Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Capita, di sentire paragonare la situazione di Rom e Sinti
in Europa a quella dei nativi americani. Una delle cose che può unirli, è la
conoscenza dell'erboristeria tradizionale, conoscenza che col tempo sta sparendo
tra le comunità romanì. Non conosco approfonditamente la situazione dei nativi
americani, ma vedo che tra loro questa memoria viene tramandata come identità
culturale.
Indian country
By ICTMN Staff May 4, 2012 RSS - Pat Gwin, direttore alle Risorse naturale
della Nazione Cherokee, discute sulle piante con Cathy
Monholland, storica delle tribù e specialista del curriculum
culturale, in preparazione della seconda conferenza annuale etnobotanica
della Nazione Cherokee. La conferenza si terrà il 24-25 maggio. (Courtesy of Cherokee Nation)
Imparare come i Cherokee usavano le piante tradizionale come medicina, cibo,
riparo, armi e altro ancora prima del Trail of Tears (l'esodo forzato dalle
terre native ndr.) e di come alcuni componenti delle tribù stanno operando
per preservare le tradizionali conoscenze ecologiche, e coltivare giardini con
queste piante importanti per gli Cherokee. Poi si andrà a piedi verso
Rocky Ford, a nord di
Tahlequah, Oklahoma, per osservare queste antiche piante crescere nel loro
ambiente naturale e ascoltare come iniziare il proprio giardino cherokee.
La seconda
conferenza annuale etnobotanica
della Nazione Cherokee si terrà il 24-25 maggio. Il primo giorno, gli oratori
condivideranno alcune conoscenze tradizionali riguardo le piante della
Riserva Cherokee del
complesso tribale W.W. Keeler a Cherokee, Oklahoma. La conferenza si concluderà
con la visita guidata a Rocky Ford.
"Scopo della nostra conferenza è far crescere la consapevolezza e
l'apprezzamento per le piante cherokee, che ci fornivano non solo da mangiare ma
anche medicina," dice Cathy Monholland, storica delle tribù e specialista del
curriculum culturale per la Nazione Cherokee, in un comunicato stampa. "In molti
hanno interesse ma non la competenza riguardo a queste piante, quindi vogliamo
insegnare di più su queste piante che ancora sono importanti nella vita dei
Cherokee, ed il nostro cammino nella natura ha lo scopo di permettere alle
persone di osservare alcune di queste piante nel loro habitat naturale."
Clint Carroll (Courtesy of the University of Minnesota)
Il primo giorno l'oratore ospite
Clint Carroll, della Nazione Cherokee, evidenzierà le diverse sfide
contemporanee che il suo popolo deve affrontare nel preservare la conoscenza
ambientale degli indiani americani e le sue pratiche, col discorso: "Cosa
sappiamo su ciò che vive nel mondo selvatico: la conoscenza ambientale cherokee
attraverso le epoche". Carroll è dottore associato in
studi degli indiani americani
all'università di Minnesota–Twin Cities ed ha lavorato come tecnico
all'ambiente e alle risorse naturali per la Nazione Cherokee.
Dopo il discorso di Carroll, i maestri giardinieri Tony e Carra Harris
presenteranno alle 13.30 "Se le piante potessero parlare: una relazione
cherokee". La coppia ha coltivato una delle più grandi collezioni nella nazione
di piante significative per i Cherokee. Tony illustrerà come le piante erano
usate per medicina, cibo, ripaqro, armi, strumenti e a scopo cerimoniale, prima
del Trail of Tears. Carra presenterà idee e risorse per iniziare un proprio
giardino cherokee.
La giornata conclusiva vedrà una passeggiata guidata di due ore nella natura,
durante la quale i relatori della conferenza ed i rappresentanti del
dipartimento alle Risorse Naturali illustreranno alcune delle piante presentate
nella conferenza.
"Portiamo i partecipanti dove possono vedere crescere le piante, cosa che
normalmente non è proponibile in un ambiente suburbano," ha detto Pat Gwin,
guida alla camminata e direttore alle Risorse Naturali della Nazione Cherokee.
"L'ambiente naturale dell'altopiano di Ozark assomiglia all'ambiente più a est
dove vivevano i Cherokee."
La conferenza è gratuita ed aperta al pubblico. Per la passeggiata nella natura,
verrà data precedenza ai primi arrivati. Informazioni sulla Conferenza
Etnobotanica della Nazione Cherokee, contattare Monholland (001) 918-453-5389.
Da
Hungarian_Roma
Roma Buzz Monitor Autoemancipazione di una donna rom ungherese
di Laura Rahman
Non molti conoscono la differenza tra razza, nazionalità ed etnia. Molti di
noi considerano queste tre parole come similari. Sono nata e cresciuta
all'interno di un ghetto zingaro urbano in Ungheria. Nacqui che mia madre aveva
16 anni. Mio padre era un giovane delinquente. I suoi genitori erano scomparsi
ad Auschwitz e lui crebbe in affido. Non si è curato troppo della sua
origine etnica. Aveva adottato la vita dei Rom dove aveva famiglia e amici. In
Ungheria, parlavo ungherese e non avevo religione, causa il periodo comunista.
Ho frequentato le scuole ungheresi, imparato la letteratura e la storia degli
Ungheresi, ma vivevo nel ghetto zingaro di Budapest. Attorno a me c'erano
povertà e crimini, ma anche amore e molta arte in forma di musica e balli. A 20
anni, emigrai negli USA. All'inizio, ero persa. Non parlavo inglese, non avevo
famiglia, e neanche una religione che mi collegasse a qualche gruppo. Andai a
scuola per imparare l'inglese. Con me frequentava gente di tutti i tipi, ognuno
parlava la sua lingua e frequentava la propria gente. Mi chiedevano da dove
venissi. Dall'Ungheria, rispondevo. Poi mi chiedevano dov'è l'Ungheria.
Nell'Europa dell'Est. Volevano anche sapere che lingua parlavamo. Dicevo loro
che in Ungheria si parlava ungherese, e sentivo un orgoglio nazionale perché la
gente voleva conoscere il mio paese. Non mi è mai maturato di poter essere di
altra nazionalità che ungherese. Cinque anni dopo sono diventata cittadina
naturalizzata USA. Vivo a New York, sposata con un Indiano musulmano, con mio
marito ed i miei figli parliamo inglese, seguiamo l'Islam, vivendo come
qualsiasi ordinario cittadino USA. Americani medi, con una casa in periferia,
che guidano sempre per andare al negozio di alimentari, all'ufficio postale, a
fare la spesa settimanale nei grandi supermercati, che mangiano hamburger ed
inzuppano ciambelle. Mi sono pienamente adeguata alla nuova vita negli Stati
Uniti. Ora i bambini sono cresciuti e non richiedono più la mia totale
attenzione. La mia vita sociale ruotava attorno a loro. Andavo alle riunioni
scolastiche, li portavo alle attività extracurriculari come corsi artistici,
nuoto e tennis, incontrandomi e socializzando coi genitori dei loro amici. Ora
che ho tempo per me stessa, mi sto facendo domande sullo spirito. Mi sono
trovata in crisi d'identità. Così sono tornata al college, cercando di diventare
una persona importante, in grado di fare la differenza. E lì ho imparato alcune
cose importanti. Ho imparato che apparteniamo tutti ad un'unica razza umana, che
in qualche modo siamo tutti interconnessi, e che la nazionalità e l'etnia sono
fattori secondari della nostra identità umana.
Cosa significa essere zingaro? E' natura o educazione ("nature or nurture?"
nella versione originale ndr.)? Nasciamo per essere zingari o lo diventiamo
per fattori sociali ed ambientali? C'è molta speculazione sul patrimonio
ereditario zingaro. Non è di questo che voglio discutere. Il mio dilemma è cosa
sia essere uno zingaro nel mondo d'oggi. Sono necessari determinati requisiti?
Quali? E chi è l'autorità che ci dice se siamo zingari o no? Essere zingari per
fattori genetici non basta. Alcuni di noi hanno solo una percentuale di sangue
rom nelle vene, ma rimaniamo zingari. Noi popolo romanì siamo in viaggio da 1000
anni. Questo significa che abbiamo viaggiato nel mondo e ci siamo mischiati con
tutti i popoli incontrati per strada. Inoltre, un fatto impopolare è che in
Europa siamo stai schiavi per circa 500 anni. Significa, che le zingare erano
violentate, usate come schiave del sesso. Anche i bambini nati in quest'ambiente
diventavano schiavi. Se proveniamo dall'India, perché tra di noi ci sono Rom
biondi e con gli occhi azzurri?
Gli zingari sono una razza? La risposta è no. C'è soltanto una razza Umana,
cioè l'Homo sapiens. La razza è un trucco della genetica. La popolazione umana
mondiale condivide il 99,9% della genetica. La razza è natura e l'etnia è
educazione; cioè, caratteristiche di nascita contro patrimonio culturale. Lo
0,1% di variazione genetica è responsabilità delle differenti caratteristiche
umane, come il colore dei capelli e la struttura del corpo, il colore degli
occhi e della pelle. Ma lo stesso colore della pelle è fortemente influenzato da
fattori ambientali, quali la somma delle radiazioni solari. Ci sono tre distinte
razze umane e trenta sottorazze. I Rom appartengono alla categoria degli Ariani,
perché discendono dagli Indiani e parlano una lingua indo-europea.
- Razze caucasiche; Ariani che parlano lingue indo-europee
Camiti, discendenti dalla progenia di Noè
Semiti-Ebrei, Arabi
- Razze mongole; Mongoli nordici, Cinesi ed Indo-Cinesi
Giapponesi, Coreani, Tibetani, Malesi, Polinesiani, Maori
Micronesiani
Eschimesi, Indo-Americani
- Razze negroidi; Africani, Ottentotti, Papua/Melanesiani, "Negritos"
Australiani, Dravidi
Queste razze hanno sviluppato considerevoli variazioni fisiche tra una
popolazione e l'altra. Le caratteristiche fisiche di popolazioni ed individui
sono un prodotto dell'interazione tra geni ed ambiente. Per esempio: i propri
geni predispongono ad un particolare tono di pelle, ma il colore della pelle di
ognuno è fortemente influenzato da fattori ambientali quali la quantità di
radiazioni solari. La razza definisce anche le relazioni sociali. Tutti gli
esseri umani possono accoppiarsi tra di loro e mischiarsi, quindi siamo una sola
razza. Ho sentire dire degli zingari che vivono in mezzo a chi non lo è, che è
come mettere un asino in una mandria di zebre, all'asino no cresceranno le
strisce. Certo che no! Un giorno morirà, nessuna zebra si prenderà cura di lui,
sarà preso a calci e cacciato. Sarà respinto dal branco di zebre, perché l'asino
non è uno di loro. L'asino è di una razza differente dalla zebra.
L'etnia si riferisce all'identificazione sociale degli individui basata sul
loro patrimonio culturale e su caratteristiche comuni. I gruppi etnici possono
condividere antenati, lingua, cultura, nazionalità o religioni comuni, o un
misto di questi fattori. Per esempio, ci sono due tribù in Ruanda - gli Hutu e i
Tutsi. I componenti di entrambe le tribù si assomigliano, parlano lo stesso
gergo... Ma il governo belga etichettò i Tutsi (che allevavano bovini) come
superiori agli Hutu (che erano agricoltori), e questo ha portato a scontri
sanguinosi. Il punto è che gente della stessa razza ma con differenzi culturali
può dirsi appartenente a differenti etnie. Ecco un altro esempio: quando gli
Indiani migrano negli USA per studio o lavoro, sono etichettati tutti come
"Indiani", anche se provengono da parti differenti dell'India, con tutte le
differenze culturali e fisiche (per esempio: i nati nell'India del Nord hanno
caratteristiche fisiche differenti dai nati nell'India del Sud - e anche se sono
di etnie differenti, negli USA sono tutti etichettati semplicemente come
"Indiani"). Lo stesso succede al popolo romanì, anche se sembrano, agiscono,
parlano differentemente, anche se vengono da retroterra etnico diverso, sono
tutti etichettati solo come "zingari". La razza non si può cambiare. Ma l'etnia,
sì. Inoltre, l'etnia è influenzata da fattori culturali ed anche dalla
geografia. Abbiamo visto sopra come gli Indiani, che in India sono
differenziati etnicamente, siano considerati un popolo della medesima etnia in
un altro paese. Lo stesso nel caso degli zingari. Un gruppo etnico ha una sua
propria cultura separata. Chi appartiene ad una razza, lo è indipendentemente da
quali possano essere le sue differenze culturali. L'etnia è principalmente per
"cultura similare", mentre la razza è tutto quanto va riferito a caratteristiche
fisiche/biologiche.
Nazioni e Stati-Nazione
La nazionalità si riferisce semplicemente al paese dove sei nato. La nazioni
sono gruppi di persone culturalmente omogenee, più grandi di una sola tribù o
comunità. Condividono lingua, istituzioni, religione ed esperienze storiche.
Quando una nazione di persone ha uno stato o un paese proprio, viene chiamato
stato-nazione. Francia, Egitto, Germania, Giappone sono eccellenti esempi di
stati-nazione. Ci sono alcuni stati che hanno due nazioni, come il Canada e il
Belgio. Anche una società multiculturale come gli Stati Uniti sono uno
stato-nazione.
Stati e paesi indipendenti
Iniziamo col definire uno stato o un paese indipendente. Uno stato
indipendente:
- Ha spazio o territorio i cui confini sono internazionalmente
riconosciuti (possono esserci controversi e di confini).
- Ha popolazione che ci vive su base continuativa.
- Ha attività economica ed un'economia organizzata. Commercio
nazionale regolato, sia interno che estero. Emette moneta.
- Gestisce l'ingegneria sociale, come l'istruzione.
- Ha un sistema di trasporti per trasferire merci e persone.
- Ha un governo che fornisce servizi e ordine pubblico.
- Ha sovranità. Nessun altro stato può esercitare l'autorità
sul territorio del paese.
- Ha riconoscimento esterno. Un paese "votato nel club" dagli
altri paesi.
Nel mondo ci sono attualmente 196 stati indipendenti. Territori all'interno
di un paese o parti individuali di un paese, non sono paesi a sé stanti. Ci sono
nazioni senza stato come i Curdi. Per i Rom essere una nazione non è proprio
possibile a causa della loro dispersione nel mondo. I Rom non sono un popolo
omogeneo come i Curdi. I Rom non condividono le stessa storia, lingua, costumi,
cultura. Ogni suo gruppo etnico ha la propria identità culturale, di ciò che
chiamano la loro cultura.
Altre temi caldi tra Rom e non-rom sono l'assimilazione e l'integrazione.
Assimilazione significa assorbire le minoranze, che devono adottare lingua,
costumi e "valori" della maggioranza.
L'integrazione, invece, richiede l'accettazione delle leggi di un paese, dei
diritti umani come la libertà di parola, e dei diritti democratici fondamentali,
ma non richiede lo sradicamento di tutte le differenze culturali o identità di
gruppo: si concepisce come un processo a due vie, in cui si influenzano e si
modificano l'un l'altra tanto la maggioranza che la minoranza, ed in cui le
differenze possono convivere pacificamente fintanto esiste un comune impegno a
vivere assieme. La maggior parte dei Rom è già assimilata, molti i Rom integrati
persino nei loro paesi d'origine. Per molti, assimilazione ed integrazione sono
ancora una lotta. Una manciata di leader rom si oppongono ad entrambe. Se i Rom
vogliono sopravvivere nel prossimo millennio, assimilazione ed integrazione sono
un dovere. I Rom devono prendere un posto nella loro comunità, essere parte del
tessuto vitale del paese ospitante. Senza, saranno sempre vulnerabili ai
conflitti tra paesi ospitanti e stati confinanti.
Io, Laura Rahman, nata in Ungheria, cittadina naturalizzata degli Stati
Uniti, dichiaro che, io, appartengo alla razza Umana e sono di etnia Rom. La
conoscenza mi ha emancipato dall'avere qualsiasi dubbio sulla mia identità. Dopo
questa ricerca, chiaramente vedo le differenze tra nazionalità, etnia e razza.
Da
Roma_Daily_News
Mykawartha.com Presentazione della storia degli zingari del luogo.
L'istallazione sulle Storie Dimenticate dell'artista JoEllen Brydon: gli zingari
a Bethany nel 1909
[...]
(BETHANY) Grazie ad Hollywood, la maggior parte della gente vede gli zingari
come romantici lettori di sfere di cristallo o ladri criminali. La premiata
artista JoEllen Brydon sa che non è così.
L'arte della residente di Mount Pleasant racconta le storie delle persone che
incontra - amici, vicini, stranieri - delle radici dei suoi antenati a County Tyrone,
Irlanda del Nord, e della gente nelle amate Cavan hills.
Nei suoi lavori ha anche ritratto con uno sguardo unico gli zingari, che
verranno presentati durante l'incontro annuale della Manvers Township Historical
Society, sabato 21 aprile nella sala da tea di Laura a Bethany.
La presentazione mette in mostra la sua installazione su larga scala, Storie
Dimenticate: Gli zingari nel 1909, illustrata con immagini dei suoi dipinti e
con fotografie storiche.
[Alcuni zingari] presero parte ad una migrazione di massa in Nord America alla
fine del 1800 ma non ricevettero un caldo benvenuto, nota la signora Brydon.
Forestieri dalla strana lingua, spesso venivano cacciati dai negozi, anche
quando avevano i soldi. Molti furono costretti a rubare, aggravando la loro
"cattiva reputazione".
Un gruppo poi emigrato negli USA ed in Messico, si trovò a passare la frontiera
a Sault Ste. Marie, arrivando alle Kawarthas nelle 1909.
"Inizialmente finirono a Bobcaygeon," dice la signora Brydon, notando che
presto venne chiesto loro di andarsene, e allora presero la strada per Peterborough.
Le autorità li intercettarono a Fowlers Corners. Gli uomini vennero arrestati.
Donne e bambini si accamparono a Morrow Park mentre gli uomini andavano in
tribunale. In seguito il gruppo lasciò Peterborough, seguendo la ferrovia e la
linea del telegrafo verso
Pontypool, dove si sistemarono in un grande insediamento in quella che oggi è Telecom
Road. Brydon non saprebbe niente di tutto ciò, se non avesse trovato una foto
nell'archivio del museo di Peterborough. Volendo saperne di più, si rivolse ai
giornali. Alla fine contattò Ronald Lee, Rom di nascita, autorità sulla cultura
rom ed oggi professore in pensione dall'università di Toronto.
"C'è voluto un anno per mettere tutto assieme," dice Brydon, che ha molto
apprezzato il suo aiuto. "E' stato così interessante. C'è stata una grande
copertura mediatica. Raramente si vede qualcosa emergere in questa maniera."
Lee ha poi introdotto Brydon ad alcuni dei discendenti di quel gruppo
sotto assedio.
Lei poi sviluppò l'installazione su larga scala che include 22 dipinti.
Brydon spera che quanti parteciperanno all'evento possano ottenere una migliore
comprensione dei Rom.
"Ho imparato tutto. Prima del progetto non sapevo niente," dice. "Spero che la
gente possa avere una migliore comprensione del mio lavoro e della cultura rom."
[...] Il sito di
JoEllen Brydon.
La provincia pavese - Casteggio, sinti da tutto il Nord Italia per i
funerali del leader di Piazzale Europa di Anna Ghezzi
CASTEGGIO. Sinti ce n'erano almeno ottocento a riempire la piazza della chiesa
di Casteggio, ma tra loro anche i pavesi - e non solo - che con Paolo Casagrande
hanno lavorato, condiviso un pezzo di strada, progettato nuove sfide per far
vivere il campo di piazzale Europa e l'integrazione con la città. Le serate di
conoscenza, i progetti per i più piccoli, lui era il contatto con istituzioni e
le associazioni.
Settanta corone di fiori rossi, bianchi, gialli, viola, arancio da cui, nel
corteo lunghissimo, verso il cimitero, sono stati tolti i fiori, e gettati per
terra, secondo la tradizione. Cappelli tradizionali,secchi di petali che le
ragazze gettavano in terra al passaggio del feretro di paolo Casagrande, 52
anni, diretto successore della regina Mafalda e leader del campo nomadi di
piazzale Europa. È morto potando un albero pericolante sopra la roulotte della
suocera, lasciando nello sconforto tutta la comunità.
La chiesa piena, i bambini del campo vestiti da chierichetti sull'altare a
cantare sulle note della chitarra dell'amico Davide Gabrieli di Trento.
Sull'altare c'era don Vittorio Pisotti, parroco del Sacro Cuore: «È il nostro
parroco - spiega Aurora Casagrande, la decana della famiglia, sorella di Paolo -
ci vuole bene. Ha celebrato tutti i nostri funerali». Da lui un saluto commosso:
«Era una persona così attenta, così piena di fede. Lascia un ricordo speciale,
era sempre disponibile ad aiutare prima di tutto la sua comunità, ma non solo».
A fianco di fra Franco Marocchi di Canepanova anche padre Rafaelangel Radice:
«Con Paolo, chiunque arrivasse al campo era accolto come un fratello», ricorda
il frate, che ora è a Busto Arsizio ma spesso tornava a Pavia. C'era anche don
Massimo Mostioli, una figura di riferimento: «È uno di noi, parla la nostra
lingua», raccontano amici e parenti. All'uscita dalla chiesta un corteo di fiori
e canti, la musica della banda di Noceto (Parma) che scandiva il ritmo con
canzoni funebri alternati a canti popolari come "Rose rosse per te". Fino al
cimitero: davanti alla bara la foto di Paolo con Papa Benedetto XVI, la lettera
di saluto inviata al campo dopo l'incontro a Roma. E poi la corona di rose
screziate con il nome con cui lo conoscevano tutti i sinti: Zito.
E' venuta a mancare prematuramente Giuseppina "Rumanì" Ciarelli, romnì
italiana tra le prime a Milano a diventare mediatrice culturale e attivista per
i diritti dei rom e dei sinti. Rumanì ha iniziato il suo impegno come mediatrice
a favore delle donne e dei minori rom e sinti nei consultori famigliari, insieme
ai mediatori e alle mediatrici di Sucar Drom alla fine degli Anni Ottanta. E'
stata una delle prime mediatrici sanitarie italiane, ci mancherà il suo sorriso
e ci mancheranno le sue capacità. Pubblichiamo il ricordo della Consulta Rom e
Sinti di Milano a firma di Giorgio Bezzecchi, Dijana Pavlovic e Paolo Cagna
Ninchi
"Noi siamo belli", questo diceva Rumanì di noi rom, questo è quello che sentiva,
che pensava e che diceva quando incontrava, anche in incontri ufficiali i "gagi".
Questo ci ha insegnato Rumani, a credere che i rom sono belli, perché liberi,
perché portano qualcosa di bello in questo mondo con il loro modi di vedere la
vita, con la gioia capace di esprimersi in ogni momento, anche il più difficile.
Rumanì era libera e capace di raccontare la LIBERTA', capace di cancellare i
pregiudizi con le sue parole semplici e forti. Traduceva il suo nome RUMANI' in
"donna libera". Così noi pensiamo a lei, sorridente e orgogliosa.
E' stata una delle prime attiviste e leader del movimento per i diritti Civili
di Rom e Sinti a Milano. Ciarelli Giuseppina nata Avezzano il 7 Giugno 1957,
detta "Rumanì" dalle donne delle Comunità Rom e Sinti di Milano.
Rumanì è stata una delle prime attiviste dell'Opera Nomadi di Milano, iniziava
la sua attività già alla fine degli anni '80, nei primi anni '90 seguì un corso
di Mediatori Sanitari andando a lavorare per anni nel Consultorio familiare di
via Fantoli svolgendo la propria importantissima funzione a favore
Nella prima metà degli anni '90 ritirò a nome dell'Opera Nomadi di Milano l'Ambrogino
d'Oro testimoniando orgogliosamente e caparbiamente il desiderio delle Comunità
rom e sinte di superare le difficoltà legate alla lotta alla discriminazione e
al riconoscimento dei propri diritti. Aveva un grande ruolo all'interno della
Comunità e per noi era un punto di riferimento, non solo una grande amica.
La fortuna, la provvidenza, il destino o come lo si voglia chiamare, ha fatto sì
che fossi presente a Londra, nella settimana dell'otto aprile 1971. Da allora,
ne è passata di acqua sotto i ponti. Sono trascorsi 41 anni. Ero quasi un
bambino. Il mio viaggio a Londra, appena dopo il franchismo, fu il mio battesimo
riguardo alla conoscenza della realtà gitana mondiale, della quale fino allora,
avevo soltanto vaghe conoscenze.
Gitani e gitane provenienti da 25 paesi si erano dato appuntamento a Londra. Ci
sono andato senza conoscere nessuno, e senza avere ben chiaro in mente di cosa
trattava quella riunione. La mia prima sorpresa fu di constatare che quelle
giornate erano state convocate, programmate e dirette dai gitani stessi. Neanche
un solo "gachó" (payo) intervenne nei dibattiti, né assolutamente
condizionò gli accordi lì presi. I ricordi vengono alla mia
memoria con la stessa forza con la quale appaio nelle foto che accompagnano
questo commento, le quali mi sono state regalate l'anno scorso, nel Regno Unito.
L'otto aprile del 1971, sapevo che nel mondo vivevano più gitani di quelli che
conoscevo in Andalusia, però non li avevo mai visti. L'otto aprile 1971 ho
sentito parlare per la prima volta in romanì. A casa mia, la mia famiglia
chiacchierava in gergo. Non era lo stesso, ma era simile. Ho potuto scoprire
stupito, come gitani che vivevano dietro la cortina di ferro - gitani che non si
erano mai neanche sognato che le autorità comunista del loro paese avrebbero
potuto mai autorizzarli a uscire verso il mondo capitalista - si capivano
perfettamente con gli altri gitani arrivati dalla Francia, dalla ex Iugoslavia,
o dalla temuta Germania. L'otto aprile 1971, sono stato invaso da brividi di
commozione quando ho sentito sulla mia pelle i baci calorosi di tanti gitani che
mi abbracciavano, emozionati per avere trovato il figlio perduto, il fratello
sconosciuto che veniva dalla vecchia Spagna dove - loro lo sapevano - vivevano
centinaia di migliaia di gitani separati dal resto del loro popolo, disperso in
milioni per tutto il mondo.
L'otto di aprile 1971 mi sono sentito più libero che mai. Ho partecipato alla
votazione che ha ufficializzato la nostra bandiera e poi ho percepito la
liberazione che si prova tenendo come tetto l'azzurro del cielo e come pavimento
il verde dei campi. Poi ho capito con chiarezza assoluta perché mio nonno
Agapito ci augurava sempre salute e libertà.
L'otto aprile 1971 ho visto per la prima volta una balalaica. Ho ascoltato il
suo suono nelle mani di Jarko Jovanovic. Alla sua melodia si è unita la musica
soave, triste e melancolica di alcuni violini, e mentre dalle corde della
balalaica saltano fuori le note infuriate, che imitano il crepitio delle fiamme
assassine che hanno distrutto la vita di tanti innocenti nei campi nazisti, i
violini con la loro dolce melodia, fanno strada a fiumi di lacrime, mentre
giocano con il ricordo di tanti anziani ingiustamente gasati, decine di migliaia
di bambini massacrati e centinaia di uomini e donne che, nel fior della vita,
non capirono mai perché li svestirono prima di introdurli nelle camere a gas.
Così è nato il "Gelem Gelem".
L'otto aprile 1971, come lo sbocciare di un fiore, nella vecchia Europa è
apparso il germe di una coscienza collettiva addormentata per tanti secoli.
Gitani e gitane provenienti da 25 stati, residenti nei paesi comunisti
dell'eterno freddo, o nella geografia spesso disumana del capitalismo più
feroce, hanno messo al di sopra di qualsiasi ideologia il rispetto per la nostra
comune condizione di gitani. Poi ci siamo resi conto che eravamo un popolo, che
aveva saputo conservare leggi e costumi e che dovevano essere difesi. Il
rispetto verso le persone più grandi, l'autorità indiscussa degli anziani, il
valore della parola data, la venerazione suprema della famiglia, sono
l'espressione palpabile della nostra massima istituzione e dell'amore supremo e
incorruttibile nei confronti della libertà.
Oggi non ci sembra il giorno adatto per parlare delle nostre miserie.
Dell'emarginazione della quale siamo vittime e degli attacchi razzisti che
patiamo. Per denunciare queste situazioni abbiamo tutti i giorni dell'anno, e
così facciamo. L'otto aprile è la Giornata Internazionale del Popolo Gitano è ha
una vocazione di fraternità e di rispetto per tutto il mondo. Così come in
questo giorno i gitani e le gitane del pianeta si avvicinano ai fiumi per
depositare sulle loro acque le candele del ricordo e i fiori della libertà,
nelle quali sta il simbolo del nostro desiderio di convivere con il resto dei
cittadini in pace e armonia, in quanto una celebrazione che racchiude il ricordo
del passato e l'amore per la libertà dovrebbe essere patrimonio di tutta
l'umanità.
Juan de Dios Ramírez Heredia
Presidente de Unión Romani
Abogado y periodista
Desideriamo invitarvi a partecipare alla serata "LE COMUNITA'
"ZINGARE" E I BEDUINI DELLA PALESTINA" con la proiezione dei
documentari: UP FRONT, Media Sadaa - Alternative
Information Center e JAHALIN - Co-diretto
e prodotto da Talya Ezrahi, Lewie Kerr & Kamal Jafari - Alternative Information
Center - organizzata dall'Associazione La Conta, che ci
sarà, con ingresso libero e gratuito, giovedì 5 aprile 2012 alle 21,00,
alla CGIL - Salone Di Vittorio in Piazza Segesta 4 con ingresso da Via
Albertinelli 14 (discesa passo carraio) a Milano.
Parteciperà all'incontro Gabriella Grasso del Gruppo ISM Milano
(International Solitarity Movement) che presenterà i documentari UP
FRONT e JAHALIN e ci parlerà, tra l'altro, del rischio che corrono i beduini
della Palestina di essere scacciati per sempre dalle valli del deserto tra
Gerusalemme e Gerico ed ERICA RODARI, scrittrice e studiosa,
che coordinerà la serata. Introduce Fabrizio Casavola.
UN FRONT Media Sadaa - Alternative Information Center
Tre donne, di diversa età, luoghi e ambiente, che sono comunque collegate dal
loro potere, dalla loro indipendenza e soprattutto - dalla forte volontà di
creare un cambiamento. Amoun Sleem, una delle tre donne, appartiene ai Domari,
comunità degli zingari di Gerusalemme.
JAHALIN - Co-diretto e prodotto da Talya Ezrahi, Lewie Kerr & Kamal
Jafari - Alternative Information Center
I beduini Jahalin vivono nelle valli del deserto tra Gerusalemme e Gerico,
dediti all'allevamento di ovini e caprini, la loro principale risorsa economica.
A metà degli anni 1990, una decisione del governo israeliano di espandere
l'insediamento di Ma'ale Adumim, ha portato ad una serie di sgomberi che
minacciavano di spostare 3000 persone, forti dalla loro casa nel deserto e
distruggere il loro modo di vita tradizionale. Il film racconta la storia della
loro lotta per rimanere sulla loro terra.
PROBLEMI GENERALI DEI ROM IN BRASILE - Ge Victor
- Accesso ai documenti d'identità obbligatori.
Il nomadismo è uno dei pretesti più ricorrenti, soprattutto da
parte degli uffici incaricati, che a volte impediscono la
registrazione ufficiale dei dati personali dei gitani. Cioè,
in termini legali la persona gitana, non esiste in quanto non
possiede documenti. Occorre quindi considerare che le questioni
del lavoro e dell'alloggio, pratiche commerciali incluse, quindi
le condizioni generali di vita si siano adattate in "mancanza"
di condizioni civili, estranei a standard sociali legali. Da qui
l'associazione alla marginalità. Un'altra aggravante
all'inesistenza ufficiale si traduce con la mancanza di dati
certi sul numero dei gitani in Brasile. Sondaggi aleatori ed
ufficiosi indicherebbero una cifra tra 650 mila ed 1,2
milioni, divisi in gruppi etnici distinti. Sono anche inesatte
le informazioni sui gitani considerati "civilizzati", perché
molti di loro, pur preservando lingua e tradizioni, non
assumerebbero tratti identitari propri, o sarebbero portati a
non farlo, per paura di essere discriminati.
- Accesso alla sanità pubblica. Come
conseguenza delle tradizioni (che prevedono la nascita dei figli
dentro le proprie tende) e di trattamenti pubblici indebiti,
alla madre gitana è negato l'accesso alla "carta ospedaliera"
ufficiale, e quindi la registrazione dei dati preliminari di
identificazione dei propri figli. Quella carta risulta
indispensabile per ottenere altri documenti, ad es. il
certificato di nascita. Inoltre, senza di essa non è possibile
aver accesso legale ad altri documenti da utilizzare per i
servizi pubblici, come il pronto soccorso, le vaccinazioni, ecc.
- Accesso alla pubblica istruzione e permanenza a
scuola. Non è raro che i bambini gitani si vedano
negato il diritto all'iscrizione ed alla frequenza scolastica, a
causa delle tradizioni familiari e del modo proprio di vita e di
relazionarsi. A parte queste difficoltà, una volta iscritto il
bambino gitano affronta ulteriori difficoltà dovute alle sue
tradizioni. Pur avendo idiomi e dialetti propri, i gitani legati
alla tradizione sono considerati analfabeti, in quanto non
utilizzano simboli grafici (lettere e numeri) nella loro
comunicazione e nella trasmissione delle conoscenze
tradizionali, delegate alla pratica orale. Occorre pensare e
fornire un modello educativo che tenga conto delle specificità
delle comunità gitane, riguardo la lingua e l'ortografia, i
curricula, il materiale didattico-pedagogico ed i contenuti
programmatici, ispirandosi ai precetti della Dichiarazione
Mondiale sull'Istruzione per Tutti.
- Accesso alle installazioni e permanenza negli spazi
pubblici in aree urbane. Non esistono indicazioni da
parte dei poteri pubblici o dei gestori degli spazi e della
pubblica sicurezza, per assicurare ai gitani il diritto di
stazionare con le carovane o di stabilirsi in accampamenti
provvisori, senza essere molestati da polizia ed autorità
locali. Nella maggior parte dei casi le difficoltà di accesso
agli spazi pubblici sono chiaramente associate a discriminazioni
o intolleranza, date le condizioni precarie offerte, le rigide
imposizioni di comportamento sociale e di transito; le richieste
-talvolta abusive - di permessi, imposte, tasse ecc.
- Inclusione sociale e culturale. I valori
culturali non sono riconosciuti o rispettati. Per questo,
frequentemente si è vittima dei preconcetti. L'ignoranza
generalizzata sulle origini, costumi e diritti dei gitani, è
causa di stigma e di trattamenti stereotipati. Cioè, per meglio
dire, l'essere gitano è associato il più delle volte ad un
sinonimo di emarginazione. Questi tratti storici sono stati
coltivati ed ingranditi, incluso - nella letteratura di genere -
racconti di vita vissuta o immaginari. Così come gli ebrei, gli
indios ed i negri, i gitani soffrono - giorno per giorno - di
discriminazione sociale e culturale.
- Mantenimento delle tradizioni, delle pratiche e del
patrimonio culturale. I concerti e gli spettacoli "mambembes",
i mestieri tradizionali come la la lavorazione dei gioielli, del
metallo e del rame, stanno sparendo di fronte a realtà più
affermate. La libera circolazione degli spettacoli, riferimento
simbolico della pratica teatrale brasiliana, oggi è quasi
scomparsa, sia per la massificazione dell'industria culturale,
che per la mancanza di incentivi pubblici e privati. Le memorie
ed i referenti culturali gitani, tradizionalmente conservati e
tramandati in cassepanche intoccabili dentro le tende, stanno
dissipandosi in mancanza di una politica di divulgazione
pubblica, che protegga e cataloghi questo ricco patrimonio. Nel
campo letterario non ci sono pubblicazioni sui gitani, e quando
sono citati avviene in modo dispregiativo. La situazione si
ripete al cinema e nella televisione, a volte inzuccherata dalla
bellezza e dalle pratiche esotiche tradizionali della cultura
gitana. In questo senso, si rende urgente stabilire processi di
recupero e riscatto delle conoscenze, dell'autostima, dei saperi
e capacità tradizionali delle culture gitane.
(immagine da
5dollardinners.com)
Non fatevi prendere in giro dal titolo, non mi sono montato la testa. Anzi, è
probabile che la confusione sia maggiore del solito così, dopo avere passato la
cera nella roulotte vorrei mettere in ordine anche in testa. Chi mi aiuta?
E' dal
rogo di Torino del dicembre scorso, che quella di dare un volto al "razzista
fatto in casa" è diventata una mia personale ossessione, che ha sovente
"ammorbato" la Mahalla.
Ammorbato...?? A dire il vero ho notato, con stupida
soddisfazione, che dopo anni a dibattere dei temi più disparati, se per
caso le stesse cose le scrivo adoperando la parola magica "razzismo",
aumentano visite e commenti; insomma, sembra che quella parola piaccia a molti
lettori.
Purtroppo, mentre la situazione del razzismo in Italia si fa sempre più
preoccupante (soprattutto per chi
la osserva da fuori Italia), la parola in sé è talmente abusata che riesco a
scriverne principalmente attraverso PARADOSSI. Come questi:
In realtà, non mi interessa la disputa accademica, ma individuare un numero
TOT di cause, per trovare le possibili vie d'uscita, senza doversi
nascondere dietro parole nobili come SOLIDARIETA', DIALOGO, COMPRENSIONE, la
stessa DIRITTI, che
col tempo sono diventate altrettanto abusate e quindi innocue. Più o meno questa
la sintesi a cui ero giunto:
Il razzismo rimane vivo, vegeto e pericoloso (vedi Torino e Firenze il
dicembre scorso). Ma come elemento "chimico" allo stato puro è percentualmente
raro, e se devo considerarlo una forma di idiozia, è perché dopo Hitler, la
decolonizzazione, la sconfitta politica del KKK negli anni '60, ha perso il suo
ruolo storico.
Esistono, ed in tempo di crisi si rafforzano, situazioni di crisi non
affrontate dalla mediazione politica classica. Rimescolamento dei confini e dei
mercati, circolazione autonoma od indotta di persone, sono da un lato UNA delle
cause della crisi, dall'altro forniscono una via di sfogo contro chi può essere
aggredito-calunniato-discriminato senza possibilità di difendersi. Quindi un un
razzismo SPURIO e DIFFUSO, contaminato da altre motivazioni, in pratica continua
l'atto (individuale-collettivo) razzista, in assenza di chi si dichiari tale o
riconosca il proprio razzismo.
Ma per essere VIA DI SFOGO, occorre un quotidiano "lavoro ai fianchi" attraverso
giornali, tv, internet, le stesse istituzioni (generalizzando: chi dovrebbe fare
il cane da guardia della crisi), per fornire al cittadino medio questo nemico
interno od esterno che dovrebbe essere la causa del malessere. Chi svolge questo
lavoro "d'informazione-propaganda", è tutt'altro che scemo, viene retribuito per
ciò che fa, è (che Gramsci mi perdoni...) un intellettuale organico ad
una causa, e questa non è tanto il razzismo quanto il superamento "in senso
reazionario" della crisi.
Il razzismo non come FINE, ma come MEZZO. In quanto tale, i suoi confini sono
mobili, come si conviene ad una guerra di posizione. Ma il razzismo come mezzo,
significa che, da Göbbels in avanti, il razzismo "scientifico" è un laboratorio
politico di ciò che prima o poi riguarderà tutti. Da un lato, è quello che
recita con parole semplici la famosa poesia di Niemöller (ricordate? Prima
vennero a prendere gli zingari...), dall'altro me ne resi conto
circa sei anni fa, quando iniziarono ad arrivare notizie inquietanti dalla
Val Susa. Allora facevano clamore le rivolte urbane a Parigi, oggi sta
succedendo ad Atene, l'estate scorsa fu la volta di Londra, in Val di Susa non è
cambiato molto... E poi ripensai anche a
Genova 2001.
Vorrei chiedervi, gentili lettori, che effetto fa sentirsi parte di un
esperimento da laboratorio condotto su Rom e Sinti,
di cui sarete le
prossime cavie? Voi, che magari siete contro la sperimentazione
sugli animali... E così rendersi conto FINALMENTE, che comprendere,
dialogare (e magari solidarizzare) con questa gente non è "buon cuore", ma farsi
prestare una potente SFERA DI CRISTALLO per leggere il vostro futuro (e studiare
il comune passato).
Perché, capitelo se volete salvare la pelle, non
avete la certezza di stare a
destra o sinistra, dovete piuttosto immedesimarvi nei panni di un bersaglio
mobile nella Sarajevo anni '90, preda di cecchini nascosti dalle cento bandiere,
pronti contemporaneamente a sorridervi o spararvi a seconda del momento.
Gli ultimi pensieri vanno alle cronache che arrivano dalla Val di Susa,
immaginandomi come la descriverebbe la stampa "libera" se al posto di Chiomonte
i fatti riguardassero una sperduta località in Venezuela, Russia, Uganda, Corea
del Nord... Così come nel razzismo mediatico esistono il poliziotto buono ed il
poliziotto cattivo, anche riguardo alla TAV ci sono i ragionevoli (Corriere,
Repubblica, Stampa) che se devono dare del cretino ai
rivoltosi lo fanno sottovoce e con educazione, e quelli che ragionevoli non
riescono proprio ad esserlo (tipo Libero o il Giornale).
Così finisce che la ce la prendiamo con gli ultimi, perché sintetizzano
quello che i primi non scrivono. Tutti e due, con un metro differente, non danno
spazio a quello che sarebbe un PRINCIPIO OVVIO, se lo scopo fosse quello
dichiarato, cioè: la fine delle violenze ed il dialogo, nell'interesse generale
della nazione.
Però, quel Cretinetti a tutto tondo, mi riporta ad una similitudine
con "chi non è razzista, ma vuole che lo diventino gli altri". Mi viene
in mente, inizio anni '90 circa, i miei figli erano piccoli, ed alla TV
assistevano impassibili a sbudellamenti vari nei cartoni animati; ma avevano
terrore quando per caso erano ripresi Ferrara o Sgarbi con la bava alla
bocca. Eppure, tralascio ogni considerazione politica-morale, a saperli
prendere sanno essere persone, non dirò squisite ma educate e ragionevoli, a
volte
addirittura di larghe vedute.
Quel Cretinetti, non spiega niente delle ragioni PRO TAV, è il
corrispondente calcistico di un fallo commesso lontano dalla palla e a gioco
fermo. Lo scopo è perpetuare LA CREAZIONE DEL NEMICO, ma attenzione: il
bersaglio è doppio (e mobile, oserei dire CULTURALE). Da una parte, chi vuole essere convinto
che basta essere NO TAV per diventare pericolosi terroristi; dall'altra, chi
condivide le ragioni della protesta tenderà a rinchiudersi in una difesa
AUTISTICA e sempre PIU' A RISCHIO DI DERIVE VIOLENTE: semplificando: un atteggiamento del tutto simile e speculare al razzismo.
E' impedire il dialogo, o quella pallida speranza che ne resta, lo
scopo. Io, nonostante sia convintamente NO TAV, trovo che quel che manca (ora,
sei anni dopo il primo articolo) sono le condizioni per dibattere civilmente (e
confrontandosi su dati e prospettive REALI) tra le due ragioni. Noto una cosa
che mi fa paura quanto il progredire del cantiere o il comportamento della
polizia: l'intolleranza crescente fra due fazioni di cittadini, per altro tra
loro simili.
Cittadini, ripeto, come cavie di un esperimento sociale. Cittadini, e
finalmente chiudo con i ragionamenti, che da Rom e Sinti possono imparare
(eccolo: il confronto necessario) come resistere INTELLETTUALMENTE a
manganellate e giornalisti, senza dover portare odio (ma anche senza considerare stupido l'avversario) perché, ricordatelo,
il domani non è mai sicuro, ma case, carovane e baracche ci saranno ancora,
amministratori, politici e pennivendoli invece passano... PASSANO TUTTI.
Serata organizzata dall'Associazione La Conta, in occasione
della ricorrenza dell'8 MARZO 2012, alle ore 20,45 di
giovedì 8/03/2012, con ingresso libero e gratuito, alla CGIL
Salone di Vittorio in Piazza Segesta 4, con ingresso da Via Albertinelli 14
(discesa passo carraio) a Milano.
In particolare la serata sarà dedicata donne Rom e Sinti attraverso i racconti,
le storie, le testimonianze di Dijana Pavlovich, attrice e mediatrice culturale,
e di altre donne Rom e Sinti. Sarà serata di unità multiculturale ed inclusiva
dei Rom e dei Sinti della nostra città e non solo, per conoscere meglio le loro
passioni, la loro condizione e la loro cultura e per contribuire ad annullare il
pregiudizio e la marginalità. La serata si concluderà con un buffet
offerto a tutti i presenti.
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