Rom e Sinti da tutto il mondo

Ma che ci fa quell'orologio?
L'ora si puo' vedere dovunque, persino sul desktop.
Semplice: non lo faccio per essere alla moda!

L'OROLOGERIA DI MILANO srl viale Monza 6 MILANO

siamo amici da quasi 50 anni, una vita! Per gli amici, questo e altro! Se passate di li', fategli un saluto da parte mia...

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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Fabrizio (del 02/11/2011 @ 09:42:16, in media, visitato 1939 volte)

Segnalazione di Giovanna Bellotti

Sito ufficiale

Jody è un bambino delle giostre in una Festa di un piccolo paese italiano. Quando sei quel bambino sei "diverso" e la tua diversità ti insegnano a viverla come una missione: Noi siamo la Festa! Quello che non ti dicono è che un bimbo "normale" può insegnarti l'infinito valore di una sconfitta.

 
Di Fabrizio (del 07/11/2011 @ 09:52:58, in media, visitato 1697 volte)

Lunedì 14 novembre - ore 21.00
Circolo ARCI Martiri di Turro - Via Rovetta 14, Milano - ingresso gratuito, con tessera Arci

proiezione di
"Ho incontrato anche zingari felici" (Skupljaci perja) – Jugoslavia - 1967 di Aleksandar Petrovic

Presenta la serata Ivana Kerecki - Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia

secondo appuntamento della terza edizione della rassegna di film "HO INCONTRATO ZINGARI FELICI" (Maladilem bachtale Romenca - da Upre Roma), organizzata dall'associazione La Conta, in collaborazione con l'associazione Aven Amentza - Unione di Rom e Sinti, con l'associazione ApertaMente, la redazione di Mahalla e con il circolo ARCI Martiri di Turro

E' stato il primo film di successo ad affrontare l'argomento. Alterna scene di vita che oggi definiremmo di maniera, ad uno sguardo attento e partecipe alla vita comunitaria, ai suoi amori e dissidi. Fu forse anche il primo film che illustrò il supposto nomadismo di Rom e Sinti, non come uno loro necessità di viaggiare, ma legato  a motivazione precise. Ciononostante, non è un semplice documentario, una trama sottile collega le scene che descrivono il loro modo di vita, nel quadro del complesso tentativo della Jugoslavia di allora  di integrare le sue diverse etnie e popolazioni.

Segnò anche il successo internazionale di Bekim Fehmiu, attore di origine albanese morto a giugno 2010, conosciutissimo in Italia per la sua interpretazione di Ulisse nell'Odissea televisiva alla fine degli anni '60.

 
Di Fabrizio (del 17/11/2011 @ 09:21:42, in media, visitato 1494 volte)

Internazionale 8 novembre 2011 14.40 - Le celebri immagini di Josef Koudelka sono state pubblicate in un nuovo libro aggiornato e ampliato. Christian Caujolle ha incontrato il fotografo.

Dato che non c'è più un direttore nell'ufficio parigino della Magnum e che l'agenzia fotografica, a causa della crisi, ormai sta tutta su un piano, Josef Koudelka si accomoda nella poltrona del capo: "Ho sbagliato tutto nella vita, non sono mai stato né direttore né presidente", dice ridendo. I capelli e la barba arruffata sono diventati bianchi, ma è un eterno ragazzo, a volte serio a volte spiritoso, costretto a dedicarsi a un esercizio che non ama: parlare di sé. Teme sempre di essere frainteso (dà degli esempi) e cerca, nonostante le digressioni, di essere preciso. Lo aiuta uno schemino con le cose da fare, diviso per fasce orarie di colori diversi. A quasi 75 anni, Koudelka non si ferma mai, ha sempre bisogno di fare, guardare e dare forma. Oggi tocca al Mediterraneo, che attraversa e fotografa da vent'anni. Entro il 2013 porterà a termine il progetto "Marsiglia, capitale della cultura".

Guardare al futuro, produrre, far emergere le immagini non gli impedisce di tornare incessantemente su quello che ha fatto. Continua a inseguire quello che potrebbe aver dimenticato, o sopravvalutato, nei lavori passati. La prossima tappa è l'incredibile presentazione a Mosca del suo progetto sull'invasione dell'armata rossa a Praga. Una grande rivincita, accompagnata da mille copie del libro, in russo, pubblicato da Torst, il grande editore ceco suo complice. Anche se è sempre riservato, Koudelka è chiaramente emozionato.

Ma è per un altro ritorno al passato che ci incontriamo: Zingari, il libro che l'ha fatto conoscere, è stato ripubblicato in sette paesi in una nuova edizione ampliata. La storia del volume è istruttiva, quasi esemplare. Il giovane Koudelka, che comincia la sua carriera a Praga come fotografo in un teatro, fa dei ritratti espressionisti e compone immagini molto grafiche.

Quello che c'è tra noi
Tra il 1962 e il 1971 comincia a sviluppare un lavoro a lungo termine su quelli che all'epoca sono chiamati zingari. Nel 1968, con il sostegno di Anna Farova, lavora insieme al grafico Milan Kopriva al progetto di un libro. "Non sapevo niente di libri di foto. Sapevo solo che volevo somigliasse alla vita, al mio rapporto con gli zingari, a quello che succedeva tra noi".

Il volume dovrebbe uscire a Praga nel 1970 ma, nel frattempo, Koudelka lascia la Cecoslovacchia occupata. Le sue foto dei carri armati e della rivolta fanno il giro del mondo e, attraverso Henri Cartier-Bresson, incontra Robert Delpire, il mitico editore di Robert Frank, di molti fotografi della Magnum e di tanti altri. Delpire vuole pubblicare il libro, ma in un'altra versione: 60 foto (di cui 50 tratte dal progetto originale) escono nel 1975 con il titolo Gitans, la fin du voyage (Aperture si aggiudica la versione statunitense). Un'edizione speciale è pubblicata anche dal Moma di New York per accompagnare la mostra fotografica. Il libro diventa subito un classico, una delle opere più ricercate della fotografia del novecento.

La nuova edizione torna oggi in gran parte al progetto originale, anche se con 109 immagini, un formato più grande e un ritmo più narrativo rispetto alla prima, rigorosa selezione. "Non volevo solo una collezione di belle foto. E volevo che, anche se sono tutti scatti fatti tra gli zingari, il libro andasse oltre". Nell'edizione francese Robert Delpire spiega che la scelta editoriale non è sua, ma che la pubblica per amicizia, stima e rispetto. Si avverte chiaramente uno di quei conflitti che possono esserci tra un autore e un editore molto esigenti. E Koudelka non vuole parlare di come sono andate le cose per "ammirazione, rispetto e amicizia per Bob. E poi sono così contento che l'abbia pubblicato come lo volevo io".

Č la sua creatura: "Un progetto che ho portato con me, anche fisicamente, per quattro anni. Ho avuto il tempo di capire cosa andava e cosa no. Ho lasciato la Cecoslovacchia con 154 foto sugli zingari. L'essenziale del libro era già lì. Č una storia, una storia di persone, di me con queste persone la cui musica mi ha attirato e m'incanta tutt'ora. Erano le stesse persone di cui si diceva ‘chiudete le porte, arrivano gli zingari e ruberanno le galline'".

La maggior parte degli scatti sono verticali: "Questo ha avuto un peso importante nell'organizzazione del libro, nel ritmo che il grafico Milan Kopriva ha saputo inventare. L'altra persona fondamentale per questo progetto è stata Anna Farova. Č lei che mi ha aiutato a strutturare le immagini, e a non dimenticare niente". Sono le due persone a cui il libro è dedicato.

La giusta distanza
A Koudelka non piace commentare il suo lavoro. Non ha un punto di vista, dice, sulle sue incredibili inquadrature dal respiro naturale, dalla giusta distanza. Ammette però che "ci vuole un obiettivo da 24 millimetri perché tutto sia nitido in spazi spesso molto ristretti e con poca luce. Poi ho cambiato, non volevo ripetermi. L'obiettivo ti dice come fare".

Ma non dice niente sulla grana delle immagini, spesso così particolare e sensuale, sui negativi difficili, sviluppati senza prendere troppe precauzioni. Non ripetersi, è anche la ragione per cui non ci sono foto recenti di zingari. "Č una generazione che non esiste più. Quando sono tornato a Praga nel 1991, sono andato a vedere. Sono sempre lì, le condizioni in cui vivono sono un po' migliorate, ma poco, e la maggior parte di quelli che conoscevo sono morti. Ho pensato che non avrebbe avuto senso ricominciare. Oggi è un altro mondo e prima o poi qualcuno farà un lavoro formidabile a colori su di loro". L'importante è "continuare a fotografare, perché ho la fortuna di averne ancora voglia e di poterlo fare". Ma il libro rimane fondamentale. Ben più delle mostre che sono "effimere".

Farà vedere il libro agli zingari, come faceva con le foto ("Mandavano baci e ballavano per mostrare il loro apprezzamento")? "Certo, appena posso". Possiamo immaginare che sfogliando le pagine, dietro l'elegante copertina bianca con il sobrio titolo nero Cikáni, si ritroveranno, ameranno, balleranno e manderanno baci.

Internazionale, numero 922, 4 novembre 2011

Zingari di Josef Koudelka contiene 109 fotografie scattate nell'ex Cecoslovacchia (Boemia, Moravia e Slovacchia), in Romania, in Ungheria, in Francia e in Spagna tra il 1962 e il 1971. Il volume è la versione aggiornata di Cikáni (zingari in ceco), un libro che non fu mai pubblicato perché Koudelka lasciò la Cecoslovacchia nel 1970. Le foto sono accompagnate da un testo del sociologo Will Guy.

 
Di Fabrizio (del 23/11/2011 @ 09:03:13, in media, visitato 1756 volte)

Le rassegne stampa sono qualcosa di asettico e neutrale. Ma la neutralità, altro non è che il mantenimento dello status quo. Anche in Mahalla potremmo essere neutrali...

  • Fisco, in 59 evadono 21 milioni COINVOLTI REGISTI, ATTORI, CANTANTI MA ANCHE NOTAI, AVVOCATI, DENTISTI (12 novembre 2011)
  • Calderara di Reno (BO): arrestati 3 zingari per furto di varie parti di auto Calderara di Reno (BO) – Zingari in azione. 3 persone, tra cui un minorenne, arrestate dai Carabinieri, sorpresi a rubare parti di auto all’interno della ditta "Ar Auto Riparazioni S.r.L." (18 novembre 2011)

(compito per i lettori: TROVATE LE DIFFERENZE)


e poi ci sono i geni:

  • 130 Carabinieri del Comando Provinciale di Cuneo arrestano 16 Rom dei campi nomadi di Torino L'operazione, con la collaborazione dei colleghi di Torino e di personale del Corpo di Polizia Municipale di Torino – Nucleo Nomadi, è avvenuta al termine delle indagini avviate dai Carabinieri di Mondovì un anno fa (22 novembre 2011)
    Parere di Eugenio Viceconte: 130 carabinieri ed un paio di elicotteri per recuperare 50 kg di cavi elettrici... valore del rame sequestrato 250 €. E' la volta buona che si sconfigge la criminalità organizzata
 
Di Fabrizio (del 28/11/2011 @ 09:23:07, in media, visitato 3882 volte)

Questa storia potrebbe iniziare in Svezia, un paese a tratti molto più civile del nostro, talmente triste e nordico che possono dare dei TERÜNI anche a quei polentoni di Cassano Magnago. In Svezia nacque 30 anni fa Zlatan, calciatore dal vago profilo cavallino, capace di sfracelli nei campionati nazionali e sostanzialmente una pippa nelle competizioni europee (un po' come le nostre squadre di calcio negli anni '70-'80). Zlatan ha il problema di molti calciatori viziati: un carattere schifoso (e quando sei ai vertici, devi anche essere educato come Pelè, i sanguigni come Maradona non sono tollerati, neanche se Zlatan ha un approccio alla chimica diverso dall'argentino). Inoltre, cambia squadre di calcio manco fossero mutande. Così, i tifosi avversari (anche quelli che lo adoravano pochi anni prima) cominciano ad urlargli ZINGARO, ZINGARO... perché a questo punto Zlatan non è più uno svedese, ed anche a gridargli BOSNIACO-CROATO non sarebbe la stessa cosa. Zlatan ha origini khorakhané, nonostante le sue mille casacche, quello rimane il peccato originale.

Suo coetaneo è Alan Caligiuri, che alla radio realizza una di quelle trasmissioni pietose con le risate e gli applausi registrati. Il suo siparietto si chiama "Zlatan lo zingaro" (manco a farlo apposta: il peccato originale). Biografia truzza come quella dello Zlatan più famoso.

Il suo Zlatan vive "nella casa a rotelle", ruba, spaccia, sfrutta minori e prostitute... e, devo dire per averne parlato con loro, non dispiace neanche a Rom e Sinti (italiani o stranieri), sempre ansiosi di conformarsi con quel che pensano i gagè. Diciamo che ci hanno fatto l'abitudine a chi di loro parla male, e poi non sono mai stati un popolo da scatenare crociate. Così, stanno allo scherzo, indecisi se si tratta del solito razzismo da poveracci (che per forza se la prende con i più poveracci ancora) o un sistema perché al solito qualcuno faccia soldi usando gli zingari (cioè amici e nemici uniti nell'abbraccio del dio denaro).

DATO CHE L'ORIGINALITA' E' ZERO, la storia potrebbe finire qua. Ma visto che i Rom e i Sinti sostanzialmente se ne fregano, ecco scendere in campo i soliti professionisti dell'antirazzismo, speranzosi nell'ennesima tribuna mediatica. O peggio ancora, di assurgere a portavoce di un popolo che vorrebbe essere ascoltato (qualche volta) in prima persona e senza protettori.

E così la storia riparte, perché al coro antirazzista si uniscono i Rumeni, in Italia e in patria, cioè una delle popolazioni più antizigane che ci siano; maltollerati in Italia, ma che col nostro popolo condividono sicuramente il vittimismo.

Cosa c'entrano i Rumeni? Zlatan al limite è un nome slavo...

Se Caligiuri avesse continuato a ripetere le stesse cose, prima o poi sarebbe diventato una macchietta (come capita a chi non sa variare il repertorio). Ma, ad un certo punto, ha deciso che Zlatan, nonostante il nome, dovesse venire dalla Romania (visto che ultimamente quasi tutti i Rom arrivano in Italia da lì) e ha chiamato la Romania come Zingaria. Apriti cielo! Se sei rumeno, puoi anche essere definito ladro, pappone, prostituta, ma essere solo avvicinato ad uno zingaro significa montare un incidente internazionale.

Poco altro da raccontare: la trasmissione è stata sospesa, Caligiuri si dipinge come una vittima della censura, i professionisti dell'antirazzismo sono contenti perché si è parlato di loro in Romania. Storie da gagé.

Io mi accontenterei che Caligiuri provasse sulla sua pelle cosa significa campare di elemosine e piccoli furti, o raccogliere rottami per 10 euro al giorno. Alan, se non ti faranno più andare in radio (ma non credo, quelli come te cadono sempre in piedi), ti raccomanderò a qualche amico mio, poi mi dirai...

 
Di Fabrizio (del 05/12/2011 @ 09:14:28, in media, visitato 1361 volte)

Da Czech_Roma

František Kostlán, translated by Gwendolyn Albert - Prague, 2.12.2011 18:08
Intervista con Milan Uhde, presidente del consiglio d'amministrazione della Televisione Ceca

Ha preso una piega inaspettata il caso della denuncia presentata da Anna Šabatová e Petr Uhl al Consiglio delle Trasmissioni Radio e Televisive Ceche (Rada pro rozhlasové a televizní vysílání - RRTV) riguardo l'uso del termine "inadattabili" in televisione. Michal Heldenburg, capo del dipartimento legale della Televisione Ceca, ha fornito una risposta con diverse generalizzazioni ed interpreta la società democratica come una sorta di regola della maggioranza che non tiene conto della minoranza. La lettera cita anche argomenti irrilevanti usando un peculiare vocabolario "legale" come in questo caso: "Nella Televisione Ceca lavorano degli zingari. Uno di loro è anche presentatore del telegiornale. Non è questo un esempio concreto di rottura degli stereotipi?" (vedi nostri rapporti precedenti).

Anna Šabatová ha detto a Romea.cz che la risposta di Heldenburg è "arrogante ed offensiva e manca l'essenza del problema che stiamo sollevando. E' indegna, la Televisione Ceca è uno strumento mediatico che influenza ogni giorno milioni di persone."

Petr Uhl considera la risposta di Heldenburg incompatibile con l'approccio europeo verso i differenti gruppi di persone. "Sto parlando del trattamento di qualsiasi gruppo, non soltanto dei Rom. Attribuisco questo comportamento inumano ed antisociale all'eredità dei 40 anni della nostra storia prima del novembre 1989. Qui l'ambiente è simile a quello del secondo dopoguerra, e l'intolleranza di interi gruppi di popolazione a quel tempo portò ad ingiustizie evidenti," ha detto a Romea.cz.

Abbiamo intervistato Milan Uhde, presidente del consiglio d'amministrazione della Televisione Ceca, riguardo alla lettera di Heldenburg. Uhde non sa ancora se la commissione esaminerà la lettera durante la prossima riunione, perché era malato e non ha potuto partecipare alla stesura dell'agenda. Tuttavia, ci ha comunicato le sue opinioni personali sulla questione.

Cosa ne pensa di questa lettera di Michal Heldenburg in risposta alla denuncia sull'uso del termine "inadattabili"?

Quella lettera è mostruosa. Un avvocato della televisione pubblica non deve farsi coinvolgere in simili tecniche comunicative.

Protesterà in qualche modo?

Lunedì porterò la lettera del dottor Heldenburg all'attenzione del direttore generale, Petr Dvořák. Non gli chiederò quanto non è di mia competenza, ma gli darò la mia opinione, cioè che ciò è fuori dalle regole. Gli chiederò di leggerla lui stesso e vedere l'impressione che farà su di lui.

Nella lettera, Heldenburg difende l'uso del termine dicendo che  "Gli zingari lavorano nella Televisione Ceca"...

Non si tratta solo del suo vocabolario. La lettera mostra che non ha imparato nemmeno le basi della logica elementare. Anche se nella Televisione Ceca lavorassero un migliaio di Rom, questo non avrebbe niente a che fare col motivo del dibattere. E' la stessa cosa di scrivere che non si è razzisti perché si ha un amico rom. E' il tipo di argomenti usati spesso dagli antisemiti: "Guarda, non sono antisemita, qualche volta ho pranzato con un ragazzo ebreo." Tutto ciò non ha niente a che fare col fatto che i Rom lavorino o meno nella Televisione Ceca. Anna Šabatová e Petr Uhl si sono lamentati per l'uso dell'aggettivo "inadattabili", non per la mancanza di personale rom nella Televisione Ceca.

Il che ci porta al commento di Heldenburg su quella espressione...

L'espressione "inadattabili" implica inequivocabilmente che la persona così etichettata vuole esserlo, "inadattabile". Il termine, semplicemente, non descrive la situazione di quanti sono così etichettati dai media. Le persone socialmente escluse non hanno scelto la loro situazione, sono state obbligate dalle circostanze. Sono finite nell'esclusione sociale per motivi concreti. Una persona "inadattabile" sarebbe un criminale che intenzionalmente non segue le regole, non una persona socialmente esclusa.

 
Di Fabrizio (del 13/12/2011 @ 09:22:52, in media, visitato 2190 volte)

(immagine da dibattitomorsanese)

Un film da girare con pochi soldi, che potrebbe persino uscire per Natale (non lo so... i buoni sentimenti funzionano sempre).

Niente studios, non è neanche necessario girarlo proprio alle Vallette, perché la storia potrebbe essere accaduta ovunque, e magari andando a fare le riprese in Europa dell'est c'è da risparmiare.

Niente attori conosciuti: piuttosto gente comune e qualche figurante. Attenzione però: per quanto comuni, le facce e le storie che ci stanno dietro sono importanti, sono la base della storia che si vuole raccontare.

I nostri protagonisti non sono facili da identificare: una volta li avremmo trovati nei bar, sull'autobus, ora di solito vivono confusi nella marea di macchine che ci assediano ogni giorno, anonime come i loro conducenti; oppure stanno rintanati in casa, davanti alla televisione o al computer.

Non sono neanche un gruppo coeso: in mezzo a loro qualche tifoso, il disoccupato di lungo periodo, un lavoratore in proprio che difende coi denti i suoi miseri guadagni, una signora che va a messa e fa volontariato per i più poveri, persino un ingegnere rumeno che qui ha aperto un laboratorio di riparazione computer...

Non sono per forza bravi o cattivi, è questa la loro forza: sono esattamente come noi. Forse qualcuno di loro ha anche rischiato di avere problemi con la legge, ma possiede un istinto atavico nel sapersi trarre d'impaccio in caso di pericolo. Ha imparato a chinare la testa, nascondersi, lamentarsi sempre ma esporsi mai. Per questo sono INVISIBILI anche se li abbiamo costantemente sotto gli occhi.

Dove vivono? E' un quartiere come tanti (anche qui gli indizi sono pochi), che non amano. Quando han visto arrivare anche gli zingari, hanno sbuffato (come sempre), qualcuno avrà persino manifestato, ma in cuor loro lo sapevano che gli zingari finiscono sempre in quartieri simili. Hanno chinato la testa, come sempre e "speriamo che questi qua non facciano qualche guaio..."

(Apro una parentesi: avete notato come tanto gli odiati zingari quanto gli altri abitanti siano simili, egoisti e parimenti rinchiusi nei loro ghetti fisici e mentali?)

Il guaio prima o poi doveva succedere (vero o immaginario, per lo sceneggiatore non ha nessuna importanza), e chi ha già visto tanti film simili sa che il GUAIO, quello grosso che mette in discussione le certezze dello spettatore, non verrà commesso dagli zingari, ma dagli ex INVISIBILI.

Questi cittadini, che mai hanno avuto in vita loro il coraggio di ribellarsi, che non hanno mai avuto altra identità se non quella massificata dell'omologazione, riscoprono d'un tratto nel loro quartiere mai amato un'idealizzata palanka minacciata dal nemico, si guardano in faccia come fosse la prima volta, realizzano d'improvviso di essere in tanti e di condividere un'incazzatura che hanno sempre tenuto a freno.

Hanno vissuto come ubriachi il loro momento di gloria, senza pensare alle conseguenze, senza pensare se per l'ennesima volta c'era qualcuno a manovrarli... L'importante era che per una volta, in mezzo ad un branco, non hanno più avuto la paura di sempre... ed avevano qualcuno disarmato ed indifeso su cui scaricare anni di sopportazioni.

Col fuoco, sicuramente, come ogni sacro rito che voglia dirsi tale. Ed i poliziotti che li guardavano senza fare niente, nella scomoda situazione del leone che si trova nel mezzo di una carica di bufali impazziti.

Poi il ritorno a casa, col fumo che aleggia pesante per strada e le volanti che girano. Tornare a nascondersi, pulire le mani, telefonare alla mamma. Ma dentro, sentire per una volta i battiti del proprio cuore.

Non so, il film non lo dice, se a distanza di anni i nostri protagonisti proveranno orgoglio o vergogna di quel che è successo, e del fatto di essere rimasti impuniti, nuovamente incatenati al solito tran-tran. Rimane un mistero. Per tutti NON E' SUCCESSO NIENTE.

Di chi non parlato?

I miei amici hanno spento la TV e la cosa sembra strana perché, che ci fosse o meno la corrente elettrica, hanno continuato sempre a guardarla. Hanno paura per i bambini: che facciano domande sulle fiamme che la televisione può trasmettere al posto dei cartoni animati; che perdano presto anche loro la residua fiducia in ciò che sta fuori dal campo. Qualche genitore è combattuto se mandare o meno i figli a scuola ed il campo torna ad essere la terra di nessuno dove potersi difendere ed isolare dal mondo esterno; ma anche qualcosa da cui vogliono fuggire, perché se si abitasse in quei condomini tanto odiati, forse sarebbero al riparo dagli incendi.
Bevono, male e senza nessuna gioia. Anche loro vorrebbero illudersi che NON E' SUCCESSO NIENTE, ma è il DNA a dire che non è così.

 
Di Fabrizio (del 14/12/2011 @ 09:36:42, in media, visitato 1736 volte)

(foto da U VELTO)

Scusate la banalità: un giornale dovrebbe SEMPRE fare attenzione a ciò che scrive, perché se vuol mantenere un minimo di credibilità, rischia sempre di dover ritrattare e chiedere scusa (se ci tiene, alla credibilità - e magari anche ai lettori).

Vale per il bollettino della FIAT e anche per chi ha fatto della provocazione fascista la propria bandiera. Almeno, così credevo.

Invece la cosa vale a metà: può dipendere anche dall'avvocato che ha il vilipeso.

Domenica 11 dicembre, titola (tra gli altri) il Giornale in cronaca:  "Guerra di bande rom..." in assenza di uno straccio di prova. Se qualcuno vuole un falò anche a Milano, lo dica chiaramente, faccia una dichiarazione di guerra con tutti crismi, ma non il gioco infame dell'ARMIAMOCI E PARTITE!

Oppure faccia il giornalista, che è un modo per campare anche quello, ci metta anche le sue opinioni, ma lo faccia con serietà. Dato che tra via Idro e Morgagni ci sono un 4 km. buoni, qualcuno potrebbe spiegarmi la logica del catenaccio: "LA CITTŔ INSICURA Il regolamento di conti. Scontro a fuoco alle 10 a due passi dal commissariato Poi nel campo di via Idro restano solo donne e bambini"?

    Invece CronacaQui, i pasdaran torinesi, continuano come se non fosse successo niente
 
Di Fabrizio (del 18/12/2011 @ 09:14:50, in media, visitato 2271 volte)

Filippo Facci come scrivevo più di un anno fa, è uno scribacchino atipico: voltagabbana, a tratti servile, e con un ego sovradimensionato, ma ammettevo che quando scrive del tormentato rapporto tra rom, popolazioni autoctone e razzismo lo fa con una lucidità rara.

Un suo nuovo scritto pubblicato da Il Post mi conferma questa impressione, e vi invito a leggerlo con attenzione.

Ma qua, partono i necessari distinguo:

  • Neanche a me piace l'abitudine, tutta italiana, di schierarsi per forza tra guelfi e ghibellini. Però... se nell'arco di pochi giorni le piccole, quotidiane violenze che segnano il NOSTRO rapporto con chi percepiamo come straniero, hanno due picchi violenti come quelli di Torino e Firenze, è doveroso interrogarsi sulle cause politiche di quel titolo: Siamo razzisti? Sì. I vari Berlusconi, Borghezio e compagnia, avranno pure delle responsabilità nel cambiamento antropologico in senso razzista dell'Italia. Provo a spiegarmi meglio: il razzismo non può essere una scusa per giustificare le colpe di chi ha avuto ruoli di responsabilità negli ultimi decenni, casomai ne è una delle cause.
  • Non si tratta del gesto di un folle: che sia un corteo di incendiari (come a Torino, a Ponticelli, a Opera), o si tratti di responsabilità singole (Carreri a Firenzi, Breivik a Oslo). Si è formato in tutta Europa un quadro che giustifica la follia, la noia, il bisogno di distinguersi, ad esprimersi in atti violenti verso determinate categorie, guardacaso Rom, Sinti, stranieri, portatori di handicap.
  • Facci scrive "la ragazzetta di Torino è una mitomane che sconfina nel cretinismo: il contesto disegnatelo voi." Chi reggeva le torce accese, chi minacciava i giornalisti a Torino, gente matura magari, faceva parte dello stesso contesto di quella ragazzina. Per comodità li classifichiamo come mostri, ma i mostri veri sono la camorra, che per liberare un'area edilizia appetibile ha mandato in riformatorio senza prove una ragazza madre, e dato fuoco a rifugi di poveracci. Mostro è chi a Opera aizzò la folla già scalmanata di suo, e l'anno dopo incassò la carica di sindaco.
  • Essere zingari è un'aggravante? Ho paura di sì. Facci ha il coraggio di ricordare come l'immagine della zingara rapitrice di bambini sia una colossale bufala storica. Se di coraggio di uno scrittore vogliamo parlare, in fondo non gli costa niente, ma di sicuro non è una posizione comoda per chi si rivolge a lettori di destra.
  • Smontato uno stereotipo, però ricade (preso dal suo eccesso di realismo) in un altro: quello dello zingaro ladro. Si dimentica che di ladri in circolazione abbiamo un vasto campionario, e che senza scomodare i suoi compari di casta/classe (non di schieramento, il fenomeno riguarda tanto destra che sinistra), c'è chi lo fa in maniera più o meno furba. Sfugge a Facci, come a tanti altri, che non è l'etnia, ma la condizione di vita. Nel comodo delle nostre case con porte blindate ed antifurto, siamo pronti ad idealizzare la Palestina, l'Egitto, il Sud Africa o la Colombia... un giro in quegli slum ci mostrerebbe un'umanità dolente e piene di speranze che ruba, figlia, si ammala e muore con percentuali del tutto simili ai Rom e Sinti nostrani. Ma senza andare nel "terzo mondo", un giro in qualche quartiere USA del "primo mondo" restituirebbe la medesima realtà. Ma quelli, sono i poveri lontani, i loro odori e le loro grida diventano innocuo esotismo.
  • Allora, quello che scandalizza il benpensante, di destra e di sinistra, non è il furto, ma la sua necessità (che deve anche essere prossima, altrimenti non se ne accorge). Perché tutti amiamo crederci buoni, democratici, autosufficienti. Ma il pensionato beccato al supermercato con due scatolette di tonno nascoste nella giacca, ci porta la miseria allo specchio, chi ruba per fame in un mondo di prosperità lo fa perché ha sua volta è stato deprivato (derubato) dei valori occidentali di vita, compreso il pieno accesso ad istruzione, casa, lavoro, sanità. Invece, fiduciosi nel NOSTRO progresso, non solo vogliamo essere ricchi, ma pure amati dai poveri, perché così la NOSTRA coscienza (di classe?) non ci pone domande scomode. Paradossalmente, diventiamo cattivi quando questo ci è negato.
  • Facci cita il Porrajmos, un olocausto dimenticato e tutto particolare. Lo fa, sapendo quanto la nostra sia una bontà di facciata, per cui VOGLIAMO DIMENTICARE i nostri antenati che fecero del Porrajmos, della Shoa, ma anche dei massacri in Africa e nelle Americhe: non un isolato episodio di razzismo, ma un sistema pianificato di arricchimento, sterminio e terrore. Ci stupiamo che qualcuno sia sopravvissuto, emigri perché non abbia più di che vivere e soprattutto abbia l'ardire di presentare il conto. Cosa che possono fare gli Israeliani, forti di uno stato e di un esercito mica male, non i Rom e Sinti che vivono tuttora in eterno dopoguerra. E allora, dagli allo zingaro!
  • VOGLIAMO DIMENTICARE, e l'abbiamo fatto, come eravamo nel dopoguerra o quando si emigrava, perché nuovamente ci vergogniamo della povertà. Razzismo ha tanti significati e radici, questo è quello attuale. Ma ricorda un articolo del Corriere (uscito in concomitanza con quello di Facci) che c'è un ulteriore differenza: il nomadismo. Che secondo il Corriere può aprire le porte dei cieli (spero che qualche zingaro si sia fregato la chiave per tempo) e secondo il più realista Facci non ha più ragione di essere. Il Corriere ricorda come furono nomadi anche gli Ebrei, ma dimentica che tutti i popoli che diedero vita agli stati moderni lo sono stati, finché non fecero a botte per trovare una terra dove potersi fermare. Potersi fermare, non dimentichiamolo, significa avere la possibilità di cacciare qualcun altro. Non chiamiamolo NOMADE, allora, chiamiamolo SGOMBERATO. Se ci intendiamo sulle parole, forse saremo già in grado di intravedere le soluzioni.
 
Di Fabrizio (del 22/12/2011 @ 09:08:09, in media, visitato 1653 volte)

Tiscali: sociale

BOLOGNA – "Mi piace andare a trovare i Rom. Di solito non è un'esperienza piacevole, perché non scelgo mai le comunità più floride. Vado nelle cloache. Non per il gusto perverso della miseria, al contrario. Semplicemente perché in Europa ce ne sono troppe ed è giunto il momento di fare qualcosa. Sono posti in cui la miseria è allucinante. Mi viene da dire, fuori dal mondo. Sono posti fuori dal mondo". Queste paroole sono del fotografo Alain Keler, che ha attraversato l'Europa sulla sua Skoda per visitare i campi Rom di diversi Paesi, compresa l'Italia. Al suo ritorno ha raccontato le sue esperienze all'amico disegnatore Emmanuel Guibert che, insieme a Frédéric Lemercier, ne ha fatto un reportage a fumetti e fotografie uscito a puntate in Francia sulla rivista XXI e poi in Italia nel volume "Alain e i Rom" (Coconino Press). "Alain tornava dai suoi viaggi e me li raccontava – spiega Guibert – è un momento cruciale quello del ritorno, pieno di storie e aneddoti e del bisogno di raccontarli e, se non c'è una pubblicazione immediata, il calore si perde". E rispetto ai recenti fatti di cronaca, commenta: "Quello che è successo a Torino fa paura, ma non è un caso isolato, il mio amico Alain mi ha raccontato episodi simili accaduti in Repubblica Ceca, purtroppo l'odio cresce nelle situazioni di crisi". Ecco perché, continua, "dobbiamo parlare, non lasciare che le cose avvengano nel silenzio e mostrare gli esempi di persone che fanno qualcosa a livello locale: la risposta è qui".

Il libro "Alain e i Rom" si apre con una prefazione di don Luigi Ciotti, fondatore del gruppo Abele e di Libera, in cui si legge: "Le foto di Alain Keler ci aiutano a gettare luce su quella che spesso sentiamo etichettare come ‘emergenza', ma è invece una situazione ormai consolidata di degrado e marginalizzazione". I Rom, insomma, fanno "notizia" solo nel caso di eventi drammatici, come nel caso di Torino di qualche giorno fa, altrimenti nessuno si ricorda di loro e delle condizioni in cui vivono. Lo dimostra anche il caso del fotografo Alain Keler che ha girato il mondo, lavorando per le agenzie di stampa, ma quando ha smesso e ha deciso di occuparsi di ciò che lo interessava, non ha più venduto nemmeno una fotografia. Perché si tratta di soggetti difficili. "Ai quotidiani interessano i fatti drammatici – dice Guibert – mentre il ruolo delle riviste e dei libri è diverso, si prendono il tempo e lo spazio per raccontare le cose: è anche l'ambizione di questo libro, dare l'idea di un posto, delle persone che ci abitano, far sentire le loro voci, mostrare i loro volti". Conoscerli, in una parola. "Non abbiamo fatto altro che ripetere cose che tutti sanno – continua Guibert – che la maggior parte dei Rom non è più nomade e che, quando se ne va da un posto, è per l'impossibilità di viverci".

Il libro di Keler, Guibert e Lemercier ha anche questo pregio, di mostrarci i campi Rom a poca distanza dalle nostre case, alle periferie delle nostre città, di farci incontrare le persone che ci vivono e quelle che con loro lavorano per cambiare le cose. "Quando abbiamo iniziato a lavorare insieme, Alain aveva già fatto la maggior parte dei suoi viaggi, ma l'ho accompagnato a Parigi – racconta Guibert – e sono entrato in posti di cui conoscevo l'esistenza ma in cui non mi ero mai fermato, ho conosciuto le persone che ci vivono e i volontari che lavorano per cambiare la situazione". Tra loro c'è anche Ivan Akimov, slovacco che ha vissuto per molti anni in Francia e che, insieme alla moglie Helena, ha creato i Kesaj Tchavé, un gruppo di giovani musicisti, ballerini e cantanti Rom. Come racconta Alain Keler nel sesto capitolo del libro, ogni giorno, Ivan, insieme alla moglie Helena, fa il giro dei villaggi e delle baraccopoli di Kežmarok in Slovacchia per portarli a suonare e ballare. Grazie a Ivan Akimov, i Kesaj Tchavé hanno suonato anche in Francia, a Parigi. "Ho assistito a uno di quei concerti e fa un bene incredibile" dice Guibert.

Ivan è una di quelle persone che cercano di cambiare le cose. E racconta Guibert, "anche se il suo lavoro non durerà per sempre, almeno è riuscito a modificare la prospettiva del mondo esterno per quei ragazzi". Ma non è l'unico. Insieme a lui ci sono Jeanne, Colette, Antonio e altri di cui veniamo a conoscenza leggendo "Alain e i Rom". "Ho un'ammirazione senza limiti per loro – dice Guibert – Sono persone che non fanno un discorso convenzionale sui Rom, che parlano con voce franca senza nascondere i problemi, che, dopo generazioni di pregiudizi, violenza e sfiducia, cercano di cambiare la situazione, dedicando la loro vita, o solo una parte, a lavorare con queste persone". Ed è quello che ha fatto con i suoi reportage Alain Keler. "Alain ha deciso di raccontare come vivono i Rom d'Europa perché ha origini ebree e i suoi nonni sono morti nei campi di sterminio nazisti – spiega Guibert – Per questa ragione non può sopportare la discriminazione e il razzismo che colpisce i Rom: per lui è un dovere e anche io ho sentito di dovermi mettere a sua disposizione per far conoscere il lavoro paziente e segreto che fa, come si dice in Francia, contro il vento".

15 dicembre 2011 - di Redattore Sociale

 

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