Articolo21
Ci sono le ladre rinchiuse nel carcere romano di Rebibbia e le bambine mandate a
mendicare, ma anche la giovane regista di Torino superpremiata per il film in
cui racconta la storia della sua famiglia e la sua passione per Woody Allen,
l'artista che ha scolpito il monumento in onore del Porrajmos, l'Olocausto rom,
l'ex maestro che rifiutò di insegnare nelle classi speciali per i rom e che,
alla guida di un'associazione, si batte per tirar fuori la sua gente dal degrado
dei campi nomadi, il ragazzino di origine slava che a scuola è tra i primi della
classe e da grande vuole fare il soldato, i rumeni sgomberati dalle baraccopoli
abusive di Milano che oggi vivono in dignitosi appartamenti. È un caleidoscopio
di storie che riunisce italiani, slavi, rumeni nel ritratto sorprendente di un
popolo apparso in Italia nel 1422, ma ancora oggi considerato sempre e solo
straniero. Rimprovera all'autrice la fragile Ermina: «Ci giudicate senza averci
conosciuto». Il viaggio che questo libro propone è un viaggio di conoscenza, un
utile antidoto contro l'assedio dei luoghi comuni, a cominciare dal primo, il
più diffuso, che gli zingari siano nomadi.
BIANCA STANCANELLI, autrice del libro "La vergogna e la fortuna" ha gentilmente
messo a disposizione dei lettori di Articolo21 uno dei capitoli del suo libro.
Il suo sogno italiano, Ramona può riassumerlo in sette parole: «fare una vita
bella per i figli.» Mi accompagna da lei Donatella De Vito. Ramona ha trentasei
anni, un marito cinque anni più grande e tre figli. Appartiene alla
generazione che ha fatto in tempo a conoscere la Romania comunista e il dopo.
Preferiva la dittatura: «Quando lui era vivo, lavoravi.» Non pronuncia il nome
di Nicolae Ceausescu: solo quell'ingombrante pronome evocativo. Quando c'era
"lui", Ramona si guadagnava da vivere come contadina nei campi di mais e suo
marito aveva un impiego come operaio in fabbrica. Caduto il regime, hanno perso
il lavoro. Nel 2003 hanno deciso di venire in Italia, lasciando alla nonna
materna, all'inizio, i tre figli. A Milano sono arrivati nel campo di via Capo Rizzuto, verso l'autostrada per Torino, una baraccopoli nascosta tra gli
alberi. Ci abitavano trecento persone: alcuni avevano chiesto l'asilo
politico, altri, portandosi dietro un figlio malato, avevano ottenuto un
permesso di soggiorno. Per due anni vissero in pace e in miseria. «Nessuno
veniva a trovarci» dice Ramona, e quel nessuno è la polizia. Niente di cui
gioire, in quella quiete: «Avevo una vita malissima.» Suo marito è un musicista
della casta dei lautari, il suo strumento, purtroppo, è la batteria.
Purtroppo? Gli amici con cui era venuto, musicisti come lui, andavano a
suonare in metropolitana e guadagnavano benino, ma non potevano portarselo
dietro «perché faceva troppo rumore.» Per tirare avanti, Ramona chiedeva
l'elemosina davanti ai supermercati. Nel giugno del 2005 li sgomberarono e
sulla loro strada si alzò la mano protettrice della Casa della Carità. Cinque
anni dopo, la famiglia di Ramona vive in affitto, in un bilocale di periferia.
L'appartamento è modesto e confortevole. Ai balconi, sgargianti tende di garza
rossa, contro il malocchio. La figlia maggiore, che ha ventidue anni, è
impegnata in un tirocinio come assistente alla persona, una via di mezzo tra
un'infermiera e una badante, il figlio sedicenne frequenta un corso per
diventare meccanico, il piccolo va a scuola, il marito è stato assunto in una
cooperativa che ha in appalto dal Comune la pulizia delle docce pubbliche, Ramona lavora come domestica, una sua sorella di vent'anni si è sposata con un
italiano e gli ha pure confessato di essere rom senza esserne ripudiata (ma ai
suoceri non l'hanno detto, non si sa mai), altre due sorelle, che si erano
trasferite in Italia con la famiglia, sono tornate indietro perché non hanno
trovato nulla. Quanto alla Romania, i suoi figli non hanno nessuna intenzione
di tornarci e lei vuole solo dimenticarla: «Speriamo che non ci vado più.»
Questo quadretto di tranquillità domestica prospera al riparo di un'identità "di
copertura". Nessuno dei vicini, dei datori di lavoro, dei compagni di classe dei
figli sa che la famiglia è zingara. La Casa della Carità ha giudicato che tacere
questo dettaglio sia il metodo migliore per offrire ai rom sgomberati
l'opportunità di rifarsi una vita. Sembrano precauzioni eccessive, ma
l'esperienza insegna che non sono mai troppe. Ramona si è giocata un posto
scoprendosi per sbaglio come zingara e ancora non se lo perdona. L'errore, forse
un minuscolo peccato di vanità, è stato prender parte a un film con i comici Ale
e Franz. S'intitolava, come per sberleffo, Mi fido di te. È successo nel 2006,
quando da due anni Ramona faceva le pulizie a casa di una ricca signora milanese
che vendeva a domicilio abiti firmati, aveva un vasto giro d'amicizie e
l'abitudine di seminare i soldi per casa senza problemi. Capitava che la
signora andasse a prendere Ramona alla fermata della metropolitana e che, in
macchina, incontrassero rom. La signora si sfogava: «Che gente schifosa, questi
zingari: ne arrivano a milioni, non se ne può più.» Seduta accanto a lei, rigida
come un lampione, Ramona farfugliava: «Ma davvero, ma che schifo» e tremava di
paura al pensiero che da un segno, da un gesto, la signora capisse che anche lei
era zingara e la cacciasse. Né Ramona né, probabilmente, la sdegnata signora
che le sedeva accanto potevano sapere che la capitale della Lombardia ha
un'antica tradizione di odio antizigano. Uno dei più brutali editti che mi sia
capitato di leggere è una grida pubblicata a Milano l'8 agosto 1693. Consente a
chiunque incontri zingari «d'ammazzarli impune e levar loro ogni sorta di robbe,
bestiami e denari che gli trovasse.» Trecento anni dopo quella grida, Ramona
traccia i suoi giudiziosi distinguo tra gli zingari: «I rom jugoslavi sono
cattivi davvero. Anche noi rumeni siamo zingari, ma non facciamo male.» La
ascolto, non replico: dopotutto, perché a noi italiani soltanto deve essere
riservato il privilegio del pregiudizio? La sua conclusione non ammette
repliche: «Tutti credono che i zingari fanno male, così non ti danno lavoro se
sei zingaro.» Quando accettò di recitare in quel film, in una particina
minuscola, confusa in un gruppo di rom, Ramona non sospettava che la signora
avrebbe mai potuto saperlo. Lo scoprì, invece; forse qualcuno che aveva visto il
film le riferì che, tra gli zingari che recitavano la parte di allegri truffaldi,
c'era Ramona. Stanata, non poté più nascondersi: «Sai come stavo male quando
quella signora ha saputo che ero zingara? Prima mi dava i soldi della spesa, mi
faceva tenere le chiavi. Dopo il film, mi stava sempre vicino, mi controllava,
alla fine mi ha lasciato a casa.» Grazioso eufemismo per definire il
licenziamento di una presunta nomade. Don Massimo Mapelli mi dice che, per i
progetti che riguardavano più di duecento rom sgomberati negli anni dal 2005 al
2007, sono stati impiegati due milioni di euro. È meno della metà della cifra
che il Comune ha speso in sgomberi nei quattro anni dal 2006 al 2010. Ma gli
sgomberi producono solo altri sgomberi, in uno sfiancante inseguimento tra
guardie e zingari, mentre i progetti della Casa della Carità hanno trasformato i
minacciosi invasori in famiglie serene. Non tutti e non sempre, naturalmente. E
non senza frizioni, difficoltà, inciampi. Don Massimo sa bene che «dovendo
sopravvivere, i rom tendono a concepire la relazione con te secondo il modello
"devo succhiare tutto quello che posso".» Come se il manghél, l'elemosina, fosse
diventato uno stile di vita. «L'idea che ha guidato gli interventi sui rom è
sempre stato l'assistenzialismo. Farli passare all'autonomia è complicato. Noi
ce l'abbiamo fatta perché, detto brutalmente, eravamo a casa nostra, potevamo
mettere le cose in chiaro: se non ci stai, amici come prima, ma te ne vai. È
quello che nei campi non si può fare. Intendiamoci, non tutti accettano. Qualche
famiglia se ne è andata, ha preferito continuare a vivere in quel sottobosco
dove l'informale si lega all'illegale.» È in quel sottobosco che gli zingari,
spesso, incontrano gli italiani. Don Massimo fa un esempio: «Nei campi abusivi,
abbiamo scoperto che i rom lavoravano in nero a fabbricare bancali, perché gli
zingari non li vuole nessuno, ma i bancali in nero li vogliono tutti. Allora
abbiamo fondato una cooperativa per fabbricarli noi, mettendoci dentro sette rom
e due nordafricani. In un anno di crisi pesante come il 2009, abbiamo creato
posti di lavoro e regolarizzato un settore che era in nero.»
In nome di un'esperienza lunga cinque anni, don Massimo può dichiarare: «Il
problema rom è un problema che, finché resta tale, è utilizzabile.» Amara
sentenza che dà ragione della curiosa inefficienza milanese nell'inventare
soluzioni diverse dai brutali, costosi, inutili sgomberi e di altre storie
accadute qua e là in Italia. Come la cacciata dei prefetti di Roma e di Venezia,
rimossi d'autorità – e senza spiegazioni – nel pieno dell'"emergenza nomadi". Il
primo, nel novembre 2008, fu Carlo Mosca, prefetto di Roma che rifiutò di
prendere le impronte ai bambini rom e mai venne meno al motto «Si sgomberano le
macerie, non le persone.» Il secondo, nel dicembre 2009, è stato Michele Lepri Gallerano, prefetto di Venezia per quattro mesi: il tempo di gestire il trasloco
di 38 famiglie di sinti veneziani dalle baracche a un villaggio di casette
allestito dal Comune. Trasloco compiuto a mezzanotte, in trentotto minuti –
troppo pochi perché le torpide truppe antizigane potessero accorgersene e
impedirlo.