(link
per chi legge da Facebook) ... con alcune considerazioni finali
Reportage web télévisé de la web tv http://www.chartres.tw -
Réalisation journaliste Eric Minsky-Kravetz.
Extrait de notre reportage sur la soirée de soutien aux expulsés du quartier du
Hanul à Saint-Denis (Seine-Saint-Denis). Le rappeur gitan Syntax venu
en soutien à la soirée chante "Monsieur le Juge..." Reportage web télévisé du
mercredi 14 juillet 2010 à Saint-Denis.
Questo video necessita di due brevi presentazioni:
Fra le poche cose riconosciute come positive ai Rom e Sinti è il talento
musicale. Ovviamente anche tra loro esistono le persone stonate, ma questo
succede con ogni stereotipo.
Sono conosciuti soprattutto per la musica balcanica, il flamenco ed
eventualmente il jazz manouche. Ma sono anche un popolo pienamente pan-europeo,
quindi le sue espressioni musicali, soprattutto nelle generazioni più giovani,
possono variare negli stili più diversi (dalla musica classica al rap, per
intenderci).
E talvolta non si tratta di semplici musicisti o compositori, ma di attivisti
culturali europei a pieno titolo, come nel caso di
Patrick Banga.
Parlando invece del contesto del video:
E' in atto da tempo un processo di coordinamento a livello europeo nelle
politiche repressive. Recentemente anche in Gran Bretagna, similmente
all'Italia, la
stampa viene ostacolata nella sua funzione di informazione quando si tratta
di sgomberi (e non solo).
Ostacolare l'informazione indipendente è solo uno dei tanti aspetti.
Ad esempio, ricordate a Milano gli "autobus della vergogna", dove sino alla primavera
scorsa venivano blindati i migranti privi di documenti? A fine mese scorso un
sistema simile è stato adoperato durante lo sgombero di un campo rom vicino
a Parigi.
Il tutto con una differenza di base: l'Italia sembra essere il laboratorio
di politiche repressive che vengono poi adottate altrove; mentre da noi
questi sistemi sollevano poche tiepide critiche, queste cose all'estero
riescono ancora a scandalizzare.
Per chi cercasse informazioni in italiano, la notizia è arrivata anche da
noi, grazie a
Giornalettismo (testata che ogni tanto incappa in qualche svarione, ma
col pregio di riprendere notizie che altrimenti passerebbero inosservate).
Giovedì 29 settembre ore 21.00 al Circolo ARCI Martiri di Turro in via
Rovetta 14 - Milano (Ingresso gratuito con tessera Arci) L'Associazione La Conta in collaborazione con Mahalla,
organizza un incontro con
Paul Polansky
Ci eravamo lasciati, circa un anno fa, con il definitivo smantellamento dei
campi profughi in Kosovo costruiti su terreni contaminati. Faremo il punto della
situazione ancora una volta con Paul Polansky, che ha lottato per oltre 10 anni
per la salvezza di chi era rinchiuso in quei campi. Ci spiegherà anche i
prossimi impegni della sua associazione e ci sarà una lettura delle sue poesie.
Paul Polansky è nato a Mason City, Iowa, nel 1942. Poeta, fotografo,
antropologo, operatore culturale e sociale, è diventato negli anni un
personaggio importantissimo per il suo impegno a favore delle popolazioni Rom.
Le sue poesie descrivono le atrocità commesse da cechi, slovacchi, albanesi ed
altri contro quelle popolazioni. Ha anche svolto studi accurati sui campi di
concentramento nazisti, in particolare quello ceco di Lety, nei quali venivano
trucidate, insieme a quelle ebraiche, intere comunità Rom. E' stato il primo a
presentare al mondo il dramma dei rifugiati del Kosovo, lasciati morire nei
campi di accoglienza avvelenati dal piombo. Ha pubblicato diversi libri,
realizzato esposizioni fotografiche e film video.
Altri incontri (calendario in via di definizione):
Venerdì 30 settembre, ore 17.30:
Saronno, Libreria-Caffè Letterario "Pagina 18" in Vicolo Castellaccio 6,
col patrocinio di Amnesty International Gruppo 135 di Saronno
Sabato 1 ottobre, in serata: Lonato (BS), Pizzeria Al Volo via
Montegrappa 11
Ci sono le ladre rinchiuse nel carcere romano di Rebibbia e le bambine mandate a
mendicare, ma anche la giovane regista di Torino superpremiata per il film in
cui racconta la storia della sua famiglia e la sua passione per Woody Allen,
l'artista che ha scolpito il monumento in onore del Porrajmos, l'Olocausto rom,
l'ex maestro che rifiutò di insegnare nelle classi speciali per i rom e che,
alla guida di un'associazione, si batte per tirar fuori la sua gente dal degrado
dei campi nomadi, il ragazzino di origine slava che a scuola è tra i primi della
classe e da grande vuole fare il soldato, i rumeni sgomberati dalle baraccopoli
abusive di Milano che oggi vivono in dignitosi appartamenti. È un caleidoscopio
di storie che riunisce italiani, slavi, rumeni nel ritratto sorprendente di un
popolo apparso in Italia nel 1422, ma ancora oggi considerato sempre e solo
straniero. Rimprovera all'autrice la fragile Ermina: «Ci giudicate senza averci
conosciuto». Il viaggio che questo libro propone è un viaggio di conoscenza, un
utile antidoto contro l'assedio dei luoghi comuni, a cominciare dal primo, il
più diffuso, che gli zingari siano nomadi.
BIANCA STANCANELLI, autrice del libro "La vergogna e la fortuna" ha gentilmente
messo a disposizione dei lettori di Articolo21 uno dei capitoli del suo libro.
Il suo sogno italiano, Ramona può riassumerlo in sette parole: «fare una vita
bella per i figli.» Mi accompagna da lei Donatella De Vito. Ramona ha trentasei
anni, un marito cinque anni più grande e tre figli. Appartiene alla
generazione che ha fatto in tempo a conoscere la Romania comunista e il dopo.
Preferiva la dittatura: «Quando lui era vivo, lavoravi.» Non pronuncia il nome
di Nicolae Ceausescu: solo quell'ingombrante pronome evocativo. Quando c'era
"lui", Ramona si guadagnava da vivere come contadina nei campi di mais e suo
marito aveva un impiego come operaio in fabbrica. Caduto il regime, hanno perso
il lavoro. Nel 2003 hanno deciso di venire in Italia, lasciando alla nonna
materna, all'inizio, i tre figli. A Milano sono arrivati nel campo di via Capo Rizzuto, verso l'autostrada per Torino, una baraccopoli nascosta tra gli
alberi. Ci abitavano trecento persone: alcuni avevano chiesto l'asilo
politico, altri, portandosi dietro un figlio malato, avevano ottenuto un
permesso di soggiorno. Per due anni vissero in pace e in miseria. «Nessuno
veniva a trovarci» dice Ramona, e quel nessuno è la polizia. Niente di cui
gioire, in quella quiete: «Avevo una vita malissima.» Suo marito è un musicista
della casta dei lautari, il suo strumento, purtroppo, è la batteria.
Purtroppo? Gli amici con cui era venuto, musicisti come lui, andavano a
suonare in metropolitana e guadagnavano benino, ma non potevano portarselo
dietro «perché faceva troppo rumore.» Per tirare avanti, Ramona chiedeva
l'elemosina davanti ai supermercati. Nel giugno del 2005 li sgomberarono e
sulla loro strada si alzò la mano protettrice della Casa della Carità. Cinque
anni dopo, la famiglia di Ramona vive in affitto, in un bilocale di periferia.
L'appartamento è modesto e confortevole. Ai balconi, sgargianti tende di garza
rossa, contro il malocchio. La figlia maggiore, che ha ventidue anni, è
impegnata in un tirocinio come assistente alla persona, una via di mezzo tra
un'infermiera e una badante, il figlio sedicenne frequenta un corso per
diventare meccanico, il piccolo va a scuola, il marito è stato assunto in una
cooperativa che ha in appalto dal Comune la pulizia delle docce pubbliche, Ramona lavora come domestica, una sua sorella di vent'anni si è sposata con un
italiano e gli ha pure confessato di essere rom senza esserne ripudiata (ma ai
suoceri non l'hanno detto, non si sa mai), altre due sorelle, che si erano
trasferite in Italia con la famiglia, sono tornate indietro perché non hanno
trovato nulla. Quanto alla Romania, i suoi figli non hanno nessuna intenzione
di tornarci e lei vuole solo dimenticarla: «Speriamo che non ci vado più.»
Questo quadretto di tranquillità domestica prospera al riparo di un'identità "di
copertura". Nessuno dei vicini, dei datori di lavoro, dei compagni di classe dei
figli sa che la famiglia è zingara. La Casa della Carità ha giudicato che tacere
questo dettaglio sia il metodo migliore per offrire ai rom sgomberati
l'opportunità di rifarsi una vita. Sembrano precauzioni eccessive, ma
l'esperienza insegna che non sono mai troppe. Ramona si è giocata un posto
scoprendosi per sbaglio come zingara e ancora non se lo perdona. L'errore, forse
un minuscolo peccato di vanità, è stato prender parte a un film con i comici Ale
e Franz. S'intitolava, come per sberleffo, Mi fido di te. È successo nel 2006,
quando da due anni Ramona faceva le pulizie a casa di una ricca signora milanese
che vendeva a domicilio abiti firmati, aveva un vasto giro d'amicizie e
l'abitudine di seminare i soldi per casa senza problemi. Capitava che la
signora andasse a prendere Ramona alla fermata della metropolitana e che, in
macchina, incontrassero rom. La signora si sfogava: «Che gente schifosa, questi
zingari: ne arrivano a milioni, non se ne può più.» Seduta accanto a lei, rigida
come un lampione, Ramona farfugliava: «Ma davvero, ma che schifo» e tremava di
paura al pensiero che da un segno, da un gesto, la signora capisse che anche lei
era zingara e la cacciasse. Né Ramona né, probabilmente, la sdegnata signora
che le sedeva accanto potevano sapere che la capitale della Lombardia ha
un'antica tradizione di odio antizigano. Uno dei più brutali editti che mi sia
capitato di leggere è una grida pubblicata a Milano l'8 agosto 1693. Consente a
chiunque incontri zingari «d'ammazzarli impune e levar loro ogni sorta di robbe,
bestiami e denari che gli trovasse.» Trecento anni dopo quella grida, Ramona
traccia i suoi giudiziosi distinguo tra gli zingari: «I rom jugoslavi sono
cattivi davvero. Anche noi rumeni siamo zingari, ma non facciamo male.» La
ascolto, non replico: dopotutto, perché a noi italiani soltanto deve essere
riservato il privilegio del pregiudizio? La sua conclusione non ammette
repliche: «Tutti credono che i zingari fanno male, così non ti danno lavoro se
sei zingaro.» Quando accettò di recitare in quel film, in una particina
minuscola, confusa in un gruppo di rom, Ramona non sospettava che la signora
avrebbe mai potuto saperlo. Lo scoprì, invece; forse qualcuno che aveva visto il
film le riferì che, tra gli zingari che recitavano la parte di allegri truffaldi,
c'era Ramona. Stanata, non poté più nascondersi: «Sai come stavo male quando
quella signora ha saputo che ero zingara? Prima mi dava i soldi della spesa, mi
faceva tenere le chiavi. Dopo il film, mi stava sempre vicino, mi controllava,
alla fine mi ha lasciato a casa.» Grazioso eufemismo per definire il
licenziamento di una presunta nomade. Don Massimo Mapelli mi dice che, per i
progetti che riguardavano più di duecento rom sgomberati negli anni dal 2005 al
2007, sono stati impiegati due milioni di euro. È meno della metà della cifra
che il Comune ha speso in sgomberi nei quattro anni dal 2006 al 2010. Ma gli
sgomberi producono solo altri sgomberi, in uno sfiancante inseguimento tra
guardie e zingari, mentre i progetti della Casa della Carità hanno trasformato i
minacciosi invasori in famiglie serene. Non tutti e non sempre, naturalmente. E
non senza frizioni, difficoltà, inciampi. Don Massimo sa bene che «dovendo
sopravvivere, i rom tendono a concepire la relazione con te secondo il modello
"devo succhiare tutto quello che posso".» Come se il manghél, l'elemosina, fosse
diventato uno stile di vita. «L'idea che ha guidato gli interventi sui rom è
sempre stato l'assistenzialismo. Farli passare all'autonomia è complicato. Noi
ce l'abbiamo fatta perché, detto brutalmente, eravamo a casa nostra, potevamo
mettere le cose in chiaro: se non ci stai, amici come prima, ma te ne vai. È
quello che nei campi non si può fare. Intendiamoci, non tutti accettano. Qualche
famiglia se ne è andata, ha preferito continuare a vivere in quel sottobosco
dove l'informale si lega all'illegale.» È in quel sottobosco che gli zingari,
spesso, incontrano gli italiani. Don Massimo fa un esempio: «Nei campi abusivi,
abbiamo scoperto che i rom lavoravano in nero a fabbricare bancali, perché gli
zingari non li vuole nessuno, ma i bancali in nero li vogliono tutti. Allora
abbiamo fondato una cooperativa per fabbricarli noi, mettendoci dentro sette rom
e due nordafricani. In un anno di crisi pesante come il 2009, abbiamo creato
posti di lavoro e regolarizzato un settore che era in nero.»
In nome di un'esperienza lunga cinque anni, don Massimo può dichiarare: «Il
problema rom è un problema che, finché resta tale, è utilizzabile.» Amara
sentenza che dà ragione della curiosa inefficienza milanese nell'inventare
soluzioni diverse dai brutali, costosi, inutili sgomberi e di altre storie
accadute qua e là in Italia. Come la cacciata dei prefetti di Roma e di Venezia,
rimossi d'autorità – e senza spiegazioni – nel pieno dell'"emergenza nomadi". Il
primo, nel novembre 2008, fu Carlo Mosca, prefetto di Roma che rifiutò di
prendere le impronte ai bambini rom e mai venne meno al motto «Si sgomberano le
macerie, non le persone.» Il secondo, nel dicembre 2009, è stato Michele Lepri Gallerano, prefetto di Venezia per quattro mesi: il tempo di gestire il trasloco
di 38 famiglie di sinti veneziani dalle baracche a un villaggio di casette
allestito dal Comune. Trasloco compiuto a mezzanotte, in trentotto minuti –
troppo pochi perché le torpide truppe antizigane potessero accorgersene e
impedirlo.
EZrome - Scritto e Inviato da Donata Zocche 06 Ottobre, 2011
'Devo ammettere che faccio fatica a rendermi conto d'essere davvero a Roma. Non
mi sarei mai aspettato di trovare questa baraccopoli dentro la mia città: buia,
fredda, piena di pozzanghere'. A parlare è Pietro, uno dei protagonisti di Oggi mi sa che muoio, di
Jole Severi Silvestrini, pubblicato da Mondadori. Ma sono in molti a non aspettarselo,
specialmente quando la visione della realtà viene offuscata dalla
non-conoscenza, dal pregiudizio. Specialmente quando la realtà si chiama campo
nomadi, un posto dove pochi vorrebbero andare, e ancora meno ci sono stati.
Jole Severi Silvestrini, invece, quella realtà la conosce bene, perché ha
operato come medico volontario al campo rom di Casilino 900. Dalla sua
incredibile esperienza è nato un libro prezioso e autentico, che pagina dopo
pagina ci accompagna nel luogo-simbolo di tante nostre paure, restituendoci la
visione nitida di chi ha visto le cose coi propri occhi.
Dottoressa Severi Silvestrini, 'Oggi mi sa che muoio' nasce dalla sua esperienza
personale presso il servizio di Medicina Solidale di Tor Bella Monaca e di
Casilino 900. Perché ha deciso di fare il medico in un campo rom?
Come molte altre persone, in un certo senso privilegiate, anche a me è successo
di rendermi conto di essere una donna fortunata e di sentire il bisogno di
donare parte del mio tempo e delle mie conoscenze a quelli che reputavo meno
fortunati di me. Ero in un momento particolare della mia vita, non solo
professionale, e non mi aspettavo minimamente che da questa esperienza sarei
stata proprio io quella che, a conti fatti, avrebbe tratto il maggior guadagno.
Infatti, ero convinta che fare volontariato significasse soprattutto dare e
invece mi sono ritrovata a ricevere tantissimo. A Tor Bella Monaca non mi sono
presa cura solo di donne Rom, ma di molte pazienti immigrate e provenienti da
tutte le parti del mondo. Io sono ginecologa e per questo ho seguito soprattutto
donne in gravidanza e mi sono subito accorta di quanto queste persone avessero
bisogno di raccontare le loro storie e di come fosse bello starle a sentire. Il
mio desiderio di scrivere è diventato addirittura un bisogno impellente e così è
uscito "I Racconti Dell'Attesa" il primo libro nato dall'esperienza a "Torbella".
E' una raccolta di favole, in tante lingue diverse, che mi hanno raccontato le
mamme in attesa e che nel corso dei nove mesi abbiamo tradotto insieme. Da quel
momento ho capito cosa significasse per me fare il medico: non solo il
Policlinico, l'Università, i pazienti come "casi" da riportare ai congressi, ma
il prendersi cura davvero delle persone con le loro storie cariche di sofferenza
ma anche di vita e di speranza, di gioia e di voglia di raccontare. E sono
andata avanti e ho scritto anche "Oggi mi sa che muoio", stavolta un romanzo,
che mi ha permesso di dar voce a tanti personaggi diversi, insomma, a tutti
quelli che hanno cambiato il mio lavoro in meglio.
Najo, uno dei protagonisti, ad un certo punto dice: 'Gagè! ma non dirmi che non
sai ancora come vi chiamiamo?! sei proprio imbranato! i gagè sono la gente come
te, quella che non è rom, insomma siete voi: i non zingari!'
Le è capitato di sentirsi in una situazione ribaltata, cioè ad essere lei la
'diversa', 'quella che appartiene ad un'altra realtà'?
Be', in un certo senso la sensazione di essere sempre un po' fuori contesto, non
perfettamente integrata nell'ambiente in cui vivo e lavoro, mi ha sempre
accompagnata, turbandomi anche un po'. Ho sempre pensato fosse un mio limite
sentirmi spesso "fuori luogo" rispetto alla mia "casta", fino a quando non ho
capito che in realtà essere un po' strana poteva essere una mia risorsa e
infatti sentire di non appartenere completamente a quella che dovrebbe essere la
mia realtà mi permette di immedesimarmi con le storie degli altri, di coloro che
vengono da mondi lontani e molto diversi da quello in cui sono nata e cresciuta.
Ora mi succede ancor più di prima di sentirmi trattare dai miei colleghi come
"quella un po' bizzarra", ma non mi preoccupa, va bene così: sono un po'
"diversa".
Pietro è un giovane volontario, che offrendo il proprio aiuto contravviene alle
regole della comunità rom. Scatenerà, involontariamente, effetti deleteri. Come
giudica la conoscenza che i 'gagè' hanno generalmente del mondo rom?
Non si può mai parlare di vera conoscenza quando l'approccio a una realtà è
offuscato dai pregiudizi, io credo che la maggior parte dei gagè nutrano solo
diffidenza e paura nei confronti del mondo rom, ma anche i rom sono spesso
profondamente sospettosi nei confronti dei gagè e per questo ci attribuiscono
caratteristiche grottesche che derivano solo dai loro preconcetti. Pietro, come
molti ragazzi della sua età, ha solo una conoscenza molto superficiale del mondo
dei campi, però gli capita di innamorarsi di una zingara e l'amore sarà una
molla potentissima che indurrà dei cambiamenti drammatici. L'amore ha il potere
di trasformare le persone e di rendere possibile una conoscenza reale e concreta
dell'altro, del diverso, che altrimenti non sarebbe mai stata possibile. Ma
l'amore non è "attento" e a volte travolge le differenze, sì, insomma, l'amore
non è quasi mai "politicamente corretto".
'Non mi sarei mai aspettato di trovare questa baraccopoli dentro la mia città:
buia, fredda, piena di pozzanghere', si trova ad un certo punto a pensare
Pietro.
Si può dire che da una parte l'attaccamento alle proprie tradizioni e dall'altra
la difesa messa in atto verso certe realtà difficili, come i campi nomadi,
finiscono col consolidare ancora di più queste realtà?
Certamente, è proprio così. Siamo tutti un po' responsabili dell'esistenza di
realtà assurde come quella dei campi, che sono luoghi indecenti nei quali le
condizioni di vita delle persone che ci abitano sono assolutamente
inaccettabili.
Jasmina dice a Pietro: 'Devo proprio spiegarti un bel po' di cose su quello che
da noi un ragazzo e una ragazza … se non sono sposati … bè, insomma, diciamo
così: non possiamo stare mai da soli!'
Le regole tradizionali più rigide sono destinate ad allentarsi tra le
generazioni più giovani, avvicinando mondi diversi?
Sì, anche questo è un aspetto che fa parte delle trasformazioni che i
protagonisti di questa storia subiranno grazie all'innamoramento che è la molla
capace di produrle. In questa storia non ci sono i buoni e i cattivi, né tra gli
zingari né tra i gagè, non si propongono soluzioni facili e finali rassicuranti
e nemmeno regole giuste contrapposte a regole sbagliate, però Pietro, Jasmina e
i ragazzini del campo diventeranno amici e un sentimento d'affetto, di curiosità
e fascino reciproco li unirà permettendogli di vincere le paure e quindi anche
il bisogno di difendersi trincerandosi dietro a comportamenti rigidamente
stereotipati. I giovani di questo romanzo sono gli unici che riescono a
contravvenire alle regole dei loro rispettivi mondi. Non a caso questo libro è
dedicato soprattutto a giovani adulti e ho scelto di pubblicarlo in una collana
per ragazzi, infatti, credo che il messaggio vada indirizzato a loro perché sono
loro che possono davvero recepirlo.
Dottoressa Severi Silvestrini, con quali pregiudizi è entrata al campo rom di
Casilino 900, e con quali giudizi ne è uscita?
Sono entrata con i pregiudizi che credo abbiamo tutti come per esempio: gli
zingari non hanno nessuna voglia di lavorare, sono ladri e bugiardi, trattano
male le donne e i bambini, vengono da altri paesi più poveri e sfortunati del
nostro, ma non vogliono integrarsi alle nostre leggi e alla nostra cultura, sono
sporchi e pigri. In verità avevo in testa anche una serie di idee preconcette un
po' ideologiche e romantiche del tipo: lo zingaro è libero perché si rifiuta di
condividere le norme della nostra società, lo zingaro preferisce vivere in una
baracca ed essere nomade piuttosto che sentirsi incatenato alle nostre regole
borghesi, lo zingaro è orgoglioso d'esserlo e vuole rimanere tale e … via
dicendo.
In realtà le cose non stanno affatto così. Per prima cosa ho scoperto che la
maggior parte delle persone che vivono nei campi, almeno nella nostra città, è
nata in Italia da genitori che a loro volta sono nati qui e, considerando il
fatto che tra di loro ci si sposa molto presto e si diventa genitori già a
quindici o sedici anni, talvolta anche i loro nonni sono nati in un campo rom in
Italia. Insomma, sono italiani di seconda o addirittura di terza generazione .
Alla luce di ciò suona piuttosto ridicola l'intenzione di alcuni di rispedire
questa gente a casa loro visto che la loro casa è proprio qui, da noi. E
nonostante questo, nessuno di loro, come sarebbe giusto, è cittadino italiano e
per molti di loro è difficilissimo avere persino il permesso di soggiorno. In
Italia qualsiasi straniero senza documenti in regola commette un reato e quindi
qualsiasi zingaro è un fuorilegge fin dalla nascita. In queste condizioni anche
se qualcuno di loro volesse davvero "integrarsi" e vivere una vita onesta, chi
darebbe lavoro a uno zingaro senza documenti?
Un'altra importante scoperta che ho fatto è che nessuno tra le persone che ho
conosciuto a Casilino 900, soprattutto i ragazzi e i bambini, è orgoglioso di
essere costretto a rubare o a fare accattonaggio per campare, e nessuno, ma
proprio nessuno, preferirebbe vivere in una baracca sporca, senza acqua, senza
bagno, gelata d'inverno e bollente d'estate, piuttosto che in una vera casa se
gliene fosse data la possibilità. Poi ho capito che nessun bambino preferisce
andare a chiedere l'elemosina, o andare alla ricerca di cose da mangiare o
vendere infilandosi nei cassonetti, oppure essere costretto a rubare portafogli
sugli autobus, piuttosto che andare a scuola. Tutti quelli che ho conosciuto
vorrebbero imparare a leggere e a scrivere e sognano di fare da grandi dei
lavori rispettabili, ma sanno che questa è una possibilità a loro preclusa.
Ho scoperto che il nomadismo è scomparso tra i Rom, infatti sono morte tutte
quelle occupazioni e quei mestieri che lo giustificavano. Quasi più nessuno
aspetta la festa del paese e l'arrivo dei giostrai, dei musicanti, delle
cartomanti, dei fabbricanti di pentole e di coltelli, gli arrotini, gli
ombrellai, i domatori di cavalli e così via. Ora in tutte le città, e persino
nei paesini, ci sono i grandi centri commerciali, i cinema multisale e i parchi
di divertimento e gli zingari non servono più. Un tempo per la famiglia Rom era
indispensabile spostarsi di paese in paese per portare durante le fiere le
proprie mercanzie e i propri mestieri, ora che è scomparsa questa necessità il
nomadismo non ha più ragion d'essere. Gli zingari sono diventati stanziali e la
maggior parte di loro sogna un lavoro e una casa e una vita proprio come quella
dei gagè.
Infine ho capito che nei campi non si nasconde solo la microcriminalità legata
ai furtarelli, alle truffe e all'accattonaggio necessari alla sopravvivenza di
tanti poveracci, ma che tra le baracche trovano rifugio criminali veri e propri,
e che refurtive di migliaia e migliaia di euro sono state rinvenute in molti
campi, nonché molte armi e chili di droga. I campi, infatti, sono posti
dimenticati e abbandonati, spesso ai margini della città, praticamente fuori da
ogni regola e legge e senza quasi alcun controllo, insomma, sono posti ideali
per molti delinquenti, anche potenti e collegati alle mafie, che hanno tutti gli
interessi affinché le cose non cambino mai.
Oggi mi sa che muoio
di Jole Severi Silvestrini
Edizioni Mondadori
Il neonato centro studi Sa Mergem, di
Terra del Fuoco, si
cimenta in versione inedita con la presentazione di fiabe tradizionali della
cultura Rom. Sa povestim! In scena, la suggestiva narrazione in romanes, i
suoni di una chitarra folk e gli interventi in lingua italiana s'intrecciano
per completare un quadro nel quale i giovani studiosi vogliono trasportare il
pubblico, sperando di abbattere alcune barriere e di condividere emozioni,
pensieri e maggiore conoscenza reciproca.
Il ciclo d'incontri è rivolto ad alcune classi della scuole materne, in
occasione del Festival Internazionale di Letteratura, alla sua VIII edizione,
presso la Biblioteca civica multimediale "Archimede" di Settimo T.se, il primo
appuntamento è per il 21 ottobre, ma verranno presto comunicate le nuove
date.
Grazie alla sua presenza e al suo lavoro di divulgazione e attivismo
umanitario, il mondo non può condannare all'oblio le famiglie Rom che vivono nei
campi del Kosovo contaminati dal piombo.
Ora esce il nuovo libro di Paul: "La mia vita con gli zingari". Prefazione di
Pietro Marcenaro. Una testimonianza che diventa manifesto civile e ci induce a
non restare a guardare le tragedie che colpiscono il popolo Rom, ma ad agire.
(Da
Everyonegroup.com)
Uscita 31 ottobre, ed i falchetti della nostra redazione, l'hanno subito intercettato...
Mercoledì 2 novembre ore 21.00 al Circolo ARCI Martiri di Turro in via
Rovetta 14 - Milano (Ingresso gratuito con tessera Arci) L'Associazione La Conta in collaborazione con Mahalla
GIOVEDI’ 3 NOVEMBRE, ORE 21, via Irma Bandiera 1/5 Bologna
AMNESTY INTERNATIONAL DI BOLOGNA, in collaborazione con il gruppo
culturale "Alieni per caso/a", vi invita alla
Presentazione del nuovo libro di Paul Polansky
"LA MIA VITA CON GLI ZINGARI" (traduzione di Valentina Confido, edizioni Datanews 2011)
Presentato da Dimitris Argiropolous, Università di Bologna, in dialogo
con l’autore
per info: Patricia Quezada 3391923429 Pina Piccolo 3386268250 o Amnesty
International 051434384 o al sito
gr019@amnesty.it
Lunedì 7 novembre ore 20,30 Biblioteca Lame - via Marco Polo, 21/13 - Bologna
Presentazione del nuovo libro di Paul Polansky "LA MIA VITA CON GLI ZINGARI"(edizioni Datanews)
Sarà presente l'autore, che ne parlerà con: Amelia Frascaroli - Assessore ai Servizi Sociali, Volontariato,
Associazionismo e partecipazione del Comune di Bologna, Dimitris Argiropoulos - Università di Bologna, Sara Montipò - Centro Accoglienza la Rupe Lucio Serio - Società Dolce gli operatori dell'associazione Harambé
Paul Polansky, nato nel 1942, è un poeta, scrittore e fotografo statunitense, ed
è noto per il grande impegno civile e sociale avente per scopo la salvaguardia
dei diritti umani a favore del popolo Rom nell'est dell'Europa. Dopo aver
lasciato gli Stati Uniti per proseguire gli studi a Madrid, dove lavora come
giornalista free lance, ha intrapreso un lungo percorso di ricerca sulle origini
della propria famiglia, studi durante i quali scopre documenti che permettono di
riportare alla luce l'esistenza di un campo di concentramento Lety, in
Repubblica Ceca.
Nel 1999 viene ingaggiato dalle Nazioni Unite e inviato nel Kosovo come
intermediario tra le istituzioni e i gruppi rom perseguitati.
Nel 2004 Paul Polansky è insignito del premio Human Rights Award, consegnatogli
direttamente da Günter Grass.
Del 2005 il suo film-documentario "Gipsy Blood", premiato al Golden Wheel
International Film Festival di Skopje, è visibile su
youtube.
Io e
Paul Polansky siamo seduti al bar uno di fronte all'altro. Sul tavolino tanti libri e due bicchieri di birra. So che la sera mi aspetta un compito non facile: dobbiamo presentare il suo
ultimo libro uscito da appena 2 giorni, e ovviamente non ho ancora potuto
leggerlo.
Per fortuna il posto è tranquillo. Paul mi ha riassunto i capitoli principali, a
cui ho dato una rapida scorsa, poi gli faccio alcune domande su quelle che mi
sembrano le questioni chiave sollevate. Ci accordiamo: durante la presentazione,
leggerò l'inizio di quei capitoli e gli porrò 2 o 3 domande per volta, altre
(spero) verranno dal pubblico, lui risponderà.
Non voglio fare una brutta figura di fronte a lui e al pubblico, così gli dico
che mentre aspettiamo darò un'altro sguardo al libro, "RANDOM", per farmene
un'idea meno approssimativa. Lui annuisce e si concentra nella traduzione in
spagnolo di alcune sue poesie.
Leggo con attenzione ma poca partecipazione l'introduzione di Pietro Marcenaro e
poi quella sua. Passo alle pagine interne, scorro la prima parte sulla Spagna. E
da questo momento termina la mia intenzione di leggere a caso e la mia
improbabile carriera di critico. Perché quando passo distrattamente al secondo
capitolo, la storia diventa un film breve e appassionante che non riesco ad abbandonare: quei
personaggi lì vedo davanti a me, reali, in tutto simili a tanti che conosco.
Riconosco il loro modo di parlare e ricordare, le strade percorse, le loro
vicissitudini, forse ne sento persino l'odore.
Ho persino paura che qualcuno possa notare il mio turbamento. Cerco di calmarlo
uscendo a fumare una sigaretta.
A parte questo, cosa potete trovare in 206 pagine, al prezzo di 18 euro?
Tante cose. Chi già conosce l'autore, troverà la risposta ad una domanda che
viene naturale farsi: come ha iniziato a vivere con gli zingari e perché ha
iniziato a scriverne. Chi non lo conosce, potrà fare un viaggio introduttivo
nella storia, cultura, religione, dei popoli rom e sinti in Europa e altrove.
Polansky è nel contempo un antropologo severo ed un testimone partecipe. Ama
ripetere: "Vivo tra gli zingari come uno studioso, ma ne scrivo con le loro
parole e la loro mente." ...Le loro parole e la loro mente: ecco il senso
del turbamento che descrivevo prima, perché Polansky sa anche essere scrittore
di razza. Asciutto, fotografico.
E poi, il libro va letto anche per le piccole chicche:
come quando racconta di un Rom scampato alla guerra, che nel 1948 aiuta
un Tedesco residente nei Sudeti ad abbandonare la Cecoslovacchia comunista,
che stava espellendo tutti i cittadini di origine tedesca;
o di quando ricorda un suo viaggio nel deserto del Rajastan: giunto nei
pressi di un accampamento zingaro, questi gli chiesero se voleva ascoltare
la loro musica. Si misero a suonare, ed eruppe una musica che a decine di
migliaia di km. e a secoli di distanza, assomigliava in tutto al cante
hondo dei gitani.
Lasciamo il libro per un momento, e facciamo un confronto:
Non voglio dilungarmi, il libro potrà anche stupire o far discutere, visto
che l'argomento ZINGARI rimane scottante. L'importante è approcciarlo con la
serietà e la passione necessarie.
Termino riportando l'ultima pagina del libro, per la sola
ragione che è bella:
Vivendo con loro ho scoperto che le differenze tra loro e me sono così
piccole che a volte non riesco a vederle affatto. L'amore delle madri per i
loro figli mi ricorda l'amore della mia per i suoi sette figli. Infatti, ho
notato che le madri, e in generale le famiglie gitane, sono molto più
premurose di quanto non siano le famiglie europee o americane di oggi. Gli
Zingari anziani non vengono messi in case di cura come fossero dei lebbrosi
ma, al contrario, vengono accuditi e rispettati nella propria casa e dalla
propria famiglia. Ciò non accade spesso nella civiltà occidentale.
So che, quando sarò vecchio, sarà probabilmente una famiglia di Zingari a
prendersi cura di me fino alla mia morte e non uno dei miei quattro figli.
Grazie Dio, per aver creato gli Zingari. Possano essi ereditare la terra,
come Dio ha promesso loro!
Dal 17 al 19 novembre alle ore 21.00 - il 20 novembre alle ore 18.00 Piccolo Teatro Campo d'Arte - Via dei Cappellari, 93 (Presso "Campo dei
Fiori") ROMA
Scritto e interpretato da Antun Blazevic (Tonizingaro)
Musiche del Maestro Nicola Serban (Cimbalon)
Spettacolo teatrale ironico e di denuncia, con la partecipazione di
musicisti rom. L'immaginaria lettera che un Rom, fuggito negli anni '90 dalla
ex-Yugoslavia in Italia, scrive al fratello rimasto nel paese di origine. Ironia
tagliante che fa riflettere sulla condizione dei Rom in Italia, presentati in
questa mise-en-scene come benestanti cittadini ben integrati nella società
italiana. Fantasie che un uomo racconta ai suoi cari ma che soprattutto racconta
a se stesso; una favola che fa sorridere e fa riflettere. Soprattutto perché
dall’altra parte dell’Adriatico il fratello rom risponde alla lettera in un modo
davvero inaspettato…
VENERDI' 18 NOVEMBRE 2011 alle ore 18 presso la Sala delle Colonne – Banca Popolare di Milano (via san Paolo
12, Milano)
I ROM DI VIA RUBATTINO Una scuola di solidarietà
Elisa Giunipero e Flaviana Robbiati (a cura di)
Presentazione di Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant'Egidio
Collana Libroteca Paoline ISBN 88-315-4055-1
Milano, 19 novembre 2009: la baraccopoli di via Rubattino, occupata da circa
trecento rom, viene sgomberata dalle forze dell'ordine. Un'operazione gonfiata
ad arte per rassicurare i cittadini milanesi circa la presenza, guardata con
diffidenza e con sospetto, dei Rom. Questa operazione crea una reazione
inaspettata: i cittadini si mobilitano in favore dei rom. Famiglie milanesi
aprono la porta della propria casa per dare ospitalità ad alcune famiglie che
non avrebbero alternative reali alla strada. Tutto questo è avvenuto perché i
pregiudizi alimentati da una informazione tendenziosa hanno lasciato il posto
alla conoscenza reciproca.
Rom fa rima ancora oggi con allarme sociale e l'unica cosa che sembra restare è
il dovere di schierarsi. Sui rom ci si scontra senza mai fare una proposta o
indicare una possibile soluzione. Questo libro ha il grande vantaggio di
guardare in faccia la realtà così com'è, senza aggiunte né proclami, allo scopo
di provare a identificare una via da percorrere, pur consapevoli che non si
tratta di un cammino in discesa, ma certamente, per tanti motivi, in salita.
(dalla presentazione di Marco Impagliazzo)
Questo libro racconta la straordinaria avventura di incontro, solidarietà,
amicizia tra un quartiere di Milano e i Rom, avventura iniziata con l'iscrizione
a scuola di 36 bambini rom da parte della Comunità di Sant'Egidio. La scuola si
è rivelata così il primo luogo di un'integrazione, non facile ma possibile.
La rete di simpatia, buon senso, generosità, voglia di cambiare che ha
circondato i Rom di via Rubattino ha molto da dire al clima di antigitanismo che
sembra crescere in Europa. Gli autori di questo libro sono tanti: maestre,
genitori e alunni delle scuole, volontari, cittadini, giornalisti. Scritto come
cronaca diventa testimonianza di percorsi possibili e stimolo a cercare strade
di integrazione, unico futuro possibile.
A due anni esatti dallo sgombero e in occasione della Giornata dei diritti
dell'infanzia, il libro viene presentato dalla Comunità di Sant'Egidio e dalle
Mamme e maestre di Rubattino
Intervengono:
Maria Grazia Guida – Vicesindaco di Milano; Giangiacomo Schiavi – Corriere della
Sera; Gianni Zappa – Arcidiocesi di Milano; Corrado Mandreoli – CGIL; Garofita
Durusan – donna rom sgomberata da via Rubattino; Bianca Zirulia – Mamme e
maestre di Rubattino.
Musiche di Jovica Jovic.
Le Curatrici
Elisa Giunipero, della Comunità di Sant'Egidio, è impegnata nelle attività a
favore dei rom a Milano. Flaviana Robbiati, maestra elementare, da trentacinque anni insegna nella scuola
vicina a via Rubattino, a Milano.
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