Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di Fabrizio (del 09/01/2006 @ 01:18:56, in Italia, visitato 2006 volte)
Da un paio di giorni, rimbalzano in
internet notizie su un intervento di Francesco Rutelli sul
quotidiano Europa. Io quel pezzo non l'ho letto, anche se
un'idea me la son fatta con la dose quotidiana di
Padania.
Se le cose stanno così, c'è chi (Paniscus,
ad esempio) ha risposto intelligentemente, io non mi azzardo neanche,
a ripetere cose che avrò già scritto non so quante
volte, e che ormai mi vengono a noia.
Però, mettete insieme un campione
del dico-e-non-dico, come il politico romano bipartisan, e la
caterva di avvoltoi
che puntualmente si alzano in volo quando si sente la parola
“ZINGARO”, per prevedere la canea che durerà una
settimana (forse).
Non è un discorso di destra o
sinistra, è solo uno spuntino elettorale, con qualche promessa
(o minaccia, a seconda dei casi) ma trovatemi un elemento
concreto, se ci riuscite, che aiuti ad uscire dai problemi.
E mentre lo spuntino è in corso, e
i commensali parlano di scuola, famiglia e giustizia, che quasi quasi
mi sembra di vederli a brindare dicendo “E' colpa loro! Di
TUTTI loro!”, queste sono le storie che nessuno (tranne
l'archivio di Romano
Lil) racconta. Storie di, appunto, scuola, famiglia e
giustizia.
Da Informagagio, periodico polesano
di Rom/Sinti e gagé. A cura di Rovigo opera Nomadi.
Settembre 2005. Fatima Seferovic è scappata dalla
guerra dell’ex Jugoslavia per arrivare in Italia nel 1991. Ora
senza permesso di soggiorno e senza aiuti è ridotta alla
disperazione e può essere espulsa in qualsiasi momento dal
suolo nazionale assieme ai figli due dei quali nati in Italia.
IL
PONTE DI MOSTAR Veniva Uliano Lucas, di luglio 1993 a Rovigo,
a mostrare le foto del ponte di Mostar, cittadina della Jugoslavia,
simbolo del dialogo fra culture e popoli, storica arcata - ma quanto
squisita ed ornata!, ad unire sponde differenti nel vero senso di
connessione, di relazione. Un ponte che fu bombardato e distrutto in
quei giorni delle separazioni e dell’odio verso le differenze:
prima quelle economiche, nazionalistiche, poi quelle religiose, di
genere… “I giardini di Mostar sono seminati a tombe”,
scriveva Erri de Luca nel maggio1995. Poi il ponte fu ricostruito in
un tentativo anche simbolico di riconciliazione ma i suoi tronconi,
segni di una rottura tragica con chi sta dall’”altra
parte”, si ergono in altre terre, in altri mondi...anche in
Polesine.
FATIMA DA MOSTAR I tronconi distrutti del
ponte di Mostar sono conficcati ed incisi nelle carni di Fatima
Seferovic che da quella guerra scappò col marito e quattro
figli per arrivare in Italia nel 1991. Nei primi tempi i profughi
parevano “sistemati”, col lavoro e con la casa, la
ragazza più grande sposata ad un Sinto, ma ultimamente la
situazione è diventata disperata. Vivono in un casolare di
proprietà sperduto nelle campagna polesana nei dintorni di
Baruchella (Ro). Suzan, è stato ucciso da un'automobile sullo
stradone di casa a 17 anni di età -due anni fa, Angela ha
quasi 18 anni, Anita 15, Stella e Susan, nati in Italia, hanno
rispettivamente 12 e 10 anni. Il marito, Serif, dopo più di
dieci anni di regolare lavoro, ha perso il permesso di soggiorno per
un tumore incurabile che gli impedisce di lavorare, ha bisogno di
assistenza continua e fa fatica anche a guidare il camioncino.
L’abitazione, il casolare, è lontana tre chilometri dal
più vicino centro abitato e Fatima spera che Angela fra sei
mesi (al compimento del 18° anno) possa prendere la patente per
aiutare la famiglia, ma non sarà possibile perché non è
in regola, anzi con la maggior età diventa espellibile. Tra le
altre avversità Angela e Stella avrebbero bisogno di
un’operazione per uno strabismo agli occhi ma la “card”
regionale per gli irregolari non permette questo tipo di
intervento.
“VOGLIO ANDARE VIA DI QUI” Mancano
cibo, vestiti, assistenza sociale e morale, soldi per la bolletta
della luce e per pagare l’assicurazione del camioncino: “Non
ce la faccio più, voglio andare via di qui”, esclama
Fatima. Il marito ha ancora pochi mesi di vita ed è “perso”,
crea anche difficoltà alla moglie ed ai ragazzi e quando lui
entra in casa loro ne escono. C’è un clima di
abbattimento generale. “I miei figli hanno perso la voglia di
vivere” esclama Fatima disperata, “voglio andare via di
qui, qualcuno mi aiuti!”
NEGLI OCCHI DI SUSAN Anita
ha conseguito la licenza di scuola media e starà a casa.
Stella è stata bocciata in prima, Susan è stato
respinto in seconda elementare (dovrebbe fare la quarta) a causa
delle assenze perché non ce la faceva più a salire in
pulmino coi ragazzi che lo prendevano in giro dandogli dello
“zingaro”. “Chi sa vedere guardi” e si faccia
osservare, magari da dietro lo schermo del computer, da questo
ragazzo che sta morendo di abbandono di desuetudine, di vita. Ma non
era finita la guerra?
“PER QUANTO VOI VI SENTIATE
ASSOLTI” E’ in atto una persecuzione sociale ed
istituzionale, senza esclusione di colpi verso i minori, contro
questa ed altre famiglie del territorio in cui viviamo, che ci vede
tutti complici seppur a diversi livelli. Ma un giorno, ci auguriamo
che gli ufficiali di questa guerra infinita saranno imputati al
tribunale per i Diritti dei Popoli: il Prefetto Landolfi, i sedicenti
assessori alla Pace e Diritti Umani di Provincia e Comune, Virgili e
Saccardin, il direttore della Caritas Bellinati, la responsabile
Croce Rossa Monesi, tutti quei soldatini istituzionali che, ligi al
dovere e facendo finta di non sapere, continuano a scavare trincee di
esclusione sociale ed i “civili” che restano sordi di
fronte alle numerose invocazioni di “umanità” di
Fatima e famiglia.
Di Fabrizio (del 08/01/2006 @ 17:46:18, in Europa, visitato 1939 volte)
Ricevo e porto a conoscenza:
Dichiarazione al New York Times sottoscritta da otto sopravissuti omosessuali ai campi di sterminio: sono passati 10 anni da allora ma il velo di silenzio permane nella maggior parte dei media borghesi.
50 anni fa venimmo liberati dalle truppe alleate, dai campi di concentramento e di prigionia nazionalsocialisti. Ma il mondo che avevamo sperato non si avverò. Dovemmo perciò nasconderci e ci esponemmo a nuove persecuzioni. Il paragrafo 175 del 1935, antiomosessuale, rimase valido fino al 1969; le retate non erano una rarità. Alcuni di noi – liberati dai campi – furono condannati di nuovo a lunghe pene detentive.
Sebbene alcuni sopravvissuti tentassero di sostenere fino alla Corte federale il nostro riconoscimento come perseguitati dal regime nazista, non fummo però riconosciuti come tali e venimmo esclusi dal risarcimento economico a favore delle vittime del nazionalsocialismo. E il sostegno nazionale e la solidarietà dell’opinione pubblica non esistevano per noi. Nessun nazista delle SS è mai stato ritenuto responsabile in tribunale per l’omocidio di un omosessuale. Ma i primi appartenenti alle SS ricevono oggi per il loro “lavoro” una pensione, mentre a noi non vengono riconosciuti gli anni dei campi e così non vengono calcolati per la pensione.
Ora siamo troppi vecchi e stanchi per lottare per il riconoscimento del torto che ci è stato inflitto. Molti di noi non osano parlare di ciò. Molti di noi sono morti soltanto con ricordi pieni di tormento. Abbiamo inteso a lungo ma invano un chiaro gesto politico ed economico del governo tedesco e della Corte federale.
La nostra persecuzione è appena oggi menzionata nelle scuole e nelle università. Anche nei musei e nei luoghi di commemorazione qualche volta non veniamo neppure nominati come gruppo perseguitato.
Oggi, cinquant’anni dopo, ci rivolgiamo alla giovane generazione e a tutti coloro che non si vogliono fare guidare dall’odio e dai pregiudizi. Ci diano una mano a difenderci da una memoria della persecuzione degli omosessuali da parte dei nazisti ancor sempre incompleta e viziata da pregiudizi. Non fateci mai dimenticare, così come agli ebrei, zingari, testimoni di Geova, massoni, disabili, prigionieri di guerra russi e polacchi, omosessuali e a molti altri, i torti subiti. Fate che noi si impari dalla Storia e la generazione più giovane di donne e uomini omosessuali sostenga così le ragazze e i ragazzi a condurre la loro vita, con dignità e rispetto, insieme ai loro partner, amici e famiglie. Senza memoria non c’è futuro
(tratto da “Le ragioni di un silenzio”, a cura del Circolo Pink, Ombre corte)
Ecumenici
Leonhard Ragaz
http://ecumenici.altervista.org/html/
Un giorno il Lagerfuehrer mi chiese: “Senti frocio d’un kapò, sei già stato castrato?”
“No signor Lagerfuehrer”
“E non vuoi provvedere?”
“Signor Lagerfuehrer, voglio uscire di qui come come quando sono entrato”.
“Tu e tutta questa marmaglia di froci non tornerete mai a casa”, disse con tono stizzito.
Di Heinz Heger “Gli uomini col triangolo rosa”, edizioni Sonda, Torino
Invito
VENERDI 13 GENNAIO 2006- ore 16-19
SALA DEL CARROCCIO
(Palazzo Senatorio- CAMPIDOGLIO)
L’Assessore all’Ambiente del Comune di Roma
On. Dario ESPOSITO
PRESENTA
il libro di Giorgio Giannini
IL GIORNO DELLA MEMORIA
Edizioni Associate-Roma 2005
Intervengono :
- Prof. Antonello BIAGINI, Direttore del Dipartimento di Storia Contemporanea della Facoltà di LETTERE dell’Università “La Sapienza” di Roma;
- Massimo CONSOLI, giornalista e scrittore, autore del libro “Homocaust”, Kaos Edizioni, Milano 1991;
- Dott. Massimo CONVERSO, Presidente dell’OPERA NOMADI
Sarà presente l’Editore
Recensione di Homocaust
IL RUOLO DELL'IGNORANZA NELLA TRAGEDIA GAY
DURANTE IL NAZISMO
di Teresio Zaninetti
"Homocaust" - che porta debitamente scritto, come sottotitolo, "il nazismo e la persecuzione degli omosessuali" - è il libro con cui l'autore, Massimo Consoli, attivista e fondatore del movimento gay in Italia, con un'indagine accurata e documenti di prim'ordine, quanto mai precisi anche nei minimi dettagli, mette finalmente a fuoco ciò che è stato per troppi anni volutamente ignorato, eclissato, o anche soltanto mantenuto a debita distanza (in modo, forse, da non alterare i già compromessi equilibri del dopo-tragedia) su quanto sia stato enorme il ruolo dell'ignoranza - ma soprattutto quanto abbia potuto influire e pesare il pregiudizio a favore dell'ipocrisia- in merito alle tendenze omosessuali di Hitler e di quasi tutta la più alta gerarchia nazista. Ignoranza, pregiudizio, ipocrisia - pilastri, appunto, che hanno permesso ai nazisti di ascendere in una parabola pressoché unica nella storia -, i quali hanno infatti reso possibile lo sterminio non soltanto nel popolo ebreo, nei campi di concentramento appositamente creati allo scopo di punire o "rieducare" il diverso, ma anche da una grande massa di gay, cioè di centinaia di migliaia di "triangoli rosa" perseguitati e spogliati d'ogni forza psicologica e fisica fino alla morte esiziale - quando non venivano prima castrati, in rispetto delle cosiddette "cure" rieducative himmleriane - nei vari lager che furono addirittura l'orgoglio della coatta quanto stupida ferocia nazista.
Consoli costruisce in effetti il suo libro passando, punto per punto, i momenti essenziali dell'ascesa del Terzo Reich con il dito puntato sugli eventi cruciali, i quali si susseguirono senza sosta in un drammatico incalzare degno d'un thrilling né totalmente classico, né totalmente kitsch.
I quindici capitoli del volume che è suddiviso in tre parti e contiene una notevole appendice fotografica (da pag. 225 a pag. 275, con le foto di von Schirach, Ernst Röhm, Karl Ernst, Hitler, Göring, Hedmund Heines, Albert Forster, Gerhard Rossbach, Erich Ludendoff, il poeta omosessuale Stefan George, Heinrich Müller, Werner von Fritsch, Rudolph Hess e quella, fra le altre, del monumento di Berlino alle vittime omosessuali del nazismo) si snodano secondo un itinerario che si avverte preordinato con puntigliosa e anche scrupolosa attenzione. I titoli dei capitoli sono emblematici e, in un certo senso, didascalici, di modo che nulla possa essere abbandonato al caso ma, anzi, venga costantemente sottolineato e collocato in una ideale quanto esatta posizione cronologica: "Dagli zar ai bolscevichi", "La "Sturm Abteilungen", "Uccelli Migratori", "La gaiezza hitleriana' "L'iniziale tolleranza", "L'acqua Santa e il Diavolo", per la prima parte; "L'Articolo 175", "Omosessualità come arma di lotta politica", "Il Macellaio di Hannover", "L'ondata repressiva", "Il caso von Fritsch ", "La 'Notte dei Cristalli", per la seconda parte. Sostanziosa e nutrita, in particolare, la parte bibliografica, anch'essa testimonianza evidente di una ricerca fondamentalmente precisa e rigorosa.
Cio' che tuttavia emerge con maggiore spessore, prendendo corpo man mano che si procede nella lettura e nella conoscenza dei fatti specifici, è proprio, come s'era accennato, il valore che il ruolo dell'ignoranza, dell'ipocrisia e del pregiudizio ha avuto nel formarsi e nel trascinarsi del destino tragico e brutale del Terzo Reich. Senza alcuna ombra di dubbio, c'è una parte del libro che dà l'impressione di riassumere in se tutte quante le caratteristiche dell'ideologia nazista e del suo costante delirio.
Basterebbe infatti dare, per questo, una sia pur rapida lettura al discorso "segreto" di Heinrich Himmler, che egli tenne il 17-18 febbraio 1937 ai generali delle SS circa i "pericoli razziali e biologici dell'omosessualità"
- "Cari generali.." è il titolo di una delle tre appendici ("Hess, l'omosessualità e il Terzo Reich", "Zoroastro, Vecchio e Nuovo Testamento" sono i titoli delle altre due) del volume di Consoli , pubblicata a pagina 191 e comprensiva di una nota che subito mette l'accento sulle incongruità del discorso stesso: "Com'era costume di Himmler - scrive l'autore del libro -, questo suo sermone era infarcito di bugie, errori, falsi storici, ignoranza e grettezza. Già all'inizio c'era la prima menzogna ("Nel 1933, quando abbiamo preso il potere, abbiamo scoperto l'esistenza delle associazioni omosessuali": così in effetti, ha inizio il testo himmleriano in questione, n.d.r.): il Partito Nazista conosceva talmente bene le associazioni omosessuali tedesche - prosegue Consoli - che fin dalla sua nascita, attraverso il 'Völkischer Beobachter', seguiva costantemente Magnus Hirschfeld (direttore dell'Istituto per le Scienze Sessuali di Berlino interamente bruciato dai nazisti, e fondatore del Comitato Scientifico Umanitario, n.d.r.) per poterlo attaccare e additare al pubblico disprezzo" -. Basterebbe, si diceva, una solo, anche veloce lettura di questo suo testo per accorgersi immediatamente della falsa ingenuità e della pseudo-cultura con cui tutta quanta la stessa "cultura" nazista, se così vogliamo chiamarla, veniva via via infarcendosi ed impregnandosi. "Se ammetto - dichiarava Himmler ad un certo punto del suo discorso - che ci sono da uno a due milioni di omosessuali, vuol dire che il 7 oppure l'8 o addirittura il 10 per cento degli uomini sono omosessuali. E se la situazione non cambia, il nostro popolo sarà annientato da questa malattia contagiosa. A lungo termine nessun popolo potrebbe resistere a un tale sconvolgimento della propria vita e del proprio equilibrio sessuale". In primo luogo: se "addirittura" i1 10 per cento degli uomini "sono omosessuali" come è possibile parlare di una "malattia contagiosa"? In secondo luogo - si ha modo di vederlo con chiarezza, questo, nel capitolo quattordicesimo, che ha inizio a pagina 171 - le stesse cosiddette "cure" himmleriane per guarire gli omosessuali, effettuate da vari medici in vari campi di concentramento, oltre che rivelarsi del tutto inefficienti allo scopo, hanno avuto effetti disastrosi e quasi tutti mortali: segno che la strada era non solo sbagliata, ma addirittura assurda se non, più propriamente ridicola. Ma tant'è. Con ostinazione e pervicacia, Himmler proseguiva: "...non è solo la loro vita privata: il dominio sessuale può essere sinonimo di vita o di morte per un popolo, di egemonia mondiale o di riduzione della nostra importanza ai livelli della Svizzera". D'altra parte Hitler stesso non si preoccupava chi in misura irrilevante, e solo se necessario, di questo aspetto sociale, preso com'era dai suoi disegni di egemonia mondiale del nazismo. Himmler, imperterrito, conduce la propria battaglia senza tentennamenti, ben sicuro che una cosa può avvenire soltanto debellando l'altra, oppure portandosi appresso e la stessa cancrena e lo stesso problema irrisolto. E quindi ancora, e quindi ancora maggiormente esemplificativo della fermentante ipocrisia di cui egli si fa massimo interprete, accusa: "Il consigliere ministeriale "X" è omosessuale e cerca tra i suoi assessori un consigliere governativo. Però lui non segue il principio del rendimento. Non sceglierà il miglior giurista. Non dirà nemmeno: "L'assessore tal dei tali non è certamente il giurista migliore però ha buone votazioni, ha pratica e, quello che più conta, sembra essere di buona razza e avere una giusta concezione del mondo". No. Non sceglie un assessore qualificato, né di bella presenza. Sceglie quello che é anche omosessuale. Questa gente è capace di riconoscersi da un angolo all'altro della stanza. (...) Se voi trovate un uomo che ha questa inclinazione in qualunque posto e con un potere di decisione potete essere sicuri di trovare intorno a lui tre, quattro, otto, dieci persone o addirittura di più, tutte con la stessa inclinazione. (...) Quindi l'omosessualità fa fallire ogni rendimento, ogni .sistema basato sul rendimento; essa distrugge lo Stato nelle sue fondamenta". Parole sacrosante le sue, bisogna ammetterlo, poiché espresse senza dubbio con piena cognizione di causa.
Tant'è vero che, nella nota relativa redatta da Consoli , troviamo quest'altra significativa ed esauriente spiegazione: "La teoria himmleriana relativa agli omosessuali che fanno carriera grazie alle loro inclinazioni, e non ai meriti acquisiti, ampiamente esposta in questo discorso e in numerose altre occasioni sia prima che dopo il febbraio 1937, sembra piuttosto riflettere una problematica personale dello stesso Himmler, il quale era fisicamente ripugnante. I tratti del suo volto erano l'antitesi della tanto decantata "bellezza ariana", il che induce a ipotizzare che non sia mai stato richiesto quale partner sessuale da alcuno dei capi omosessuali delle SA o del NSDAP. Himmler era nazi apertamente detestato da personaggi quali Röhm, Heines e Ernst i quali - almeno secondo lo stesso Himmler - erano circondati da giovani dei quali favorivano la carriera grazie alle loro prestazioni erotiche. Himmler si considerava uno dei pochi, se non il solo tra i gerarchi nazisti, che doveva la sua posizione esclusivamente ai propri meriti e alle proprie capacità".
La "problematica" himmleriana e, d'altra parte, sicuramente "personale" in quanto nient'affatto in sintonia neppure con le più manifeste dichiarazioni hitleriane.
Ma questi, almeno privatamente, sapeva di potersi servire degli omosessuali in maniera quasi del tutto sicura; consapevole della loro arguzia e intelligenza, egli sapeva volgere a proprio favore qualsiasi circostanza - anche dietro opportuno suggerimento altrui - e sfruttare il momento opportuno per asservire un gay, o qualcuno con essi compromesso, oppure per liberarsi di lui - dopo averne sfruttato i servizi - senza alcuna remora o tanto meno scrupolo.
Gli stessi avvenimenti, che nel libro di Consoli sono assai più che eloquenti, rivelano pienamente questo aspetto strategico della personalità di Hitler il quale, molto presto, aveva d'altro canto imparato a conoscere la realtà omosessuale - il dottor Edward Bloch, medico di famiglia, rivelerà il "peccato sessuale" del dodicenne Adolf e l'amico d'infanzia August Kubizek pubblicherà, molto più in là con gli anni, un libro sui suoi rapporti omosessuali con il futuro Führer- fino a farla divenire una costante nel suo muoversi all'interno del Potere. L'ignoranza di Himmler, che è similare a quella stessa della gerarchia nazista, viene fuori tutta intera proprio da questo suo esemplare discorso, anche là dove, per fare un paio di esempi, il suo riferimento all'"Urningo" risulta storicamente inesatto e là dove all'omosessuale contrappone il "puro" animale - sappiamo ormai che persino il moscerino ha rapporti omosessuali e che tutta la specie animale ne ha. Né appare pedagogicamente, né psicologicamente adeguato ciò che egli viene quindi affermando a proposito dei metodi di "cura" dell'omosessualità. "Non ci dobbiamo illudere - egli afferma - Trascinare gli omosessuali davanti a un tribunale e farli internare, non risolve il problema. Quando esce dal carcere, l'omosessuale è tanto omosessuale quanto lo era prima. Quindi il problema rimane invariato. E' risolto, invece, nella misura in cui questo vizio viene stigmatizzato, mentre prima non lo era. Prima, durante e dopo la guerra, c'erano delle leggi su questo fatto, ma non succedeva niente".
Egli viene perciò elaborando, e mettendo e facendo mettere in pratica un modo alquanto perverso e degenere, in grado, anziché di debellarlo, di far pervertire e degenerare, attraverso la fobia e la persecuzione - un metodo che ricorda, fra l'altro, il celebre caso Schreber -, ciò che è in realtà un istinto innato e perciò naturale. Al punto che lui stesso, nelle circonvoluzioni del suo pensiero, arriva, e diremmo inevitabilmente, a dichiarare: "Noi mascolinizziamo le donne in tal modo che, a lungo andare, la differenza sessuale, le polarità, spariscono. Da questo momento in poi, non è molto lontana la via che conduce all'omosessualità. (...) noi mascolinizziamo troppo tutta la nostra vita. E mascolinizziamo troppo anche la nostra gioventù (...). E' catastrofico per un Paese che i ragazzi si vergognino delle loro madri o delle loro sorelle, oppure che siano costretti ad avere vergogna delle donne".
L'arguzia himmleriana - che peraltro è pari alla sua intrinseca perversione e degenerazione - è tuttavia, qui, innegabile; sebbene appaia lastricata di paradossali e grottesche contraddizioni che, come abbiamo fatto notare più sopra, sono peraltro inevitabili trattandosi, appunto, di dover discutere contemporaneamente su vari livelli che sono, di per se stessi, sì intraprendenti ma anche, spesso, inconciliabili con l'ottica ufficiale e ufficializzata del Potere nazista. Paradossale appare anche quest'altra successiva affermazione: "Conosco molto bene la storia del Cristianesimo a Roma, e ciò mi permette di giustificare la mia opinione. Sono convinto che gli imperatori romani, che hanno sterminato i primi cristiani, hanno agito esattamente come noi con i comunisti. A quell'epoca - egli prosegue - i cristiani erano la peggior feccia delle grandi città, i peggiori ebrei, i peggiori bolscevichi che vi possiate immaginare".
Appare del tutto scontato che, di questo passo e di conseguenza, la donna e il matrimonio non fossero, per essi, nient'altro che un "mezzo per sfuggire alla fornicazione", mentre i bambini non erano altro che un "male necessario". Una concezione davvero assai... aperta, cioè, nei riguardi della problematica sessuale, della mascolinizzazione o della femminilizzazione di cui lui stesso si lamenta e, infine, a proposito dell'etica riguardante gli aspetti più esistenziali del vivere. Le teorie di Himmler rimangono comunque, nella propria logica perversa, un caposaldo con la propria assurda, quanto stupida "concezione del mondo".
Si è ritenuto opportuno indugiare sul discorso di Himmler proprio perché in esso ci sembra sia contenuto il meglio della concezione nazista sul mondo e sul modo di governare e dirigere un popolo. In Himmler - che è, in effetti, una figura-prototipo del potere nazista- convergono e si assommano insieme tutte le degenerazioni, le incongruenze, le falsità, le ipocrisie e le ferocie che, con l'ignoranza, ne costituiscono l'ossatura portante. Il libro di Consoli - "Homocaust" - ci mette al corrente di questi piccoli-grandi fatti, che erano per cosi dire all'ordine del giorno, attraverso capitoli esaustivi ed inoppugnabili, tanto vengono a rivelarsi densi di documentazioni e di oculatezza critica anche nel porgere i fatti che sembrerebbero di minor rilievo.
La disamina di Massimo Consoli si basa, sostanzialmente, proprio sulla vastissima mole di documenti che egli si ritrova, disponibili fra le mani - Consoli , non si dimentichi, oltre ad essere giornalista e scrittore, ha organizzato il, più "esteso e prestigioso archivio di storia dell'omosessualità". La premessa, l'introduzione, la parte propriamente cronologica che permette di assimilare i singoli fatti con l'evolversi del potere nazista - "Adolf Hitler e il Terzo Reich" è, appunto, un ulteriore introduzione che precede la prima parte di "Homocaust" -, il concatenato succedersi dei successivi capitoli dimostrano la coordinazione di una struttura saggistica di tutto rispetto. Tesa a far parlare i fatti anche attraverso le cifre e le tabelle e, più in particolare, attraverso gli stessi personaggi che li costellano in qualità di protagonisti, maggiori o minori che siano, in una delle pagine più roventi della storia di tutti i tempi.
Massimo Consoli: "Homocaust", Ed. Kaos, Milano 1991, pp. 280
Per gentile segnalazione di Massimo Consoli (tratto da Jeronimus, Fuori del Sole Nero - Logos, N° 7, Maggio-Agosto 1996)
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Premessa: 6 aprile 2004, Il Washington Post riportava della completa rasa al suolo di un villaggio di zingari (Dom presumo) nell'Iraq meridionale, ad opera delle milizie sciite, dopo un intenso scontro a fuoco tra gli abitanti e la milizia stessa. Non si conosce la sorte e il numero dei superstiti. Sempre secondo l'articolo, Hamid Abed Zeid, uno dei comandanti della milizia, ha giustificato l'azione con queste parole: "Sappiamo cosa succedeva lì - attività illegali, droga, crimini, rapimenti. Queste sono attività contrarie agli insegnamenti islamici".
Foto e notizie su: Washington Post (ma il link non è più disponibile senza abbonamento) con le dovute precauzioni, visto il ruolo di occupanti degli statunitensi e i loro rapporti (allora) molto tesi con gli sciiti dell'Iraq del sud. Questa settimana Reuters e Washington Post sono ritornati su quelle storie (vedi sotto).
Qui invece un altro articolo del giugno 2005.
Per conoscere i Dom, diffusi in Medio Oriente e Africa Settentrionale
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By Deepa Babington
HADID, Iraq (Reuters) – Tra i tre milioni di Iracheni impoveriti, Jameel Mahmoud Hassan ha il non invidiabile titolo di essere tra il più povero di tutti.
Parte di un gruppo di Zingari iracheni che ha girato per anni nei fetidi terreni di un villaggio a nord di Baghdad, ha passato la sua vita nello squallore, e ora nella paura.
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La casa non è niente di più di una tenda che a fatica si tiene con i sui bastoni, e un tappeto strappato circondato da sacchetti di plastica, barattoli arrugginiti e bottiglie rotte.
Una pila di bombole di cherosene con del fango sulla parte superiore, serve da forno improvvisato. Le mosche turbinano dappertutto - sull'immondizia, sui bambini che ridono senza motivo, su un cane legato ad un albero.
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Dentro la tenda, sua moglie e cinque figli, i vestiti impastati dal fango, avvolti in una maglia e un tappeto. La lampada a cherosene è l'unica fonte di calore in questa gelida mattina invernale.
Patate, cocomeri e fagioli sono il piatto tipico a colazione, pranzo e cena. La carne è un lusso che appare forse ogni due settimane.
Recentemente, la milizia si è presentata da Hassan per obbligarlo a sgomberare.
“Non abbiamo niente” dice. “Siamo poveri. Cerchiamo solo un posto sicuro per nasconderci”
Disprezzati dai religiosi musulmani e a fatica tollerati dal resto della società, gli Zingari iracheni vivono un'esistenza precaria. Mancando di istruzione e professionalità, formano il gradino più basso del sistema sociale.
Ancora, gli Zingari del villaggio di Hadid, vicino a Baquba (65 km, a nordest di Baghdad), possono essere tra i più fortunati in Iraq. Le altre tribù sono state cacciate e attaccate dalle rampanti milizie islamiche, che li vedono come una macchia sulla società.
Sotto Saddam Hussein, gli Zingari erano al sicuro dalle persecuzioni – favore che ricambiavano occupandosi di danza, alcool e prostituzione, dicono gli Iracheni. La loro sicurezza scomparve con la destituzione di Hussein, lasciando aperta la porta alle milizie religiose.
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ZINGARI IRACHENI — Una famiglia condivide un modesto pasto nella tenda che serve loro da casa nella città di Diwaniya, nell'Iraq Meridionale [...]
To match feature IRAQ-GYPSIES. REUTERS/Imad Al-Khozai/Files (SIN25D)
Photo shot: 1/04/2006 5:10 AM Photo arrived: 1/04/2006 12:13 AM
immagine dal Washington Post
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VILLAGGI ATTACCATI
Una tribù di circa 250 famiglie zingare che viveva in un villaggio vicino alla meridionale città di Diwaniya fu tra quanti scoprirono sulla propria pelle la furia dei gruppi religiosi.
Il capodanno dell'anno scorso colpi di mortaio caddero sulle capanne di fango e canne, uccidendo una donna e ferendone altre tre.
Convinti di essere stati attaccati dal potente esercito di Moqtada al-Sadr, abbandonarono il villaggio, senza chiedere aiuto ai leaders religiosi. In seguito la più alta autorità sciita in Iraq, il Grande Ayatollah Ali al-Sistani, promise loro che non sarebbero più stati molestati. Fecero ritorno al villaggio, che nel frattempo era stato saccheggiato.
La scuola elementare e la clinica costruite dal governo di Saddam erano state rese inagibili, le loro case danneggiate. La povertà che credevano di essersi lasciati alle spalle era tornata.
“[Gli esponenti dei] partiti religiosi ci hanno torturato,” racconta Bizai al- Baroodi, lo sceicco della tribù. “Avevamo raggiunto un livello decente di vita, ma dopo gli ultimi attacchi, ci siamo ritrovati al punto di partenza.”
La paura di quella notte attanaglia ancora Maiyada al-Tamimi, una Zingara di 20 anni. Un colpo di mortaio colpì la sua casa, uccidendole la madre e fratturandole il braccio, che dice dev'essere ancora curato. Dice: “Se avessi un lavoro pulito e onesto, non esiterei a lasciare questa tomba e vivere come qualsiasi altra ragazza della mia età”.
Come molti Zingari iracheni, molti della sua tribù sono arrabbiati per essere costretti a vivere come fuggiaschi nella loro stessa terra. Dicono che le loro radici si trovano in Spagna e fecero dell'Iraq la loro patria oltre 150 anni fa. Molti sono originari dell'India, altri arrivano da altri paesi del Medio Oriente.
Anche se parlano arabo e si professano islamici, le loro facce più scure ed affilate le tradiscono e ne fanno oggetto di persecuzione razziale:
“Siamo musulmani ed esseri umani, cittadini iracheni,” dice al-Baroodi. “Vogliamo soltanto vivere in pace”. © Reuters 2006. All Rights Reserved.
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Di Sucar Drom (del 07/01/2006 @ 19:00:48, in casa, visitato 1747 volte)
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Oggi in Italia i Sinti e i Rom, denominati zingari e nomadi in maniera dispregiativa ed etnocentrica, sono ancora oggetto di discriminazione, emarginazione e di segregazione. La discriminazione è estesa a tutti i campi, nel pubblico e nel privato, pertanto l’emarginazione e la segregazione economica e sociale dei Sinti e dei Rom si trasforma in discriminazione etnica. In Italia le molteplici C...
Roma
Press Agency
(lunghetto, da leggersi a puntate oppure offline. Chi
sopravvive alla lettura, lo aspetto ai commenti ndr.)
Il tradizionale modo di
vita dei Rom cancella il confine tra vita privata e pubblica
by: Kristína
Magdolenová
Intervista con Anina
Botošová, consulente del Ministero del Lavoro,
Affari Sociali e Famiglia della Repubblica Slovacca e coordinatrice
per i progetti governativi sui Rom
Per la popolazione
maggioritaria i legami ed i rapporti in una famiglia tradizionale Rom
sono protetti da un velo di segretezza. Come sono in una famiglia
“classica” Rom?
Famiglia è
un termine ricco di significati. Rappresenta l'unità sociale
di base. Assicura l'educazione, protegge i singoli e ovviamente,
produce bambini. Non è possibile immaginare una famiglia rom
senza un gran numero di individui. E' un'unità singola nei
confronti del mondo circostante. Affronta collettivamente i
conflitti, le relazioni individuali diventano relazioni tra famiglie,
e ogni componente agisce sempre a nome della propria famiglia.
L'errore di un singolo è valutato come commesso da tutta la
famiglia. Un bambino ben educato mostra grande rispetto verso i
propri genitori, i nonni e i componenti più anziani, sino a
quando non sarà il tempo di sposarsi.
E poi?
Se la sposa entra nella famiglia di un giovane, dopo il matrimonio
accetta le tradizioni della famiglia che l'ha accolta. Se un uomo si
sposa in una nuova famiglia, mantiene i propri costumi e
occasionalmente li estende alla nuova famiglia. Se la nuova famiglia
non lo accetta, può lasciarla e tornare dai suoi genitori.
La posizione di madre
o di padre, comporta una responsabilità di come viene
percepita la famiglia nella società maggioritaria?
Capofamiglia
è il padre. La madre ha il compito di assicurare cibo alla
famiglia, ruolo verso cui i Rom esprimono grande rispetto. I nonni
sono tenuti in alto riguardo e rispettati, nella famiglia rom
tradizionale la loro parola è presa in seria considerazione e
rispettata. Grande attenzione viene dedicata al primogenito. La
maggioranza dei Rom non intende il matrimonio in una maniera
“formale” come la nostra. Se un ragazzo è attratto
da una ragazza e mostra serio interesse in lei, i due si promettono
fedeltà (si fidanzano). Iniziano a convivere di solito verso i
sedici anni. La madre del ragazzo ha un proprio ruolo nel selezionare
la futura sposa. Se questa non dovesse aggradarle, il futuro della
giovane coppia verrebbe messo in discussione dal fatto che il giovane
si mostrerebbe incerto nel suo proprio amore. Tenderebbe a rendere
gradevole la sua amata alla madre e viceversa a spiegare alla
fidanzata come rendersi piacevole alla genitrice, così che sua
madre cambi opinione. Può così succedere che la madre
concordi col figlio e lo rende soddisfatto e felice. ( sui vari
usi e costumi, cfr. QUI
ndr.)
Può portare degli
esempi?
Conosco
diversi casi: ad esempio, un giovane si era fidanzato con una ragazza
di un diverso gruppo familiare, che parlava un'altra lingua. Nella
famiglia del giovane si parlava ungherese e a casa della ragazza solo
slovacco. La madre del giovane non volle conoscere la ragazza e non
era d'accordo con la scelta del figlio. Così la coppia di
separò. Nella famiglia tradizionale il figlio dipende
dall'opinione della madre.
Oggi è cambiato
qualcosa?
I giovani
sono di opinioni più aperte, hanno tralasciato alcune
tradizioni, ma ancora i ragazzi attendono il parere della madre,
prima di decidere come comportarsi con una ragazza.
Il fatto che la famiglia
abbia una grande influenza tra i Rom è ben noto. Nella
pratica, questo cosa comporta?
La
famiglia assicura il suo stesso rinnovamento, la crescita dei bambini
e soprattutto la protezione dei singoli. Tra i Rom hanno grande
importanza le origini del proprio padre o della madre. Se incontrano
qualche Rom che non conoscono, si presentano così: sono
figlio/a di ... Mio zio/mia zia è ... Nel contempo, si
presentano attraverso il più noto o il più anziano dei
parenti, per esempio: Mi chiamo Jozef Horváth, sono figlio di
Horváth il fabbro (o il musicista) più conosciuto del
villaggio. Nel contempo, la famiglia si distingue per dimensioni e
abitudini.
Una
famiglia rom comprende una vasta comunità di due o tre
generazioni. Ogni famiglia conta diversi membri. A queste famiglie
estese appartengono anche quelle donne che hanno preso marito da un
altro gruppo familiare o quelle che hanno sposato gli uomini di
famiglia. Nel dispiegarsi della famiglia estesa sono inclusi:
fratelli/sorelle, cognati/e, cugini/e, anche quando tra loro non ci
sono legami di sangue.
Tutto ciò, come
viene mostrato nella vita di tutti i giorni?
Ad
esempio, facendosi visita senza bisogno di annunciarsi, viaggiare da
una città all'altra per mantenere i rapporti familiari, anche
se si tratta di famiglie distanti ma forse meglio situate. I Rom non
hanno problemi nello spostarsi verso famiglia all'estero, e
trattenersi presso di loro per lunghi periodi di tempo. La famiglia
che li ospita non li allontanerà e viceversa provvederà
a tutto – dormire, mangiare. I non-Rom vedono in questo
fenomeno una sorta di congiura o paura: che nuovi Rom si spostino nei
loro dintorni, senza che gli stanziali conoscano il numero dei
potenziali ospiti e i loro costumi, e questo amplifica gli stereotipi
negativi.
Nelle tradizioni delle
famiglie rom, specialmente nelle comunità chiuse, c'è
l'uso di non bussare mai alla porta quando si va in casa di qualcun
altro. Questa tradizione sopravvive anche nelle comunità non
segregate?
Un altro
esempio: io vivo nella parte Petržalka di Bratislava, e sopra il mio
appartamento vivono due famiglie estese di Rom, che sino a poco tempo
fa non avevano una porta. Passavano da un appartamento all'altro,
come se fosse casa propria. Il sentire le proprietà della
famiglia come se fossero anche personali, rimane anche nelle famiglie
che non per forza sono socialmente dipendenti. Succede che chiedano
in prestito abiti ma anche soldi, che per la maggior parte non
torneranno ai proprietari originali. Una famiglia può offrire
consulenza o aiuto manuale tramite un proprio componente anziano, che
in seguito passerà il compito a un membro più giovane.
Le tradizioni delle
famiglie rom sono coesive?
La
solidarietà sociale unisce tutti i membri di una famiglia.
Scapoli e nubili restano con i genitori. Gli orfani e gli anziani, o
gli ammalati, sono curati con grande amore e rispetto. Raramente si
trova un anziano in case di riposo. Un ammalato non è mai da
solo. Quando è ospedalizzato, i suoi famigliari, o la moglie
se è il marito ricoverato, rimangono a vegliare il malato
tutto notte. Da casa gli portano cibi già cucinati e restano
con lui appena c'è un minuto libero. Ogni singolo ammalato di
una famiglia ligia alla tradizione, non viene mai lasciato solo, che
sia solo o in ospedale, persino sul letto di morte. Porto due esempi
di vita vera: Una riguarda direttamente la mia famiglia. Il mio caro
padre si ammalò d'improvviso. Le sue condizioni erano così
preoccupanti, che dovette essere ricoverato in ospedale.. Da quando
si ammalò sino al giorno del suo ritorno a casa dall'ospedale,
tutta la nostra famiglia ha vissuto con lui, letteralmente
traslocando in ospedale... col permesso del direttore. Nostra madre
rimase con lui per tutto il tempo della malattia, noi bambini ci
alternavamo al suo capezzale dandoci i turni di notte e di giorno. Il
sentire che una persona dipenda dalla vicinanza dei suoi cari se
vuole guarire, per noi, per la famiglia, fu così forte che
oggi mio padre è curato a casa propria. Ancora oggi sono
convinta che se, per caso, fosse stato un estraneo l'incaricato di
lavarlo all'ospedale, sarebbe morto. Abbiamo questo sentire che la
famiglia sia un nucleo vicino nel buono e nel cattivo tempo, un
grande regalo, una filosofia che ci è instillata dala tenera
età e che noi instilleremo ai nostri figli.
Ritengo che queste
osservazioni possano generare incomprensioni tra Rom e non-Rom.
Il
prossimo esempio arriva da un insediamento. Una volta, il direttore
di una scuola nella Slovacchia orientale si era lamentato di quattro
studenti che non andavano più a scuola, anche se sapeva che
non erano ammalati. Quello che ignorava, è che la loro nonna
giaceva a letto in punto di morte, dove era riunita tutta la
famiglia. Nelle famiglie tradizionali, questo passaggio non avviene
in ospedale, il malato viene riportato a casa sino alla fine. Una
persona gravemente ammalata, ma con la propria famiglia vicina, non
lascia questo mondo da sola. L'insegnante avrebbe dovuto saperlo e
rispettare questa tradizione, questo sentimento. La stessa cura viene
riservata dopo morti. Tutta la famiglia, inclusi i più
piccoli, veglieranno il morto per un certo numero di giorni. La
famiglia definisce norme e ruoli, ne controlla l'applicazione e ne
“sanziona” le violazioni. Il modo di vita comunitario
cancella i confini tra vita pubblica e privata.
Questa divisione dei
compiti è tuttora valida? In quale maniera influenza lo stato
attuale della comunità rom?
Nella
famiglia rom sussiste una netta divisione dei compiti e delle
competenze all'interno della famiglia, ma i ruoli tradizionali
maschili e femminili tendono a complementarsi. Ogni membro ha il suo
posto. L'uomo rimane il capofamiglia e il depositario del suo
prestigio. La donna rimane la responsabile della casa e si occupa
dell'amministrazione monetaria e sociale. La sua missione primaria
rimane, comunque, crescere i figli, soprattutto la cura del
primogenito. La madre deve anche insegnare ai bambini più
grandi come accudire ai più piccoli. Nella famiglia
tradizionale, i maschi non apprendono come cucinare, stirare o
lavare. Queste restano attività femminili.
Un esempio
di vita vera: una mia cara amica si ammalò e finì
all'ospedale. A casa rimasero la figlioletta di 4 anni e il marito
educato secondo tradizione. Suo marito mi chiamò perché
non sapeva cucinare e voleva sapere cosa fare nell'attesa che sua
moglie tornasse dall'ospedale... Dovetti recarmi a casa loro e
cucinare per due giorni. Lui sul serio non sapeva neanche dove e come
sua moglie si procurasse patate, cipolle, farina o dove fossero le
stoviglie... Il tradizionale ruolo maschile presso alcune famiglie
tradizionali perdura tuttora.
Come reagisce la famiglia
ai problemi?
Verso
l'ambiente circostante la famiglia agisce come un corpo unico.
Sopravvive collettivamente ai conflitti. [...] La valutazione
negativa di uno dei componenti ricade su tutta la famiglia. Un atto
degno di rispetto rafforza e afferma il prestigio della famiglia. La
punizione più terribile è l'esclusione dalla vita
famigliare. Un fenomeno interessante è che non ha importanza
se un individuo viene elogiato come singolo, e questo potrebbe avere
conseguenze realmente negative per quell'individuo.
Nel passato le famiglie
rom dipendevano dal numero dei figli. Più figli aveva, più
era degna. Anche oggi è così?
Ancora
oggi i bambini sono benvenuti, significano felicità, ma anche
forza per la famiglia. Nel contempo, il ruolo primario dei figli è
di prendersi cura dei genitori quando saranno vecchi. Molte famiglie
crescono i figli collettivamente. I bambini vivono con tre e più
generazioni di adulti. Il mondo dei bambini si mischia con quello
degli adulti. Così i bambini ottengono molto presto un ruolo
indipendente individuale all'interno della famiglia, capaci di agire
per conto loro. I bambini sono incoraggiati a sviluppare differenti
attività, che sono di solito riservate ragazzi più
grandi. Nel lavoro i maschi aiutano il padre e le femmine la madre. I
figli sono controllati in gruppo e raramente sono puniti. Di solito i
genitori si dedicano al primogenito, che in seguito si prenderà
conto dei fratelli e sorelle più giovani.
I Rom sono molto
focalizzati sui propri genitori, ma questo rende difficile promuovere
novità all'interno della comunità.
Soprattutto
i bambini che vivono negli insediamenti o nelle famiglie
tradizionali, sono legati ai genitori e difficilmente se ne
allontanerebbero. Così, man mano gli insediamenti tendono ad
aumentare come abitanti, perché le nuove coppie rimangono con
la famiglia paterna di origine. Raramente un ragazzo si abituerà
allo stile di vita di un dormitorio. Piuttosto, un giovane che si è
sposato, se sua madre è rimasta sola, la porterà con sé
nella nuova famiglia. Questo legame è ancora più forte
nel caso dei primogeniti.. I Rom non sanno vivere da soli.
Quindi, che ne è
della privacy dei più giovani?
Per loro è
già tanto avere una stanza da letto propria. Ancora un
esempio: un giovane Rom ungherese si era sposato con una ragazza che
abitava distante da lui. Non aveva esitato a vendere il suo
appartamento e spostarsi di alcune centinaia di chilometri, assieme
alla madre e alla sorella, nella città della fidanzata. Alla
mia domanda se non avesse paura di non trovare posto anche per loro
nella nuova città, mi aveva risposto che la sua famiglia e
quella della moglie sarebbero state una sola. Non poteva lasciare i
suoi parenti di origine indifesi, quindi la soluzione era di
diventare il nuovo capofamiglia del gruppo composto da lui, sua
moglie, sua madre, sua sorella e la madre di lei, e di provvedere a
tutte loro.
Resiste nei giovani
l'obbedienza alle scelte dei genitori, nel scegliere il proprio
partner?
Succede
spesso che i genitori scelgano il fidanzato/a quando i giovani sono
già adulti. Magari non si amano, ma per il bene della famiglia
impareranno a farlo. Anche una ragazza, di solito viene “promessa”
al termine della scuola dell'obbligo, quando ha circa 15 anni. In
molti casi, il ragazzo proviene da una brava famiglia. [...] La
ragazza ha piacere del proprio ruolo di donna – di madre. [...]
E' la sua vocazione. I bambini nelle famiglie tradizionali sono
cresciuti secondo concetti estremamente puritani. [...] Le questioni
private non vengono mai discusse di fronte agli estranei. [...] Sono
poche le ragazze di queste comunità che anno l'ambizione di
continuare gli studi. Vivono la stessa vita delle loro madri e delle
loro nonne.
Sono i legami familiari a
tenere i giovani lontano dalla scuola?
E' raro che questi giovani continuino gli studi, anche quelli che
nella scuola dell'obbligo sono stati bravi studenti. Le cause sono
diverse, ma visto l'argomento mi riferirò ancora alle
questioni di mentalità, più che ai problemi oggettivi.
I Rom hanno sempre paura per i loro bambini e i legami tra genitori e
figli sono molto forti. Succede che al termine della scuola
dell'obbligo, se i figli vogliono continuare gli studi debbano
spostarsi in un'altra città, e qui subentra la paura dei
genitori, che i figli non si adeguino al nuovo ambiente o viceversa
che vi si adeguino troppo, perdendo le loro radici. I messaggi che
passano di solito sono: se sei una ragazza, sposati, trova un marito
che si curerà di te; se sei un ragazzo, la scuola non serve,
il mondo è pieno di gente che non ha lavoro anche se ha
studiato. Ancora oggi in molte famiglie la situazione è
simile.
Cosa succede quando i
giovani violano le tradizioni?
Un altro esempio: una ragazza, che viveva in un insediamento rom,
voleva continuare gli studi e lo fece. Ma oggi è ancora
single, i suoi coetanei della comunità non la accettano come
ragazza istruita e i ragazzi non-Rom non la accettano come ragazza
rom. Non ha trovato comprensione neanche dalla sua famiglia, questo
perché sono ancora forti i legami tradizionali che impongono
il riconoscimento sociale come collettivo, invece che come
individuale. Avendo rotto un tabù, la ragazza si è
trovata senza riconoscimento o comprensione.
A che età una
ragazza viene considerata donna?
A una ragazza “immatura” viene concesso di giocare coi
ragazzi. Ma dopo il suo primo periodo, può girare soltanto se
accompagnata da un adulto singolo. Viene considerata donna nel
momento che inizia a vivere intimamente con un ragazzo. Da quel
momento, è per tutti la donna del ragazzo a cui ha deciso di
donare il proprio cuore. La ragazza ha imparato a casa i mestieri
domestici, sin dalla tenera età si è cimentata con
occupazione che generalmente vengono demandate agli adulti (lavare,
cucinare, stirare). Poche ragazze scampano da questo tirocinio.
Quando andrà a vivere nella casa dello sposo, sua suocera
diventa una seconda madre, a cui deve obbedire senza condizioni. Se
dovesse ribellarsi, suo marito non starebbe più con lei. Una
brava suocera insegna alla sposa novella le abitudini della nuova
famiglia e soprattutto le ricette che sono gradite a suo marito.
Quando è incinta,
la donna ha una condizione speciale in tutte le culture. Anche tra i
Rom?
Una donna
che aspetta un figlio, naviga tra differenti regole e restrizioni.
Non le è permesso di guardare persone brutte, malate,
serpenti, rane o qualsiasi animale che generi disgusto. Né
essere triste o arrabbiata. Ma ha anche determinati privilegi: ad
esempio avere il cibo che vuole e di avere sempre compagnia.
Anche tra
i Rom, si vuole che il primogenito sia maschio. Quando una donna è
incinta, deve comunicarlo per primo al suo partner o a suo marito. Se
lo dicesse prima a qualcun altro, sarebbe accusata di essere
infedele. La madre spera che il figlio assomigli al partner, che
abbia capelli neri e sia di pelle “bianca”: secondo i
Rom, chi ha la pelle chiara avrà una vita migliore.
Cioè?
Un altro
esempio: la donna annuncia a suo marito con gioia che è nato
loro figlio e che è di pelle chiara. Anche nei discorsi di
tutti i giorni: Ho una sorella, sapessi com'è bianca la sua
pelle, soltanto io in famiglia sono così scuro. E' uno stigma
che i Rom non hanno ancora perso. Il sesso del nascituro viene
interpretato dalla forma della pancia: se a punta, sarà
maschio, se tonda, femmina. Il neonato viene mostrato per primo al
marito. La nascita viene accompagnato da una grande celebrazione. La
donna non accetta le felicitazioni, l'uomo sì. [...]
Come vengono protetti i
bambini che non sono stati ancora battezzati?
Per
prevenire i pericoli, un componente della famiglia fissa un oggetto
acuminato sotto la coperta. Gli estranei non possono guardare il
bambino che non è stato battezzato. Il bambino ha un nastro
rosso al polso per proteggerlo dagli spiriti malvagi.
Tra i Rom i figli
sono considerati portatori di benessere. E se una donna non ha figli?
Di solito,
non si sposa e si prende cura dei genitori o dei singoli che non si
sono ancora fatti una famiglia. Una donna infertile, non si considera
una persona a pieno titolo.
Mi è
successo, che una donna che viveva in un accampamento, mi disse che
voleva chiedere al suo uomo di lasciarla, perché lei si
sentiva come se fosse un uomo e non una donna, il cui ruolo è
fare figli. Non si sono più sposati.
Hai detto che nelle
famiglie rom tradizionali, vige una stretta divisione dei ruoli. Ma
che si vuole anche che il primogenito sia un maschio. Perché?
La nascita
di un maschio rafforza la linea famigliare. Il maschio rappresenta
all'esterno il padre, viene rispettato dalle sorelle anche se queste
sono più anziane devono ascoltarlo. Il figlio maschio può
ereditare la professione paterna., specialmente quando riguarda la
musica o attività artigianali, come il mestiere di fabbro o
muratore.
Vediamo di ricapitolare
sul ruolo femminile nella famiglia tradizionale:
Come ho
detto all'inizio, lo status della donna è partorire figli.
Nella famiglia, nessuno può prenderne il posto ed è per
questo che il suo posto nella società dei Rom è
importante e non rimpiazzabile. Se dovessimo indagare
sull'organizzazione profonda della struttura famigliare rom,
troveremmo che la donna viene educata a questo compito sin
dall'inizio. Si prende cura già dai 6/7 anni dei fratelli o
dei cugini più piccoli. Sono poche le ragazze che sperimentano
un'infanzia libera. Una ragazza passa automaticamente dall'infanzia
all'età adulta. A otto anni, sa cucinare, prendersi cura degli
altri ecc...
In una
comunità chiusa, la donna è anche un fattore motivante
della famiglia. Se all'esterno è l'uomo il capo della
famiglia, la donna si può considerare il collo che mantiene
sollevato il capo. Decide sulle finanze, sul matrimonio e il futuro
sentimentale dei figli, sulla loro educazione. Per questo è
molto stimata. Anche quando non può avere figli, è in
cima alla scala sociale. In questo caso è lei che si svaluta e
letteralmente chiede al suo uomo di non dormire assieme, perché
lui dormirebbe con un uomo e non come una donna, e lei non vuole. Le
bambine possono andare dove vogliono, giocare coi coetanei,
accompagnare loro madre nelle visite. Ma quando una ragazza ha avuto
il primo mestruo, non può più girare da sola e
dev'essere accompagnata da un componente della famiglia, anche se è
un pre-adolescente. E partecipare alle feste se in compagnia di un
fratello più grande. [...]
Quindi, non si può
dire che nella famiglia tradizionale rom ci sia consapevolezza che la
donna sia un partner uguale nel matrimonio.
Esatto. Le
donne non sanno che hanno il diritto di decidere se avere uno, due o
più figli. Nella maggior parte dei casi, il loro marito viene
scelto da qualcun altro. Quanto all'uguaglianza in famiglia, c'è
una mancanza di consapevolezza legale, che ha conseguenze nelle
sottomissione e anche nelle violenze famigliari. Le giovani, dopo la
scuola dell'obbligo, non proseguono gli studi. Si fidanzano e hanno
dei figli presto. Data la loro insufficiente preparazione scolastica
e professionale, appartengono a quei gruppi che hanno una posizione
debole nel mercato del lavoro. Ma la maggior parte di loro non è
interessata, perché sono state educate a prendersi cura della
famiglia come occupazione. Nella maggior parte dei casi, la
tradizione gioca un ruolo importante nella decisione del marito di
non concedere alla moglie il permesso di lavorare. La considera una
deprivazione della propria “mascolinità”, che si
basa sul fatto che lai da solo è in grado di provvedere al
bisogno familiare. Così queste donne vivono in attesa del
denaro dei servizi sociali senza affrontare le cause della loro
disoccupazione.
Una donna
Rom non conosce i suoi diritti. Si lamenta se un uomo la picchia o se
la inganna, perché così ha fatto sua madre. Se decide
di andarsene, non ha un posto dove finire, perché tutta la
famiglia vive nell'insediamento. A sua volta la società
maggioritaria non l'accetterà, perché ritiene che se
lei ha subito violenza, è un problema dei Rom che a loro non
deve riguardare.
Tutto ciò che
mi hai raccontato, si riferisce all'intera comunità rom o solo
ad una parte?
Tra i
gruppi più vulnerabili in Slovacchia, ci sono le donne Rom, in
particolare quante vivono nelle comunità chiuse, le cui norme
differiscono da quelle che predominano nella società
maggioritaria. Certamente, possiamo dire che si tratta di cittadini
che a lungo sono stati esclusi dalla società. L'uguaglianza in
famiglia in alcuni gruppi rom è contraria ai costumi e agli
stereotipi etnici e culturali. Lo status delle donne nelle famiglie
rom spesso porta all'accumulo di varie ragioni tanto per l'inclusione
sociale che per una discriminazione con tante facce. Ad esempio, il
fatto che la donna cresca molti figli, che non abbia istruzione e
neanche educazione sanitaria, tutto questo porta a rafforzare gli
stereotipi negativi nella società.
Una domanda necessaria
per concludere: come può cambiare questo stato di cose?
Sulla base
delle tante cose che ho menzionato, il ministro ha preparato un piano
di lavoro per quanti operano nelle comunità, e chi possa avere
ascolto nelle famiglie rom, così che possano prendere in seria
considerazione le norme e le tradizioni che i Rom si trasmettono da
una generazione con l'altra. Il nostro dipartimento ha proposto
misure che possano aiutare quei gruppi e le donne che già ora
richiedono aiuto, ma c'è bisogno di tempo e di comprensione da
parte di tutti. Soprattutto, dobbiamo educare le ragazze e le
donne rom alla consapevolezza dei propri diritti, doveri e
responsabilità verso la propria salute, a sostenere la
formazione di assistenti rom nelle aree della sensibilità
familiare [...]. Tutto questo necessita di tempo, ma soprattutto di
comprensione da parte della società maggioritaria, che deve
accettare questi cittadini come partner con pari valore e tutto il
rispetto che va riservato a ogni essere umano, anche se con
differenti tradizioni.
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Di Fabrizio (del 06/01/2006 @ 11:13:14, in Regole, visitato 1736 volte)
But baxt thai sastipén Romale! Mi dispiace che non c'é ancora la versione in italiano, ma per coloro che possono leggere in inglese o spagnolo, c'é un quadro sinottico nel quale si presentano le leggi culturali e sociali del popolo Rom, per conoscerle e confrontarle:
Di Fabrizio (del 06/01/2006 @ 10:34:19, in media, visitato 1749 volte)
Incredibile (almeno per i miei occhi) ma anche a Il Giornale riescono a parlare di periferie in termini non conflittuali. E sono persino capaci di scrivere articoli interessanti! Son così contento che lo ricopio per intero. Tutto il mondo è paese, anche se qui stiamo parlando di città. Vedi proiettate su uno schermo le immagini del Corviale, quartiere-serpentone romano lungo un chilometro, e non puoi non pensare al nostro Biscione, o alla diga di Begato. Inguardabili ammassi di cemento con dentro chissaquanta gente, generatori di miseria e delinquenza, pesantissima eredità del boom economico? O piuttosto centri di aggregazione, depositari di un patrimonio culturale «popolare» e, perché no, costruzioni addirittura belle? A dar voce alla seconda ipotesi sono diversi esponenti del mondo dell'architettura, specie in queste settimane, con la rivolta delle banlieues parigine che ha aperto più che mai il dibattito sulle condizioni di vita nelle periferie. A Genova c'è chi ha cavalcato l'onda e non si è lasciato scappare l'occasione di dar voce alle posizioni più scomode riguardo al problema. «Pensieri di Architettura» è un solerte gruppo di studenti genovesi che nei giorni scorsi ha invitato in facoltà a tenere una conferenza Osservatorio Nomade, un team di artisti visivi e architetti romani da sempre impegnato in prima linea nel recupero delle zone suburbane della Capitale. Con un comandamento preciso: non distruggere, ma correggere quel che c'è già. E non si parla solo di quartieri-mostro come il sopracitato Corviale, ma anche e soprattutto di campi nomadi. Gente in prima linea, quella di Osservatorio Nomade, che in pochi anni ha firmato una serie di progetti tra il bizzarro e il coraggioso per tentare un recupero del Corviale. I risultati sono stati presentati nel corso della conferenza ed è come minimo stimolante immaginarli applicati ai nostri «mostri» architettonici. Seguendo alla lettera l'assioma «ascoltare, prima di progettare», il team di artisti ha avuto l'idea di creare una piccola TV locale dedicata al quartiere, Corviale Network, con programmi d'inchiesta che vedono protagonisti gli stessi abitanti (sono circa seimila, ma è difficile fare una stima, vista la quantità di occupazioni abusive). «Era il miglior modo di instaurare un rapporto con la gente che popola Corviale e, allo stesso tempo, di capire i loro problemi ed esigenze», spiega Alexander Valentino, una delle menti del progetto. Da lì si è passati attraverso laboratori sonori e visivi di diverso tipo, che hanno coinvolto soprattutto i bambini delle scuole elementari del quartiere. «Ho frequentato scuole di periferia - è il racconto di Valentino - e vi assicuro che è un'esperienza che rifarei. La cultura che si respira in periferia è un vero e proprio patrimonio da salvaguardare». Infine, la progettazione vera, con l'ipotesi di costruzione di bar, negozi ed aree gioco negli spazi aperti interni all'edificio. C'è anche l'idea di un non meglio precisato «schermo per i messaggi testuali» e di una zona per i tappeti elastici, ma nel mestiere dell'architetto c'è sempre stata una componente di eccentricità.
E' finalmente attivo il sito di Romani
Linguistic Page, un progetto partito l'anno scorso tramite la
School of Languages, Linguistics and Cultures dell'Università
di Manchester.
Il sito fornisce una serie di strumenti interattivi per la
comprensione, lo studio e la trasmissione delle diverse evoluzioni
dei dialetti Romani dall'originale radice indiana. Molti riferimenti,
ovviamente, alle variazioni dell'Europa orientale, per la parte
occidentale del continente attualmente sono approfonditi gli sviluppi
del Kalé in Spagna, delle varianti dei Travellers britannici,
dei Sinti tedeschi e dei Tattare in Scandinavia. In Italia, con i
contributi – tra l'altro di Sergio Franzese e Giulio Soravia,
approfondimento sulla lingua dei Sinti piemontesi e dei Rom
abruzzesi.
fonte: Romano_Liloro
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