altri (Marina, Emanuele, Enrico, Sara) su quell'"emergenza" e su quel "problema" hanno costruito un'opportunità di integrazione ed emancipazione. L'idea iniziale era quella di allestire anche per i maschi una squadra mista, ma trovare famiglie italiane disposte a lasciare i propri figli in compagnia di pericolosissimi zingari, ancorché minuscoli, è stato più complicato del previsto.

Paradossalmente è stato più facile mettere insieme la squadra delle ragazze, e anzi in quel caso le obiezioni principali non hanno avuto a che fare con il pregiudizio etnico ma con quello di genere: "Mia mamma all'inizio non voleva che giocassi a pallone", spiega Sara, l'unica delle quattro ragazze rom che vive in appartamento e non nel campo nomadi: "diceva che non è uno sport da bambine, che preferiva mi dedicassi a qualcos'altro: alla fine ha accettato, ma è stata dura".

Fatta la squadra, il problema adesso è quello di trovare altre società con cui organizzare un campionato femminile di calcio a 5 under 20 all'interno della sezione Uisp torinese: finora hanno aderito in tre, ma la speranza è di allargare il bacino di squadre per dare un senso all'enorme lavoro del mister e dell'esercito di volontari che lo accompagnano. Anche se poi il senso vero di questo progetto non consiste nel vincere i campionati, ma nel mettere in comunicazione due mondi molto meno distanti di quanto non appaia: "All'inizio c'era un po' di diffidenza - precisa ancora Sara - ma adesso andiamo d'accordissimo: ci troviamo su Facebook, usciamo insieme, parliamo delle nostre cose, siamo andate persino due giorni insieme a Venezia".

Amicizie autentiche, relazioni tra pari, normalità: il pallone rifugge la retorica e offre cose concrete. Tutt'altra cosa rispetto alla melassa buonista e velleitaria di altre esperienze analoghe fatte di sentimenti concessi in elemosina: "Il rischio era un po' questo -ammette Mister T - le ragazze italiane vengono tutte da esperienze con gli scout e avevo paura che fossero venute qui per fare la classica buona azione. Invece grazie a quest'esperienza hanno cambiato prospettiva rispetto all'idea del diverso. Ora il diverso non esiste più. Esistono le persone". Poco importa se quelle persone non sanno ancora stoppare un pallone. Prima o poi impareranno, forse.

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Di Fabrizio (del 25/11/2013 @ 09:00:57, in Italia, visitato 1902 volte)

di Ernesto Rossi

Sono passati pochi giorni dalla Giornata Mondiale dei Diritti dell'infanzia. Il Comune ha rischiato di ripetere l'impresa di Moioli-decorato: lei a celebrarla coi discorsi, lui con lo sgombero di Rubattino. Occasione persa. Ma lo sgombero rimane: in via Brunetti e Montefeltro si prepara quello di circa 1500 rom romeni, metà bambini, che si sono lasciati 'accumulare' ...anzi, vi si è contribuito con tutti gli altri sgomberi diffusi sul territorio milanese di piccoli gruppi che venivano ad aggiungersi qui, non avendo dove rifugiarsi. Così ora si procede, con un unico intervento spettacolare. Una ripulitura generale della città, perché si presenti al meglio in vista dell'EXPO 2015.

Ma dove andranno, visto che i posti in emergenza che sono stati predisposti (via Barzaghi, Lombroso, Novara) non sembrano superare le duecento unità? E perché, proprio adesso che arriva il gelo di 'Attila', mettere per la strada centinaia di persone senza riparo e di bambini?

È 'l'Europa che ce lo chiede'? Non pare. A Natale del 2011 venne a Palazzo Marino il Signor Schokkenbrok, inviato appositamente dal Consiglio d'Europa. Incontrò a porte chiuse il Sindaco e gli assessori Granelli e Majorino: neppure un comunicato stampa, per una visita così importante, ma la materia era ...delicata: si chiedeva al Comune di Milano di cessare gli sgomberi o comunque di adeguarli alle prescrizioni dell'UE: preavviso, assistenza, destinazione alternativa garantita.
Sono anni che si parla di prevenzione. Per la salute, ma vale anche nel sociale. Costa meno, evita sofferenze. Serve a tutelare i Diritti fondamentali delle persone. Boh.

Insomma, per tutte queste ragioni (!) lunedì mattina si sgombera. Manteniamo le tradizioni.

Sono nomadi? E noi li aiutiamo.

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USA
Di Fabrizio (del 26/11/2013 @ 09:04:11, in musica e parole, visitato 1629 volte)

Banda rock romanì da lezione di cultura a giovani rappers the BOLTON News 7:40am Wednesday 20th November 2013 in NW
KAL con il gruppo-laboratorio di Kamosi

GIOVANI rapper di talento hanno azzeccato ogni nota dopo aver condiviso la ribalta nella con alcune superstar reali.

I rocker romanì KAL questa settimana si sono uniti al gruppo Kamosi di Wigan sul palco del Leigh's Derby Rooms per un master class su musica, patrimonio e identità culturale.

La band di Belgrado ha portato con sé un importante messaggio sul riconoscere l'identità romanì e combattere i pregiudizi. Dragan Ristic, front-man di Kal, ha detto:

"Sono davvero impressionato dai giovani che abbiamo incontrato stasera. Vogliamo mostrare loro che possono esprimersi attraverso la musica. Può aiutare gli altri a capire cosa pensano e sentono... Vogliamo anche che continuino a celebrare la loro cultura. Sono venuti qui dall'Europa Orientale e si sono adattati ad un nuovo modo di vita, ma conservare il senso della loro identità per loro può essere un vantaggio. Abbiamo apprezzato molto lavorare con loro e il messaggio che abbiamo lasciato loro e di concentrarsi sulla loro istruzione e di lavorare duro. Così potranno davvero realizzare i loro sogni e fare quello che vogliono nella vita."

I menestrelli serbi mescolano i suoni rom balcanici con una stupefacente varietà di stili, tra cui tango, musica mediorientale, turca e occidentale.

Tano Udila, di 13 anni, della Westleigh High School, ha detto: "Per noi è un'opportunità fantastica di mostrare il nostro talento e parlare di chi siamo. Il rap che abbiamo composto è tutto sull'amore, perché sentiamo che è importante per tutti, di qualsiasi provenienza o cultura. La musica è un grande modo per far girare un messaggio e mi ha fatto anche comprendere il valore di un'idea sulla propria storia."

L'evento è stato organizzato da Wigan Council's Voice and Engagement Service, Community Arts Northwest (CAN) e da Manchester's-own World Music DJ collective Satellite State Disko (SSD).

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Di Sucar Drom (del 27/11/2013 @ 09:07:28, in blog, visitato 1771 volte)

Riparte la caccia alle streghe...
Il caso greco di Maria sta facendo il giro del Mondo, innescando com'era prevedibile una caccia alle streghe contro le famiglie, appartenenti alle minoranze linguistiche sinte e rom. Lo stereotipo di rapitori di bambini è vecchio di secoli ma viene...

Linea gialla, un programma xenofobo contro i rom
Ieri sera tantissimi italiani hanno visto il programma Linea Gialla su La7 che ha trattato il caso della bambina rom in Grecia. Abbiamo trovato l'impostazione di tutto il programma, diversi interventi da studio...

UNAR, dalle discriminazioni ai diritti
La Ministra per l'Integrazione, Cecile Kyenge, e la Viceministra al Lavoro e le Politiche Sociali con delega alle Pari Opportunità, Maria Cecilia Guerra, hanno presentato ieri a Roma, presso il Teatro Orione, Via Tortona 7, la nuova edizione del Dossier...

Babel Film Festival, la terza edizione
Dal 2 al 7 dicembre 2013 si svolgerà a Cagliari la terza edizione del festival cinematografico internazionale Babel Film Festival. E' il primo concorso internazionale al mondo destinato ai film parlati in lingue minorita...

Lanciano (CH), Alexian & International Friends

La meravigliosa vita di Jovica Jovic
Pubblicata da Feltrinelli la biografia del fisarmonicista rom, scritta da Rovelli e Ovadia. Un documento straordinario e utile. "Stai zitto che chiamo gli zingari". Oppure: "Sei vestita come una zingara". Oppure: "Sei sporco come uno zingaro". Alzi la mano chi non ha mai usato...

Slovacchia, nazista diventa governatore
L'estremista anti-rom Kotleba vince il ballottaggio in Banska Bystrica. Un nazionalista dell'estrema destra, noto per i suoi atteggiamenti antirom, è stato eletto nella giunta region...

Mantova, dalle discriminazioni ai diritti
Giovedì 28 novembre 2013 ore 15.30, presso l'Aula 1 della Fondazione Università di Mantova, in via Scarsellini 2, la Provincia di Mantova, il Centro di Educazione Interculturale della Provincia e l’Associazione Artico...

Milano, un altro sgombero di massa alla vigilia dell'inverno
Lunedì 25 novembre è stato sgomberato il "fortino" di via Montefeltro-Brunetti occupato da circa 700 rom rumeni, risultato della fallimentare chiusura del campo regolare di via Triboniano e degli ultimi sgomberi di questa amministrazione...

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Di Fabrizio (del 28/11/2013 @ 09:00:00, in Europa, visitato 2104 volte)

Sergio Bontempelli 25 novembre 2013 su Corriere delle migrazioni

Quella della "zingara rapitrice" è una falsa leggenda, ormai lo sanno (quasi) tutti. Ma pochi conoscono l'origine di questo mito, che risale all'età moderna e ha una lunga storia letteraria.

A volte i fatti di cronaca sono molto istruttivi. A volte, non sempre. Il 19 ottobre scorso, a Farsala in Grecia, i poliziotti trovano una bambina bionda in un insediamento rom. E siccome i rom - così pensano gli agenti - non possono essere biondi, la bambina sarà stata senz'altro rubata. Parte la caccia ai "veri" genitori, che vengono rintracciati nel giro di pochi giorni: si tratta di una coppia di rom bulgari, anche loro tutt'altro che biondi. La bambina non è stata rubata, ma ceduta dalla famiglia di origine, che non poteva mantenerla.
Due giorni dopo, la polizia irlandese ferma una coppia di rom a Dublino e trattiene la loro piccola figlia, anche lei "troppo bionda per essere zingara". Ma il caso si sgonfia subito: il test del Dna rivela che i due rom sono i genitori "naturali" della piccola.
Il 3 novembre, Il Messaggero riporta la notizia di una rom bulgara che avrebbe tentato di rapire un neonato a Roma. La presunta rapitrice verrebbe dai dintorni di Napoli, dal "campo nomadi di Striano". Bastano poche ore per capire che si tratta di una bufala: a seguito di una rapida verifica, l'Associazione 21 Luglio scopre che non esiste nessun "campo nomadi di Striano", mentre un articolo del giornale online Giornalettismo ridimensionava l'ipotesi del rapimento. La donna - che probabilmente non era rom - era in evidente stato confusionale, e la sua volontà di "sottrarre" il bambino è tutta da verificare.

I rom non rubano i bambini...
Tre episodi di rapimento, rivelatesi tre colossali bufale. Ancora una volta, la storia degli "zingari" che portano via i bambini si rivela per quello che è: una leggenda metropolitana.
Del resto, che i rom non rubino i neonati lo sanno tutti. O, almeno, tutte le persone serie e minimamente informate. Anche perché sul tema si è accumulata una corposa letteratura: dossier, reportage, rilevazioni statistiche, studi e ricerche sistematiche.
Ci sono per esempio i dati della Polizia di Stato sui minori scomparsi. In nessun caso si parla di bambini o adolescenti ritrovati presso famiglie rom o in "campi nomadi" (si veda qui, e per dati aggiornati al 2013 qui).
Poi ci sono inchieste giornalistiche ben fatte, reperibili anche in rete: come quella realizzata nel 2007 da Carmilla Online, dove si dimostrava che i numerosi episodi di presunto rapimento di minori erano delle bufale belle e buone. O come quella, più recente, di Elena Tebano per il Corriere, che arriva alle stesse conclusioni.
Infine, c'è la ricerca dell'antropologa fiorentina Sabrina Tosi Cambini, che ha analizzato tutti i casi di presunti rapimenti, seguendo sia le notizie diffuse dalla stampa che i verbali dei processi nelle aule di Tribunale. L'esito di questa meticolosa indagine è sempre il solito: nessuna donna rom ha mai rapito nessun bambino.

Le origini della leggenda: un mito letterario
Ma allora da dove nasce la bufala dei rom che portano via i bambini? Pochi sanno che si tratta di una storia vecchia di qualche secolo, e che può vantare un'origine "colta", addirittura letteraria: i primi a parlare di "zingare rapitrici" sono stati infatti i commediografi italiani e spagnoli del Cinque-Seicento. Nell'arco di qualche decennio, la trama delle loro opere è diventata leggenda di senso comune: la finzione, potremmo dire, si è fatta realtà (o, per meglio dire, il racconto è divenuto cronaca e falsa notizia). Ma andiamo con ordine.
Tutto comincia nel 1544 a Venezia. Il luogo non è casuale, perché proprio in quegli anni la Serenissima avvia una dura politica di espulsioni, bandi e atti repressivi contro gli "zingari". Mentre la gloriosa Repubblica si industria ad allontanare i rom, i veneziani frequentano il teatro, luogo di svago e di vita mondana: e come in un gioco di specchi, gli "zingari" cacciati dalla città fanno capolino sul palco.
Nel 1544 viene messa in scena La Zingana, una commedia di un certo Gigio Artemio Giancarli. Qui si racconta di una giovane rom che sottrae dalla culla un bambino, sostituendolo col proprio figlio: per quanto se ne sa, si tratta della prima traccia del mito della "zingara rapitrice". Il successo della commedia oltrepassa i confini della Repubblica: nel giro di pochi anni un drammaturgo spagnolo, Lope de Rueda, scrive la Medora, che è nient'altro che una traduzione e un adattamento della Zingana di Giancarli. E attraverso Lope de Rueda, la leggenda della "zingara rapitrice" arriva a Cervantes (l'autore del Don Chisciotte), che ne fa l'oggetto di una delle sue "Novelle esemplari", La Gitanilla.

Da opera letteraria a leggenda metropolitana
Insomma, la storia della "zingara rapitrice" nasce come trama di commedie, novelle e opere teatrali. Poi, nel giro di pochi decenni, oltrepassa l'ambito letterario: a Milano, agli inizi del Seicento, Federico Borromeo accusa i "cingari" di rapire i bambini cristiani, mentre in Spagna Juan de Quiñones, nel 1631, formula un'accusa simile in un virulento pamphlet che invoca l'espulsione dei "gitani". I giochi sono fatti: la trama romanzesca si è trasformata in accusa reale, leggenda metropolitana e falsa notizia.
A cosa si deve questa metamorfosi? Sul punto, le ricerche storiche sono ancora agli inizi, e risposte sicure non esistono. Si possono però formulare alcune ipotesi. E, come punto di partenza, occorre ricordare che i rom non erano gli unici destinatari di questa infamante accusa: altri gruppi sociali, altre minoranze erano sospettate - negli stessi anni - di "rubare i bambini".
C'erano per esempio gli ebrei, già allora discriminati e vittime di persecuzioni (perché l'antisemitismo, è bene ricordarlo, non nasce nel Novecento). Dei "giudei" si diceva sin dal medioevo che rapivano i piccoli cristiani per cibarsi del loro sangue a scopo rituale. Ovviamente non era vero, ma intere comunità ebraiche furono vittime di aggressioni, stragi, processi o condanne a morte.
Poi c'erano i vagabondi e i mendicanti, accusati spesso di rapire i bambini per portarli a chiedere l'elemosina. Piero Camporesi, storico e antropologo, racconta ad esempio la vicenda del "ritrovamento fortunoso da parte di una madre della figlia, rapitale due anni prima, mentre chiedeva l'elemosina in compagnia del suo rapitore davanti alle porte del santuario di Assisi; non solo rapita, ma resa ad arte macilenta e ulcerata sulle spalle per impietosire i fedeli".
Infine, il fenomeno dei rapimenti era diffuso nella pirateria barbaresca: corsari, avventurieri e pirati musulmani solcavano il Mediterraneo, e per guadagnare qualche soldo rapivano uomini, donne e bambini, chiedendo poi un riscatto per la loro liberazione.

Zingari, ebrei, mori, vagabondi
Ebrei, "mori" e vagabondi erano insomma protagonisti di episodi - veri, o più spesso presunti - di sottrazione di minori. Naturalmente, per capire quanto queste figure abbiano influito sull'immagine dei rom occorrerebbe compiere ricerche specifiche. Ma alcuni indizi ci segnalano che, nell'immaginario della prima età moderna, questi gruppi erano spesso confusi, o almeno accostati per similitudine.
La "zingana" della commedia del Giancarli, per esempio, parla un dialetto arabo: all'epoca si pensava che i rom fossero "egiziani", cioè arabi, mentre la teoria dell'origine indiana si diffuse solo qualche secolo dopo. Lutero, dal canto suo, affermava che il "gergo" dei mendicanti (una specie di lingua segreta diffusa nei "bassifondi" della società) aveva origini ebraiche. Dei vagabondi si diceva che erano discendenti di Caino - e per questo condannati a vagare - mentre per gli "zingari" si ipotizzava una provenienza dalla figura biblica di Cam: ma nei testi dell'epoca Cam e Caino erano spesso confusi, e i rom erano trattati come semplici vagabondi.
Insomma, è come se il mito della "zingara rapitrice" fosse nato per una sorta di "osmosi" con analoghe leggende già diffuse a proposito di altri gruppi. Per dirla in altri termini, è come se lo stereotipo degli "zingari" avesse condensato, e mescolato, le caratteristiche proprie dei "marginali": erranti come gli ebrei e i vagabondi, estranei e nemici come i "mori" musulmani.

Quando gli zingari eravamo noi
Nato in età moderna, il mito dei rom rapitori di bambini ha dimostrato una sorprendente longevità: ha attraversato i secoli, arrivando pressoché intatto fino ai nostri giorni. I titoli allarmistici dei giornali delle ultime settimane, i resoconti dei fatti di Farsala e di Dublino, sembrano riecheggiare le inquietudini dei commediografi veneziani del Cinquecento.
È difficile comprendere le ragioni di questa "longevità". Certo è che il tema del "rapimento di bambini" è assai diffuso nel tempo e nello spazio: molti gruppi minoritari, molte comunità marginali e discriminate hanno prima o poi dovuto difendersi da questa infamante accusa, o da altre simili.
È capitato anche ai migranti italiani, nei decenni centrali dell'Ottocento. Dai villaggi rurali del Sud e dalle regioni appenniniche del centro-nord, intere famiglie contadine praticavano all'epoca forme di mobilità stagionale, legate ai mestieri girovaghi di musicante e suonatore. Nel XIX secolo, l'arpa dei "viggianesi" (Viggiano è un paese della Basilicata) e l'organetto dei liguri avevano risuonato nelle strade delle città europee, richiamando l'attenzione dei passanti su queste strane figure di musicisti straccioni.
I bambini che suonavano l'organetto in mezzo alla strada, si diceva, erano stati "venduti" dalle famiglie di origine a trafficanti senza scrupoli. Non erano proprio bambini rapiti, ma quasi: perché i loro genitori, poverissimi, erano spesso costretti a venderli per racimolare qualche soldo. "Il costume di mendicare di città in città col mezzo di fanciulli", scriveva la Società Italiana di Beneficenza di Parigi nel 1868, "ha dato origine ad un traffico che si pratica sotto gli occhi e colla tolleranza delle autorità": una frase che riecheggia i peggiori stereotipi sugli "zingari".
Traffico di bambini, mendicità aggressiva, offesa al decoro, furti e criminalità di strada furono i principali capi d'accusa contestati agli emigranti. E, come i rom di oggi, gli italiani di ieri subirono processi, espulsioni, condanne. Subirono, soprattutto, una degradazione della loro immagine pubblica: chi incontrava un italiano metteva mano al portafogli, per paura di subire dei furti. E nascondeva il proprio bambino.

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Di Fabrizio (del 29/11/2013 @ 09:09:43, in Italia, visitato 2122 volte)

Spett. ex vicesindaco di Milano per una vita, per una volta i ladri non sono quelli che tutti immaginano. Quella che segue non è una storia facile.

Ci eravamo lasciati un paio di anni fa, con 500 sgomberi e passa sul gobbo. Cioè, sempre le stesse persone che venivano sgomberate e continuavano a girare lì attorno.

Era un gioco a rimpiattino, tu, polizia municipale e le ruspe da una parte, 2/300 rom con i carrelli della spesa dall'altra parte. E noi, buonisti nostro malgrado, a ripeterti: "Guarda che questi pezzenti conoscono il gioco meglio di te, non li caccerai mai!" Lo avessimo detto a un pirla qualunque, magari ci avrebbe dato retta, ma tu eri "l'eterno vicesindaco" (lei non sa chi sono me, signor cittadino) e te ne facesti un punto d'onore: continuasti anche quando era chiaro a tutti (anche a te, non negarlo) che non avresti tirato un ragno fuori dal buco. Perché:

  1. alternative non eri capace di trovarle da solo;
  2. pensavi che, in quanto vicesindaco e pure di destra, tu dovessi aver ragione "a prescindere", anche al di là dei fatti.

E' finita che le elezioni le hai perse tu, mica noi. E poi, dopo due anni, le stiamo perdendo anche noi, buonisti nostro malgrado.

    (E qua le cose si complicano: perché tra persone civili è sempre un casino stabilire chi perda le elezioni e perché. Occorre tornare a quella fine maggio del 2011)

MAGGIO 2011: Certo, il vento arancione, la sconfitta della destra, gli scandali (ricordate la casa di Batman?) grandi e piccoli... Sul fronte degli sgomberi, la gente (quella che vota) dopo anni di "cattivismo", aveva votato contro l'allora maggioranza perché da un lato s'era resa conto di quanti soldi andassero spesi in continui sgomberi senza risultati, in secondo luogo perché cominciava a intuire che, in fin dei conti, anche gli sgomberati fossero persone, bambini, anziani, malati... come tutti, e con gli stessi diritti di tante altre persone. Anche criminali? C'erano anche quelli, ma a furia di essere trattati tutti come CRIMINALI, a furia di essere trattati come pacchi postali, non c'erano altre prospettive che diventarlo.

Noi, buonisti nostro malgrado, ripartimmo da lì. Mi ricordo quello che ci raccontava una delle "madri e maestre di Rubattino":

    "Non facemmo niente di speciale, se non quello che ritenevano giusto. A volte eravamo da sole, più spesso c'era gente sconosciuta che ci chiamava, ci offriva aiuto e solidarietà. Perché quello che accadeva ai compagni di scuola dei nostri figli e dei nostri alunni era qualcosa che ci faceva vergognare come cittadine. Fu un momento di uscita da un ghetto mentale in cui si era noi da una parte e i rom dall'altra. Ci fu chi fece cose simili in passato, questa volta fummo in tanti, senza essere un movimento, senza altra identità che quella di cittadini e cittadine di Milano."

Nel frattempo, cosa combinava la macchina comunale, quelle stesse persone con cui si era affrontato la campagna elettorale spalla a spalla? Sgomberi ce ne sono stati ancora (in tutto questo tempo) ma si è trattato di una specie di "terapia a scalare": quello che prima veniva sbandierato ora avveniva col maggior silenzio possibile; di sicuro non sono stati 500, le famiglie non corrono più il rischio di essere divise, la polizia fa meno mostra di testosterone... a cinque mesi dall'insediamento della nuova giunta mantenevo tutta una serie di dubbi e insoddisfazioni. Dopo oltre due anni momenti critici continuano.

    (Il discorso va complicandosi ancora, abbiate pazienza)

Andando per punti:

  • Restando alla faccenda "sgomberi": non sono un tabù, ci sono dei casi in cui vanno effettuati. Ricordava Ernesto Rossi nel suo recente intervento che devono essere una misura da prendere quando non ci sono alternative, e quindi dev'esserci un adeguato preavviso, assistenza, una destinazione alternativa garantita. Non si tratta soltanto di trattati internazionali che l'Italia ha sottoscritto (e che ci indignano se è uno stato estero a non rispettarli), ma il nodo POLITICO è la gestione: lo sgombero deve presupporre determinate garanzie date da una trattativa con i soggetti coinvolti, altrimenti è solo una misura discrezionale del governante, buono o cattivo che sia.
  • Quindi le politiche, anche quelle repressive, devono presupporre interlocuzione: con i cittadini, con le loro associazioni, con i rom stessi. Questo è mancato assolutamente con l'amministrazione passata, con quella attuale, dopo un primo periodo di incomprensioni reciproche, il dialogo è stato una costante doccia scozzese. Da un lato si è certamente allargato il ventaglio dei soggetti coinvolti, dall'altro cittadini, associazioni, rom sono stati cooptati in singoli momenti periodici, escludendoli poi al momento delle decisioni e delle scelte. Certe volte il dialogo è avvenuto solo con circoli ristretti, rischiando di rompere le forme associative comuni che si erano formate. A parte questo, la costante dell'approccio alle richieste della "società civile" (se vogliamo usare un termine di moda) è stato di una sequela infinita di promesse, quasi mai mantenute. Rileggevo una sobria lettera inviata dalla comunità rom di via Idro (sì, proprio quella che impazza nelle cronache attuali) a giugno 2011: non una delle loro richieste è stata, non dico risolta, ma iniziata ad affrontare. Non c'è da stupirsi se ad un certo punto la situazione è precipitata O era quello per cui qualcuno lavorava in segreto già da allora?
  • Si è partiti, quindi, con speranze e promesse, già cassate a luglio 2011 dal famigerato "Patto di stabilità". Non ci sono soldi, ci è stato ripetuto in tutte le salse e anche un bambino lo capisce che senza palanche le promesse rimangono sogni. Però, ridurre le scelte e la progettualità ad una questione di FONDI DISPONIBILI è stato per questa maggioranza un lampante ERRORE POLITICO: da un lato perché il messaggio che ne deriva è che senza soldi non si possono fare scelte, e che siamo tutti MENDICANTI alla mercé del benefattore di turno (insomma, la solita politica classista); dall'altro perché esisteva (e forse esiste ancora) un capitale politico UMANO (lo stesso che ha deciso l'esito delle precedenti elezioni comunali) che poteva essere speso. Da questa impostazione politica comunale derivano alcune scelte: ad esempio sin dall'inizio  si erano ventilati colloqui tra comune e famiglie residenti nei campi comunali; per quanto fosse un'operazione a costo quasi zero, non sono ancora stati avviati; l'anno scorso è pure stata messa la cifra (spropositata, secondo la mia opinione) a bilancio nell'iper pubblicizzato PIANO COMUNALE, ebbene, tutto è ancora fermo.
  • Ma quando i soldi c'erano, che fine hanno fatto? De Corato ha potuto finanziare parte dei suoi infiniti sgomberi (ma la questione di dove provenissero i fondi è ancora misteriosa), dai 29 milioni circa del piano Maroni. L'altro grosso intervento fu la chiusura del campo comunale Triboniano-Barzaghi, con la campagna elettorale ormai in pieno svolgimento.
  • Alcuni degli sgomberati dei campi Brunetti e Montefeltro sono dei profughi di quell'altro sgombero di oltre due anni fa, tanto per dare una misura dell'efficacia di allora. Altra maggioranza, e il problema si ripropone. Differenti i toni: tutto tranquillo, le operazioni si sono svolte senza problemi, in 254 hanno accettato l'ospitalità offerta dal comune.
  • Certo, tutto tranquillo, SINORA. Ci sono 300 persone a spasso nella zona, in cerca di un posto dove rifugiarsi; viene da chiedersi:
  1. cosa è cambiato rispetto a due anni fa?
  2. così la situazione è destinata a rimanere tranquilla?
  • Il punto dell'ospitalità è interessante. Perché sembra che la capacità di ospitare da parte del comune non superasse le 200 presenze (su 600 sgomberati circa). Stabilito che comunque qualcuno si sarebbe "nascosto" per tempo, forse il comune offriva un'ospitalità inesistente.
  • Ma torniamo a parlare di soldi. Se De Corato (forse) finanziava i suoi sgomberi coi fondi del piano Maroni, quando il piano è stato bloccato, non solo sono terminati tutti gli interventi di sostegno alla comunità (compresi quelli dell'ordinaria manutenzione dei campi comunali, e non si capisce il perché) ma, anche volendo, non c'erano più soldi per sgomberare, dato che anche sgomberare ha un costo. Sbloccati nuovamente i fondi (ne restavano circa 5 milioni) ben 2 milioni vengono investiti nel centro do emergenza (emergenza? A De Corato sono fischiate le orecchie!) di via Lombroso, contro i 260.000 destinati a scuola e lavoro. La declinazione di EMERGENZA non si applicava ai nomadi: ma alla solita compagnia di imprese, cooperative, professionisti della gestione dei campi, che da tempo non vedevano più un soldo.
  • C'è un nuovo soggetto che da un po' di tempo sta facendo sentire il suo fiato, si chiama EXPO. A volte in maniera inquietante, altre volte in maniera più civile. Cioè, da 10 anni sento parlare di "superamento dei campi", senza vedere atti concreti corrispondenti. Là dove sinora non era arrivata la politica, stanno riuscendo gli appetiti suscitati da questo EXPO. Capita l'antifona, va ripetendolo anche il comune: i campi (comunali o no) s'hanno da chiudere, ed è stato trovato il sistema più semplice: basta non intervenire di fronte a qualsiasi urgenza, umana o strutturale che sia. Nel frattempo, come nel caso di via Lombroso, se ne stanno costruendo di nuovi, per la gioia degli amici di sempre, che offrano ospitalità a termine (mascherata da integrazione) e gestiti in maniera privatistica, come certe carceri USA.

Insomma, niente di facile e di promettente. Sembra che l'amministrazione attuale abbia scelto per "la riduzione del danno": politiche forse più UMANE di quelle precedenti (forse più ipocrite), che però non ne mettano in discussione le logiche e gli interessi.

Può essere, che qualche lettore particolarmente sveglio, noti qualche somiglianza tra l'approccio municipale alle questioni rom e quello ad altri punti problematici della città. Qualcuno, forse ragionerà sulla similitudini tra queste politiche, e la situazione nazionale dove, che si vota per la destra o la sinistra, ti servono sempre la stessa minestra. Non lo so ; - ) in Mahalla si ragiona di rom e di sinti, ma... si è anche ripetuto molte volte che come si affrontano queste problematiche è uno specchio di come veniamo trattati noi cittadini di serie A.

    PS: e le prossime elezioni? De Corato ed eredi hanno fatto poco o niente per meritarlo, ma secondo me non ci sarebbe niente di strano se la prossima volta a vincere fosse la sua banda.
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Di Fabrizio (del 30/11/2013 @ 09:08:11, in lavoro, visitato 1595 volte)

I Rom a Geyve vivono di mele cotogne da MEDIAROMA

I Rom di Geyve (regione di Marmara), nonostante ogni tipo di pregiudizio e calunnie rivolte loro, usano la loro creatività per rendere la loro vita simile a quella dei fratelli e sorelle di altre parti della Turchia. Le famiglie a Geyve inviano le mele cotogne difettose coltivate nelle locali aziende agricole a compagnie di esportazione di marmellate e succhi di frutta.

I prezzi delle cotogne a Geyve sono bassi, a causa dell'abbondante raccolto. Perciò i produttori non devono aggiungere quelle difettose alla loro lista di vendita. Queste ultime sono ben sfruttate dai Rom, che le dividono dalle altre. Il tasso di disoccupazione tra i Rom di Geyve è superiore alla media nazionale del gruppo. Quindi questi Rom cercano di sfruttare ogni occasione per sopravvivere alle circostanze, facendo delle cotogne un modo di vita, almeno per ora.

Source: Geyveyoresi.com

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