Rom e Sinti da tutto il mondo

Ma che ci fa quell'orologio?
L'ora si puo' vedere dovunque, persino sul desktop.
Semplice: non lo faccio per essere alla moda!

L'OROLOGERIA DI MILANO srl viale Monza 6 MILANO

siamo amici da quasi 50 anni, una vita! Per gli amici, questo e altro! Se passate di li', fategli un saluto da parte mia...

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Conoscere non significa limitarsi ad accennare ai Rom e ai Sinti quando c'è di mezzo una disgrazia, ma accompagnarvi passo-passo alla scoperta della nostra cultura secolare. Senza nessuna indulgenza.

La redazione
-

\\ Mahalla : Storico per mese (inverti l'ordine)
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Fabrizio (del 11/06/2008 @ 20:12:02, in Italia, visitato 2446 volte)

Ricevo da Veniero Granacci

From: A.N.E.D. Torino - Cari tutti,
nell'ultima settimana si sono intensificati anche a Torino episodi di intimidazione e sopruso da parte di autorità preposte all'ordine pubblico nei confronti di stranieri. Alcuni di questi hanno avuto spazio sui quotidiani, mentre altri non sono stati resi noti.
Nei confronti dei rom, vi è stata lunedì mattina intorno alle 5 un'irruzione di una sessantina di agenti in tenuta antisommossa nel campo comunale di sinti piemontesi di via Lega. Gli abitanti sono stati fatti uscire dalle loro abitazioni e radunati al centro del campo dove hanno atteso in piedi per ore che venissero fatti i controlli sulle loro identità.

I sinti non hanno voluto coinvolgere i giornalisti e hanno scritto la seguente lettera che ho avuto in dattiloscritto da Secondo Massano, presidente dell'Opera Nomadi di Torino, e che prego di divulgare.
Maria Teresa Silvestrini

"Torino, 9 giugno 2008
Anche a Torino c'è stato un blitz rastrellamento, tipo Milano, nel vecchio campo nomadi di via Lega, datata residenza di un gruppo di sinti piemontesi.
Operazione "antisommossa", all'alba, con spropositati agenti e mezzi agli ingressi nonchè costrizione dei residenti di uscire dalle loro abitazioni per confluire al centro del campo ed essere infine sottoposti a sfibranti controlli personali.
Cose mai viste in un accampamento "regolare", ricco di potenziali indicazioni per ulteriori insediamenti abitativi a misura di cittadini italiani, sì diversi, ma decisamente radicati, dopo molte tribolazioni, sul territorio.
Uomini, donne e bambini del campo ritengono di essere stati bistrattati ed offesi come persone e come cittadini: è anche uno sgarbo alla ospitale città di Torino, "medaglia d'oro" alla Resistenza che ha fatto riacquistare la libertà a tutti i cittadini dopo un periodo oscuro e autoritario decisamente cancellato che non deve mi più ritornare.
Un gruppo di sinti con l'Opera Nomadi"


grazie a Claudio Sommaruga

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Di Fabrizio (del 12/06/2008 @ 09:15:50, in Kumpanija, visitato 1809 volte)

Ricevo da Gianluca Carmosino

Ecco una piccola iniziativa per mandare a quel paese l’ondata di razzismo di questi giorni e sostenere una bella occupazione rom a Roma [Quintiliani], ma anche un gruppo di donne indiane...
CLICCA QUI

Un saluto a tutti
Gianluca Carmosino, CARTA

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Di Fabrizio (del 12/06/2008 @ 09:33:46, in media, visitato 1521 volte)

Da Roma_Daily_News

La commedia "Rromeo thaj Julieta" ha ricevuto il Premio per il migliore spettacolo "off" del Festival della Commedia Nazionale festCo, organizzato dal Teatro della Commedia di Bucarest.

Come presentato nel discorso di apertura degli organizzatori, "la commedia affronta un argomento, troppo spesso considerato un tabù (l'argomento della minoranza etnica Rom in Romania), trattato con humour ed ironia. Il testo intende smantellare i clichés sociali sui Rom, portandoli assieme sotto un ombrello comune, più o meno divertente, delle polarizzazioni e dei preconcetti che tutti abbiamo sulla vita in generale."

Il ruolo di Romeo è stato interpretato dall'attore rom Sorin Aurel Sandu.

DIVERS – www.divers.ro

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Di Fabrizio (del 13/06/2008 @ 08:45:20, in scuola, visitato 1751 volte)

Da Roma_Daily_News

5 giugno 2008, Budapest: ERRC accoglie con favore il giudizio emesso oggi dalla Corte Europea sui Diritti Umani (ECtHR) nel caso di Sampanis ed Altri contro la Grecia (application no. 32526/05). I richiedenti, di origine rom e residenti nell'area "Psari" di Aspropyrgos, Attica, erano rappresentati da Greek Helsinki Monitor (GHM), un'OnG ateniese. Il loro reclamo riguardava il rifiuto delle autorità scolastiche di accogliere i loro bambini nella locale scuola primaria durante l'anno scolastico 2004-2005 e il loro susseguente "parcheggio" in una dipendenza della scuola, frequentata soltanto da Rom e situata a cinque chilometri dalla scuola primaria.

Questo giudizio, adottato all'unanimità, viene in concomitanza con quello di D.H. ed Altri contro la Repubblica Ceca, della Gran Camera, un caso portato da ERRC e porta maggiore attenzione al tema della scolarizzazione permessa ai bambini rom. Il giudizio di oggi costituisce la prova conclusiva della dichiarazione nel giudizio D.H. ed Altri che "[...] La Repubblica Ceca non è la sola ad incontrare difficoltà nel fornire scolarizzazione ai bambini rom: altri stati europei hanno avuto difficoltà simili." (paragrafo 205).

La Corte ha trovato una violazione dell'Articolo 14 (proibizione di discriminazione) della Convenzione Europea dei Diritti Umani, in congiunzione con l'Articolo 2 (diritto all'educazione) del Protocollo 1, riguardo il reclamo dei richiedenti sul fatto che i loro bambini erano piazzati in una scuola segregata a seguito di un breve periodo in cui avevano frequentato la locale scuola primaria, a causa della reazione dei genitori non-Rom che non volevano che i loro bambini frequentassero la stessa scuola dei bambini rom e che per questo avevano inscenato numerose proteste, inclusa quella di minacciare il ritiro dei bambini dal frequentare la scuola. La Corte ha ritenuto che era necessario prendere in acconto questi "incidenti di carattere razzista" che hanno avuto luogo e concludere che questi eventi hanno avuto un impatto nella decisione delle autorità di mandare i bambini rom nella scuola segregata composta da container prefabbricati.

Considerando la legislazione domestica e la posizione vulnerabile dei Rom in Grecia che può richiedere misure speciali per assicurare il pieno raggiungimento dei loro diritti, la Corte ha ritenuto che il fallimento delle autorità statali nell'iscrivere i bambini rom durante l'anno scolastico 2004-2005 è stato attribuito a loro e quindi la loro responsabilità è stata riconosciuta.

Riguardo allo sviluppo della scuola segregata, la Corte ha sottolineato che l'aver messo gli scolari rom nella scuola annessa non è stato il risultato di un test speciale ed adeguato, ha dato risalto alla necessità di mettere a posto un sistema adeguato nella valutazione di bambini che affrontano sfide educative che assicuri di evitare che i bambini di una minoranza etnica che sono piazzati in scuole preparatorie speciali basate su criteri discriminatori.

Per ultimo, la Corte ha reiterato i principi esposti nel giudizio D.H. ed Altri riguardo il consenso non richiesto, e notato che uno dei richiedenti aveva esplicitamente affermato di aver dovuto scegliere tra il mandare i suoi bambini alla scuola primaria locale e compromettere la loro integrità fisica mettendoli nelle mani degli indignati "non-Rom" o mandarli nella "scuola ghetto".

ERRC quindi accoglie con favore questo giudizio che rinforza la posizione affermata nel caso D.H. ed Altri che la segregazione di bimbi rom in scuole e classi inferiori è illegale e che i governi europei devono assumersene la responsabilità.

Il testo completo del giudizio è disponibile in francese sul sito web della Corte.

Information on D.H. and Others v The Czech Republic is available on the ERRC website at: http://www.errc.org/cikk.php?cikk=2945

The European Roma Rights Centre is an international public interest law organisation which monitors the human rights situation of Roma and provides legal defence in cases of human rights abuse. For more information about the European Roma Rights Centre, visit the ERRC on the web at http://www.errc.org 

To support the ERRC, please visit this link: http://www.errc.org/cikk.php?cikk=2735  
European Roma Rights Centre
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Fax: +36.1.413.2201

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Di Fabrizio (del 13/06/2008 @ 09:32:12, in Italia, visitato 1640 volte)

Da ChiAmaMilano

Schedati cittadini italiani la cui unica colpa è di essere zingari

Come su un piano inclinato il groviglio di pubblico panico e speculazione politica scivola senza potersi fermare.

Come su un piano inclinato la discesa comincia in un momento ben preciso ma nessuno sa quando si fermerà.

Come su un piano inclinato la velocità aumenta, pressoché incontrollabile e quanto solo ieri sembrava inimmaginabile oggi è orinaria amministrazione.

Così come è stato ordinario per Palazzo Marino e la Prefettura quanto accaduto alle 5 del mattino di venerdì 6 giugno nel campo nomadi autorizzato di via Impastato, periferia sud ovest della città. Prima dell’alba settanta poliziotti entrano in un campo regolare, abitato da una trentina di sinti italiani per controllarne e fotografarne i documenti. Un blitz degno di miglior causa, un'esibizione muscolare che non si era vista in altre situazioni indubbiamente assai più meritevoli di una così attenta vigilanza.

Sul piano inclinato ordinaria diventa anche l’assuefazione a ciò che invece dovrebbe evocare tetre immagini in bianco e nero e le circolari fasciste per l’internamento degli zingari italiani.

La schedatura di cittadini regolarmente registrati all’anagrafe comunale non ha suscitato, se non per le eccezioni di Caritas, Opera Nomadi, CGIL, Rifondazione comunista e la Consigliera del PD Fracesca Zajczyk, particolare sdegno e preoccupazione.

In un clima dove il vento dell’ossessione securitaria soffia inarrestabile e gli imprenditori della paura fanno ‘affari’ d’oro, era forse inevitabile che si arrivasse anche a questo. Non era però scontato il silenzio quasi assordante di forze politiche che avrebbero dovuto evitare di scivolare lungo la linea di massima pendenza della spirale paura-consenso. Il binomio magico del governo dell’inquietudine contemporanea.

Poco importa che la paura sia la moneta falsa con la quale la politica paga e continuerà a pagare le cambiali protestate delle speranze e dei bisogni cui non ha saputo dare risposta.

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Di Fabrizio (del 14/06/2008 @ 08:58:10, in media, visitato 1815 volte)

Si intitola così il libro che le edizioni BFS propongono, destinato non ai cani ma ai loro padroni. È nato pensando al fatto che alcune cose, alcuni concetti, siano molto semplici. E che in realtà non c’è nulla di complicato nella questione “zingara”, se non le barriere mentali che noi stessi costruiamo. Ne pubblichiamo qui l’introduzione.

Chiariamo subito una cosa. Questo libro non è destinato ai cani, ma ai padroni dei cani. È importante dirlo. Non è scritto pensando che chi vuol capire qualcosa in più sull’antiziganismo – ossia sui pregiudizi contro rom e sinti – sia un cane. Anzi. Questo libro è nato pensando al fatto che alcune cose, alcuni concetti, siano molto semplici. E che, in realtà, non c’è nulla di complicato nella “questione zingara” se non le barriere mentali che noi stessi costruiamo. Questo scritto, quindi, affronta alcuni luoghi comuni sugli “zingari” e cerca di spiegare perché non hanno senso.

Gli “zingari”

Finora abbiamo scritto “zingari” tra virgolette. Cominciamo dai termini corretti. Non si può, infatti, parlare di qualcosa e usare termini sbagliati. Perché è sbagliato usare la parola “zingari”? Prima di tutto perché si tratta di un eteronimo. Cioè di un termine attribuito dall’esterno, imposto. Se vogliamo ragionare insieme e dialogare, dobbiamo chiamarci con il nostro nome.
La parola “zingaro” di per sé non è dispregiativa, come non lo sarebbe la parola “negro”. Negro, una volta, non era un dispregiativo. Ora lo è diventato. E se il termine “zingaro” non avesse un carattere negativo? Potrebbe pure essere corretto se nella trattazione ci si riferisse ad un insieme di gruppi molto eterogenei tra loro per lingua, cultura, valori, modi di vita. Se si vuole invece far riferimento a gruppi particolari, è appropriato utilizzare termini più specifici. Se poi desiderassimo essere aperti alla comunicazione, ancora di più dovremmo rispettarci e chiamarci con il nostro nome. Se invece vogliamo esprimere dei pregiudizi, va benissimo.
Se vogliamo riferirci ai gruppi presenti storicamente in Italia, dovremo parlare di rom e sinti. Ogni gruppo ha poi denominazioni specifiche. Ci sono i rom napulengre (di Napoli), i rom abruzzesi, i sinti piemontesi, lombardi, veneti, teich (tedeschi), marchigiani, emiliani. E poi ancora ci sono i roma harvati, detti anche istriani o sloveni, anch’essi cittadini italiani dal secondo dopoguerra. Rispetto a questi ultimi, infatti, va considerato che il rimescolamento geografico dei rom e sinti europei a causa delle due guerre mondiali è stato forte. Durante il nazifascismo, poi, sono stati deportati e sterminati, per non essere infine riconosciuti come vittime di persecuzione razziale neppure al processo di Norimberga.
Negli ultimi anni ci sono anche state nuove migrazioni. Non stiamo parlando di nomadismo, ma di migrazioni. Molti rom sono giunti da diversi paesi dell’ex Jugoslavia, sono scappati dalle persecuzioni e dalle guerre. Recentemente molti rom sono giunti dall’Est Europa, principalmente dalla Romania, ma anche dalla Bulgaria e dalla Slovacchia. Migrano perché in questi paesi, oltre ad esservi meno ricchezza economica, vi è molta discriminazione nei loro confronti. Non che in Italia non ce ne sia, ma almeno c’è qualche opportunità in più di rifarsi una vita.

I “nomadi”

Il termine “nomadi” andrebbe usato solamente nel caso in cui si stia parlando di gruppi che effettivamente praticano il nomadismo. Pare un concetto nient’affatto complicato. Eppure è un argomento difficile. Oltre il 95% dei rom e sinti presenti in Italia non pratica il nomadismo. Anni fa i gruppi sinti si spostavano molto di più, giravano per i paesi, praticavano vecchi mestieri. Ma le cose cambiano.
Se non sono nomadi, perché i rom e i sinti vengono sempre etichettati come nomadi? È uno dei temi interessanti da affrontare. Una delle ragioni dell’odio nei confronti di rom e sinti è dovuto alla loro presunta non integrabilità. Il nomadismo calza bene con questo concetto. In uno stato-nazione fondato sul territorio, sulla sua difesa, sull’identità territoriale, uno che non è legato al territorio è pericoloso. Più o meno inconsciamente il nostro ragionamento si alimenta del fatto che questi “nomadi” non sono integrabili, che non lo sono perché non sono legati ad un territorio. Quindi sono asociali. Sono infatti asociali in quanto, si legge nelle carte del III Reich che giustificavano il loro internamento e sterminio, possiedono il gene del nomadismo, il Wandertrieb.
Come accennavamo prima, durante il processo di Norimberga non venne riconosciuto il fatto che lo sterminio di quasi un milione di rom e sinti sia stato dovuto a ragioni razziali. In fondo, si disse, erano stati perseguitati in quanto asociali. Certo, ammisero i giudici, tutti gli “zingari” sono asociali per vocazione innata. Razzialmente asociali allora? No, ma in fondo tutti sappiamo che gli “zingari” sono asociali e non integrabili. Questa logica fa acqua da tutte le parti, ma si comprende benissimo dove vada a parare.
È qui che lo “zingaro” cade a fagiolo. Perché in qualche modo ci fa comodo identificarlo con il nostro peggior nemico. Sono i nomadi coloro che mettono in pericolo il nostro ordine, coloro che ci derubano, che ci rapiscono i bambini, che stuprano le nostre donne. Li odiamo. Oppure li vogliamo normalizzare, rieducare. Ecco allora che siamo noi a voler portare via loro i bambini per educarli, integrarli nelle leggi di ordine, proprietà e uniformità. Il termine “nomade” è difficile da combattere per queste ragioni.
Ma forse i rom e sinti non si riconoscono in questo ruolo. Forse non sono i razziatori. Forse non agiscono per danneggiare qualcosa o qualcuno. Insomma: e se, invece, tutto fosse solo nella nostra testa?

I figli del vento

Il pregiudizio non è solo negativo. Quello positivo può essere altrettanto dannoso. Infatti, non ci aiuta certo nella comprensione. Lo “zingaro” libero, figlio del vento, l’artigiano nomade che lavora il rame, l’allevatore di cavalli, appartenente al popolo anarchico per eccellenza, che balla e canta melodie struggenti al chiaro di luna, che dorme sotto le stelle e vive alla giornata. Sono in genere nient’altro che luoghi comuni dell’esotismo, proiezioni romantiche di ciò che vagamente vorremmo essere. In ogni caso, sono costruzioni arbitrarie e unilaterali.
L’idea del Wanderer (“viandante”) era centrale nel romanticismo tedesco di inizio Ottocento. La fuga come desiderio poetico statico – desidero la fuga perché sono incapace di realizzarla – è però ben diversa dalla fuga reale o immaginaria, ma creativa e ricombinatoria, di chi ricerca e persegue la trasformazione.
L’attrazione astratta ed asettica verso colui che è capace di lasciare tutto (gli affetti, la casa, le proprietà) per mettersi in viaggio verso l’ignoto rischia di essere il contraltare dell’odio e del desiderio di annientamento nei confronti di chi incarna questa capacità. La staticità monolitica del III Reich, apice dello sforzo omologante ed identitario sorge, non a caso, in seno alla stessa società che ha generato l’idea romantica del Wanderer, a suo modo nutrendosene. Da Wanderer a Wandertrieb il passo può essere breve.

Gli “zingari” vogliono integrarsi?

Se gli “zingari” vogliano integrarsi è una delle domande più comuni che circolano. A chi chiede una cosa simile mi è capitato di rispondere di sì, che in realtà la stragrande maggioranza dei rom e sinti che vivono in Italia vogliono integrarsi. Ed è un dato di fatto. Se solo fossimo capaci di ascoltare, ci verrebbe detto da loro stessi.
Se inoltre fossimo capaci di vedere, ci accorgeremmo che quelli che noi etichettiamo come “zingari” sono solo una parte dei rom e sinti presenti in Italia. Molti rom e sinti sono assolutamente “integrati” e mai si sognerebbero di andare a dire in giro di essere “zingari”. Hanno una casa, un lavoro, le donne non portano le gonne lunghe. Nessuna di queste caratteristiche in realtà è fondamentale per essere rom o sinti.
Ma torniamo all’“integrazione”. Cosa intendiamo con “integrarsi”? Non facciamo confusione. Non vuol dire assimilarsi. Se per un attimo prendiamo in considerazione il fatto che in una società integrarsi significhi convivere civilmente ed essere rispettati nella propria diversità, allora può andare bene. Purtroppo le società aperte a questo tipo di integrazione sono rare. Assimilare, invece, vuol dire pretendere dall’altro l’omologazione: un atteggiamento molto più diffuso.
Pur essendo ottimista e considerando l’integrazione possibile in una società aperta, quando sostengo che i rom e i sinti vogliono integrarsi provo sempre un forte disagio. Proviamo anche solo un momento a dircelo da soli: “Sono integrato”, “Mi sento pienamente integrato”. Deprimente. L’integrazione, insomma, è una fregatura. Non prevede l’apertura verso l’altro, il diverso. Al massimo lo tollera, se è disposto a sottomettersi alle leggi civili.

Famiglia e famiglie

Il nostro concetto di famiglia, poi, raggiunge il suo apice quando finalmente le istituzioni cercano di dare risposte alle situazioni più critiche, spesso create da loro stesse. Esempio. Un campo viene sgomberato per accorgersi solo dopo, stranamente, che intere famiglie con bambini piccoli sono state lasciate per strada, magari in pieno inverno. In tali casi, le istituzioni “cattive” che hanno messo in strada le famiglie fanno un passo indietro, e subentrano quelle “buone” – loro stesse, a volte – che per necessità devono intervenire. I bambini vanno tutelati. Come se i bambini non fossero parte della famiglia. Come se la tutela dei bambini non passasse attraverso i diritti dei genitori. Come a voler dire che in realtà sarebbe meglio, per il bene dei minori, separarli dai loro padri e madri incapaci, che forse li maltrattano e li sfruttano pure. In queste circostanze imbarazzanti, spesso viene offerta una “soluzione” assistenziale solo ai bambini e alle loro mamme. I nuclei familiari vengono in pratica smembrati. I padri restano tagliati fuori e si trovano, da un giorno all’altro, per strada. Riempiamoci la bocca di famiglia, allora, per usarla come randello e strumento di coercizione e ordine, da tirare fuori quando è utile per poi riporlo quando intralcia.
L’idea di integrazione di rom e sinti che coviamo nel profondo passa proprio da questo. Dall’annullamento di ogni legame con i genitori, con il passato, con una cultura rom e sinta che giudichiamo irredimibile.

Emergenza campi

L’assunzione dello stato di emergenza è un classico nella gestione del “problema zingaro”. Così come sono dei classici le promesse fatte e non mantenute dalle istituzioni. E anche la collocazione dei campi in “nonluoghi”, in prossimità di frontiere, vicino ai cimiteri, accanto alle discariche, tra gli svincoli autostradali. E, infine, l’utilizzo fallimentare del privato sociale per la realizzazione di percorsi di scolarità e rieducazione.
Gli “zingari” vengono spesso trattati alla stregua di spazzatura. Nessuno li vuole sul proprio territorio. I soldi spesi per i campi vengono buttati senza controllo, senza alcun monitoraggio, vengono dati dalle istituzioni pubbliche al settore del privato sociale per scaricare un problema, mai per risolverlo. Puntualmente va a finire che la situazione non migliora per i rom, mentre il privato sociale tende non a risolvere i problemi ma a campare di quello che ne ricava, gestendo luoghi infami e badando bene a non criticare l’istituzione che fornisce i finanziamenti.
Esiste un problema di logica elementare nelle politiche di “delocalizzazione” dei rom. O si trova un luogo isolato da tutto e da tutti, oppure ci sarà sempre qualcuno per cui la delocalizzazione è in realtà una localizzazione “a casa propria”. Per questo si finisce sempre per destinare i campi a nonluoghi. Andiamo al punto: chi non vuole gli “zingari” a casa propria dovrebbe ammettere chiaramente che l’unica soluzione è sterminarli. O vogliamo ipocritamente pensare che chi non li vuole a casa propria trovi qualcuno che li accolga altrove?

Buone azioni o cattive pratiche?

Con queste premesse, come si può chiedere ai rom e sinti di “rispettare le regole” in cambio della presunta concessione di diritti? Quali diritti? L’idea di sedersi ad un tavolo e discutere con i diretti interessati per uscire da condizioni spesso drammatiche, mettendo in gioco tutte le energie vitali possibili, a nessuno passa nemmeno per la testa. La pianificazione nel sociale (ovvero in ciò che ha a che fare con la dimensione della socialità, della relazione) in Italia è quasi sempre un fallimento. Gli “zingari” rappresentano, in questo ambito, una cartina di tornasole.
Insomma, questi esperimenti privi di strategia complessiva sembrerebbero puntare alla rieducazione. Anche tralasciando il cupo retroterra di questo concetto, che quantomeno rimanda ai gulag – sempre di campi si tratta – non è possibile tacere sul fatto che la rieducazione, esplicita o implicita, è nemica del coinvolgimento diretto. E se questo non viene perseguito è perché manca il riconoscimento di base, quello al diritto di esistenza. Esisti, ti riconosco, parlo con te, ti ascolto.
In questo vuoto comunicativo succede spesso che gli operatori impreparati si fidino, per tenere sotto controllo i rom giustamente incazzati, di quei rom che sui campi come terra di nessuno ci fanno affari. I furbi e i delinquenti che tengono a bada coloro che si sentono schiacciati. Con il passare del tempo, i campi diventano luoghi ingestibili, pieni di miseria e frustrazione, in cui l’apatia è un peso che spinge sempre più in basso, là dove comandano i furbi.
Nel constatare un riprodursi perenne di problematicità, l’istituzione si indigna. Vorrebbe che i derelitti che sta salvando fossero riconoscenti, e vorrebbe vedere secoli di emarginazione svanire davanti ad una buona azione caritatevole. Invece rom e sinti non accolgono la rieducazione e nemmeno ringraziano. Magari sfasciano tutto. Nel frattempo, in genere, crescono le pressioni da parte della “gente” e di chi alimenta l’odio per professione e, con queste, anche l’astio e l’impotenza in chi pensava di poter risolvere il problema. A questo punto si abbandona la via assistenzialista e si passa alla repressione, all’espulsione, allo sgombero.

Il sospettabile mostro

Il semplice fatto di essere “zingaro” e di vivere in un campo fa cadere una persona nella categoria dei sospettabili. Se poi un rom o un sinto infrange le regole, i giornali, il sistema politico e l’opinione pubblica si scatenano.
Fa strano vedere come l’opinione pubblica sia scossa e spiazzata davanti al gioco dei sospettabili. Gli “zingari” sono sospettabili. Anzi, colpevoli. Ma quello, quello era uno dei nostri. Il marito che picchia la moglie, la signora che uccide il figlio che frigna troppo, il figlio che uccide la madre e il fratello, i pedofili che agiscono negli asili e tra le mura di casa. Stranamente, mentre in Italia crescono i fatti di sangue e la violenza in famiglia, la gente ha sempre più paura dell’altro, di chi appartiene alla categoria dei sospettabili. Il cittadino integrato non si vuole chiedere perché la nostra società partorisce crescente frustrazione e violenza, non si ferma a ragionare sul tessuto sociale che si disgrega, sull’incertezza del lavoro e del futuro, sulla banalità del successo dei meccanismi di potere che dividono i cittadini integrati in coloro che fottono o sono fottuti, in winners or losers. Se la paura rimane, lo sfogo si focalizza sul sospettabile, su colui che temo possa rubarmi i privilegi accumulati, con o senza merito, o che possa rendermi ancora più precaria ed insicura la vita.

Il nostro giudizio universale

Qualche anno fa ho lavorato ad uno studio sulla relazione tra la salute dei bambini e le condizioni di vita in cinque campi di rom kosovari e macedoni. La decisione di approfondire questo tema non era una mia idea, ma nasceva dal confronto con le famiglie che vivevano nei campi: la questione della salute dei bambini era la loro maggiore fonte di ansia. I genitori erano preoccupati per la salute dei loro figli. Lo studio dimostrò che gli effetti di tali condizioni sono devastanti. Non certo per colpa dei genitori. Quelle famiglie che vivevano in campi regolari, messi in piedi dalle amministrazioni locali di cinque capoluoghi di provincia, non potevano fare di meglio. I colpevoli erano e sono le istituzioni, sole responsabili di un danno al futuro dei bambini rom che non pagheranno mai.
Siamo sinceri. Possiamo dire che vi sono bambini (non necessariamente rom) sfruttati dai loro genitori e/o da organizzazioni criminali. È tragicamente vero. Ma attaccare i rom e i sinti su questo piano è operazione subdola e razzista. I rom e i sinti amano i propri figli come ogni genitore. Con chiare eccezioni, come ovunque nel mondo. Che vi siano rom e sinti che rubano è innegabile. Il furto è sempre esistito (da sempre sanzionato) in tutte le società e tanto più in quelle in cui è accentuato il divario tra benessere e miseria. Poi ci sono anche gli insospettabili che rubano ben protetti in alto, delle istituzioni (pubbliche o private) e che a molti possono persino fare invidia per la facilità con cui accumulano successo e denaro.
La questione non è negare che vi siano rom e sinti che delinquono. Il problema è quello di parlare di rom e sinti come dei delinquenti. Questo equivale a stravolgere la realtà, a raccontare menzogne. I rom e sinti che vivono nei campi sono le prime vittime di questo pensiero.

Eppure non basta mai

Intanto, comunque, i rom e sinti arrancano. Sfangarsi non è facile. La strada per liberarsi dal peso del pregiudizio è in salita. Si può vivere come se non esistesse? La letteratura scientifica è piena di studi sulle implicazioni negative dell’appartenenza a gruppi emarginati, sulla difficoltà di credere nelle proprie forze al di là dei meccanismi di oppressione. È facile chiedersi perché i rom non escono dai campi e non trovino delle soluzioni alternative.
Ho visto un’opera di suore rifiutarsi di accettare donne rom in corsi per collaboratrice domestica che avrebbero dato loro accesso al permesso di soggiorno ed a un’eventuale occupazione. Le suore hanno una paura fottuta degli “zingari” come chiunque altro. Figuriamoci un datore di lavoro medio. Un’amica che fa la bidella ha una paura tremenda che si venga a sapere che è sinta. Perché dovrebbe avere paura? Ha un lavoro regolare, paga le tasse. Eppure non basta mai. Se non hai un lavoro è perché sei un disadattato, se lo hai sei automaticamente sospettato di combinare guai. Non fa differenza se lavori, se hai una casa, se i tuoi figli vanno alle superiori. Lo stigma dell’essere un non integrabile continua a perseguitarti.
I rom e i sinti sono belli e brutti, intelligenti e stupidi, modesti e arrivisti, sinceri e falsi, aperti e chiusi come tutti noi, come i nostri parenti e i nostri vicini di casa. E si trasformano e si adattano al mondo. Ogni volta che ho una certezza, le nuove conoscenze la spazzano via. Più vado avanti e più mi accorgo che alle domande che mi pongono sui rom e i sinti rispondo: «dipende». L’uomo nero è una nostra invenzione, è frutto del nostro sistema e delle nostre proiezioni. Tocca a noi, e non a rom e sinti, comprendere cosa lo genera e lo alimenta.

Lorenzo Monasta

Lorenzo Monasta
è nato ad Embu (Kenia) nel 1969. Si è dottorato in epidemiologia con una tesi sulla relazione tra salute dei bambini e condizioni di vita in campi di rom macedoni e kosovari in Italia (vedi in www.osservazione.org). È tra i fondatori di OsservAzione, centro di ricerca azione contro la discriminazione di rom e sinti. Sulla loro condizione ha pubblicato: Vite Costrette (con B. Hasani, Ombrecorte 2003); Note sulla mappatura degli insediamenti di Rom stranieri presenti in Italia (In Italia Romaní, Vol. IV., a cura di C. Saletti Salza, L. Piasere, CISU 2004); Cittadinanze imperfette (con N. Sigona, Spartaco 2006).

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Di Fabrizio (del 14/06/2008 @ 09:21:43, in Regole, visitato 1451 volte)

Danze rom a Gjilan/Gnjilane, Sud Kosovo

Sono 12 milioni i rom che abitano in Europa. Si stima siano 500.000 nella sola Serbia, dove grazie all'assistenza legale gratuita potranno ottenere l'iscrizione anagrafica e il rilascio di documenti di identità
Fonte: UNHCR - Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati

elaborazione di Osservatorio sui Balcani


Al via a Belgrado il primo progetto di assistenza legale gratuita per le comunità rom che l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati attua in Serbia e negli altri Paesi della regione.

Il progetto fa parte di un programma regionale finanziato dall’Unione Europea che mira all’integrazione delle minoranze in questi Paesi, "Inclusione sociale ed accesso ai diritti umani per i rom, gli ashkali e gli egiziani dei Balcani occidentali", e verrà messo in atto in Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Macedonia e Serbia, incluso il Kosovo.

Obiettivo principale del progetto di assistenza legale è quello di aiutare le comunità rom ad ottenere la registrazione presso l'anagrafe ed il rilascio dei certificati di nascita in modo da poter richiedere i documenti di identità che possono, a loro volta, aprire la strada a nuove opportunità in campo sociale, sanitario, educativo e lavorativo.

Il programma durerà 18 mesi e sarà messo in atto da squadre mobili di operatori UNHCR e dai partner dell'Alto Commissariato, tra cui le altre agenzie delle Nazioni Unite, le ONG e le autorità locali e nazionali dei vari Paesi.

Nel progetto saranno coinvolti venti municipi serbi dove l'UNHCR, tramite il proprio lavoro sul campo con rifugiati e sfollati nel corso degli anni, ha incontrato il maggior numero di rom che non possiedono documenti di identità. Tra queste comunità rom figurano quelle fuggite dal Kosovo e quelle rimpatriate dall'Europa occidentale sulla base di accordi di riammissione oltre ai rom residenti da sempre nelle varie località.

La situazione dei rom in Serbia è andata peggiorando in particolar modo con la crisi del Kosovo, nel 1999, quando arrivarono gli sfollati in fuga dalla provincia serba e molti registri anagrafici in Kosovo furono danneggiati, distrutti o smarriti. Le comunità rom in Serbia sono inoltre relegate ai margini della società in Serbia a causa dei loro spostamenti frequenti, della loro povertà estrema e della discriminazione cui devono far fronte.

La mancanza di documenti di identità è un grave problema nei Balcani occidentali, dove crea un mondo parallelo popolato da "invisibili" esclusi dai sistemi statali. In molti casi alle autorità sono mancate la volontà o le risorse per far fronte a questi problemi. Stando alle stime disponibili, in Serbia attualmente vivono tra i 100 ed i 500mila rom. 23mila di loro sono sfollati interni provenienti dal Kosovo registrati come tali. La maggior parte di queste persone non è in grado di veder rispettati i propri diritti di base a causa della mancanza di documenti di identità.

La Serbia si è impegnata a migliorare la situazione in base agli accordi raggiunti nell’ambito del "Decennio per i Rom", un forum di cui il paese assumerà la presidenza a giugno.

L'iniziativa "Decennio per i Rom 2005-2015" venne inaugurato nel 2005 in una riunione tenutasi a Sofia a cui parteciparono i capi di Stato e di governo di 8 paesi del continente europeo e i presidenti dell'Unione europea e della Banca mondiale. L'iniziativa - promossa dalla Banca mondiale - prevede uno sforzo internazionale per migliorare le condizioni di vita e l'integrazione dei circa 12 milioni di rom che vivono in Europa. I problemi che colpiscono i rom, che costituiscono il 2% della popolazione del continente, sono già da tempo affrontate dall'OSCE, che ha messo in campo diversi progetti per la non discriminazione ed il sostegno dei rom e dei sinti.

Un punto importante del problema è infatti l'educazione scolare, considerato uno strumento fondamentale per l'integrazione di una comunità che presenta peraltro un'età media molto bassa. Infatti il 70-80% dei giovani Rom ad oggi non completa il primo ciclo di studi ed ha quindi difficoltà a trovare lavoro. Come conseguenza i Rom sono segnati dalla povertà e dalla disoccupazione dieci volte di più che gli altri popoli europei. Vi è poi l'aspetto della discriminazione: essi vengono emarginati e fatti segno, talora, anche di gesti di intolleranza e violenza. Contro tali gesti sono in atto anche programmi culturali dell'Unione Europea.

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Di Fabrizio (del 15/06/2008 @ 08:51:09, in Europa, visitato 1552 volte)

Da Romanian_Roma

Bucarest, 9 giugno /Rompres/ - La Romania non può assumersi lei sola la responsabilità di ciò che i cittadini della minoranza etnica rom fanno all'estero, ha dichiarato lunedì a Bucarest il presidente rumeno, Traian Basescu, durante una conferenza stampa congiunta col presidente finlandese, Tarja Halonen. [Ndr: i Rom in Romania, secondo il censimento del 2002, sono stimati al 2,5% della popolazione].
"La Romania non introdurrà mai delle restrizioni di circolazione per i suoi cittadini. Tutti i cittadini potranno circolare in Europa e, fianco ai governi degli stati dove i Rom [di Romania ndr] si stabiliscono, noi dovremo trovare delle soluzioni", ha detto il presidente Basescu.

La problematica riguardante i Rom, la loro circolazione nello spazio comunitario, ha costituito uno dei soggetti affrontati da Traian Basescu e Tarja Halonen, durante i loro discorsi lunedì scorso a Bucarest. Secondo Basescu, la Commissione Europea sta elaborando un documento per approntare soluzioni a livello europeo.

Tarja Halonen da parte sua ha detto che la Finlandia può condividere con la Romania la sua esperienza per quanto riguarda la situazione dei Rom.

"Anche noi, abbiamo una popolazione rom in Finlandia. Anche noi abbiamo problemi da fronteggiare. Abbiamo acquisito parecchia esperienza per quanto riguarda, per esempio, la situazione dei bambini rom che abbandonano la scuola. Siamo coscienti che tutti i bambini debbano avere diritto all'istruzione.
Concentriamo i nostri sforzi per portarli a seguire la scuola, ad imparare un mestiere che fornisca loro i mezzi per vivere. La mendicità non è un mestiere ed in Finlandia ci sono dei Rom rumeni che la praticano" ha dichiarato la presidente finlandese.

Asserendo che la popolazione rom finlandese è assai meno numerosa, Tarja Halonen ha proseguito: "Consideriamo pertanto che ci sono due aspetti principali quanto alla situazione dei Rom. Assicurargli alloggio e l'accesso all'istruzione, e noi agiamo in questo senso. La stessa cosa dovrebbe passare a livello di comunità europea, dell'OCSE, occorre cercare soluzioni a riguardo. Non possiamo accettare la mendicità che ci inquieta profondamente", ha sottolineato Halonen.

Da parte sua, Traian Basescu ha  fatto conoscere che la sua discussione avesse anche  affrontato altri temi legati alla UE, temi riguardanti il Kosovo, la zona del mar Nero o la sicurezza delle frontiere.

"Credo che l'esperienza della Finlandia in materia di buon governo sia estremamente utile (...) Il sistema finlandese è il più efficiente per quanto riguarda la scolarizzazione. Ci sono alcuni settori dove lo scambio d'esperienze è molto importante", ha invece rimarcato il presidente Basescu. [Rompres]

www.Roumanie.com

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Di Fabrizio (del 15/06/2008 @ 08:53:44, in Europa, visitato 4200 volte)

Da Osservatorio sui Balcani

11.06.2008 scrive Tanya Mangalakova [Български]

A maggio, sulla "Gora", in Kosovo, l'aria risuona di tamburi e zufoli. E' "Djuren", la festa più sentita nella comunità dei gorani, slavi di religione islamica. Gli emigranti ritrovano parenti e amici, per i giovani, veri protagonisti della festa, è il momento di cercare la propria "dolce metà"
Foto di Tanya Mangalakova

Ermina ha diciassette anni. Bella come un quadro, vive tra la capitale macedone Skopje e la cittadina di Petrich, in Bulgaria meridionale. I suoi genitori sono gorani del villaggio di Brod, nella regione della Prizrenska Gora, in Kosovo. La famiglia ha ereditato la professione di pasticcieri, tipica dei gorani del Kosovo. Nel 2006 hanno aperto una loro pasticceria nel centro di Petrich; prima lavoravano a Skopje, come fa almeno la metà degli abitanti di Brod. Ermina studia a distanza in un istituto superiore di Skopje, e aiuta i propri genitori in pasticceria. Suo fratello, Almir, 24 anni, è già famoso a Petrich per la qualità del suo “burek”.

Per tutto l'anno Ermina ed Almir aspettano con impazienza che arrivi il mese di maggio, quando sulla “Gora” si festeggia la grande festa di “Djuren”, il nome con cui i gorani chiamano la festa originariamente dedicata a San Giorgio. Il 3 maggio i ragazzi viaggiano attraverso la Macedonia per andare a Brod, villaggio dall'aspetto caratteristico disteso su un altopiano alle falde della Sar Planina. E' il padre, Bilgaip, che rimane a Petrich per tenere aperto il negozio, dando così l'opportunità ai giovani, che nel frattempo hanno riempito il bagagliaio dell'auto fino all'orlo di vestiti all'ultima moda, di festeggiare “Djuren” sulla “Gora”. Per tre giorni Ermina ed Almir sfileranno sul “corso” del paese, indossando tutti i propri vestiti più belli. Sul “corso” nascono storie d'amore, che di solito finiscono col matrimonio. E' “Djuren”!

"Djuren"
Donna gorana
“Djuren” è sicuramente la festa più importante, per i gorani, una festa che unisce in modo eclettico elementi cristiani ed islamici. Dal 4 all'8 di maggio, secondo un'antica tradizione, gli emigranti gorani tornano nei propri villaggi della “Gora”, che durante l'inverno restano quasi disabitati. Ogni anni, in questa occasione, la Sar Planina si riempie del suono di zufoli e tamburi, che la trasformano, dandole un'atmosfera mistica, quasi fossimo in Tibet. Le donne vestono i “noshni”, abiti tradizionali cuciti a mano. Aspettano tutto l'anno per poter mostrare gli abiti, arricchiti da grosse monete d'oro. Ci si trucca per ore, fino a che il viso non diventa una maschera preziosa.

“Djuren” comincia il 5 maggio, detto “travke”. Nella mattina di questo giorno si raccolgono erbe (travke, appunto) che vengono poi immerse nell'acqua con cui si lavano i bambini. Quest'anno a Brod c'erano due fidanzamenti ufficiali, il che significa festa per tutto il villaggio. In serata, musicanti da Prizren hanno suonato per alcune ore, sia nella parte superiore che in quella inferiore di Brod. Le strette stradine fervevano di vita, giovani e vecchi ballavano lo “horo” (o “kolo” ballo tradizionale comune in tutti i Balcani), sul “corso” faceva mostra di se tutta la gioventù di Brod. I giovani che ancora non hanno trovato una “verenica” (fidanzata) facevano mostra delle proprie possibilità, spandendo denaro per far sì che i musicanti rom suonassero senza fine.

Il 6 maggio i gorani si danno appuntamento sui prati della “Vlaska”, località vicina al villaggio di Vranista. Quasi ogni villaggio gorano ha un luogo particolare dove festeggiare “Djuren”. Il 7 si festeggia in un campo vicino a Rapca, il 9 a Brod, il 10 non lontano da Restelica.

Il 6 maggio sulla “Vlaska”
"Sul corso"
Il 6 maggio i gorani festeggiano all'aperto sulla “Vlaska”. Si raccolgono ramoscelli di salice, si ballo lo “horo” al suono di tamburi e zufoli, si arrostisce l'agnello. Nonostante il tempo brutto, anche quest'anno le ragazze e le donne gorane hanno indossato i propri “noshni” e scarpe bianche abbellite da migliaia di perline di vetro. Da Brod la gente è scesa prima in direzione di Dragas per poi arrivare sulla “Vlaska”, dove il sole ha iniziato a far capolino tra le nuvole. “Il 'corso' sulla 'Vlaska' è il più bello di tutta la 'Gora'”, dicono convinti i gorani. Qui le giovani sfilano nei propri preziosi vestiti, ma sempre accompagnate da un cavaliere, marito o fidanzato che sia. “Dal colore del vestito”, raccontano le sorelle Javahida di Vraniste, “si può capire chi è sposata e chi è libera”. Le donne sposate portano vestiti neri, quelle libere invece indossano colori chiari, come fanno anche le ragazze fidanzate. Le donne più anziane, come le sorelle Javahida, portano vestiti semplici, sempre neri. Le donne più giovani impreziosiscono invece il proprio abbigliamento con seta, broccato, ricami, ed indossano gioielli in abbondanza. Le donne gorane si coprono la testa con la “basrama”, un grande e bello scialle, ornato anche questo da migliaia di perline.

La tradizione vuole che le ragazze, durante il lungo inverno, tessano da sole il proprio vestito, “per diventare da belle ad ancora più belle”. Oggi soltanto una piccola minoranza ha conservato quest'arte. Vajda, 64 anni, ancora adesso cuce e orna i “noshni”. Le giovani, comprano proprio da donne come lei. Un vestito può costare anche più di mille euro, ma indossare gli abiti tradizionali durante la festa di “Djuren” è obbligatorio. Le monete d'oro, anche queste parte del completo da sfoggiare, vengono invece ereditate di generazione in generazione. Vajda ricorda con nostalgia la propria giovinezza. Suo marito è insegnante a Vraniste, sono sposati da 44 anni, quando ancora non c'era alcun “corso” sul quale ragazzi e ragazze potessero scambiarsi sguardi ed innamorarsi. “Il 'corso' è nato quando i giovani hanno cominciato a lavorare in città”, racconta. “Dopo aver visto come si passeggiava a Belgrado, hanno portato qui questa abitudine”.

La festa di “Djuren” è strettamente legata al modo tradizionale di vita dei gorani: gli uomini in giro nei Balcani dove lavorano alla produzione artigianale di dolci e “burek”, le donne a casa per badare ai figli. La tradizione vuole quindi che a “Djuren” gli uomini tornino nei propri villaggi di origine, per incontrare parenti ed amici. Gli scapoli, poi, tornano per trovare la propria “dolce metà”.

Durante il periodo di festa, i caffè di Brod sono pieni di giovani. Anche oggi, i gorani rispettano le antiche regole, che prevedono che alle donne non sia permesso mettere piede in questi locali. Almir, come tutti gli altri giovani, va a dormire solo a notte inoltrata, si sveglia tardi, cammina per le strade di Brod come drogato di felicità. “Ho solo tre giorni a disposizione, e voglio utilizzare ogni minuto, ogni secondo, per stare insieme ai miei amici. Viviamo dispersi e lontani, chi a Skopje, chi a Nis, chi a Belgrado, chi in Bulgaria. 'Djuren' e l'unico momento in cui riusciamo a riunirci tutti, e a stare insieme sulla nostra 'Gora'”.

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Di Sucar Drom (del 15/06/2008 @ 09:18:27, in blog, visitato 1663 volte)

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