Di Django Reinhardt s'è raccontato (qui e altrove)
praticamente tutto. Per chi volesse ripassare la sua vicenda...
di Giordano Montecchi 18 gennaio 2010
La storia è di quelle che fanno palpitare: avventura e sventura mescolate
insieme, di quelle storie che non basta un film per raccontarle. Perché è vita
vera, sofferenza, passione, sogni, miseria, fortuna, genio e sregolatezza.
Insomma: Django Reinhardt. Era il 23 gennaio di cent’anni fa. A Liberchies,
qualche centinaio di anime poco a nord di Charleroi, Belgio, faceva un freddo
cane. Appena fuori dal villaggio da qualche giorno c’era una carovana di
zingari, cinque o sei roulottes malandate, coi loro cavalli smagriti, i falò per
scaldarsi, e, al centro, una piccola tenda da circo. Quel giorno, in una delle
roulotte, Laurence Reinhardt partorì un maschietto. Laurence era così scura di
pelle da essere soprannominata «Negros». Era l’acrobata del circo ed rimasta
incinta di Jean Vées, acrobata anche lui e, quando poteva, musicista: chitarra,
violino, un po’ di tutto. Lei però non volle saperne di sposarlo. Il bambino si
chiamò Jean-Baptiste, ma presto gli fu affibbiato l’immancabile soprannome:
Django.
IL BANJO A DODICI ANNI. La carovana viaggò ancora molto. Girovagarono per
l’Italia, poi furono in Algeria e infine si fermarono alla periferia di Parigi.
Sua madre gli regalò un banjo, e a dodici anni Django accompagnava già suo padre
e suo zio che si esibivano al caffé del mercato delle pulci di Clignancourt,
poco fuori Parigi. Django era bravo, molto bravo, suonava la chitarra con una
grinta e una velocità da lasciare a bocca aperta. A diciotto anni aveva già
registrato qualche traccia, aveva la sua piccola fama, ma era e restava uno
zingaro e ogni notte tornava a dormire nella sua vecchia roulotte. La sua
seconda nascita avvenne nel 1928 e fu tragica. Era ottobre, il 26. Jack Hylton,
leader di un’orchestra alla Paul Whiteman piuttosto famosa, gli offrì di entrare
nella sua band per una tournée in Inghilterra. Era fatta!
Forse quella sera Django era eccitato, fatto sta che rovesciò la candela accesa
e i fiori di celluloide da vendere l’indomani davanti al cimitero presero fuoco
e in un baleno la roulotte fu avvolta dalle fiamme. Bella Baumgartner, la sua
compagna, se la cavò con poco, ma Django riportò ustioni gravissime sul lato
destro del corpo e alla mano sinistra. Diciotto interminabili mesi di ospedale,
e alla fine, mignolo e anulare della mano sinistra rimasero paralizzati. I
medici furono unanimi: la sua carriera di musicista era finita. Ma non sapevano
con chi avevano a che fare. Perché da quel rogo di miseria ed emarginazione,
qualcosa che ben conosciamo ancora oggi, era nato Django Reinhardt, il dio
zingaro della chitarra. Dio, perché nessun essere umano avrebbe potuto essere
così testardo, inventarsi un modo di suonare con solo due dita e diventare un
virtuoso impressionante, rivoluzionando la tecnica e il destino della chitarra.
La carriera fu sfolgorante. Incontrò il suo alter ego in Stéphane Grappelli,
violinista tanto per bene quanto Django fu sempre imprevedibile, sbruffone,
spendaccione. Col loro celeberrimo Quintette du Hot Club de France furono i
protagonisti assoluti del trapianto del jazz in Europa, con Monsieur Grappelli
perennemente imbarazzato per le figuracce cui lo costringeva Django: analfabeta
vero, per il quale un contratto era solo carta; nomade nell’anima, bisognoso
ogni tanto di sparire per tornare alla sua roulotte e alle sue radici. Django
era fin troppo «fenomeno» per accodarsi a una musica altrui qual era in fondo il
jazz. Andò in America, ma il suo idolo Duke Ellington fu una delusione: tutto
troppo ordinato, ufficiale, per lui che non volle mai leggere una nota di
musica. Django era un sinti, che in Francia sono detti manouche, ricchi come
tutte le etnie zingare di una loro tradizione musicale tutta chitarre e violini.
Django la «contaminò» e nacque il jazz manouche, jazz portatile: chitarra e
violino solisti, niente batteria ma due chitarre e contrabbasso per la pompe,
così si chiama quel ritmo indiavolato che ti scortica e sale su dalle piante dei
piedi.
INCIDENTE PITTORESCO Curioso sfogliare le pagine di allora. Per André Hodeir,
grande jazzologo, Django non era jazz, ma solo un «incidente pittoresco». Ma
girate oggi per dischi, o per locali. I gruppi di giovani e giovanissimi,
calamitati da questo modo sfrenato di scoparsi la chitarra, sono una schiera e
gli scaffali, quelli che restano, pieni di questa musica, un po’ jazz un po’
world music, con protagonisti dai nomi così inesorabilmente diasporici: Bireli
Lagrène, Stochelo Rosenberg, Angelo Debarre, Tchavolo Schmitt ecc. Hodeir toppò,
ma non Eric Hobsbawm, che nascosto dietro lo pseudonimo di Francis Newton nel
1959 pubblicava The Jazz Scene, magnifica storia del suo oggetto amato. Dice
Hobsbawm: «è significativo che Reinhardt sia fino ad ora il solo europeo che
abbia conquistato un posto nell’Olimpo del jazz... ed è significativo che si
tratti di uno zingaro». Perché insistere su quel «significativo»? Perché un
grande storico come Hobsbawm aveva capito che il destino del jazz non era quello
di essere solo la musica dei neri. Il jazz era l’annuncio che una nuova musica
alzava la voce: la musica di quelli che il «primo mondo» ha sempre ignorato o
odiato. Django è storia di adesso.