Uno dei ragazzini aveva subito un furto in casa e ha dato la colpa ai
circensi
I luoghi comuni, gli stereotipi sono difficili da cambiare. Un ragazzino di 16
anni giorni fa aveva subito un furto in casa. Con un’ardita associazione mentale
ha pensato immediatamente agli zingari. E quando ha visto il cartello
pubblicitario di un circo ha dato subito la colpa a loro. E, insieme ad un
amico, ha subito escogitato una vendetta: lanciare una molotov contro il
tendone.
E’ questa l’assurda motivazione data per “giustificare” una cosa tanto grave.
Poteva essere una strage, ma per fortuna non è andata così. Dopo la paura, i
lavoratori del circo parlano tranquillamente con i cronisti. «Non abbiamo avuto
problemi con nessuno, la gente del posto ci saluta con cordialità, i nostri
bambini da una settimana frequentano le scuole della città. Non è la prima volta
che veniamo a Sarzana è una città accogliente dove ci siamo sempre trovati bene
- racconta una giovane donna con l’aria spaventata che ben interpreta lo stato
d’animo dei circensi che poi continua - Questa bravata poteva costare davvero
cara: se la bomba fosse stata lanciata di notte avremo potuto bruciare tutti
quanti, insieme ai nostri bambini».
«Il nostro è un circo grande, una cittadella recintata - dice Francesca Karoli,
contitolare del circo - Quel gesto poteva distruggere le nostre vite, il nostro
lavoro di anni di sudore. Giriamo l’Italia da anni e anche i paesi vicini, non
ci è mai accaduta una cosa tanto grave. Siamo sconvolti!». Dopo il lancio delle
molotov nel recinto dei cavalli tra la gente del circo Karoli si respira un’aria
di paura. L’ ordigno è stato gettato poco prima dello spettacolo pomeridiano che
ospitava un gran numero di bambini e le loro famiglie. Solo per un caso la bomba
non è esplosa: nella stalla, poco distante il tendone già gremito di persone, si
trovavano una trentina di cavalli ed è facile immaginare che se i quadrupedi si
fossero spaventati per lo scoppio dell’ordigno, all’interno dell’area del circo
sarebbe stato il caos.
I responsabili del gravissimo gesto, sono due ragazzini di 16 anni uno residente
a Sarzana e l’altro a Vezzano. Entrambi sono subito stati individuati dai
carabinieri che li hanno fermati e denunciati al Tribunale dei minori di Genova.
La cronaca della terribile giornata ha avuto inizio poco prima delle ore 17,
quando i due con gli scooter, si erano fermati in via Silea, proprio dietro il
grosso parcheggio della variante Aurelia (ex “area Gerardo”) dove in questi
giorni fa tappa il circo Karoli. Uno dei due, acceso l’innesco di una bottiglia
incendiaria, l’ha lanciata nell’area delle scuderie, dove si trovavano una
trentina di cavalli.
Poi sono fuggiti a tutta velocità. L’azione però è stata vista da un testimone
che è riuscito ad annotare – seppur in maniera parziale e confusa entrambe le
targhe. Per un caso fortuito la bottiglia, rimbalzata sul tetto della stalla e
caduta sul cortile, proprio in mezzo ai cavalli, non s’è rotta e quindi la
benzina contenuta non è esplosa.
Uno degli stallieri, vista la fiammata, è subito accorso e ha prontamente spento
l’ordigno. Immediata la chiamata al 112. Diramate le ricerche, i due ciclomotori
sono stati presto trovati. Infatti, due mezzi corrispondenti alla descrizione e
con le targhe compatibili a quelle parziali riportate dal testimone, erano
parcheggiati, col motore ancora caldo, uno a fianco all’altro nel parcheggio di
Porta Romana. I giovani proprietari erano poco distante, come nulla fosse, a
chiacchierare con alcuni amici presso il monumento di piazza Garibaldi, in pieno
centro a Sarzana.
Accompagnati in caserma, i ragazzini hanno subito confessato, permettendo anche
di ritrovare il panno usato per l’innesco e l’accendino che, insieme alla
bottiglia e ai due motorini, sono stati sequestrati. In caserma sono arrivati
anche i genitori dei giovani: non volevano credere a quello che avevano fatto i
loro figli. I due sedicenni sono accusati di fabbricazione, detenzione e porto
materiale esplosivo e tentato incendio doloso.
L' associazione culturale Thèm Romanò organizza, nell'ambito della stagione
teatrale 2008-2009 del Comune di Lanciano, in collaborazione con l'
Istituzione Deputazione Teatrale a partire dalle ore 21.30 di sabato 15
novembre a Lanciano presso il Teatro Fedele Fenaroli la quindicesima edizione
del...
Giovedì 20 novembre 2008 - Ore 10.00 Provincia di Viterbo
Palazzo Gentili - Sala Conferenze
Via Aurelio Saffi, 49 Viterbo (VT) www.24marzo.it
COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA Principi Fondamentali - Art. 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla
legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale,
che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
RAZZA = RAZZISMO Riflessioni a settant’anni dalle leggi razziali
Daniela Santucci, ricercatrice dell’Istituto Superiore di Sanità "La biologia delle razze animali"
Marcello Gentili, avvocato penalista "La legislazione razzista italiana del 1938"
Vera Vigevani Jarach, scrittrice e Madre di Piazza di Maggio "La via dell'emigrazione degli ebrei in Argentina"
Giulia Spizzichino, della Comunità ebraica di Roma "La vita nel ghetto di Roma: dalle persecuzioni, alle deportazioni, alle Fosse
Ardeatine"
Giorgio Bezzecchi, Presidente Vicario Nazionale dell'Opera Nomadi "Le persecuzioni dei zingari italiani: dalle schedature ad Auschwitz"
Maurizio Pagani, Presidente della Opera Nomadi di Milano "Le politiche pubbliche verso le minoranze zingare"
L'attore-autore ha lavorato 5 anni al libro 'Non chiamarmi zingaro'. Indagine
e incontro con un mondo tenuto ai margini. Al Ducale il 13 novembre - di
Laura
Santini GENOVA, 08 NOVEMBRE 2008
"Ho cercato un po' nelle librerie, poi trovando poco o niente ho deciso di
mettermi in viaggio", spiega Pino Petruzzelli, attore e drammaturgo ma
anche direttore artistico del Centro Teatro Ipotesi, raccontando di un
pellegrinaggio non solo verso l'Est europeo ma anche in Svizzera e Francia
per capire e far capire chi sono quelli che noi chiamiamo zingari, ma che più
correttamente si dovrebbero indicare come
Rom e Sinti,
popoli nomadi secolarmente vittime di persecuzioni: "per capire una realtà
che mi sembra sconosciuta o meglio disconosciuta".
Del libro che ne è emerso, Non chiamarmi zingaro, uscito a giugno
per la casa editrice Chiarelettere, si parlerà giovedì 13 novembre
in un incontro a Palazzo Ducale (Sala del Minor Consiglio, ore 17), dove
interverranno Luca Borzani, la comunità di Sant'Egidio (che organizza
l'appuntamento) e alcuni Rom e Sinti. Quindi anche loro prenderanno la
parola? "Non credo - continua Petruzzelli - preferiscono non parlare
per paura di essere messi in mezzo". Una paura che si rivolge all'interno
verso altri della loro comunità o all'esterno verso la società? "L'esterno
ovviamente, anche perché basta dire di essere zingari che tutti i rapporti di
lavoro o di altro tipo cadono e rientrano nell'ambito del sospetto. Per molti di
loro, già inseriti nella società - che studiano, lavorano, hanno una casa in
affitto - sarebbe gravissimo esporsi, proprio perché inseriti benissimo tra noi
senza aver rivelato le loro origini. E spesso i più integrati sono quelli più
legati alle loro tradizioni e che parlano meglio la loro lingua, il romanes o
romané - con radici sanscrite e trasversale a Rom e Sinti".
Pino Petruzzelli si dice di parte, dichiaratamente di parte: "felice di
esserlo e di restarlo", ma dalle sue parole emerge soprattutto l'incredulità, la
sorpresa non certo verso quello che ha scoperto e capito ma verso quello che
molti di noi ancora non si domandano e non comprendono. Chi sono e come
vivono? Qui e altrove? "I campi nomadi sono una realtà tutta italiana,
'soluzione' drammatica e inaccettabile che colloca queste comunità ai margini
della città e della società magari vicino a discariche o in roulotte desuete e
strasfruttate eredità del terremoto in Irpinia, altro che antiquariato. Fa
eccezione l'Abruzzo dove vivono con/dentro la società, mescolati agli altri
in abitazioni normali". Anche qui la storia era partita dai campi nomadi, scelti
solo come soluzione temporanea e poi abbandonati per dare a queste persone la
possibilità di vivere in vere e proprie case i cosiddetti "campi verticali, non
baracche, ma edifici, come accade per altro in tutta Europa".
Possiamo una volta per tutte affrontare la storia che circola di bocca in bocca
da tempi immemori ("le comunità Rom e Sinti sono in Italia dal 1400") secondo la
quale loro vivono nei campi nomadi per scelta perché non vogliono integrarsi,
perché nella loro cultura il lavoro non è un valore, anzi lo sarebbe il suo
contrario, e che non sono puliti e che rubano i bambini, e che e che... Puoi
finalmente dirci perché più che una storiella è una bugia dalla gambe lunghe che
fa passi grandi per nutrire a piene mani l'incalzante e comoda ignoranza, ma che
non si può, come sempre, fare di tutta l'erba un solo fascio?
"Tendiamo a vedere solo quelli che stanno per strada, ma Rom e Sinti,
come dicevo, in altri stati europei e anche in Abruzzo, convivono nella
società e tra loro ci sono laureati e gente che lavora come noi in vari ambiti.
Persino a Genova c'è un ragazzo che installa sistemi di sicurezza nelle banche.
Sì, un Rom che mette in sicurezza i nostri soldi, da non credere eppure è
vero e per anni ha lavorato tornando poi la sera al campo nomadi, appunto".
Parlando di cultura e tradizioni, Petruzzelli spiega alcune differenze
importanti su cui nessuno mai o troppo pochi troppo raramente si sono
soffermati. "L'eredità che per noi è un fatto naturale, cioè quando i
nostri cari muoiono lasciano a figli e congiunti i loro averi; per loro è una
pratica inconcepibile, perché hanno una visione molto diversa di ciò che
è puro e di ciò che è impuro. Trarre profitto è impuro e quindi tutti i beni
vanno seppelliti con chi muore. La droga è qualcosa di impuro e non va
neanche toccata, tantomeno consumata. È ovvio poi che, essendo in contatto con
la nostra società, in alcuni campi nomadi il fenomeno droga ha creato disastri
come per esempio a Firenze". E qui Petruzzelli apre un'ampia parentesi
ricordando che i campi nomadi italiani nascono come 'soluzione' temporanea e di
emergenza, pensati per un numero specifico di famiglie e per un arco di tempo
definito. "Ma poi restano in piedi per 20 anni o più e delle dieci famiglie
originali ce ne vivono 60 perché nel frattempo i giovani si sono sposati e
hanno fatti figli, insomma le comunità sono cresciute, ma lo spazio è diventato
totalmente inadeguato (vedi legge regionale ligure per cui il campo di Bolzaneto
dovrebbe garantire 100mq a famiglia". I lavori principali per tradizione sono
quelli che ci immaginiamo legati all'artigianato - ovviamente poco
praticabili nel nostro contemporaneo - all'allevamento di cavalli, alle
attività circensi, alle giostre "e non è facile per molti riciclarsi".
E a proposito degli zingari che rubano i bambini? "Ti ringrazio per
questa domanda, perché proprio uno studio dell'Università di Verona ha
verificato che negli ultimi vent'anni non un solo Rom o Sinto, facendo
un'indagine in tutte le procure d'Italia, è stato condannato per questo reato.
Voglio invece ricordare che in Svizzera (fino al '72) si rapivano i bimbi Rom e
Sinti per strapparli alla loro cultura in un progetto di azzeramento di quelle
culture con danni gravissimi sui bambini e le famiglie ovviamente".
A proposito delle donne e della loro emancipazione, mi sa che occorre
fare un passo indietro, o no? "Certo, c'è un maschilismo molto forte,
però anche in questo caso bisogna approfondire. Perché se superficialmente
all'interno della famiglia la donna serve a tavola, è anche vero che ha un forte
ruolo di leader interno ed esterno per cui l'uomo esegue quello che lei ha
deciso. E poi la portavoce italiana è una donna Sinta. Mentre se passiamo al
matrimonio, è l'amore a vincere: se due ragazzini consenzienti scappano
insieme, sta poi al Kris - tribunale degli anziani - far smuovere le
famiglie che magari avevano combinato diversamente, per organizzare subito il
matrimonio nel nome appunto dell'amore".
Dillo come sai
Intanto il lavoro di Pino Petruzzelli è tornato a rivolgersi al teatro,
dove però ha fatto tesoro dell'esperienza recente e ha costruito il progetto Dillo come sai (in collaborazione con la comunità di Sant'Egidio, il
consorzio Agorà e il supporto dell'assessore regionale Massimiliano Costa) un
corso di formazione professionale per Rom e Sinti genovesi per formare
una compagnia teatrale in tutte le sue componenti: attori/trici, cantanti,
ma anche ufficio stampa, organizzazione. «Non vuole essere una ghettizzazione,
ma dargli l'opportunità di creare in autonomia una compagnia e partire quindi
con un rapporto di parità: pari mezzi, pari accesso». Sono nove in tutto le
persone selezionate, di età molto diverse dai 15 ai 42 anni, uomini e donne
avvisati tramite volantini e manifesti nei campi nomadi. C'è Marianna,
virtuosa di fisarmonica, lo stesso maestro Gianluca Campi è rimasto colpito dal
talento; Jan, anche lui alla fisarmonica; Carlotta e Sergio che
recitano e fanno danza, seguita anche da Isetta e Ismeta; poi
Ismet segue il corso da organizzatore teatrale. E il Teatro Stabile e
l'Archivolto hanno regalato a tutta la compagnia l'ingresso ai teatri per
tutta la stagione, in serate a loro scelta.
Di Fabrizio (del 11/11/2008 @ 09:00:49, in Italia, visitato 1822 volte)
Ricevo da RETE MIGRANTI MILANO
Nessuno escluso! Milano città per tutti
Milano è la città in cui viviamo, lavoriamo o studiamo, qualcuno da sempre,
altri da tempi più recenti.
E' una città ricca di storia e di cultura, fiorente di attività e piena di
opportunità. E’ una città al passo con i tempi, in cui si possono ottenere
ottime cure sanitarie e scegliere i migliori istituti educativi. Milano è
una bella città, ma per pochi... meglio se in salute e con un cospicuo conto in
banca.
Per il resto della popolazione, la grossa fetta dei non privilegiati a cui gli
immigrati appartengono di diritto, il presente è faticoso, precario, ed il
futuro sempre più chiuso.
In questa città è facile soccombere all'onda mediatica diffamatoria nei
confronti del diverso, dell’indifeso, del “senza diritto” perché senza documenti
(o viceversa). Non lo è altrettanto riconoscere la ricchezza e il contributo che
gli immigrati danno ovunque. Più di altri dovrebbero saperlo i milanesi che oggi
si avvalgono, sempre di più, delle prestazioni lavorative e delle qualità umane
della popolazione immigrata (contributo al PIL lombardo dei lavoratori stranieri
10,7% - dati Ismu, osservatorio regionale, rapporto regionale
sull’immigrazione 04/2008).
E' sufficiente immaginare un solo giorno senza migranti a Milano per avere la
percezione dell'ampiezza del fenomeno immigrazione e per rendersi conto della
paralisi che ne scaturirebbe.
C'è un profondo divario tra questa visione del migrante come elemento
imprescindibile per lo sviluppo dell'economia e della vita cittadina, e
dell'immigrato come reietto, ultimo nella scala sociale di una città che con gli
“ultimi” sa essere spietata. Senza renderci conto che “ultimi” sempre più
velocemente, stiamo per diventarlo tutti.
Le retate sui mezzi pubblici, le ronde notturne, l'espulsione dagli alloggi, le
campagne contro le moschee, gli sgomberi violenti, la schedatura etnica di Rom e
Sinti, l'esercito nelle strade, la reclusione nei Cpt (Cie), la
criminalizzazione degli irregolari, i pestaggi, sono modalità che non si
addicono a chi proclama di avere a cuore la sicurezza della comunità.
Coloro che amano davvero questa città sentono l’urgenza e la necessità di
costruire un’alternativa a una Milano per pochi e lottano perché il diritto alla
salute, all'educazione, alla casa, al lavoro, a un reddito dignitoso, siano
diritti di tutti e vengano applicati senza discriminazione.
La Rete Migranti Milano riunisce diverse associazioni di migranti, forze
sociali, politiche e sindacali che, superando i particolarismi, lavorano insieme
a partire dal rifiuto di questo modello di città.
La campagna aspira a mettere in moto azioni permanenti che puntino a ricostruire
il tessuto sociale cittadino, nel tentativo di aprire il futuro e costruire un
nuovo modello di città solidale.
Nessuno escluso!
Milano città per tutti
E’ una campagna di denuncia, controinformazione e sensibilizzazione che sveli
l’inganno mediatico e persecutorio nei confronti dell'immigrato, capro
espiatorio e diversivo perché i cittadini non si occupino della drammatica
situazione sociale ed esistenziale in cui si trovano.
Che parte dai quartieri per costruire una rete solidale tra persone,
associazioni, comunità di stranieri affinché nessuno debba più sentirsi solo di
fronte a questa nuova violenta ondata di intolleranza.
Che propone un dialogo tra le differenti culture presenti in una città già
multietnica, affinché si chiudano le porte al razzismo e alla xenofobia.
Un’azione antirazzista permanente, nonviolenta e quotidiana, perché non è con la
violenza,il controllo e la repressione, che questa città diverrà più sicura.
PRAGA - Una corte d'appello ha deciso mercoledì che un ospedale ceco non deve
pagare nessuna compensazione ad una donna zingara
sterilizzata 11 anni fa senza il suo consenso.
La Lega per i Diritti Umani ha criticato aspramente questo giudizio e ha
detto che intende appellarsi alla Corte Suprema. Il giudizio è visto come
importante perché ha rovesciato il precedente giudizio del tribunale che
garantiva alla donna una compensazione dall'ospedale per una simile operazione.
Il gruppo sui diritti umani ritiene che centinaia di donne di questa
minoranza di circa 250.000 persone, sia stata sterilizzata contro il proprio
volere, una pratica che risale al periodo comunista e terminata solo di recente,
secondo un rapporto investigativo dell'ombudsman Otakar Motejl, a fine 2005.
Sotto il comunismo, che nella Repubblica Ceca terminò nel 1989, la
sterilizzazione era una pratica semi-ufficiale per limitare la popolazione
zingara, o Rom come preferiscono essere chiamati, le cui grandi famiglie erano
viste come un peso per lo stato.
Nella decisione di mercoledì, la corte d'appello ha rigettato quella di un
altro tribunale secondo cui l'ospedale doveva pagare 500.000 koruna ($26,330;
20,460 €uro) a Iveta Cervenakova per averla sterilizzata illegalmente senza il
suo consenso nel 1997, ha detto Petr Angyalossy, portavoce del tribunale di
Olomouc, 250 km ad est di Praga.
Ha detto che la corte ha deciso che l'ospedale nella città nord orientale di
Ostrava non doveva pagare alcuna compensazione alla Cervenakova, 32 anni, perché
il caso aveva si riferiva a più di tre anni fa.
Angyalossy ha poi detto che l'ospedale doveva soltanto scusarsi con
Cervenakova.
Un altro tribunale aveva deciso il 12 ottobre 2007 che l'ospedale doveva
pagare un compenso e scusarsi con Cervenakova per aver violato i suoi diritti
con la sterilizzazione.
Cervenakova aveva compilato la citazione in giudizio nel 2005. Era stata
sterilizzata dopo aver dato alla nascita la sua seconda figlia con parto
cesareo.
Diverse donne rom ceche avevano richiesto i danni agli ospedali per le
sterilizzazioni illegali, ma Cervenakova fu la prima ad ottenerla in tribunale.
L'avvocato David Zahumensky della Lega per i Diritti Umani, che si è consultato
con i legali di Cervenakova, ha detto che la cliente ricorrerà in appello alla
Corte Suprema, perché il limite dei tre anni non si può applicare a questo caso.
Il Comune di Pisa, fino a pochi mesi fa all’avanguardia nelle politiche
di accoglienza e di inserimento sociale dei migranti, si adegua al clima diffuso
in tutto il paese. E, in consiglio comunale, centro-destra e centro-sinistra
votano insieme una mozione sulla «sicurezza». Ecco come gli amministratori
comunali stanno cercando di smantellare un’esperienza avanzata. E come sta
reagendo la città.
Mentre in Italia si moltiplicavano le violenze a sfondo razziale – non
ultima, quella di Ponticelli, dove un intero «campo nomadi» veniva dato alle
fiamme – e mentre si sviluppava la moda delle «ordinanze creative», Pisa seguiva
percorsi diversi. Nella città della Torre Pendente i «campi nomadi» venivano
chiusi non dagli sgomberi, ma da un
progetto di inserimento abitativo: i Rom ottenevano una casa, e venivano
assistiti nella ricerca di un impiego. Molte famiglie hanno trovato lavoro, e
hanno cominciato a pagare da sole l’affitto: diventando non un costo, ma una
risorsa. In un clima nazionale di intolleranza, qui si introduceva il diritto di
voto amministrativo per gli stranieri, e si lavorava per agevolare le pratiche
dei permessi di soggiorno.
Oggi, è bene saperlo, l’«anomalia pisana» non esiste più.
La nuova amministrazione di centro-sinistra, insediata nella scorsa
primavera, sta cancellando le precedenti politiche.
«Via i Rom e i mendicanti dal centro storico»: la «svolta» è cominciata con
questo slogan. Per tutta l’Estate, abbiamo assistito al proliferare di
dichiarazioni su una (inesistente) emergenza criminalità, sul pericolo dei campi
«abusivi», sulla lotta ai venditori ambulanti stranieri.
Ma è solo nelle ultime settimane che si è passati alle vie di fatto. Il
programma «Città Sottili» (quello finalizzato all’inserimento abitativo dei Rom)
è stato stravolto: in nome della «legalità» si è proceduto agli sgomberi dei
campi.
Si sono cacciate dalle loro case interi nuclei familiari, con il pretesto che i
capifamiglia erano coinvolti in una rissa: non si è aspettata la sentenza
del giudice, gli sfratti sono stati emanati sulla base di segnalazioni di
polizia, e in mezzo ad una strada sono finiti i bambini e le donne.
Oggi, questa escalation arriva al culmine. In consiglio comunale,
centro-destra e centro-sinistra hanno votato una mozione in cui si elogia il
«pacchetto sicurezza» di Berlusconi, si annuncia la militarizzazione della
Polizia Municipale, si invocano provvedimenti restrittivi contro i «campi
nomadi», i venditori ambulanti stranieri, e persino contro gli studenti, «rei»
di girare per la strada ad ore notturne…
Il «caso Pisa» non è, però, materia soltanto locale: è messa in discussione
una delle poche esperienze in controtendenza rispetto alle politiche nazionali.
Perciò chiediamo a tutti di non lasciarci soli.
Le organizzazioni gitane che durante gli ultimi giorni si sono preoccupate di
conoscere la situazione dei gitani attorno a
Castellar, che si son visti obbligati ad abbandonare le loro case davanti al
timore di essere aggrediti violentemente dagli altri vicini non gitani della
località, vogliono manifestare quanto segue:
Primo. Dobbiamo fare un appello a tutti, gitani, "gadches" (non
gitani), autorità, giornalisti e cittadini in generale per analizzare i fatti
con sufficiente obiettività al fine di evitare che la situazione si radicalizzi
rendendo sempre più difficile il ritorno alla normalità democratica. Normalità
che deve manifestarsi nel mutuo rispetto, che sempre c'è stato nell'immensa
memoria dei popoli d'Andalusia dove vivono i gitani, inclusi i nostri fratelli
di Castellar.
Secondo. Anche se sembra inutile, dobbiamo insistere perché non si
debba cadere in accuse assurde, inappropriate e false, come dire che tutti i "gadches"
sarebbero razzisti, o che tutti i gitani siano delinquenti. Quello che pare sì
evidente è che a Castellar ci sono stati comportamenti razzisti da parte di
alcuni cittadini del posto e che alcuni gitani sono intervenuti in un confronto
per strada tra giovani, atti che entrambe vanno condannati.
Terzo: Tanto la violenza razzista che i comportamenti incivili o
delittuosi sono croste che qualsiasi società democratica deve sradicare;
noi, gitani e gitane del secolo XXI, diciamo che questi fatti devono essere
denunciati davanti ai giudici perché sia la giustizia, non gli individui, ad
appurare le responsabilità, castigare esemplarmente i colpevoli e difenda con
fermezza le vittime di qualsiasi aggressione.
Quarto. Da qui vogliamo e dobbiamo manifestare il nostro appoggio alle
autorità locali e provinciali di Castellar e di Jaén. Il dialogo con queste, non
sempre facile, è stato possibile per il mutuo rispetto ed il desiderio che tutti
condividiamo di porre fine il prima possibile alla situazione che Castellar vive
e continua a vivere. Il Consiglio Cittadino, la Sottodelegazione e Delegazione
del Governo hanno ascoltato le nostre ragioni ed assieme siamo arrivati ad
accordi precisi che possono essere la soluzione definitiva al conflitto in atto.
Quinto. A noi, gitani e gitane preoccupati per la situazione di
evidente povertà e marginalizzazione in cui vivono i gitani di Castellar,
interessa porre in risalto che gli assi del nostro intervento davanti alle
autorità di Jaén, siano stati i seguenti:
Si deve garantire la protezione e la sicurezza delle famiglie gitane di
Castellar. Queste persone sono terrorizzata. Non possono esercitare con
libertà i loro diritti fondamentali come cittadini, per paura di essere
aggrediti. I bambini, specialmente, devono essere protetti perché possano
andare a scuola senza paura.
La situazione di estrema povertà dei gitani di Castellar esige
un'attenzione urgente da parte delle autorità. Garantire loro il diritto
alla sussistenza e stabilire un piano di aiuto alle famiglie, personalizzato
per ognuna a livello delle loro necessità, è un'azione che si deve
realizzare senza alcun ritardo.
Il Consiglio Comunale e la Giunta Andalusa da parte loro devono
includere queste famiglie nei piani di promozione sociale e sviluppo
personale da loro stabiliti. Solo un'azione decisa in questa materia può
essere la garanzia che in un futuro prossimo spariscano le differenze che
ancora oggi esistono nella nostra terra, dove c'è chi ha tutto mentre altri
scarseggiano dell'indispensabile per vivere.
Nel contempo abbiamo manifestato il nostro desiderio che venga
costituita una commissione che segua puntualmente gli accordi presi, e
vigili, tanto con le autorità che con le associazioni gitane presenti in
questo dialogo, quando una delle parti non tenga fede ai compromessi
adottati.
Sesto. Vogliamo manifestare che da parte delle autorità che assieme a
noi han partecipato a questo dialogo, abbiamo incontrato la miglior volontà di
dare risposta alle nostre petizioni. Lo puntualizziamo perché giusto.
Settimo. Per finire, vogliamo manifestare che avendo presentato varie
denuncie alla Guardia Civil, che avranno il loro logico proseguimento davanti
agli organi giudiziari pertinenti, noi, facendo valere i nostri diritti
costituzionali, saremo part in causa nelle denuncie che riterrà la Corte, perché
venga fatta giustizia e venga punito chi abbia violato il diritto di qualsiasi
cittadino a vivere in pace, con la garanzia che la sua persona ed i suoi beni
non siano violati o distrutti.
(2008-11-10)- L’ampia ricerca "Adozione di minori rom/sinti e sottrazione di
minori gagé" commissionata dalla Fondazione Migrantes al Dipartimento di
Psicologia e Antropologia culturale dell’Università di Verona e alla direzione
del Prof. Leonardo Piasere, si articola in due studi volti a rispondere a
differenti ma complementari interrogativi.
L’uno –– in corso di pubblicazione presso CISU – volto a verificare quanti
bambini figli di rom o sinti siano stati dati in affidamento e/o adozione dai
Tribunali per i Minori italiani a famiglie gagé, condotto da Carlotta Saletti
Salza. L’altro – già edito dallo stesso editore col titolo "La zingara
rapitrice. Racconti, denunce, sentenze (1986-2007) – sui presunti tentati
rapimenti di infanti non-rom da parte di rom, condotto da Sabrina Tosi Cambini.
Il progetto di ricerca "Adozione dei minori rom e sinti" prevedeva la raccolta
il più esaustiva possibile di dati documentati relativi all’affidamento e
all’adozione di minori rom e sinti a famiglie non rom da parte dei tribunali dei
minori italiani, nel periodo compreso tra il 1985 e il 2005, nonché un’analisi
dei dati raccolti. La scelta è stata quella di condurre una ricerca
sull’affidamento e sull’adozione dei minori rom e sinti a partire dai dati
relativi alle dichiarazioni di adottabilità che sono registrati presso le sedi
dei tribunali minorili e dalle informazioni raccolte nei servizi sociali di
territorio, comunali e ospedalieri, in materia di allontanamento dei minori dal
nucleo famigliare. Quindi, sono stati raccolti i dati relativi alle
dichiarazioni di adottabilità presso otto (Torino, Bologna, Bari, Lecce, Trento,
Firenze, Venezia e Napoli) delle ventinove sedi dei tribunali minorili e sono
stati svolti colloqui con i servizi sociali di riferimento. Complessivamente, i
casi di minori rom e sinti dichiarati adottabili sono oltre duecento.
I dati raccolti in ciascuna delle sedi dove si è svolto il lavoro di ricerca
mostrano differenze rilevanti legate al contesto storico e sociale all’interno
del quale, nel corso degli anni, si sono inserite le differenti comunità rom e
sinte. Per fare un esempio, vi sono situazioni nelle quali troviamo una mancanza
di tradizione del lavoro dei servizi sociali (come a Lecce, dove assistiamo a
una pericolosa inversione di ruoli dal momento che l’Autorità Giudiziaria
minorile si sostituisce alla tutela sociale che dovrebbero invece esercitare i
servizi di territorio) e contesti nei quali invece i servizi sociali vantano una
sorta di specializzazione nel lavoro con le comunità rom (vedi il caso di
Firenze, Torino, Venezia), con una pericolosa stigmatizzazione della cultura da
parte dei differenti operatori coinvolti.
Nel complesso, l’analisi dei dati mostra la facilità con la quale, nelle diverse
realtà analizzate, la tutela sociale (dei servizi di territorio) e civile
(dell’Autorità Giudiziaria) scivolano nell’indifferenziare l’identità di un
minore rom con quella di un minore maltrattato. Come se la cultura "altra"
potesse fare del male al bambino. Questo è ciò che pensano molti degli operatori
incontrati. Tutti i minori rom, in quest’ottica diventerebbero dei bambini
maltrattati. L’intervento di tutela operato in molti contesti diventa quindi
quello di allontanare, togliere il minore dal suo contesto famigliare, per
educarlo, come se la cultura rom non avesse un modello educativo o, per lo meno,
come se la cultura rom non avesse un modello educativo valido. I concetti
impliciti che precedono questa riflessione propria di molti operatori così come
di molti magistrati minorili, vedono il bambino rom come soggetto di una
situazione di pregiudizio solo e proprio perché è rom o perché vive su quel
pezzo di terra dove si trova il "campo nomadi". Precisamente, i presupposti
impliciti di molti operatori sono che:
- la cultura rom è da considerarsi "mancante", sempre e comunque, con tutti i
bambini;
- nella cultura rom vi è un’assenza delle capacità genitoriali;
- da parte dei genitori e/o della famiglia rom vi è un’assenza della tutela
dell’infanzia.
Sono proprio questi i presupposti in funzione dei quali l’intervento di tutela
sociale e/o civile del minore rom diventa facilmente quello di tutelarlo dalla
sua famiglia o dalla sua cultura. Cosa accade allora ai minori rom? La ricerca
svolta evidenzia che la difficoltà di molti operatori nel riconoscere l’identità
del bambino rom, il suo modello educativo, porta a gravi situazioni in cui di
fatto il minore non viene tutelato. I circa duecento casi riscontrati di
dichiarazione di adottabilità, infatti, denunciano un grave "pregiudizio" (così
come inteso dal codice civile) nel quale si troverebbe questa volta non il
minore rom, ma il contesto istituzionale che ruota intorno a quella che dovrebbe
essere la tutela di qualsiasi minore. Una tutela dalla quale il minore rom,
paradossalmente, resta escluso.
Abbiamo quindi situazioni nelle quali i minori trovati in strada da soli o con
gli adulti di riferimento vengono allontanati dai genitori e poi inseriti in
comunità. Una volta in comunità il provvedimento del Tribunale dei Minorenni
dispone che i minori non possano più incontrare i propri famigliari, fino al
termine dell’istruttoria. Concretamente questo vuol dire che potrà accadere che
i bambini non possano più incontrare i propri genitori per lunghi mesi, con
gravi conseguenze nella loro relazione. Gli avvocati che seguono questi casi
affermano che, probabilmente, in questi casi, il reale interesse dei vari
operatori coinvolti è di trovare il maggior numero possibile di minori per le
famiglie non rom che fanno domanda di adozione. Come reagire di fronte a queste
gravi denunce? Oppure abbiamo casi in cui i minori vengono allontanati dalla
famiglia perché i servizi sociali valutano che le condizioni abitative del
nucleo, ovvero quelle del "campo nomadi", non sono adeguate alla tutela di un
minore. Ancora, molte volte ci troviamo di fronte a casi di allontanamento che
avvengono con molta violenza, sulla base del mero pregiudizio personale di un
operatore qualunque che scrive che quel minore non è tutelato perché "mangia con
le mani" o "non indossa il pigiama per andare a dormire". Con quale presunzione
noi non rom continuiamo a immaginare che il nostro modello di vita sia il
migliore e quello ideale? E, soprattutto, chi lavora nel sociale non dovrebbe
avere una formazione adeguata per lavorare con soggetti che appartengono a
culture differenti?
Talvolta la responsabilità della mancata tutela del minore viene data alla
cultura, talaltra alle istituzioni, che non sarebbero in grado di offrire a
questi nuclei situazioni abitative appropriate. In entrambi i casi, il risultato
è che non viene salvaguardato l’interesse del minore di vivere nella propria
famiglia. Accadrebbe lo stesso se si trattasse di minori italiani?
Non si vuole qui escludere che possano esserci situazioni di abbandono dei
minori rom, non si vuole accusare gratuitamente il lavoro degli operatori, ma si
vuole mettere in evidenza la contraddizione nella quale invece cadono in molti
(sia gli operatori sociali che della magistratura minorile), identificando
sempre il minore rom come abbandonato, potremmo dire, "alla" e "dalla" sua
cultura.
Possiamo aggiungere quindi che il tema attorno al quale si sviluppare questa
analisi è quello di tutela. Qual’é la nostra concezione tutela e qual’é quella
dei romá? Cosa accade al bambino rom mentre per l’operatore si sta verificando
una situazione di maltrattamento? Da questo interrogativo si apre una
riflessione su due aspetti:
- sulla definizione di quella che viene genericamente definita come la soglia in
funzione della quale l’operatore, genericamente inteso, stabilisce che il minore
si trova in una condizione di "pregiudizio". Una soglia viene banalmente
interpretata e descritta con un criterio di tolleranza personale: per qualcuno
sono i piedi scalzi, piuttosto che il furto o l’accattonaggio o l’appartenenza
alla cultura rom, senza riconoscere che il "pregiudizio" dovrebbe essere quello
ravvisato specificatamente nell’interesse di ciascun minore. Quello che accade è
che i minori rom verranno segnalati all’Autorità Giudiziaria in funzione del
grado di tolleranza personale degli operatori sociali, che, come quella di molti
cittadini, è molto bassa.
- L’altro aspetto riguarda l’applicabilità della norma giuridica italiana a un
contesto culturale differente, un tema che in Italia resta poco approfondito. Al
centro di quest’analisi vi è una discussione sulla definizione dei margini
dell’applicabilità della norma giuridica a un minore il cui contesto famigliare
potrebbe non riconoscere la stessa norma e le sue finalità. In funzione di quali
criteri potremo definire l’abbandono di fronte a un minore che appartiene a un
contesto culturale differente da quello nel quale è stata elaborata la norma
giuridica? Alcuni magistrati portano riflessioni interessanti a questo
proposito, affermando che di fronte al minore straniero occorre sempre
considerare e decodificare il contesto culturale dal quale proviene, ma il tema
resta ampiamente marginale nell’ambito della magistratura minorile. Il risultato
è che pochi magistrati minorili riconoscono la necessità di decodificare il
contesto culturale del minore e che in molti invece ritengono non opportuno
riconoscerne la specificità dettata dall’appartenenza culturale. Questo è quanto
emerge nell’ambito del lavoro di ricerca svolto.
Quale soluzione proporre? Frequentemente la cultura non-rom si presenta come
"egemone", più forte di quella dei romá, identificati come appartenenti a una
minoranza culturale. Se davvero si riconosce come tale, la nostra cultura
dovrebbe prendersi la responsabilità di assumere fino in fondo questo ruolo,
creando quegli strumenti che potrebbero anche tutelare il minore rom e la sua
famiglia. Questo vorrebbe dire disporre di quegli strumenti di conoscenza che si
avvicinino il più possibile al contesto culturale del minore, con il risultato
di mettere il minore in una condizione che lo veda tutelato da entrambe le
parti: per la magistratura minorile e per la sua famiglia.
Dovremo infine smettere di pensare alle cultura rom come una cultura statica e
immutabile, come se i minori fossero destinati alla povertà materiale e
culturale dei loro genitori. Se molti romá oggi vivono nei "campi nomadi" è
perché si tratta di una chiara scelta delle amministrazioni comunali di
mantenere queste comunità in una condizione di grave precarietà sociale e
civile. Se i minori rom oggi non sono tutelati e c’è un sistema giudiziario
minorile che non li tutela la responsabilità è solo nostra.
La seconda indagine "Sottrazione di minori gagé" originariamente copriva il
ventennio dal 1986 al 2005, ma per i fatti successivamente accaduti si è
protratta fino al 2007. I casi sono stati individuati e analizzati partendo
dall’archivio Ansa e arrivando alla consultazione dei fascicoli dei Tribunali,
adottando, oltre a quella giuridica, più prospettive: etnografica,
dell’antropologia giuridica ed etnometodologica.
Per dare un quadro del lavoro svolto, possiamo dire che la ricerca si è
strutturata in tre fasi: individuazione nell’archivio Ansa dei fatti di nostro
interesse; studio del corpus ricavato dall’archivio Ansa per individuare i casi;
lavoro sui casi: consultazione dei fascicoli processuali, ricostruzione,
comparazione. Quest’ultima fase – che partiva, appunto, dalle informazioni
contenute nelle notizie Ansa – ha avuto la sua attività principale nel contatto
con le Forze dell’ordine, Procure e Tribunali al fine di verificare se il fatto
avesse avuto un prosieguo significativo in termini penali. In caso affermativo,
si è cercato di ottenere i permessi per la visione dei fascicoli. Alcune volte,
è stato possibile avere un colloquio con il PM e con gli avvocati; in altre, la
distanza temporale ha complicato questi passaggi. Per molti è stato possibile
anche raccogliere gli articoli apparsi sui giornali e anche su Internet.
Nella nostra analisi prendiamo in considerazione ventinove casi, oltre undici di
sparizione di minori (dunque, 40 in tutto), sui quali è da subito opportuno
indicare il risultato principale della ricerca, e cioè che non esiste nessun
caso in cui sia avvenuta una sottrazione del bambino: nessun esito, infatti,
corrisponde ad una sottrazione dell’infante effettivamente avvenuta, ma si è
sempre di fronte ad un tentato rapimento, o meglio, ad un racconto di un tentato
rapimento.
Alla confusione che generano i media al momento della denuncia del fatto, dando
come provato e "vero" il tentato rapimento, se non vi è un arresto non
corrisponde quasi mai la notizia dell’esito dell’azione delle Forze dell’ordine.
Nei pochi casi in cui questo accade, la notizia non è per comunicare che i rom
non c’entrano niente, ma è perché l’esito scioglie in sé altri eventi: truffe,
fatti drammatici, situazioni che suscitano ilarità.
In maniera random si è cercato anche di verificare se per i casi in cui era
stata sporta denuncia, ma in cui i presunti rapitori si erano dati alla fuga, le
indagini avessero risolto la vicenda in qualche modo: si tratta di un ulteriore
accertamento rispetto al fatto che se non c’è stata più nessuna notizia in
merito questo ci può far dire che non si era poi svolto nessun arresto. D’altra
parte - come dicevamo e come alcuni casi dimostrano - laddove le Forze
dell’ordine tramite le proprie indagini verificano che è stato solo un equivoco,
una percezione errata della situazione, la stampa ne dà poca o nessuna notizia.
La comparazione dei casi ci ha aperto a strade particolarmente significative,
attraverso le quali si sono potuti individuare gli elementi cardine dei racconti
dei tentati rapimenti, che sono pochi e si ripetono come un frame, un canovaccio
concettuale con poche varianti: ad esempio, nella grande maggioranza, si tratta
di ‘donne contro donne’ ossia è la madre ad accusare una donna rom di aver
tentato di prendere il bambino; non ci sono testimoni del fatto, tranne i
diretti interessati; gli eventi accadono spesso in luoghi affollati come mercati
o vie commerciali; nessuno interviene in soccorso della madre; non di rado
appare la paura che vi sia uno ‘scopo oscuro del rapimento’ per cui la presenza
di alcuni mezzi e persone nelle vicinanze vengono interpretate dalle madri (o da
altre figure) come complici della zingara (ma i controlli lo smentiscono
regolarmente).
L’analisi comparativa dei casi, infine, ci porta a poter affermare che laddove
vi è la presenza di un infante, l’avvicinamento di una persona rom è subito
vissuto come un pericolo per il proprio figlio: lo stereotipo "gli zingari
rubano i bambini" risulta essere molto più potente di qualsiasi altro. Non si ha
paura, infatti, che sottraggano il portafogli o la borsa (secondo lo schema
mentale "gli zingari rubano"), ma che portino via il bambino.
Dai ventinove, estrapoliamo i sei casi che hanno portato all’apertura del
procedimento e dell’azione penale, che rappresentano il cuore del lavoro di
ricerca e che nel testo vengono presentati e discussi uno ad uno in particolar
modo attraverso i fascicoli processuali.
Si tratta di:
Desenzano del Garda (Brescia) 02/12/1996. Sentenza di colpevolezza [art. 56 c.p.
(delitto tentato) art.605 c.p. (sequestro di persona)].
Castelvolturno (Caserta) 18/01/1997. Sentenza di assoluzione perché il fatto non
sussiste.
Minturno (Latina) 30/08/1997. Archiviazione del caso.
Roma 10/10/2001. [Sentenza di colpevolezza art. 56 c.p. (delitto tentato) art.
574 c.p. (sottrazione di persone incapaci)].
Lecco 04/02/2005 (il procedimento penale è in corso – II grado).
Firenze 25/10/2005 (il procedimento penale è in corso – I grado, il PM
nell’ultima udienza del 17 ottobre 2008 ha chiesto l’assoluzione).
Lo sguardo critico proprio della disciplina antropologica fa emergere dalle
carte e dalle aule del tribunale l’utilizzo delle categorie del senso comune da
parte degli operatori del diritto come base attraverso cui adattare la
categorizzazione prevista nei codici alle circostanze del caso e la costruzione
della credibilità dei testimoni nella quale assume un forte peso la capacità
retorica delle due parti, intesa anzitutto come coerenza interna del discorso
quale testimonianza dell’accaduto. Il tutto retto anche da un ‘ragionevole’
assunto iniziale: la madre non avrebbe nessun motivo per accusare la zingara di
un atto non compiuto, in pratica non avrebbe alcun senso che la madre si fosse
inventata tutto, per cui quello che ella dice è di partenza da considerarsi in
qualche modo "vero". Non dobbiamo scordarci che ci troviamo davanti a persone
appartenenti a gruppi socialmente e giuridicamente deboli: non solo persone
immigrate, ma soprattutto e in primo luogo rom (ma chiamati sempre nomadi) e
nella maggior parte dei casi "sedicenti". Addirittura nella sentenza di Brescia
si legge che la pericolosità sociale della donna è "in una con la sua condizione
di nomade". Allo stesso modo per il caso di Roma, non ha nessun peso il fatto
che il certificato dei carichi pendenti dell’imputata risulti negativo: la sua
condizione di nomade sedicente basta – secondo il giudice - a renderla
pericolosa e capace di commettere azioni criminose. Il fatto di essere definite
nomadi, giustifica di per sé nei confronti delle imputate qualsiasi decisione a
tutela della collettività.
Infine, per quanto riguarda episodi di sparizione di bambini (11 casi
analizzati), nella maggioranza molto noti all’opinione pubblica, abbiamo
ricostruito i vari momenti in cui i rom e sinti entravano tra i soggetti
sospetti e gli esiti degli accertamenti che derivavo dall’attività investigativa
(sempre negativi). La drammaticità delle vicende di queste sparizioni si rende
ancora più acuta in quelle narrazioni di cui si conosce l’epilogo: l’opposizione
fra ciò che è accaduto realmente a questi bambini e l’immaginario stereotipico
del rapimento da parte dei rom emerge con una forza squassante. Questi bambini
sono stati vittime di una violenza brutale tutta interna ai contesti dove
vivevano: pedofili, conoscenti, parenti. Anche a partire da questo, il forte
invito è quello di allargare il nostro sguardo, interrogarci e riflettere
maggiormente su noi stessi (sempre che questo noi così netto esista...).
Le autrici della ricerca
Carlotta Saletti Salza, dottore di ricerca in Antropologia ottenuto presso la
Facultat de Ciències Humanes i Socials – Departament d’Història, Geografia i Art
– di Castellón de la Plana (Spagna). Svolge da svariati anni attività di ricerca
presso Fondazioni e Univeristà. Ha condotto ricerca etnografica tra le comunità
xoraxané a Torino e in Bosnia su tematiche relative all’educazione famigliare e
scolastica e sulla rappresentazione della morte.
Sabrina Tosi Cambini, dottore di ricerca in Metodologie della ricerca
etno-antropologica presso l’Università degli Studi di Siena, svolge da svariati
anni attività di ricerca presso Fondazioni, Istituti e Università; è stata
operatrice di strada e da tempo coordina progetti sperimentali di lavoro
sociale. Attualmente è docente a contratto di Antropologia culturale presso
l’Università degli Studi di Firenze e di Antropologia sociale presso
l’Università degli Studi di Verona. (10/11/2008-ITL/ITNET)
Di Fabrizio (del 12/11/2008 @ 09:37:11, in media, visitato 1624 volte)
Segnalato da Paolo Andreozzi
[ricevo da Beatrice Montini e volentieri inoltro] Sono una giornalista
e scrivo per segnalare un'iniziativa GIORNALISTI CONTRO IL RAZZISMO che stiamo
portando avanti attraverso il sito
http://www.giornalismi.info/mediarom/
Al momento stiamo cercando di diffondere e far discutere sulla campagna
"Mettiamo al bando la parola clandestino (e non solo quella)" (anche nomade,
zingaro, extracomunitario, ecc ).
Da ieri l'agenzia Dires ha deciso di eliminare dai suoi lanci queste parole.
Copincollo qui sotto il lancio dell'Ansa.
(ANSA) - ANCONA, 10 NOV - Da oggi i lanci quotidiani del notiziario DiReS -
frutto della collaborazione tra l'Agenzia Dire (Canale Welfare) e l'Agenzia
Redattore Sociale - non conterranno più la parola "clandestino". L'iniziativa,
spiega una nota, è maturata anche in seguito all'appello lanciato dal gruppo
Giornalisti contro il razzismo.
«Oltre a essere impropria, la parola ha sempre più assunto nell'immaginario
collettivo un'accezione offensiva e spesso criminalizzante, che rischia di
estendersi a tutta la popolazione immigrata - dice il direttore di Redattore
Sociale, Stefano Trasatti -. Eliminarla dal nostro notiziario ci sembra una
scelta doverosa e di rispetto della dignità delle persone straniere». «L'uso di
un linguaggio corretto - aggiunge il direttore di Dire, Giuseppe Pace - è sempre
importante per un'agenzia di stampa, ma lo è ancora di più quando si trattano
fenomeni, come l'immigrazione, su cui è facile alimentare paura, xenofobia e
razzismo».
Al posto dalla parola "clandestino", che verrà usata solo in eventuali
dichiarazioni tratte da comunicati stampa e riportate tra virgolette, o se
necessaria per riportare fedelmente il contenuto di un'intervista, saranno
preferiti termini come irregolare, migrante, immigrato, rifugiato, richiedente
asilo, persona, cittadino, lavoratore, giovane, donna, uomo. Sarà evitata anche
la parola "extracomunitario", a meno che non sia essenziale per chiarire aspetti
tecnico-giuridici.
Disclaimer - agg. 17/8/04 Potete
riprodurre liberamente tutto quanto pubblicato, in forma integrale e aggiungendo
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