Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di Fabrizio (del 26/01/2010 @ 09:11:26, in Italia, visitato 1658 volte)
TerraNews.it a cura di Giuliano Rosciarelli
INTERVISTA. E’il vanto di una famiglia rom sfuggita dalla Bosnia. E dai campi
nomadi di Roma e Milano. Romina ora ha un sogno: «Aiutare chi è più sfortunato».
Attrice, volontaria per Save the children, Romina ha 17 anni, è nata in Italia e
i suoi genitori sono romnì xoraxanè, rom di origine bosniaca. Insieme ai suoi
otto fratelli è una delle cosiddette migranti di seconda generazione: figli di
immigrati, nati e cresciuti nel nostro Paese ma visti “dagli altri” pur sempre
stranieri. Frequenta il quarto anno di un istituto professionale per assistenti
sociali, il suo sogno è aiutare chi è stato meno fortunato di lei.
Ti sei mai sentita straniera a casa tua?
A volte. Negli occhi di chi mi fissa mentre passeggio con le mie amiche, nel
rigore di una burocrazia che non mi riconosce italiana, nei media che alimentano
stupidi stereotipi. Io sono comunque fortunata. I miei genitori non si sono mai
rassegnati a vivere nei campi e questo mi permesso di integrarmi con più
facilità. Mi sento a tutti gli effetti italiana perché sono nata e cresciuta
qui, vesto e parlo come le mie coetanee ma sono anche rom perché lì affondano le
mie radici, la mia cultura. Per chi è nato qui, come me, parlare di integrazione
non ha senso.
Perché la tua famiglia è venuta in Italia?
I miei nonni erano bosniaci e sono arrivati a Milano tanti anni fa per
scappare dalla guerra. Non c’era lavoro. I rom poi erano perseguitati da tutti.
Bisognava scappare per sopravvivere. Mia madre aveva dieci anni quando sono
arrivati. Venti li ha vissuti nei campi, prima a Milano poi a Roma (vicolo
Savini). Ma non le è mai piaciuto stare lì. Voleva lavorare, farsi una vita e
migliorare la propria condizione. Prima ha fatto l’insegnante di danza del
ventre, poi è diventata imprenditrice, insieme a mio padre.
A scuola hai mai avuto problemi?
Non direi. Da piccola soffrivo per alcune cose che non capivo. A Natale, ad
esempio, tutti i miei compagni parlavano dei regali ricevuti, noi però siamo
musulmani e quindi pensavo che a casa mia Babbo Natale non arrivasse. Ora tante
cose mi sono più chiare. Ma non tutti i rom la vivono in questo modo.
Cosa pensi dell’Italia?
E’ un Paese dove si vive tutto sommato bene. Ma c’è anche tanta ignoranza e
superficialità. Ad esempio quando vado in giro con i miei compagni di classe
italiani nessuno si accorge di me. Se invece esco con le mie amiche rom tutti mi
guardano. Questa rimane comunque casa mia.
C’è qualcosa che rimproveri alla tua comunità?
La rassegnazione. Se vogliono qualcosa di meglio per la propria vita devono
lottare, non rassegnarsi e stare seduti ad aspettare, anche se l’emarginazione e
l’intolleranza molto spesso rappresentano degli ostacoli insormontabili.
Quando e come hai cominciato a fare cinema?
Al primo ruolo avevo otto anni. Mio zio lavorava a Cinecittà e conosceva un
regista al quale procurava i personaggi. Dopo alcuni cortometraggi tra cui uno
con Sergio Rubini è arrivato il film con Valeria Golino Prendimi e portami
via, e la serie Ispettore Coliandro. Ora però mi sono dovuta fermare
perché mia madre vuole che studi e non posso perdere l’anno. Se ne riparla dopo
il diploma. Il mio sogno però è aiutare chi è stato meno fortunato di me.
Di Fabrizio (del 26/01/2010 @ 08:57:43, in Italia, visitato 1856 volte)
Ricevo e porto a conoscenza:
All'attenzione di
Gianni Gianassi, Sindaco Comune di Sesto Fiorentino
Matteo Renzi, Sindaco di Firenze
Andrea De Martino, Prefetto di Firenze
Andrea Barducci, Presidente Provincia di Firenze
Gianni Salvadori, Assessore Politiche Sociali Regione Toscana
Gentili Signori,
l’Associazione MEDU conduce dal 2006 con il coinvolgimento partecipato della
comunità Rom dell’insediamento di via Lucchese un lavoro di prevenzione,
promozione alla salute ed orientamento al servizio sanitario pubblico
nell’ambito del progetto “Camper per i diritti”, che coinvolge volontari con
varie professionalità (medici, infermieri, ostetriche, psicologi, antropologi e
giuristi). Tra gli obiettivi del progetto è prevista la collaborazione con le
istituzioni nell’avvicinamento dei Rom al servizio sanitario pubblico, nella
condivisione di dati sanitari e nella sorveglianza e segnalazione di gravi
situazioni igienico-sanitarie.
La critica condizione dell’insediamento Osmatex e più in generale degli
insediamenti dell’area era stata denunciata da tempo attraverso colloqui diretti
con l’amministrazione comunale di Sesto Fiorentino, la consegna di report
dell’attività e la diffusione di comunicati stampa. La mattina di venerdì 16
gennaio 2010 è stato effettuato senza alcun preavviso uno sgombero forzato
di tale insediamento ad opera delle forze di Polizia. Le persone che lì vi
abitavano sono state obbligate ad abbandonare la struttura e, senza la
previsione di una soluzione di accoglienza né nell’immediato né a lungo termine,
sono state costrette ad abbandonare i propri effetti personali e a trascorre
alcune notti in strada.
A seguito dello sgombero, MEDU ha chiesto immediatamente un incontro ufficiale
con il Sindaco di Sesto Fiorentino, senza avere risposta. Le persone sfollate
hanno trovato nel frattempo riparo temporaneo grazie all’aiuto di alcune
associazioni di volontariato e di istituzioni religiose.
In considerazione delle diverse versioni dei fatti espresse in questi giorni e
della necessita’di assicurare comunque la massima tutela ai soggetti più fragili
attraverso la continuità assistenziale, ci sembra opportuno mettere a
disposizione delle istituzioni i dati e le rilevazioni in nostro possesso,
affinché procedano ad attivare un tavolo di coordinamento per pianificare una
soluzione definitiva dell’emergenza umanitaria che si è venuta a creare in
questi giorni e, più a lungo termine, una programmazione per l’accoglienza e
l’inserimento della comunità nel tessuto sociale comunale. MEDU, nel frattempo,
continuerà ad operare negli altri campi rom abusivi e nei contesti di maggiore
marginalità presenti nell’area fiorentina, con la sua azione di assistenza,
testimonianza e denuncia.
Medu ha effettuato 110 visite a 86 pazienti (42 femmine e 44 maschi) nel
corso del 2009 presso l'area Osmatex, dove vivevano circa 100 persone, tutti
rom di cittadinanza rumena. L'età media dei pazienti è 32 anni. La distribuzione
per età dei pazienti visitati è cosi rappresentata: 4 minori di 18 anni, di cui
2 minori di 5 anni; 3 pazienti > 60 anni; 28 pazienti con un'età compresa tra 18
e 29 anni e 46 pazienti con un età compresa tra 30 e 59 anni. Per 5 pazienti non
è stato possibile determinare l'età. Sono state visitate 5 donne in stato di
gravidanza. Le patologie più frequenti sono state quelle a carico dell'apparato
digerente (23%) e di quello genito-urinario (20%). Seguono le affezioni
dell'apparato respiratorio (18%) di quello cardiovascolare (13%) e
osteomuscolare (13%). Le patologie a carico della cute e dei tessuti molli
rappresentano l'8%, i tumori il 3% e le malattie infettive il 2%. Tutti i dati
sanitari sono stati regolarmente censiti attraverso schede cliniche effettuate
al momento delle visite con i pazienti e con un monitoraggio costante nel tempo.
Le schede sono parte del materiale che il MEDU ha accumulato nel corso del tempo
al fine di documentare la grave situazione umanitaria dell'ex-Osmatex con
l'intenzione di informare la collettività e di denunciarne il rischio sanitario
e sociale.
La sera dello sgombero (venerdì 16 gennaio 2010) Medu ha fatto un censimento a
fini sanitari delle persone sfollate dall'area Osmatex. Erano presenti 16
nuclei familiari per un totale di 79 persone ( 43 femmine e 36
maschi). I minori erano 8 di cui 2 neonati (uno di 20 giorni e uno
di 10). Una bambina di tre anni era seguita dall’Ospedale Meyer per frattura
cranica parieto-temporale da caduta accidentale. Era presente una donna in
gravidanza. C'erano molte persone anziane (circa 15). Tre persone anziane erano
appena state dimesse dall'ospedale con terapia di mantenimento da proseguire
fino al prossimo controllo: un paziente per ictus, un altro per broncopolmonite
cronica riacutizzata e un altro per una patologia osteoarticolare agli arti
inferiori. Una donna adulta era seguita da tempo dai nostri medici per
ipertensione. Era presente una persona con handicap.
Restiamo a disposizione per ulteriori chiarimenti.
Grazie per l’attenzione e buon lavoro.
Distinti saluti,
Medici per i Diritti Umani
Medici per i Diritti Umani (MEDU), organizzazione umanitaria e di solidarietà
internazionale, fa parte dell'International Federation of Health and Human
Rights Organisations (IFHHRO).
Medici per i Diritti Umani onlus
www.mediciperidirittiumani.org -
info@mediciperidirittiumani.org
tel. e fax 0697844892 – cell. 3343929765, 3351853361
Di Fabrizio (del 25/01/2010 @ 09:54:19, in media, visitato 1812 volte)
Scrive Ermelinda Coccia
Riguardo l'inizio dello Sgombero al Casilino 900, campo Rom nel quale cinque
diverse comunità vivono da circa 40 anni, Alemanno dichiara «Questo campo esiste
da 40 anni durante i quali non è stato fatto niente. Lo sgombero terminerà
all'inizio di febbraio, quando porteremo le famiglie in campi attrezzati dove
inizieranno un percorso di legalità e inserimento lavorativo. Per il Casilino
900 siamo ad un passaggio epocale». «Occorre cancellare le vergogne come i campi
senza acqua, luce, pieni di rifiuti come era questo un anno e mezzo fa - ha
proseguito il sindaco - Fornire loro un documento, il Dast, che riconosce
identità e diritti. Lavorare con queste famiglie per trovare spazi di lavoro.
Entro quest'anno non devono esistere più campi abusivi e tollerati. Tutti poi
dovranno essere integrati e avere una casa».
Dall'altra parte Eugenio Viceconte, che da tempo affronta e sostiene l'argomento
"Rom" attraverso un blog internet (http://noblogo.livejournal.com/),
afferma che "Sarebbe giusto che chi c'ha vissuto in questi anni trovasse una
condizione di vita diversa dall'eterna condanna al "campo nomadi", una casa vera
e non un container. Fuori da un recinto presidiato da telecamere ... fuori dal
pregiudizio. Ma questo non è permesso. Non qui a Roma."
Dal canto nostro, autori del documentario ME SEM ROM, che ci siamo occupati,
dall'Aprile 2009, di raccogliere quante più informazioni possibili riguardo le
procedure effettuate ad esempio durante gli svariati censimenti e/o durante il
primo sgombero del Campo Rom di Via di Centocelle (i Rom del Campo hanno vagato
di certo una notte intera per trovare un riparo), ci impegneremo a documentare
quanto accadrà, cercando di fare emergere la verità obiettivamente. Le speranze
sono ovviamente che i Rom del Casilino 900, possano godere realmente delle
promesse fatte dall'Amministrazione, evitando così di sopportare ulteriori
delusioni da parte del potere politico.
Per chi fosse interessato all'argomento, il 6 Febbraio 2010, alle ore 21.00,
nella Sala Blu di Palazzo Gazzoli di Terni, in via del Teatro Romano, si potrà
assistere, in anteprima, alla proiezione di un estratto di 20 minuti del
documentario ME SEM ROM. Una proiezione che mette in luce, nel momento più
caldo, anche la voce del popolo Rom.
Verità nascoste
"Il mio vicino è uscito a fare la spesa e quando è tornato non ha trovato più la
sua baracca!" Mi dice una Rom del Casilino 900 "Ha trascorso la notte dentro
quella tenda, senza una coperta, senza più niente!"
Seguo il suo indice. Ad un passo da ma c'è una tenda verde sul viale fangoso che
nasconde un uomo anziano. Cerca di riposare infreddolito dalle basse temperature
di Gennaio.
Sono le 8.30 del mattino. Sul piazzale principale del campo c'è un viavai di
Polizia, Guardie Municipali e volontari della Croce Rossa Italiana. Qui tutto
sembra rispecchiare ciò che in questi giorni abbiamo visto in tv o letto sui
giornali. Uno sgombero pacifico e consenziente.
Al contrario, se ci si addentra nel campo la situazione degenera.
I bambini saltano da una maceria all'altra. Gli uomini fanno a pezzi ciò che
resta delle baracche. Le donne raccolgono i loro vestiti in dei sacchi. "Non
sono pronta!" Mi racconta una signora che dal 2000 vive al Casilino 900 "Mi
hanno avvertita due giorni fa, ho quattro figli, come faccio da sola a sistemare
tutto nelle valige in così poco tempo?".
La Croce Rossa in questo caso, potrebbe dare una mano a coloro che devono
spostarsi, ma sono fermi al piazzale principale in attesa che i pullman si
riempiano di gente. Uno di loro mi dice: "Mi chiedo cosa siamo venuti a fare!"
La signora che raccoglie i suoi averi mi fa entrare in casa "Guarda, ho dei
mobili, questi non li posso portare in un container di pochi metri, devo
lasciarli qui e farli distruggere dalle ruspe" "In un container in sei come ci
stiamo? Ci hanno promesso una sistemazione migliore!"
Proseguendo incontro uno dei portavoce del Campo, è consenziente allo
spostamento, ma infelice delle procedure poco chiare con le quali le autorità si
stanno muovendo. "Ci vado felice in un campo attrezzato. Pago volentieri
l'affitto del container che mi assegneranno. Il problema è che devono
permettermi di lavorare. Io farei qualsiasi tipo di lavoro per pagare l'affitto
a fine mese. Come ogni comune mortale. Ma a me, ad un Rom, il lavoro non lo dà
nessuno. E' il Comune che deve impegnarsi a trovarcelo a questo punto,
altrimenti come mantengo il container che mi assegnano?"
Il rappresentante mi dice inoltre che nei campi attrezzati è possibile vedere
ogni giorno pullman comunali carichi di donne, che poi però vengono scaricate in
centro. "Che cosa vuoi che facciano? Chiedono l'elemosina, è la sola cosa che è
permessa loro. Che fai le porti a lavorare? Dove? In mezzo alla strada?" "Mia
moglie non ha mai chiesto un centesimo ad un passante, ora che facciamo, ce ne
andiamo in un campo attrezzato e dignitoso per poi andare ad elemosinare per
strada?"
Se davvero si sta parlando dell'eliminazione dei campi abusivi, per inserire i
Rom in un contesto più umano, perché sta accadendo tutto questo?
La parola "integrazione" acclamata dall'Amministrazione rispetto agli sgomberi
che si stanno attuando, che significato ha?
Di Fabrizio (del 25/01/2010 @ 09:47:44, in Italia, visitato 3233 volte)
viaEmilianet.it Integrazione culturale, scolarizzazione e anche
nuove case per gli 800 residenti di etnia sinta. Posiitivo il bilancio della
prima microarea di via Felesino.
Sono 810 i cittadini di etnia Sinta attualmente residenti a Reggio. Circa 300
vivono nei tre campi nomadi comunali: al Foscato, a Roncocesi e in via Gramsci a
Pratofontana. La parte restante abita in aree private nelle zone di San Rigo,
Codemondo, Pratofontana, Gavassa e Massenzatico. Cittadini reggiani a tutti gli
effetti, a differenza dei Rom che sono invece rumeni, i Sinti comunque
conservano uno stile di vita che fatica ad integrarsi e tende a formare
ghetti, ovvero campi di sosta sovraffollati e in condizioni precarie.
Lo scorso anno una famiglia allargata, composta da una decina di persone, ha
iniziato un percorso con il Comune, stabilizzandosi nella prima microarea in via
Felesino. "Il primo bilancio è positivo - spiega Matteo Sassi assessore comunale
alle politiche sociali - per il rispetto regole, del patto di cittadinanza e il
livello di scolarizzazione ". Altre due famiglie hanno invece scelto una strada
diversa, un passo ulteriore verso la stabilità. "Grazie anche al nostro lavoro -
spiega Alfa Strozzi responsabile del progetto nomadi del Comune - due nuclei
famigliari hanno deciso di vivere in casa, avevano i requisiti e sono
assegnatari delle case popolari".
Di questo percorso di mediazione culturale e di nuove modalità abitative si
parlerà in un incontro, il 26 gennaio allo Spazio Gerra. L'obiettivo del Comune,
come richiesto dall'Unione Europea, è quello di superare gradualmente i campi
nomadi. Ma le problematiche da affrontare sono ancora molte, a partire dalla
scolarizzazione dei bambini. Sono circa 200 quelli che frequentano le scuole
dell'obbligo.
Il 26 gennaio alle 13, nella Biblioteca delle Arti in piazza della Vittoria,
sarà inaugurata anche una mostra sullo sterminio dei Sinti e dei Rom durante il
periodo nazi-fascista. Resterà aperta fino al 7 febbraio, il sabato e la
domenica dalle 15 alle 19.
di GIULIA GUALTIERI
Di Fabrizio (del 25/01/2010 @ 09:43:41, in Italia, visitato 1542 volte)
Segnalazione di Isabella Bi
l' ASSOCIAZIONE DON NESI/COREA in collaborazione con la CIRCOSCRIZIONE 1 DEL
COMUNE DI LIVORNO
organizza:
GIOVEDI' 28 GENNAIO ORE 21,15
In occasione del PORRAJMOS – la giornata della memoria dello sterminio dei
popoli rom e sinti nei lager nazisti
ROM IERI E OGGI: PREGIUDIZIO, EMARGINAZIONE E RIFIUTO
In una società dove si consolida una antropologia del disprezzo e della
disumanità verso l'altro, dove si rafforza la saldatura fra razzismo popolare e
razzismo istituzionale, i rom rappresentano ancora l'ultimo gradino di questa
"piramide" dell'emarginazione e del rifiuto.
Proviamo a comprendere come i nostri territori promuovono concrete pratiche di
accoglienza ed interazione e come sviluppare forme di dialogo, comprensione e
relazione.
Con la partecipazione e le testimonianze della Fondazione Michelucci di Firenze,
dell'Associazione Africa Insieme di Pisa, di alcuni rappresentanti della
comunità rom di Coltano e di alcuni operatori del sociale e del mondo
dell'associazionismo.
Durante la serata sarà presentato anche il libro "Lungo la ferrovia" di Gianluca
Giunchiglia (edizioni Erasmo)
INGRESSO LIBERO
ASSOCIAZIONE DON NESI/COREA
LARGO NESI 9 (ex via La Pira) Villaggio Scolastico di Corea
tel.fax: 0686 424637 email:
associazione@associazionenesi.org -
www.associazionenesi.org
L'evento su
Facebook
GRANDE FESTA BALCANICA
domenica 31 gennaio Circolo Enosud -
via Ollearo 5 MILANO
alle 17 "Poziv na festu" spettacolo musicale per bambini
alle 19 aperitivo balcanico a cura della Kafana Sevdah Marinkovic
alle 20.30 Muzikanti di Balval & Famiglia Mirkovic in concerto a seguire Jam
Session
ingresso con sottoscrizione popolare NON POTETE MANCARE!
bambini, amici, conosciuti e sconosciuti, migranti, occupanti,
fuggitivi,..ecc...vi aspettiamo!!
E' GRADITA LA PRENOTAZIONE PER L'APERITIVO ALL'INDIRIZZO
festabalcanica@yahoo.com
Di Fabrizio (del 24/01/2010 @ 09:33:36, in Italia, visitato 2510 volte)
Ricevo da Ernesto Rossi
Le tracce della piccola Denise Pipitone, la bambina siciliana
scomparsa il 1° settembre 2004 vicino a casa, sono state seguite in tutt’Italia,
controllando una serie di segnalazioni di persone che affermavano di averla
vista.
Luoghi privilegiati di queste indagini furono campi e insediamenti rom e sinti.
Ne seguirono insulti e aggressioni diffuse nei confronti di donne rom, e
qualche arresto, annullato dal riconoscimento dell’inconsistenza delle accuse.
Perché, ’come tutti sanno’, o credono di sapere, gli ‘zingari’ rubano
i nostri bambini, non contenti, evidentemente, di tutti quelli che hanno
già. Anche se un’accurata ricerca universitaria sugli ultimi quarant’anni di
analoghe notizie ha dato risultato zero: non c’è un solo caso accertato.
Una di quelle tracce portava anche a Milano. Una guardia giurata che stazionava
all’esterno d’una banca affermò di aver visto la piccola, riconosciuta e filmata
col cellulare per alcuni secondi, tutta imbacuccata per il freddo (era proprio
il gennaio di cinque anni fa), in compagnia di alcuni ‘zingari’.
Al nostro presidente Mauro, dell’Associazione Aven Amentza, fu chiesto
dall’allora capo della Squadra mobile della Questura di Milano di adoperarsi per
verificare, foto in mano, nei vari insediamenti di rom romeni, se fosse
possibile reperire tracce del passaggio, se non della presenza della bambina.
Mauro, rom autorevole e conosciuto in tutte le comunità, a Milano e
nell’hinterland, lo fece con costanza e passione per oltre un mese
(gratuitamente, è bene dirlo), tanto che riuscì a ritrovare la… piccola: stava
in un campo milanese con i suoi genitori, assai spaventati da tutto il
putiferio, e stava bene. Per quanto si possa star bene in un campo.
Solo che era un maschietto.
Sei sicuro? chiese Mauro al suo interlocutore.
Assolutamente, l’ho visto fare pipì.
Poco dopo fui contattato da un regista televisivo per un’intervista a Triboniano.
Questi accettò le condizioni dei capi rom: riprese solo dalla testa in giù, come
gli spiegammo, perché già troppi rom hanno perso il lavoro perché identificati
come tali dai loro ‘padroni’ in una ripresa o in una foto sui giornali. Così
l’intervista si svolse coi tre capi di Triboniano nella ‘baracca’ di uno di
loro, presente anch’io.
Ecco che alcuni giorni or sono leggiamo sui giornali la notizia che il gup di
Marsala, Lucia Fontana, ha rinviato a giudizio, per il sequestro di Denise, la
sorellastra Jessica Pulizzi e, per false dichiarazioni, il suo ex fidanzato
Gaspare Ghaleb.
La bambina non ha dunque girato l’Italia e tanto meno in compagnia di famigerati
‘zingari’: un’altra bufala scoppia come una bolla di sapone, per ritornare nel
mondo delle frottole e delle calunnie razziste, tanto amate da certi personaggi
della nostra politica attuale e, purtroppo, piattamente seguite da certa stampa.
Milano, 20 gennaio 2010 Ernesto Rossi, presidente di Aven Amentza.
sede legale: Via Triboniano 212 – 20156 Milano (Italia). Tel. +39.(02).48409114
Costituita il 18 luglio 2004, registrata a Milano il 22 novembre 2004 , n°
104485 serie 3. Codice fiscale 97389270154
Venerdì 29 gennaio alle ore 21.15 la
SVOBODA ORCHESTRA sarà in
concerto per la Giornata della Memoria con lo spettacolo:
Canzoni e musiche della memoria, all’Oratorio di San Filippo Neri in
via Maria Vittoria 5 – Torino – ingresso libero.
Per l’Orchestra sarà anche l’occasione per presentare il suo ultimo cd “Graditi
Ospiti” appena pubblicato e interamente dedicato alle musiche degli ebrei e dei
rom.
Il concerto sarà arricchito dall’accompagnamento di letture ispirate alla Shoah
ebraica e al Porrajmos dei rom.
Il cd Graditi Ospiti nasce da una passione di lunga data per la musica yiddish e
per quella rom, e vuole essere un omaggio a due popoli che, con la loro cultura
e le loro tradizioni, hanno composto musiche e canzoni che a tutt’oggi sono
apprezzate per la bellezza delle melodie, per le armonie suggestive, per la
ritmica coinvolgente e per il cuore con cui vengono interpretate.
Da sempre ebrei, rom e sinti sono, loro malgrado, popoli erranti e le loro
musiche sono frutto di scambi tra le loro culture e quelle dei paesi in cui si
sono trovati a vivere. Il titolo – volutamente ironico – è in realtà un sentito
ringraziamento rivolto a chi ci ha regalato canzoni così belle.
L'evento su
Facebook
Di Fabrizio (del 23/01/2010 @ 09:27:02, in Italia, visitato 1829 volte)
Noblogo
Jan. 20th, 2010 at 12:47 PM
Il Casilino 900 è giusto che sia chiuso.
Sarebbe giusto che chi c'ha vissuto in questi anni trovasse una condizione di
vita diversa dall'eterna condanna al "campo nomadi", una casa vera e non un
container. Fuori da un recinto presidiato da telecamere ... fuori dal
pregiudizio. Ma questo non è permesso. Non qui a Roma.
Riporto un bel pezzo da ReteRom, il sito degli amici di Stalker, accompagnandolo
da mie fotografie.
Un omaggio alla memoria che viene negata allo sfortunato popolo Rom.
Ho avuto il privilegio di parlare circa un anno fa con chi abitava questa
bellissima casa.
Persone di una profondissima umanità, in particolare la padrona di casa che mi
parlava delle speranze in un futuro migliore con la saggezza di chi atavicamente
è abituato a seguire con rassegnata sopportazione l'eterno ciclo degli eventi.
MERCOLEDÌ 20 GENNAIO 2010
Tabula rasa
Oggi è il 19 gennaio del 2010
È cominciato lo sgombero del Casilino 900
È anche l’anniversario dell’occupazione della facoltà, la Pantera
20 anni di stalker e non riesco a dormire
Poche ore fa la demolizione della casa di Hakya
La casa in cui è nata Savorengo Ker
Ho visto saltare in aria di seguito
Le lamiere del tetto, i montanti in legno, un divano rosso, le scale
La ruota simbolo dei Rom al centro della facciata
Il cavallino accanto, ricordo dell’antico mestiere della famiglia
I gocciolatoi intagliati alla maniera di Hakya
Una stufa di ferro incastrata nei denti della ruspa
Un quadro ad olio con signora, un manifesto di Eminem
Un manifesto di Benito Mussolini, si davvero
Hakya ridendo ha detto ad Azzurra “era un parente.
La foto di un antenato!”
Ho immaginato il punto di vista di chi demolisce
Un video ripreso dalla cabina del macchinista
Di chi sono le mani su quelle leve?
Di chi guarda il video.
Telespettatori educati a non sapere
ora deformano la realtà guidando il video
Sicuri dietro il vetro del parabrezza
il macchinista esegue, demolisce la casa
magari una casa non ce l’ha nemmeno lui.
Una signora dice “io non ci voglio andare nei campi”
Un poliziotto “il campo di Salone
è un albergo a cinque stelle rispetto a questo”
indica la casa di Hakja in macerie,
io penso di no, sono sicuro di no, perché lo so, io so
una poliziotta aggiunge “ma a Salone ora c’è anche la ludoteca,
l’asilo dei bambini dentro al campo”
un’altra poliziotta “ d’estate ci mettono anche la piscina”
le signore Rom ci scherzano sopra, loro non lo sanno
non sono mai state a Salone, nessuno le ha mai portate
a vedere i container, neanche i mariti
Gli daranno un container di 18 metri quadri per sei persone
tre metri quadri a testa
riscaldamento, bagno, acqua e luce elettrica
e tutto intorno, stretti ogni 3 metri,
solo container e spazi tra i container
un posto dove incontrarsi è stato soppresso
per fare posto ai nuovi container per il Casilino 900
sulla recinzione ci sono 50 telecamere
non ci sono gli spazi per i mercatini
né dove lavorare i metalli, riciclare oggetti
sono tu non ci sono altre persone oltre ai Rom,
alle guardie e alle associazioni che li sorvegliano
e li portano a scuola, in città, città?
insomma oggi abbiamo visto demolire la casa di Hakya
e Azzurra dice di aver visto Mussolini
f.c.
Di Django Reinhardt s'è raccontato (qui e altrove)
praticamente tutto. Per chi volesse ripassare la sua vicenda...
di Giordano Montecchi 18 gennaio 2010
La storia è di quelle che fanno palpitare: avventura e sventura mescolate
insieme, di quelle storie che non basta un film per raccontarle. Perché è vita
vera, sofferenza, passione, sogni, miseria, fortuna, genio e sregolatezza.
Insomma: Django Reinhardt. Era il 23 gennaio di cent’anni fa. A Liberchies,
qualche centinaio di anime poco a nord di Charleroi, Belgio, faceva un freddo
cane. Appena fuori dal villaggio da qualche giorno c’era una carovana di
zingari, cinque o sei roulottes malandate, coi loro cavalli smagriti, i falò per
scaldarsi, e, al centro, una piccola tenda da circo. Quel giorno, in una delle
roulotte, Laurence Reinhardt partorì un maschietto. Laurence era così scura di
pelle da essere soprannominata «Negros». Era l’acrobata del circo ed rimasta
incinta di Jean Vées, acrobata anche lui e, quando poteva, musicista: chitarra,
violino, un po’ di tutto. Lei però non volle saperne di sposarlo. Il bambino si
chiamò Jean-Baptiste, ma presto gli fu affibbiato l’immancabile soprannome:
Django.
IL BANJO A DODICI ANNI. La carovana viaggò ancora molto. Girovagarono per
l’Italia, poi furono in Algeria e infine si fermarono alla periferia di Parigi.
Sua madre gli regalò un banjo, e a dodici anni Django accompagnava già suo padre
e suo zio che si esibivano al caffé del mercato delle pulci di Clignancourt,
poco fuori Parigi. Django era bravo, molto bravo, suonava la chitarra con una
grinta e una velocità da lasciare a bocca aperta. A diciotto anni aveva già
registrato qualche traccia, aveva la sua piccola fama, ma era e restava uno
zingaro e ogni notte tornava a dormire nella sua vecchia roulotte. La sua
seconda nascita avvenne nel 1928 e fu tragica. Era ottobre, il 26. Jack Hylton,
leader di un’orchestra alla Paul Whiteman piuttosto famosa, gli offrì di entrare
nella sua band per una tournée in Inghilterra. Era fatta!
Forse quella sera Django era eccitato, fatto sta che rovesciò la candela accesa
e i fiori di celluloide da vendere l’indomani davanti al cimitero presero fuoco
e in un baleno la roulotte fu avvolta dalle fiamme. Bella Baumgartner, la sua
compagna, se la cavò con poco, ma Django riportò ustioni gravissime sul lato
destro del corpo e alla mano sinistra. Diciotto interminabili mesi di ospedale,
e alla fine, mignolo e anulare della mano sinistra rimasero paralizzati. I
medici furono unanimi: la sua carriera di musicista era finita. Ma non sapevano
con chi avevano a che fare. Perché da quel rogo di miseria ed emarginazione,
qualcosa che ben conosciamo ancora oggi, era nato Django Reinhardt, il dio
zingaro della chitarra. Dio, perché nessun essere umano avrebbe potuto essere
così testardo, inventarsi un modo di suonare con solo due dita e diventare un
virtuoso impressionante, rivoluzionando la tecnica e il destino della chitarra.
La carriera fu sfolgorante. Incontrò il suo alter ego in Stéphane Grappelli,
violinista tanto per bene quanto Django fu sempre imprevedibile, sbruffone,
spendaccione. Col loro celeberrimo Quintette du Hot Club de France furono i
protagonisti assoluti del trapianto del jazz in Europa, con Monsieur Grappelli
perennemente imbarazzato per le figuracce cui lo costringeva Django: analfabeta
vero, per il quale un contratto era solo carta; nomade nell’anima, bisognoso
ogni tanto di sparire per tornare alla sua roulotte e alle sue radici. Django
era fin troppo «fenomeno» per accodarsi a una musica altrui qual era in fondo il
jazz. Andò in America, ma il suo idolo Duke Ellington fu una delusione: tutto
troppo ordinato, ufficiale, per lui che non volle mai leggere una nota di
musica. Django era un sinti, che in Francia sono detti manouche, ricchi come
tutte le etnie zingare di una loro tradizione musicale tutta chitarre e violini.
Django la «contaminò» e nacque il jazz manouche, jazz portatile: chitarra e
violino solisti, niente batteria ma due chitarre e contrabbasso per la pompe,
così si chiama quel ritmo indiavolato che ti scortica e sale su dalle piante dei
piedi.
INCIDENTE PITTORESCO Curioso sfogliare le pagine di allora. Per André Hodeir,
grande jazzologo, Django non era jazz, ma solo un «incidente pittoresco». Ma
girate oggi per dischi, o per locali. I gruppi di giovani e giovanissimi,
calamitati da questo modo sfrenato di scoparsi la chitarra, sono una schiera e
gli scaffali, quelli che restano, pieni di questa musica, un po’ jazz un po’
world music, con protagonisti dai nomi così inesorabilmente diasporici: Bireli
Lagrène, Stochelo Rosenberg, Angelo Debarre, Tchavolo Schmitt ecc. Hodeir toppò,
ma non Eric Hobsbawm, che nascosto dietro lo pseudonimo di Francis Newton nel
1959 pubblicava The Jazz Scene, magnifica storia del suo oggetto amato. Dice
Hobsbawm: «è significativo che Reinhardt sia fino ad ora il solo europeo che
abbia conquistato un posto nell’Olimpo del jazz... ed è significativo che si
tratti di uno zingaro». Perché insistere su quel «significativo»? Perché un
grande storico come Hobsbawm aveva capito che il destino del jazz non era quello
di essere solo la musica dei neri. Il jazz era l’annuncio che una nuova musica
alzava la voce: la musica di quelli che il «primo mondo» ha sempre ignorato o
odiato. Django è storia di adesso.
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