\\ Mahalla : Articolo : Stampa
Nessuno fuori gioco. Storia speciale di una squadra di ragazze rom a Torino
Di Fabrizio (del 24/11/2013 @ 09:04:28, in sport, visitato 2383 volte)

di Andrea De Benedetti, 22 novembre 2013 su DONNEUROPA
Quattro ragazze italiane e quattro rom, unite da una maglia, partita dopo partita. Un'associazione che in campo porta solidarietà e integrazione. Insieme sono uno sport, il calcio, quando sa essere il più bello del mondo

C'è Sara, che pratica da anni ginnastica ritmica, ma non rinuncerebbe all'allenamento del giovedì per tutto l'oro del mondo. C'è Florina, che sa di essere bella e a volte fa un po' la leziosetta beccandosi gli implacabili cazziatoni del mister. Ci sono Lucrezia e Serena, che una volta alla settimana risalgono la corrente del traffico torinese da Sud a Nord per sudare e giocare con Adelina e Lavinia. Ci sono Alice e Arianna, che secondo Sara sono le più brave di tutte, o forse no, ma comunque sono quelle che tirano il gruppo. E c'è, anzi c'era, Ionela, che tirava certe legnate da far paura, ma adesso è andata ad abitare altrove e ha lasciato un vuoto grande così nel gruppo.

Insieme si chiamano New Team, e non c'è squadra, in Italia, che possa dirsi più nuova di questa. Quattro ragazze rom e quattro italiane unite dalla stessa maglia, un esperimento di integrazione sociale e convivenza con il pallone nel ruolo che meglio gli si confà: quello di mediatore culturale. Perché il pallone, là dove c'è da far dialogare mondi, la sua parte la fa sempre: non c'è link sociale più efficace di un assist, non c'è modello di scambio culturale più perfetto di una triangolazione ben riuscita.

Non che le otto ragazze abbiano ancora imparato a triangolare o a colpire la palla come dio comanda: "Dico la verità: per il momento sono un mezzo disastro", spiega Mister T, al secolo Timothy Donato, allenatore e presidente dell'associazione Nessuno Fuorigioco di cui la New Team è il progetto cardine: "è quasi un anno che cerco di insegnare loro a stoppare un pallone, e va già bene se adesso si ferma a sei metri. Però hanno entusiasmo da vendere e tantissima voglia di imparare e stare insieme: per noi è quello che conta".

Il progetto è nato quasi due anni fa con la squadra maschile dei pulcini. Tutti rom dei campi nomadi di Lungo Stura e di via Germagnano, a Torino, le zone rosse di una marginalità sociale che i media si ostinano a declinare con le parole spaventate di sempre: emergenza, allarme, problema. Timothy e gli altri (Marina, Emanuele, Enrico, Sara) su quell'"emergenza" e su quel "problema" hanno costruito un'opportunità di integrazione ed emancipazione. L'idea iniziale era quella di allestire anche per i maschi una squadra mista, ma trovare famiglie italiane disposte a lasciare i propri figli in compagnia di pericolosissimi zingari, ancorché minuscoli, è stato più complicato del previsto.

Paradossalmente è stato più facile mettere insieme la squadra delle ragazze, e anzi in quel caso le obiezioni principali non hanno avuto a che fare con il pregiudizio etnico ma con quello di genere: "Mia mamma all'inizio non voleva che giocassi a pallone", spiega Sara, l'unica delle quattro ragazze rom che vive in appartamento e non nel campo nomadi: "diceva che non è uno sport da bambine, che preferiva mi dedicassi a qualcos'altro: alla fine ha accettato, ma è stata dura".

Fatta la squadra, il problema adesso è quello di trovare altre società con cui organizzare un campionato femminile di calcio a 5 under 20 all'interno della sezione Uisp torinese: finora hanno aderito in tre, ma la speranza è di allargare il bacino di squadre per dare un senso all'enorme lavoro del mister e dell'esercito di volontari che lo accompagnano. Anche se poi il senso vero di questo progetto non consiste nel vincere i campionati, ma nel mettere in comunicazione due mondi molto meno distanti di quanto non appaia: "All'inizio c'era un po' di diffidenza - precisa ancora Sara - ma adesso andiamo d'accordissimo: ci troviamo su Facebook, usciamo insieme, parliamo delle nostre cose, siamo andate persino due giorni insieme a Venezia".

Amicizie autentiche, relazioni tra pari, normalità: il pallone rifugge la retorica e offre cose concrete. Tutt'altra cosa rispetto alla melassa buonista e velleitaria di altre esperienze analoghe fatte di sentimenti concessi in elemosina: "Il rischio era un po' questo -ammette Mister T - le ragazze italiane vengono tutte da esperienze con gli scout e avevo paura che fossero venute qui per fare la classica buona azione. Invece grazie a quest'esperienza hanno cambiato prospettiva rispetto all'idea del diverso. Ora il diverso non esiste più. Esistono le persone". Poco importa se quelle persone non sanno ancora stoppare un pallone. Prima o poi impareranno, forse.