Rom e Sinti da tutto il mondo

Ma che ci fa quell'orologio?
L'ora si puo' vedere dovunque, persino sul desktop.
Semplice: non lo faccio per essere alla moda!

L'OROLOGERIA DI MILANO srl viale Monza 6 MILANO

siamo amici da quasi 50 anni, una vita! Per gli amici, questo e altro! Se passate di li', fategli un saluto da parte mia...

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La redazione
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Fabrizio (del 10/11/2008 @ 14:09:33, in Italia, visitato 1852 volte)

Da Il Secolo XIX

Uno dei ragazzini aveva subito un furto in casa e ha dato la colpa ai circensi

I luoghi comuni, gli stereotipi sono difficili da cambiare. Un ragazzino di 16 anni giorni fa aveva subito un furto in casa. Con un’ardita associazione mentale ha pensato immediatamente agli zingari. E quando ha visto il cartello pubblicitario di un circo ha dato subito la colpa a loro. E, insieme ad un amico, ha subito escogitato una vendetta: lanciare una molotov contro il tendone.

E’ questa l’assurda motivazione data per “giustificare” una cosa tanto grave. Poteva essere una strage, ma per fortuna non è andata così. Dopo la paura, i lavoratori del circo parlano tranquillamente con i cronisti. «Non abbiamo avuto problemi con nessuno, la gente del posto ci saluta con cordialità, i nostri bambini da una settimana frequentano le scuole della città. Non è la prima volta che veniamo a Sarzana è una città accogliente dove ci siamo sempre trovati bene - racconta una giovane donna con l’aria spaventata che ben interpreta lo stato d’animo dei circensi che poi continua - Questa bravata poteva costare davvero cara: se la bomba fosse stata lanciata di notte avremo potuto bruciare tutti quanti, insieme ai nostri bambini».

«Il nostro è un circo grande, una cittadella recintata - dice Francesca Karoli, contitolare del circo - Quel gesto poteva distruggere le nostre vite, il nostro lavoro di anni di sudore. Giriamo l’Italia da anni e anche i paesi vicini, non ci è mai accaduta una cosa tanto grave. Siamo sconvolti!». Dopo il lancio delle molotov nel recinto dei cavalli tra la gente del circo Karoli si respira un’aria di paura. L’ ordigno è stato gettato poco prima dello spettacolo pomeridiano che ospitava un gran numero di bambini e le loro famiglie. Solo per un caso la bomba non è esplosa: nella stalla, poco distante il tendone già gremito di persone, si trovavano una trentina di cavalli ed è facile immaginare che se i quadrupedi si fossero spaventati per lo scoppio dell’ordigno, all’interno dell’area del circo sarebbe stato il caos.

I responsabili del gravissimo gesto, sono due ragazzini di 16 anni uno residente a Sarzana e l’altro a Vezzano. Entrambi sono subito stati individuati dai carabinieri che li hanno fermati e denunciati al Tribunale dei minori di Genova. La cronaca della terribile giornata ha avuto inizio poco prima delle ore 17, quando i due con gli scooter, si erano fermati in via Silea, proprio dietro il grosso parcheggio della variante Aurelia (ex “area Gerardo”) dove in questi giorni fa tappa il circo Karoli. Uno dei due, acceso l’innesco di una bottiglia incendiaria, l’ha lanciata nell’area delle scuderie, dove si trovavano una trentina di cavalli.

Poi sono fuggiti a tutta velocità. L’azione però è stata vista da un testimone che è riuscito ad annotare – seppur in maniera parziale e confusa entrambe le targhe. Per un caso fortuito la bottiglia, rimbalzata sul tetto della stalla e caduta sul cortile, proprio in mezzo ai cavalli, non s’è rotta e quindi la benzina contenuta non è esplosa.

Uno degli stallieri, vista la fiammata, è subito accorso e ha prontamente spento l’ordigno. Immediata la chiamata al 112. Diramate le ricerche, i due ciclomotori sono stati presto trovati. Infatti, due mezzi corrispondenti alla descrizione e con le targhe compatibili a quelle parziali riportate dal testimone, erano parcheggiati, col motore ancora caldo, uno a fianco all’altro nel parcheggio di Porta Romana. I giovani proprietari erano poco distante, come nulla fosse, a chiacchierare con alcuni amici presso il monumento di piazza Garibaldi, in pieno centro a Sarzana.

Accompagnati in caserma, i ragazzini hanno subito confessato, permettendo anche di ritrovare il panno usato per l’innesco e l’accendino che, insieme alla bottiglia e ai due motorini, sono stati sequestrati. In caserma sono arrivati anche i genitori dei giovani: non volevano credere a quello che avevano fatto i loro figli. I due sedicenni sono accusati di fabbricazione, detenzione e porto materiale esplosivo e tentato incendio doloso.

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Di Sucar Drom (del 10/11/2008 @ 14:40:33, in musica e parole, visitato 1390 volte)

L' associazione culturale Thèm Romanò organizza, nell'ambito della stagione teatrale 2008-2009 del Comune di Lanciano, in collaborazione con l' Istituzione Deputazione Teatrale a partire dalle ore 21.30 di sabato 15 novembre a Lanciano presso il Teatro Fedele Fenaroli la quindicesima edizione del...

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Di Fabrizio (del 11/11/2008 @ 08:55:50, in Italia, visitato 1834 volte)

Da Roma_Italia

Giovedì 20 novembre 2008 - Ore 10.00
Provincia di Viterbo
Palazzo Gentili - Sala Conferenze
Via Aurelio Saffi, 49 Viterbo (VT)
www.24marzo.it

COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA Principi Fondamentali - Art. 3:
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.


RAZZA = RAZZISMO
Riflessioni a settant’anni dalle leggi razziali

Daniela Santucci, ricercatrice dell’Istituto Superiore di Sanità "La biologia delle razze animali"

Marcello Gentili, avvocato penalista "La legislazione razzista italiana del 1938"

Vera Vigevani Jarach, scrittrice e Madre di Piazza di Maggio "La via dell'emigrazione degli ebrei in Argentina"

Giulia Spizzichino, della Comunità ebraica di Roma "La vita nel ghetto di Roma: dalle persecuzioni, alle deportazioni, alle Fosse Ardeatine"

Giorgio Bezzecchi, Presidente Vicario Nazionale dell'Opera Nomadi "Le persecuzioni dei zingari italiani: dalle schedature ad Auschwitz"

Maurizio Pagani, Presidente della Opera Nomadi di Milano "Le politiche pubbliche verso le minoranze zingare"

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Di Fabrizio (del 11/11/2008 @ 08:56:36, in musica e parole, visitato 2597 volte)

Da Mentelocale.it

L'attore-autore ha lavorato 5 anni al libro 'Non chiamarmi zingaro'. Indagine e incontro con un mondo tenuto ai margini. Al Ducale il 13 novembre - di Laura Santini GENOVA, 08 NOVEMBRE 2008

Palazzo Ducale - h.17.00
Piazza Matteotti 9 - 16123 Genova
010 5574000

"Ho cercato un po' nelle librerie, poi trovando poco o niente ho deciso di mettermi in viaggio", spiega Pino Petruzzelli, attore e drammaturgo ma anche direttore artistico del Centro Teatro Ipotesi, raccontando di un pellegrinaggio non solo verso l'Est europeo ma anche in Svizzera e Francia per capire e far capire chi sono quelli che noi chiamiamo zingari, ma che più correttamente si dovrebbero indicare come Rom e Sinti, popoli nomadi secolarmente vittime di persecuzioni: "per capire una realtà che mi sembra sconosciuta o meglio disconosciuta".

Del libro che ne è emerso, Non chiamarmi zingaro, uscito a giugno per la casa editrice Chiarelettere, si parlerà giovedì 13 novembre in un incontro a Palazzo Ducale (Sala del Minor Consiglio, ore 17), dove interverranno Luca Borzani, la comunità di Sant'Egidio (che organizza l'appuntamento) e alcuni Rom e Sinti. Quindi anche loro prenderanno la parola? "Non credo - continua Petruzzelli - preferiscono non parlare per paura di essere messi in mezzo". Una paura che si rivolge all'interno verso altri della loro comunità o all'esterno verso la società? "L'esterno ovviamente, anche perché basta dire di essere zingari che tutti i rapporti di lavoro o di altro tipo cadono e rientrano nell'ambito del sospetto. Per molti di loro, già inseriti nella società - che studiano, lavorano, hanno una casa in affitto - sarebbe gravissimo esporsi, proprio perché inseriti benissimo tra noi senza aver rivelato le loro origini. E spesso i più integrati sono quelli più legati alle loro tradizioni e che parlano meglio la loro lingua, il romanes o romané - con radici sanscrite e trasversale a Rom e Sinti".

Pino Petruzzelli si dice di parte, dichiaratamente di parte: "felice di esserlo e di restarlo", ma dalle sue parole emerge soprattutto l'incredulità, la sorpresa non certo verso quello che ha scoperto e capito ma verso quello che molti di noi ancora non si domandano e non comprendono. Chi sono e come vivono? Qui e altrove? "I campi nomadi sono una realtà tutta italiana, 'soluzione' drammatica e inaccettabile che colloca queste comunità ai margini della città e della società magari vicino a discariche o in roulotte desuete e strasfruttate eredità del terremoto in Irpinia, altro che antiquariato. Fa eccezione l'Abruzzo dove vivono con/dentro la società, mescolati agli altri in abitazioni normali". Anche qui la storia era partita dai campi nomadi, scelti solo come soluzione temporanea e poi abbandonati per dare a queste persone la possibilità di vivere in vere e proprie case i cosiddetti "campi verticali, non baracche, ma edifici, come accade per altro in tutta Europa".

Possiamo una volta per tutte affrontare la storia che circola di bocca in bocca da tempi immemori ("le comunità Rom e Sinti sono in Italia dal 1400") secondo la quale loro vivono nei campi nomadi per scelta perché non vogliono integrarsi, perché nella loro cultura il lavoro non è un valore, anzi lo sarebbe il suo contrario, e che non sono puliti e che rubano i bambini, e che e che... Puoi finalmente dirci perché più che una storiella è una bugia dalla gambe lunghe che fa passi grandi per nutrire a piene mani l'incalzante e comoda ignoranza, ma che non si può, come sempre, fare di tutta l'erba un solo fascio?
"Tendiamo a vedere solo quelli che stanno per strada, ma Rom e Sinti, come dicevo, in altri stati europei e anche in Abruzzo, convivono nella società e tra loro ci sono laureati e gente che lavora come noi in vari ambiti. Persino a Genova c'è un ragazzo che installa sistemi di sicurezza nelle banche. Sì, un Rom che mette in sicurezza i nostri soldi, da non credere eppure è vero e per anni ha lavorato tornando poi la sera al campo nomadi, appunto".

Parlando di cultura e tradizioni, Petruzzelli spiega alcune differenze importanti su cui nessuno mai o troppo pochi troppo raramente si sono soffermati. "L'eredità che per noi è un fatto naturale, cioè quando i nostri cari muoiono lasciano a figli e congiunti i loro averi; per loro è una pratica inconcepibile, perché hanno una visione molto diversa di ciò che è puro e di ciò che è impuro. Trarre profitto è impuro e quindi tutti i beni vanno seppelliti con chi muore. La droga è qualcosa di impuro e non va neanche toccata, tantomeno consumata. È ovvio poi che, essendo in contatto con la nostra società, in alcuni campi nomadi il fenomeno droga ha creato disastri come per esempio a Firenze". E qui Petruzzelli apre un'ampia parentesi ricordando che i campi nomadi italiani nascono come 'soluzione' temporanea e di emergenza, pensati per un numero specifico di famiglie e per un arco di tempo definito. "Ma poi restano in piedi per 20 anni o più e delle dieci famiglie originali ce ne vivono 60 perché nel frattempo i giovani si sono sposati e hanno fatti figli, insomma le comunità sono cresciute, ma lo spazio è diventato totalmente inadeguato (vedi legge regionale ligure per cui il campo di Bolzaneto dovrebbe garantire 100mq a famiglia". I lavori principali per tradizione sono quelli che ci immaginiamo legati all'artigianato - ovviamente poco praticabili nel nostro contemporaneo - all'allevamento di cavalli, alle attività circensi, alle giostre "e non è facile per molti riciclarsi".

E a proposito degli zingari che rubano i bambini? "Ti ringrazio per questa domanda, perché proprio uno studio dell'Università di Verona ha verificato che negli ultimi vent'anni non un solo Rom o Sinto, facendo un'indagine in tutte le procure d'Italia, è stato condannato per questo reato. Voglio invece ricordare che in Svizzera (fino al '72) si rapivano i bimbi Rom e Sinti per strapparli alla loro cultura in un progetto di azzeramento di quelle culture con danni gravissimi sui bambini e le famiglie ovviamente".

A proposito delle donne e della loro emancipazione, mi sa che occorre fare un passo indietro, o no? "Certo, c'è un maschilismo molto forte, però anche in questo caso bisogna approfondire. Perché se superficialmente all'interno della famiglia la donna serve a tavola, è anche vero che ha un forte ruolo di leader interno ed esterno per cui l'uomo esegue quello che lei ha deciso. E poi la portavoce italiana è una donna Sinta. Mentre se passiamo al matrimonio, è l'amore a vincere: se due ragazzini consenzienti scappano insieme, sta poi al Kris - tribunale degli anziani - far smuovere le famiglie che magari avevano combinato diversamente, per organizzare subito il matrimonio nel nome appunto dell'amore".

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Dillo come sai
Intanto il lavoro di Pino Petruzzelli è tornato a rivolgersi al teatro, dove però ha fatto tesoro dell'esperienza recente e ha costruito il progetto Dillo come sai (in collaborazione con la comunità di Sant'Egidio, il consorzio Agorà e il supporto dell'assessore regionale Massimiliano Costa) un corso di formazione professionale per Rom e Sinti genovesi per formare una compagnia teatrale in tutte le sue componenti: attori/trici, cantanti, ma anche ufficio stampa, organizzazione. «Non vuole essere una ghettizzazione, ma dargli l'opportunità di creare in autonomia una compagnia e partire quindi con un rapporto di parità: pari mezzi, pari accesso». Sono nove in tutto le persone selezionate, di età molto diverse dai 15 ai 42 anni, uomini e donne avvisati tramite volantini e manifesti nei campi nomadi. C'è Marianna, virtuosa di fisarmonica, lo stesso maestro Gianluca Campi è rimasto colpito dal talento; Jan, anche lui alla fisarmonica; Carlotta e Sergio che recitano e fanno danza, seguita anche da Isetta e Ismeta; poi Ismet segue il corso da organizzatore teatrale. E il Teatro Stabile e l'Archivolto hanno regalato a tutta la compagnia l'ingresso ai teatri per tutta la stagione, in serate a loro scelta.

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Di Fabrizio (del 11/11/2008 @ 09:00:49, in Italia, visitato 1818 volte)

Ricevo da RETE MIGRANTI MILANO

Nessuno escluso! Milano città per tutti

Milano è la città in cui viviamo, lavoriamo o studiamo, qualcuno da sempre, altri da tempi più recenti.

E' una città ricca di storia e di cultura, fiorente di attività e piena di opportunità. E’ una città al passo con i tempi, in cui si possono ottenere ottime cure sanitarie e scegliere i migliori istituti educativi. Milano è una bella città, ma per pochi... meglio se in salute e con un cospicuo conto in banca.

Per il resto della popolazione, la grossa fetta dei non privilegiati a cui gli immigrati appartengono di diritto, il presente è faticoso, precario, ed il futuro sempre più chiuso.

In questa città è facile soccombere all'onda mediatica diffamatoria nei confronti del diverso, dell’indifeso, del “senza diritto” perché senza documenti (o viceversa). Non lo è altrettanto riconoscere la ricchezza e il contributo che gli immigrati danno ovunque. Più di altri dovrebbero saperlo i milanesi che oggi si avvalgono, sempre di più, delle prestazioni lavorative e delle qualità umane della popolazione immigrata (contributo al PIL lombardo dei lavoratori stranieri 10,7% - dati Ismu, osservatorio regionale, rapporto regionale sull’immigrazione 04/2008).

E' sufficiente immaginare un solo giorno senza migranti a Milano per avere la percezione dell'ampiezza del fenomeno immigrazione e per rendersi conto della paralisi che ne scaturirebbe.

C'è un profondo divario tra questa visione del migrante come elemento imprescindibile per lo sviluppo dell'economia e della vita cittadina, e dell'immigrato come reietto, ultimo nella scala sociale di una città che con gli “ultimi” sa essere spietata. Senza renderci conto che “ultimi” sempre più velocemente, stiamo per diventarlo tutti.

Le retate sui mezzi pubblici, le ronde notturne, l'espulsione dagli alloggi, le campagne contro le moschee, gli sgomberi violenti, la schedatura etnica di Rom e Sinti, l'esercito nelle strade, la reclusione nei Cpt (Cie), la criminalizzazione degli irregolari, i pestaggi, sono modalità che non si addicono a chi proclama di avere a cuore la sicurezza della comunità.

Coloro che amano davvero questa città sentono l’urgenza e la necessità di costruire un’alternativa a una Milano per pochi e lottano perché il diritto alla salute, all'educazione, alla casa, al lavoro, a un reddito dignitoso, siano diritti di tutti e vengano applicati senza discriminazione.

La Rete Migranti Milano riunisce diverse associazioni di migranti, forze sociali, politiche e sindacali che, superando i particolarismi, lavorano insieme a partire dal rifiuto di questo modello di città.

La campagna aspira a mettere in moto azioni permanenti che puntino a ricostruire il tessuto sociale cittadino, nel tentativo di aprire il futuro e costruire un nuovo modello di città solidale.

Nessuno escluso!

Milano città per tutti

E’ una campagna di denuncia, controinformazione e sensibilizzazione che sveli l’inganno mediatico e persecutorio nei confronti dell'immigrato, capro espiatorio e diversivo perché i cittadini non si occupino della drammatica situazione sociale ed esistenziale in cui si trovano.

Che parte dai quartieri per costruire una rete solidale tra persone, associazioni, comunità di stranieri affinché nessuno debba più sentirsi solo di fronte a questa nuova violenta ondata di intolleranza.

Che propone un dialogo tra le differenti culture presenti in una città già multietnica, affinché si chiudano le porte al razzismo e alla xenofobia.

Un’azione antirazzista permanente, nonviolenta e quotidiana, perché non è con la violenza,il controllo e la repressione, che questa città diverrà più sicura.

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Di Fabrizio (del 11/11/2008 @ 09:28:41, in Europa, visitato 2005 volte)

Da Czech_Roma

AP 2008-11-05 18:06:03

PRAGA - Una corte d'appello ha deciso mercoledì che un ospedale ceco non deve pagare nessuna compensazione ad una donna zingara sterilizzata 11 anni fa senza il suo consenso.

La Lega per i Diritti Umani ha criticato aspramente questo giudizio e ha detto che intende appellarsi alla Corte Suprema. Il giudizio è visto come importante perché ha rovesciato il precedente giudizio del tribunale che garantiva alla donna una compensazione dall'ospedale per una simile operazione.

Il gruppo sui diritti umani ritiene che centinaia di donne di questa minoranza di circa 250.000 persone, sia stata sterilizzata contro il proprio volere, una pratica che risale al periodo comunista e terminata solo di recente, secondo un rapporto investigativo dell'ombudsman Otakar Motejl, a fine 2005.

Sotto il comunismo, che nella Repubblica Ceca terminò nel 1989, la sterilizzazione era una pratica semi-ufficiale per limitare la popolazione zingara, o Rom come preferiscono essere chiamati, le cui grandi famiglie erano viste come un peso per lo stato.

Nella decisione di mercoledì, la corte d'appello ha rigettato quella di un altro tribunale secondo cui l'ospedale doveva pagare 500.000 koruna ($26,330; 20,460 €uro) a Iveta Cervenakova per averla sterilizzata illegalmente senza il suo consenso nel 1997, ha detto Petr Angyalossy, portavoce del tribunale di Olomouc, 250 km ad est di Praga.

Ha detto che la corte ha deciso che l'ospedale nella città nord orientale di Ostrava non doveva pagare alcuna compensazione alla Cervenakova, 32 anni, perché il caso aveva si riferiva a più di tre anni fa.

Angyalossy ha poi detto che l'ospedale doveva soltanto scusarsi con Cervenakova.

Un altro tribunale aveva deciso il 12 ottobre 2007 che l'ospedale doveva pagare un compenso e scusarsi con Cervenakova per aver violato i suoi diritti con la sterilizzazione.

Cervenakova aveva compilato la citazione in giudizio nel 2005. Era stata sterilizzata dopo aver dato alla nascita la sua seconda figlia con parto cesareo.

Diverse donne rom ceche avevano richiesto i danni agli ospedali per le sterilizzazioni illegali, ma Cervenakova fu la prima ad ottenerla in tribunale. L'avvocato David Zahumensky della Lega per i Diritti Umani, che si è consultato con i legali di Cervenakova, ha detto che la cliente ricorrerà in appello alla Corte Suprema, perché il limite dei tre anni non si può applicare a questo caso.

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Di Fabrizio (del 11/11/2008 @ 10:18:07, in blog, visitato 2500 volte)

Dal blog di Sergio Bontempelli

Il Comune di Pisa, fino a pochi mesi fa all’avanguardia nelle politiche di accoglienza e di inserimento sociale dei migranti, si adegua al clima diffuso in tutto il paese. E, in consiglio comunale, centro-destra e centro-sinistra votano insieme una mozione sulla «sicurezza». Ecco come gli amministratori comunali stanno cercando di smantellare un’esperienza avanzata. E come sta reagendo la città.

Mentre in Italia si moltiplicavano le violenze a sfondo razziale – non ultima, quella di Ponticelli, dove un intero «campo nomadi» veniva dato alle fiamme – e mentre si sviluppava la moda delle «ordinanze creative», Pisa seguiva percorsi diversi. Nella città della Torre Pendente i «campi nomadi» venivano chiusi non dagli sgomberi, ma da un progetto di inserimento abitativo: i Rom ottenevano una casa, e venivano assistiti nella ricerca di un impiego. Molte famiglie hanno trovato lavoro, e hanno cominciato a pagare da sole l’affitto: diventando non un costo, ma una risorsa. In un clima nazionale di intolleranza, qui si introduceva il diritto di voto amministrativo per gli stranieri, e si lavorava per agevolare le pratiche dei permessi di soggiorno.
Oggi, è bene saperlo, l’«anomalia pisana» non esiste più.

La nuova amministrazione di centro-sinistra, insediata nella scorsa primavera, sta cancellando le precedenti politiche. «Via i Rom e i mendicanti dal centro storico»: la «svolta» è cominciata con questo slogan. Per tutta l’Estate, abbiamo assistito al proliferare di dichiarazioni su una (inesistente) emergenza criminalità, sul pericolo dei campi «abusivi», sulla lotta ai venditori ambulanti stranieri.

Ma è solo nelle ultime settimane che si è passati alle vie di fatto. Il programma «Città Sottili» (quello finalizzato all’inserimento abitativo dei Rom) è stato stravolto: in nome della «legalità» si è proceduto agli sgomberi dei campi. Si sono cacciate dalle loro case interi nuclei familiari, con il pretesto che i capifamiglia erano coinvolti in una rissa: non si è aspettata la sentenza del giudice, gli sfratti sono stati emanati sulla base di segnalazioni di polizia, e in mezzo ad una strada sono finiti i bambini e le donne.

Poi, è arrivata la lotta ai venditori ambulanti. Per i quali è cominciata una vera e propria «caccia all’uomo», con incursioni notturne nelle case e pattugliamenti continui in piazza Duomo. E siccome non poteva mancare una bella «ordinanza creativa», il Sindaco si è inventato quella «antiborsoni»: per contrastare la vendita ambulante, ha annunciato il divieto di girare in prossimità di monumenti muniti di borse di grosse dimensioni

Oggi, questa escalation arriva al culmine. In consiglio comunale, centro-destra e centro-sinistra hanno votato una mozione in cui si elogia il «pacchetto sicurezza» di Berlusconi, si annuncia la militarizzazione della Polizia Municipale, si invocano provvedimenti restrittivi contro i «campi nomadi», i venditori ambulanti stranieri, e persino contro gli studenti, «rei» di girare per la strada ad ore notturne…

In una città abituata a convivere con le presenze straniere, tutto questo non poteva non suscitare reazioni. Le Rappresentanze Sindacali del Comune e della Polizia Municipale hanno contestato la svolta «securitaria» del Sindaco. Centinaia di cittadini hanno firmato una petizione contro l’allontanamento di un venditore senegalese da un supermercato. E, per il 22 Novembre, è prevista una manifestazione, alla quale hanno aderito numerose sigle dell’associazionismo e del volontariato.

Il «caso Pisa» non è, però, materia soltanto locale: è messa in discussione una delle poche esperienze in controtendenza rispetto alle politiche nazionali. Perciò chiediamo a tutti di non lasciarci soli.

Per approfondire leggi anche:
- Il Programma Città Sottili per l’inserimento abitativo dei Rom: intervista all’(ex) assessore Carlo Macaluso, 16 Novembre 2007
- «Via i mendicanti e i Rom dal centro storico». Le dichiarazioni del nuovo Sindaco Filippeschi, 1 Maggio 2008
- «Via i Rom violenti». Le dichiarazioni del Sindaco Filippeschi, 5 Luglio 2008
- «I senegalesi venditori ambulanti: abbiamo paura». La testimonianza del Presidente del Consiglio degli Stranieri Matar N’Diaye, 5 Ottobre 2008
- Il testo della mozione sulla sicurezza, approvata al Consiglio Comunale del 6 Novembre 2008, votata dal centro-destra e dal Partito Democratico
- Il testo della mozione presentata dal gruppo consiliare della Sinistra Arcobaleno, respinta dal consiglio
- I Rom di Putignano, Pisa: siamo abbandonati da tutti, dormiamo sotto un ponte. 8 Novembre 2008
- La petizione dei 500 cittadini pisani contro l’allontanamento di un venditore ambulante straniero, 9 Ottobre 2008
- La mozione delle RSU del Comune e della Polizia Municipale contro le politiche securitarie dell’amministrazione
- Appello per la manifestazione antirazzista del 22 Novembre 2008

 

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Di Fabrizio (del 12/11/2008 @ 09:18:37, in Europa, visitato 1559 volte)

Da Mundo_Gitano

Le organizzazioni gitane che durante gli ultimi giorni si sono preoccupate di conoscere la situazione dei gitani attorno a Castellar, che si son visti obbligati ad abbandonare le loro case davanti al timore di essere aggrediti violentemente dagli altri vicini non gitani della località, vogliono manifestare quanto segue:

Primo. Dobbiamo fare un appello a tutti, gitani, "gadches" (non gitani), autorità, giornalisti e cittadini in generale per analizzare i fatti con sufficiente obiettività al fine di evitare che la situazione si radicalizzi rendendo sempre più difficile il ritorno alla normalità democratica. Normalità che deve manifestarsi nel mutuo rispetto, che sempre c'è stato nell'immensa memoria dei popoli d'Andalusia dove vivono i gitani, inclusi i nostri fratelli di Castellar.

Secondo. Anche se sembra inutile, dobbiamo insistere perché non si debba cadere in accuse assurde, inappropriate e false, come dire che tutti i "gadches" sarebbero razzisti, o che tutti i gitani siano delinquenti. Quello che pare sì evidente è che a Castellar ci sono stati comportamenti razzisti da parte di alcuni cittadini del posto e che alcuni gitani sono intervenuti in un confronto per strada tra giovani, atti che entrambe vanno condannati.

Terzo: Tanto la violenza razzista che i comportamenti incivili o delittuosi sono croste  che qualsiasi società democratica deve sradicare; noi, gitani e gitane del secolo XXI, diciamo che questi fatti devono essere denunciati davanti ai giudici perché sia la giustizia, non gli individui, ad appurare le responsabilità, castigare esemplarmente i colpevoli e difenda con fermezza le vittime di qualsiasi aggressione.

Quarto. Da qui vogliamo e dobbiamo manifestare il nostro appoggio alle autorità locali e provinciali di Castellar e di Jaén. Il dialogo con queste, non sempre facile, è stato possibile per il mutuo rispetto ed il desiderio che tutti condividiamo di porre fine il prima possibile alla situazione che Castellar vive e continua a vivere. Il Consiglio Cittadino, la Sottodelegazione e Delegazione del Governo hanno ascoltato le nostre ragioni ed assieme siamo arrivati ad accordi precisi che possono essere la soluzione definitiva al conflitto in atto.

Quinto. A noi, gitani e gitane preoccupati per la situazione di evidente povertà e marginalizzazione in cui vivono i gitani di Castellar, interessa porre in risalto che gli assi del nostro intervento davanti alle autorità di Jaén, siano stati i seguenti:

  1. Si deve garantire la protezione e la sicurezza delle famiglie gitane di Castellar. Queste persone sono terrorizzata. Non possono esercitare con libertà i loro diritti fondamentali come cittadini, per paura di essere aggrediti. I bambini, specialmente, devono essere protetti perché possano andare a scuola senza paura.
  2. La situazione di estrema povertà dei gitani di Castellar esige un'attenzione urgente da parte delle autorità. Garantire loro il diritto alla sussistenza e stabilire un piano di aiuto alle famiglie, personalizzato per ognuna a livello delle loro necessità, è un'azione che si deve realizzare senza alcun ritardo.
  3. Il Consiglio Comunale e la Giunta Andalusa da parte loro devono includere queste famiglie nei piani di promozione sociale e sviluppo personale da loro stabiliti. Solo un'azione decisa in questa materia può essere la garanzia che in un futuro prossimo spariscano le differenze che ancora oggi esistono nella nostra terra, dove c'è chi ha tutto mentre altri scarseggiano dell'indispensabile per vivere.
  4. Nel contempo abbiamo manifestato il nostro desiderio che venga costituita una commissione che segua puntualmente gli accordi presi, e vigili, tanto con le autorità che con le associazioni gitane presenti in questo dialogo, quando una delle parti non tenga fede ai compromessi adottati.

Sesto. Vogliamo manifestare che da parte delle autorità che assieme a noi han partecipato a questo dialogo, abbiamo incontrato la miglior volontà di dare risposta alle nostre petizioni. Lo puntualizziamo perché giusto.

Settimo. Per finire, vogliamo manifestare che avendo presentato varie denuncie alla Guardia Civil, che avranno il loro logico proseguimento davanti agli organi giudiziari pertinenti, noi, facendo valere i nostri diritti costituzionali, saremo part in causa nelle denuncie che riterrà la Corte, perché venga fatta giustizia e venga punito chi abbia violato il diritto di qualsiasi cittadino a vivere in pace, con la garanzia che la sua persona ed i suoi beni non siano violati o distrutti.

UNION ROMANI
Dirección Postal/Postal Address:
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Ricevo da Eugenio Viceconte

(L'avevo anticipato QUI)

(2008-11-10)- L’ampia ricerca "Adozione di minori rom/sinti e sottrazione di minori gagé" commissionata dalla Fondazione Migrantes al Dipartimento di Psicologia e Antropologia culturale dell’Università di Verona e alla direzione del Prof. Leonardo Piasere, si articola in due studi volti a rispondere a differenti ma complementari interrogativi.

L’uno –– in corso di pubblicazione presso CISU – volto a verificare quanti bambini figli di rom o sinti siano stati dati in affidamento e/o adozione dai Tribunali per i Minori italiani a famiglie gagé, condotto da Carlotta Saletti Salza. L’altro – già edito dallo stesso editore col titolo "La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze (1986-2007) – sui presunti tentati rapimenti di infanti non-rom da parte di rom, condotto da Sabrina Tosi Cambini.

Il progetto di ricerca "Adozione dei minori rom e sinti" prevedeva la raccolta il più esaustiva possibile di dati documentati relativi all’affidamento e all’adozione di minori rom e sinti a famiglie non rom da parte dei tribunali dei minori italiani, nel periodo compreso tra il 1985 e il 2005, nonché un’analisi dei dati raccolti. La scelta è stata quella di condurre una ricerca sull’affidamento e sull’adozione dei minori rom e sinti a partire dai dati relativi alle dichiarazioni di adottabilità che sono registrati presso le sedi dei tribunali minorili e dalle informazioni raccolte nei servizi sociali di territorio, comunali e ospedalieri, in materia di allontanamento dei minori dal nucleo famigliare. Quindi, sono stati raccolti i dati relativi alle dichiarazioni di adottabilità presso otto (Torino, Bologna, Bari, Lecce, Trento, Firenze, Venezia e Napoli) delle ventinove sedi dei tribunali minorili e sono stati svolti colloqui con i servizi sociali di riferimento. Complessivamente, i casi di minori rom e sinti dichiarati adottabili sono oltre duecento.

I dati raccolti in ciascuna delle sedi dove si è svolto il lavoro di ricerca mostrano differenze rilevanti legate al contesto storico e sociale all’interno del quale, nel corso degli anni, si sono inserite le differenti comunità rom e sinte. Per fare un esempio, vi sono situazioni nelle quali troviamo una mancanza di tradizione del lavoro dei servizi sociali (come a Lecce, dove assistiamo a una pericolosa inversione di ruoli dal momento che l’Autorità Giudiziaria minorile si sostituisce alla tutela sociale che dovrebbero invece esercitare i servizi di territorio) e contesti nei quali invece i servizi sociali vantano una sorta di specializzazione nel lavoro con le comunità rom (vedi il caso di Firenze, Torino, Venezia), con una pericolosa stigmatizzazione della cultura da parte dei differenti operatori coinvolti.

Nel complesso, l’analisi dei dati mostra la facilità con la quale, nelle diverse realtà analizzate, la tutela sociale (dei servizi di territorio) e civile (dell’Autorità Giudiziaria) scivolano nell’indifferenziare l’identità di un minore rom con quella di un minore maltrattato. Come se la cultura "altra" potesse fare del male al bambino. Questo è ciò che pensano molti degli operatori incontrati. Tutti i minori rom, in quest’ottica diventerebbero dei bambini maltrattati. L’intervento di tutela operato in molti contesti diventa quindi quello di allontanare, togliere il minore dal suo contesto famigliare, per educarlo, come se la cultura rom non avesse un modello educativo o, per lo meno, come se la cultura rom non avesse un modello educativo valido. I concetti impliciti che precedono questa riflessione propria di molti operatori così come di molti magistrati minorili, vedono il bambino rom come soggetto di una situazione di pregiudizio solo e proprio perché è rom o perché vive su quel pezzo di terra dove si trova il "campo nomadi". Precisamente, i presupposti impliciti di molti operatori sono che:
- la cultura rom è da considerarsi "mancante", sempre e comunque, con tutti i bambini;
- nella cultura rom vi è un’assenza delle capacità genitoriali;
- da parte dei genitori e/o della famiglia rom vi è un’assenza della tutela dell’infanzia.

Sono proprio questi i presupposti in funzione dei quali l’intervento di tutela sociale e/o civile del minore rom diventa facilmente quello di tutelarlo dalla sua famiglia o dalla sua cultura. Cosa accade allora ai minori rom? La ricerca svolta evidenzia che la difficoltà di molti operatori nel riconoscere l’identità del bambino rom, il suo modello educativo, porta a gravi situazioni in cui di fatto il minore non viene tutelato. I circa duecento casi riscontrati di dichiarazione di adottabilità, infatti, denunciano un grave "pregiudizio" (così come inteso dal codice civile) nel quale si troverebbe questa volta non il minore rom, ma il contesto istituzionale che ruota intorno a quella che dovrebbe essere la tutela di qualsiasi minore. Una tutela dalla quale il minore rom, paradossalmente, resta escluso.

Abbiamo quindi situazioni nelle quali i minori trovati in strada da soli o con gli adulti di riferimento vengono allontanati dai genitori e poi inseriti in comunità. Una volta in comunità il provvedimento del Tribunale dei Minorenni dispone che i minori non possano più incontrare i propri famigliari, fino al termine dell’istruttoria. Concretamente questo vuol dire che potrà accadere che i bambini non possano più incontrare i propri genitori per lunghi mesi, con gravi conseguenze nella loro relazione. Gli avvocati che seguono questi casi affermano che, probabilmente, in questi casi, il reale interesse dei vari operatori coinvolti è di trovare il maggior numero possibile di minori per le famiglie non rom che fanno domanda di adozione. Come reagire di fronte a queste gravi denunce? Oppure abbiamo casi in cui i minori vengono allontanati dalla famiglia perché i servizi sociali valutano che le condizioni abitative del nucleo, ovvero quelle del "campo nomadi", non sono adeguate alla tutela di un minore. Ancora, molte volte ci troviamo di fronte a casi di allontanamento che avvengono con molta violenza, sulla base del mero pregiudizio personale di un operatore qualunque che scrive che quel minore non è tutelato perché "mangia con le mani" o "non indossa il pigiama per andare a dormire". Con quale presunzione noi non rom continuiamo a immaginare che il nostro modello di vita sia il migliore e quello ideale? E, soprattutto, chi lavora nel sociale non dovrebbe avere una formazione adeguata per lavorare con soggetti che appartengono a culture differenti?

Talvolta la responsabilità della mancata tutela del minore viene data alla cultura, talaltra alle istituzioni, che non sarebbero in grado di offrire a questi nuclei situazioni abitative appropriate. In entrambi i casi, il risultato è che non viene salvaguardato l’interesse del minore di vivere nella propria famiglia. Accadrebbe lo stesso se si trattasse di minori italiani?

Non si vuole qui escludere che possano esserci situazioni di abbandono dei minori rom, non si vuole accusare gratuitamente il lavoro degli operatori, ma si vuole mettere in evidenza la contraddizione nella quale invece cadono in molti (sia gli operatori sociali che della magistratura minorile), identificando sempre il minore rom come abbandonato, potremmo dire, "alla" e "dalla" sua cultura.

Possiamo aggiungere quindi che il tema attorno al quale si sviluppare questa analisi è quello di tutela. Qual’é la nostra concezione tutela e qual’é quella dei romá? Cosa accade al bambino rom mentre per l’operatore si sta verificando una situazione di maltrattamento? Da questo interrogativo si apre una riflessione su due aspetti:


- sulla definizione di quella che viene genericamente definita come la soglia in funzione della quale l’operatore, genericamente inteso, stabilisce che il minore si trova in una condizione di "pregiudizio". Una soglia viene banalmente interpretata e descritta con un criterio di tolleranza personale: per qualcuno sono i piedi scalzi, piuttosto che il furto o l’accattonaggio o l’appartenenza alla cultura rom, senza riconoscere che il "pregiudizio" dovrebbe essere quello ravvisato specificatamente nell’interesse di ciascun minore. Quello che accade è che i minori rom verranno segnalati all’Autorità Giudiziaria in funzione del grado di tolleranza personale degli operatori sociali, che, come quella di molti cittadini, è molto bassa.

- L’altro aspetto riguarda l’applicabilità della norma giuridica italiana a un contesto culturale differente, un tema che in Italia resta poco approfondito. Al centro di quest’analisi vi è una discussione sulla definizione dei margini dell’applicabilità della norma giuridica a un minore il cui contesto famigliare potrebbe non riconoscere la stessa norma e le sue finalità. In funzione di quali criteri potremo definire l’abbandono di fronte a un minore che appartiene a un contesto culturale differente da quello nel quale è stata elaborata la norma giuridica? Alcuni magistrati portano riflessioni interessanti a questo proposito, affermando che di fronte al minore straniero occorre sempre considerare e decodificare il contesto culturale dal quale proviene, ma il tema resta ampiamente marginale nell’ambito della magistratura minorile. Il risultato è che pochi magistrati minorili riconoscono la necessità di decodificare il contesto culturale del minore e che in molti invece ritengono non opportuno riconoscerne la specificità dettata dall’appartenenza culturale. Questo è quanto emerge nell’ambito del lavoro di ricerca svolto.

Quale soluzione proporre? Frequentemente la cultura non-rom si presenta come "egemone", più forte di quella dei romá, identificati come appartenenti a una minoranza culturale. Se davvero si riconosce come tale, la nostra cultura dovrebbe prendersi la responsabilità di assumere fino in fondo questo ruolo, creando quegli strumenti che potrebbero anche tutelare il minore rom e la sua famiglia. Questo vorrebbe dire disporre di quegli strumenti di conoscenza che si avvicinino il più possibile al contesto culturale del minore, con il risultato di mettere il minore in una condizione che lo veda tutelato da entrambe le parti: per la magistratura minorile e per la sua famiglia.

Dovremo infine smettere di pensare alle cultura rom come una cultura statica e immutabile, come se i minori fossero destinati alla povertà materiale e culturale dei loro genitori. Se molti romá oggi vivono nei "campi nomadi" è perché si tratta di una chiara scelta delle amministrazioni comunali di mantenere queste comunità in una condizione di grave precarietà sociale e civile. Se i minori rom oggi non sono tutelati e c’è un sistema giudiziario minorile che non li tutela la responsabilità è solo nostra.

La seconda indagine "Sottrazione di minori gagé" originariamente copriva il ventennio dal 1986 al 2005, ma per i fatti successivamente accaduti si è protratta fino al 2007. I casi sono stati individuati e analizzati partendo dall’archivio Ansa e arrivando alla consultazione dei fascicoli dei Tribunali, adottando, oltre a quella giuridica, più prospettive: etnografica, dell’antropologia giuridica ed etnometodologica.

Per dare un quadro del lavoro svolto, possiamo dire che la ricerca si è strutturata in tre fasi: individuazione nell’archivio Ansa dei fatti di nostro interesse; studio del corpus ricavato dall’archivio Ansa per individuare i casi; lavoro sui casi: consultazione dei fascicoli processuali, ricostruzione, comparazione. Quest’ultima fase – che partiva, appunto, dalle informazioni contenute nelle notizie Ansa – ha avuto la sua attività principale nel contatto con le Forze dell’ordine, Procure e Tribunali al fine di verificare se il fatto avesse avuto un prosieguo significativo in termini penali. In caso affermativo, si è cercato di ottenere i permessi per la visione dei fascicoli. Alcune volte, è stato possibile avere un colloquio con il PM e con gli avvocati; in altre, la distanza temporale ha complicato questi passaggi. Per molti è stato possibile anche raccogliere gli articoli apparsi sui giornali e anche su Internet.

Nella nostra analisi prendiamo in considerazione ventinove casi, oltre undici di sparizione di minori (dunque, 40 in tutto), sui quali è da subito opportuno indicare il risultato principale della ricerca, e cioè che non esiste nessun caso in cui sia avvenuta una sottrazione del bambino: nessun esito, infatti, corrisponde ad una sottrazione dell’infante effettivamente avvenuta, ma si è sempre di fronte ad un tentato rapimento, o meglio, ad un racconto di un tentato rapimento.

Alla confusione che generano i media al momento della denuncia del fatto, dando come provato e "vero" il tentato rapimento, se non vi è un arresto non corrisponde quasi mai la notizia dell’esito dell’azione delle Forze dell’ordine. Nei pochi casi in cui questo accade, la notizia non è per comunicare che i rom non c’entrano niente, ma è perché l’esito scioglie in sé altri eventi: truffe, fatti drammatici, situazioni che suscitano ilarità.
In maniera random si è cercato anche di verificare se per i casi in cui era stata sporta denuncia, ma in cui i presunti rapitori si erano dati alla fuga, le indagini avessero risolto la vicenda in qualche modo: si tratta di un ulteriore accertamento rispetto al fatto che se non c’è stata più nessuna notizia in merito questo ci può far dire che non si era poi svolto nessun arresto. D’altra parte - come dicevamo e come alcuni casi dimostrano - laddove le Forze dell’ordine tramite le proprie indagini verificano che è stato solo un equivoco, una percezione errata della situazione, la stampa ne dà poca o nessuna notizia.

La comparazione dei casi ci ha aperto a strade particolarmente significative, attraverso le quali si sono potuti individuare gli elementi cardine dei racconti dei tentati rapimenti, che sono pochi e si ripetono come un frame, un canovaccio concettuale con poche varianti: ad esempio, nella grande maggioranza, si tratta di ‘donne contro donne’ ossia è la madre ad accusare una donna rom di aver tentato di prendere il bambino; non ci sono testimoni del fatto, tranne i diretti interessati; gli eventi accadono spesso in luoghi affollati come mercati o vie commerciali; nessuno interviene in soccorso della madre; non di rado appare la paura che vi sia uno ‘scopo oscuro del rapimento’ per cui la presenza di alcuni mezzi e persone nelle vicinanze vengono interpretate dalle madri (o da altre figure) come complici della zingara (ma i controlli lo smentiscono regolarmente).

L’analisi comparativa dei casi, infine, ci porta a poter affermare che laddove vi è la presenza di un infante, l’avvicinamento di una persona rom è subito vissuto come un pericolo per il proprio figlio: lo stereotipo "gli zingari rubano i bambini" risulta essere molto più potente di qualsiasi altro. Non si ha paura, infatti, che sottraggano il portafogli o la borsa (secondo lo schema mentale "gli zingari rubano"), ma che portino via il bambino.

Dai ventinove, estrapoliamo i sei casi che hanno portato all’apertura del procedimento e dell’azione penale, che rappresentano il cuore del lavoro di ricerca e che nel testo vengono presentati e discussi uno ad uno in particolar modo attraverso i fascicoli processuali.
Si tratta di:

Desenzano del Garda (Brescia) 02/12/1996. Sentenza di colpevolezza [art. 56 c.p. (delitto tentato) art.605 c.p. (sequestro di persona)].
Castelvolturno (Caserta) 18/01/1997. Sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste.
Minturno (Latina) 30/08/1997. Archiviazione del caso.
Roma 10/10/2001. [Sentenza di colpevolezza art. 56 c.p. (delitto tentato) art. 574 c.p. (sottrazione di persone incapaci)].
Lecco 04/02/2005 (il procedimento penale è in corso – II grado).
Firenze 25/10/2005 (il procedimento penale è in corso – I grado, il PM nell’ultima udienza del 17 ottobre 2008 ha chiesto l’assoluzione).

Lo sguardo critico proprio della disciplina antropologica fa emergere dalle carte e dalle aule del tribunale l’utilizzo delle categorie del senso comune da parte degli operatori del diritto come base attraverso cui adattare la categorizzazione prevista nei codici alle circostanze del caso e la costruzione della credibilità dei testimoni nella quale assume un forte peso la capacità retorica delle due parti, intesa anzitutto come coerenza interna del discorso quale testimonianza dell’accaduto. Il tutto retto anche da un ‘ragionevole’ assunto iniziale: la madre non avrebbe nessun motivo per accusare la zingara di un atto non compiuto, in pratica non avrebbe alcun senso che la madre si fosse inventata tutto, per cui quello che ella dice è di partenza da considerarsi in qualche modo "vero". Non dobbiamo scordarci che ci troviamo davanti a persone appartenenti a gruppi socialmente e giuridicamente deboli: non solo persone immigrate, ma soprattutto e in primo luogo rom (ma chiamati sempre nomadi) e nella maggior parte dei casi "sedicenti". Addirittura nella sentenza di Brescia si legge che la pericolosità sociale della donna è "in una con la sua condizione di nomade". Allo stesso modo per il caso di Roma, non ha nessun peso il fatto che il certificato dei carichi pendenti dell’imputata risulti negativo: la sua condizione di nomade sedicente basta – secondo il giudice - a renderla pericolosa e capace di commettere azioni criminose. Il fatto di essere definite nomadi, giustifica di per sé nei confronti delle imputate qualsiasi decisione a tutela della collettività.

Infine, per quanto riguarda episodi di sparizione di bambini (11 casi analizzati), nella maggioranza molto noti all’opinione pubblica, abbiamo ricostruito i vari momenti in cui i rom e sinti entravano tra i soggetti sospetti e gli esiti degli accertamenti che derivavo dall’attività investigativa (sempre negativi). La drammaticità delle vicende di queste sparizioni si rende ancora più acuta in quelle narrazioni di cui si conosce l’epilogo: l’opposizione fra ciò che è accaduto realmente a questi bambini e l’immaginario stereotipico del rapimento da parte dei rom emerge con una forza squassante. Questi bambini sono stati vittime di una violenza brutale tutta interna ai contesti dove vivevano: pedofili, conoscenti, parenti. Anche a partire da questo, il forte invito è quello di allargare il nostro sguardo, interrogarci e riflettere maggiormente su noi stessi (sempre che questo noi così netto esista...).

Le autrici della ricerca

Carlotta Saletti Salza, dottore di ricerca in Antropologia ottenuto presso la Facultat de Ciències Humanes i Socials – Departament d’Història, Geografia i Art – di Castellón de la Plana (Spagna). Svolge da svariati anni attività di ricerca presso Fondazioni e Univeristà. Ha condotto ricerca etnografica tra le comunità xoraxané a Torino e in Bosnia su tematiche relative all’educazione famigliare e scolastica e sulla rappresentazione della morte.
Sabrina Tosi Cambini, dottore di ricerca in Metodologie della ricerca etno-antropologica presso l’Università degli Studi di Siena, svolge da svariati anni attività di ricerca presso Fondazioni, Istituti e Università; è stata operatrice di strada e da tempo coordina progetti sperimentali di lavoro sociale. Attualmente è docente a contratto di Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Firenze e di Antropologia sociale presso l’Università degli Studi di Verona. (10/11/2008-ITL/ITNET)

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Di Fabrizio (del 12/11/2008 @ 09:37:11, in media, visitato 1620 volte)

Segnalato da Paolo Andreozzi

[ricevo da Beatrice Montini e volentieri inoltro] Sono una giornalista e scrivo per segnalare un'iniziativa GIORNALISTI CONTRO IL RAZZISMO che stiamo portando avanti attraverso il sito http://www.giornalismi.info/mediarom/
Al momento stiamo cercando di diffondere e far discutere sulla campagna "Mettiamo al bando la parola clandestino (e non solo quella)" (anche nomade, zingaro, extracomunitario, ecc ).
Da ieri l'agenzia Dires ha deciso di eliminare dai suoi lanci queste parole. Copincollo qui sotto il lancio dell'Ansa.

(ANSA) - ANCONA, 10 NOV - Da oggi i lanci quotidiani del notiziario DiReS - frutto della collaborazione tra l'Agenzia Dire (Canale Welfare) e l'Agenzia Redattore Sociale - non conterranno più la parola "clandestino". L'iniziativa, spiega una nota, è maturata anche in seguito all'appello lanciato dal gruppo Giornalisti contro il razzismo.
«Oltre a essere impropria, la parola ha sempre più assunto nell'immaginario collettivo un'accezione offensiva e spesso criminalizzante, che rischia di estendersi a tutta la popolazione immigrata - dice il direttore di Redattore Sociale, Stefano Trasatti -. Eliminarla dal nostro notiziario ci sembra una scelta doverosa e di rispetto della dignità delle persone straniere». «L'uso di un linguaggio corretto - aggiunge il direttore di Dire, Giuseppe Pace - è sempre importante per un'agenzia di stampa, ma lo è ancora di più quando si trattano fenomeni, come l'immigrazione, su cui è facile alimentare paura, xenofobia e razzismo».
Al posto dalla parola "clandestino", che verrà usata solo in eventuali dichiarazioni tratte da comunicati stampa e riportate tra virgolette, o se necessaria per riportare fedelmente il contenuto di un'intervista, saranno preferiti termini come irregolare, migrante, immigrato, rifugiato, richiedente asilo, persona, cittadino, lavoratore, giovane, donna, uomo. Sarà evitata anche la parola "extracomunitario", a meno che non sia essenziale per chiarire aspetti tecnico-giuridici.

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