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"La lingua si impara per immersione: e quando mi immergo c'e' tanta acqua"
Di Fabrizio (del 22/11/2013 @ 09:05:55, in scuola, visitato 1418 volte)

di Cinzia Gubbini - Intervista a Luigi Guerra, direttore del Dipartimento di Scienze dell'Educazione dell'Università di Bologna su Cronache di Ordinario Razzismo

La scuola media Besta di Bologna, nel quartiere periferico di San Donato, ha smesso di turbare il dibattito pubblico. La decisione del preside della scuola e del Consiglio dei docenti di formare una prima classe "sperimentale", composta soltanto di alunni di origine straniera, ha dapprima suscitato qualche indignazione, per poi essere giudicata praticamente all'unanimità un atto coraggioso, necessario a risolvere una situazione complicata. Il dirigente scolastico Emilio Porcaro, infatti, dopo le prime notizie aveva tenuto a precisare che si trattava di un modo per permettere innanzitutto a questi ragazzi, arrivati in Italia a agosto a classi già formate, di frequentare la scuola - visto che altre scuole li avrebbero rifiutati - e di inserirli solo successivamente nelle classi "normali", una volta insegnato loro l'italiano. Eppure c'è chi, pur lodando il tentativo della scuola, sin dal primo momento non ha rinunciato a evidenziare gli aspetti dannosi di questo metodo. Tra questi c'è una voce autorevole: quella di Luigi Guerra, direttore del Dipartimento di Scienze dell'Educazione dell'Università di Bologna e professore di didattica e pedagogia speciale.

Professore, lei ha detto che il metodo della scuola Besta è "pedagogicamente sbagliato": cosa intende?
Vorrei premettere che stimo molto il dirigente e gli insegnanti di quella scuola. Penso che abbiano fatto tutto quel che era nelle loro possibilità, considerata la situazione difficile. Detto questo non è accettabile comporre una classe di soli migranti. Che siano tre, dieci, otto. E' un metodo inammissibile, perché è l'esatto contrario del concetto di inclusione. Qualsiasi insegnante di linguistica sa cosa succede in queste situazioni: gli individui tendono a rinchiudersi in aree di linguaggio omogenee. Potrebbe accadere che il tunisino parli con il marocchino in francese o il filippino con il peruviano in spagnolo, ma tendenzialmente accade esattamente quel che accade ai nostri figli quando li mandiamo a Londra con gli amici per imparare l'inglese: normalmente non imparano nulla, perché continuano a muoversi in un contesto in cui a prevalere è la lingua italiana. E' un discorso che ovviamente funziona anche quando in una classe ci sono quindici stranieri e otto italiani. La lingua si impara per immersione: e quando mi immergo c'è tanta acqua.

Eppure le motivazioni addotte dal preside sembrano molto ragionevoli: sono ragazzi che non sanno neanche una parola di italiano, vogliamo solo introdurli alla lingua e a questo sistema scolastico che non conoscono, poi verranno introdotti nelle altre classi. Insomma, è una classe ponte. Cosa c'è di sbagliato?
Ma non funziona così. La scelta più giusta, a mio avviso, doveva essere: ti metto in una classe normale poi, caso mai, per due ore al giorno mi dedico a te con un progetto speciale, un laboratorio linguistico funzionale all'apprendimento della lingua italiana. D'altronde questo dovrebbe essere il modo in cui si accolgono tutti i bambini con dei bisogni speciali in una scuola.

Al di là del "giusto modo" di accogliere una persona, c'entra anche l'apprendimento tra pari?
C'entra eccome, ed è stato dimostrato che l'insegnamento tra pari è uno dei principali e più efficaci veicoli di apprendimento linguistico. I bambini apprendono dagli altri bambini: imparano l'italiano litigandosi la merenda o chiedendo dov'è il bagno. Il lavoro dell'insegnante è certamente importante, ma ha soprattutto la funzione di purificazione e formalizzazione.

Lei dice che bisognerebbe accogliere in modo speciale bambini speciali, ma come si fa se non ci sono risorse sufficienti?
Beh certamente: se le risorse sono scarse ci tocca usare modelli approssimativi. L'importante, però, è non far coincidere il "meglio che potevano" con il modello pedagogicamente corretto. E' come quando due genitori che lavorano mi dicono: riesco a stare solo mezz'ora al giorno con i miei figli, va bene? Certo che non va bene, ma se non si può fare a meno di fare quel tipo di lavoro c'è solo da cercare di fare il meglio in quella mezz'ora.

La scarsità di risorse peraltro diventa spesso una "condanna" per le scuole migliori, più avanzate e "ricche" di esperienze. Il preside della scuola Besta ha raccontato di essersi trovato in "emergenza" proprio perché sulla sua scuola sono ricadute le domande di tutte le famiglie che sono riuscite a ricongiungersi con i loro figli solo in estate. Le altre scuole li avrebbero rifiutati...
Purtroppo accade spesso, troppo spesso. Conosco il caso di una scuola di 200 alunni in cui sono arrivati in tre anni 150 alunni migranti. Cosa è successo? Che quella scuola ha chiuso i battenti. Sono cose che non dovrebbero accadere, anche perché una programmazione è possibile. Ma, soprattutto, bisognerebbe avere una cultura di sistema, che parta dal territorio innanzitutto. Dovrebbe esistere una rete reale e capace di parlarsi e organizzarsi. Non esisterebbero emergenze.

Tra i soggetti che potrebbero fare rete e diffondere una cultura dell'interculturalità, però, ci sono anche le università. Cosa fate voi, come voce forte e competente?
Noi diventiamo matti pur di fare qualcosa: e prima di tutto formiamo insegnanti. Li formiamo come possiamo, in modo gratuito. Con gli insegnanti interessati e che per venire a seguire i nostri corsi devono scappare di scuola, perché difficilmente vengono incentivati gli spazi di formazione. Ma lo facciamo, anche noi, in emergenza: nel mio Dipartimento il prossimo anno chiudiamo due corsi di laurea e mandiamo a spasso 300 studenti che ci avevano investito. Questa è la realtà. Dunque è ovvio che per fare buona integrazione e promuovere l'interculturalità sarebbero necessarie altre premesse.