di Cinzia Gubbini - Intervista a Luigi Guerra, direttore del Dipartimento
di Scienze dell'Educazione dell'Università di Bologna su
Cronache di Ordinario Razzismo
La scuola media Besta di Bologna, nel quartiere periferico di San Donato, ha
smesso di turbare il dibattito pubblico. La decisione del preside della scuola e
del Consiglio dei docenti di formare una prima classe "sperimentale", composta
soltanto di alunni di origine straniera, ha dapprima suscitato qualche
indignazione, per poi essere giudicata praticamente all'unanimità un atto
coraggioso, necessario a risolvere una situazione complicata. Il dirigente
scolastico Emilio Porcaro, infatti, dopo le prime notizie aveva tenuto a
precisare che si trattava di un modo per permettere innanzitutto a questi
ragazzi, arrivati in Italia a agosto a classi già formate, di frequentare la
scuola - visto che altre scuole li avrebbero rifiutati - e di inserirli solo
successivamente nelle classi "normali", una volta insegnato loro l'italiano.
Eppure c'è chi, pur lodando il tentativo della scuola, sin dal primo momento non
ha rinunciato a evidenziare gli aspetti dannosi di questo metodo. Tra questi c'è
una voce autorevole: quella di Luigi Guerra, direttore del Dipartimento di
Scienze dell'Educazione dell'Università di Bologna e professore di didattica e
pedagogia speciale.
Professore, lei ha detto che il metodo della scuola Besta è "pedagogicamente
sbagliato": cosa intende?
Vorrei premettere che stimo molto il dirigente e gli insegnanti di quella
scuola. Penso che abbiano fatto tutto quel che era nelle loro possibilità,
considerata la situazione difficile. Detto questo non è accettabile comporre una
classe di soli migranti. Che siano tre, dieci, otto. E' un metodo inammissibile,
perché è l'esatto contrario del concetto di inclusione. Qualsiasi insegnante di
linguistica sa cosa succede in queste situazioni: gli individui tendono a
rinchiudersi in aree di linguaggio omogenee. Potrebbe accadere che il tunisino
parli con il marocchino in francese o il filippino con il peruviano in spagnolo,
ma tendenzialmente accade esattamente quel che accade ai nostri figli quando li
mandiamo a Londra con gli amici per imparare l'inglese: normalmente non imparano
nulla, perché continuano a muoversi in un contesto in cui a prevalere è la
lingua italiana. E' un discorso che ovviamente funziona anche quando in una
classe ci sono quindici stranieri e otto italiani. La lingua si impara per
immersione: e quando mi immergo c'è tanta acqua.
Eppure le motivazioni addotte dal preside sembrano molto ragionevoli: sono
ragazzi che non sanno neanche una parola di italiano, vogliamo solo introdurli
alla lingua e a questo sistema scolastico che non conoscono, poi verranno
introdotti nelle altre classi. Insomma, è una classe ponte. Cosa c'è di
sbagliato?
Ma non funziona così. La scelta più giusta, a mio avviso, doveva essere: ti
metto in una classe normale poi, caso mai, per due ore al giorno mi dedico a te
con un progetto speciale, un laboratorio linguistico funzionale
all'apprendimento della lingua italiana. D'altronde questo dovrebbe essere il
modo in cui si accolgono tutti i bambini con dei bisogni speciali in una scuola.
Al di là del "giusto modo" di accogliere una persona, c'entra anche
l'apprendimento tra pari?
C'entra eccome, ed è stato dimostrato che l'insegnamento tra pari è uno dei
principali e più efficaci veicoli di apprendimento linguistico. I bambini
apprendono dagli altri bambini: imparano l'italiano litigandosi la merenda o
chiedendo dov'è il bagno. Il lavoro dell'insegnante è certamente importante, ma
ha soprattutto la funzione di purificazione e formalizzazione.
Lei dice che bisognerebbe accogliere in modo speciale bambini speciali, ma come
si fa se non ci sono risorse sufficienti?
Beh certamente: se le risorse sono scarse ci tocca usare modelli approssimativi.
L'importante, però, è non far coincidere il "meglio che potevano" con il modello
pedagogicamente corretto. E' come quando due genitori che lavorano mi dicono:
riesco a stare solo mezz'ora al giorno con i miei figli, va bene? Certo che non
va bene, ma se non si può fare a meno di fare quel tipo di lavoro c'è solo da
cercare di fare il meglio in quella mezz'ora.
La scarsità di risorse peraltro diventa spesso una "condanna" per le scuole
migliori, più avanzate e "ricche" di esperienze. Il preside della scuola Besta
ha raccontato di essersi trovato in "emergenza" proprio perché sulla sua scuola
sono ricadute le domande di tutte le famiglie che sono riuscite a ricongiungersi
con i loro figli solo in estate. Le altre scuole li avrebbero rifiutati...
Purtroppo accade spesso, troppo spesso. Conosco il caso di una scuola di 200
alunni in cui sono arrivati in tre anni 150 alunni migranti. Cosa è successo?
Che quella scuola ha chiuso i battenti. Sono cose che non dovrebbero accadere,
anche perché una programmazione è possibile. Ma, soprattutto, bisognerebbe avere
una cultura di sistema, che parta dal territorio innanzitutto. Dovrebbe esistere
una rete reale e capace di parlarsi e organizzarsi. Non esisterebbero emergenze.
Tra i soggetti che potrebbero fare rete e diffondere una cultura
dell'interculturalità, però, ci sono anche le università. Cosa fate voi, come
voce forte e competente?
Noi diventiamo matti pur di fare qualcosa: e prima di tutto formiamo insegnanti.
Li formiamo come possiamo, in modo gratuito. Con gli insegnanti interessati e
che per venire a seguire i nostri corsi devono scappare di scuola, perché
difficilmente vengono incentivati gli spazi di formazione. Ma lo facciamo, anche
noi, in emergenza: nel mio Dipartimento il prossimo anno chiudiamo due corsi di
laurea e mandiamo a spasso 300 studenti che ci avevano investito. Questa è la
realtà. Dunque è ovvio che per fare buona integrazione e promuovere
l'interculturalità sarebbero necessarie altre premesse.