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Di Fabrizio (del 28/11/2013 @ 09:00:00, in Europa, visitato 2102 volte)

Sergio Bontempelli 25 novembre 2013 su Corriere delle migrazioni

Quella della "zingara rapitrice" è una falsa leggenda, ormai lo sanno (quasi) tutti. Ma pochi conoscono l'origine di questo mito, che risale all'età moderna e ha una lunga storia letteraria.

A volte i fatti di cronaca sono molto istruttivi. A volte, non sempre. Il 19 ottobre scorso, a Farsala in Grecia, i poliziotti trovano una bambina bionda in un insediamento rom. E siccome i rom - così pensano gli agenti - non possono essere biondi, la bambina sarà stata senz'altro rubata. Parte la caccia ai "veri" genitori, che vengono rintracciati nel giro di pochi giorni: si tratta di una coppia di rom bulgari, anche loro tutt'altro che biondi. La bambina non è stata rubata, ma ceduta dalla famiglia di origine, che non poteva mantenerla.
Due giorni dopo, la polizia irlandese ferma una coppia di rom a Dublino e trattiene la loro piccola figlia, anche lei "troppo bionda per essere zingara". Ma il caso si sgonfia subito: il test del Dna rivela che i due rom sono i genitori "naturali" della piccola.
Il 3 novembre, Il Messaggero riporta la notizia di una rom bulgara che avrebbe tentato di rapire un neonato a Roma. La presunta rapitrice verrebbe dai dintorni di Napoli, dal "campo nomadi di Striano". Bastano poche ore per capire che si tratta di una bufala: a seguito di una rapida verifica, l'Associazione 21 Luglio scopre che non esiste nessun "campo nomadi di Striano", mentre un articolo del giornale online Giornalettismo ridimensionava l'ipotesi del rapimento. La donna - che probabilmente non era rom - era in evidente stato confusionale, e la sua volontà di "sottrarre" il bambino è tutta da verificare.

I rom non rubano i bambini...
Tre episodi di rapimento, rivelatesi tre colossali bufale. Ancora una volta, la storia degli "zingari" che portano via i bambini si rivela per quello che è: una leggenda metropolitana.
Del resto, che i rom non rubino i neonati lo sanno tutti. O, almeno, tutte le persone serie e minimamente informate. Anche perché sul tema si è accumulata una corposa letteratura: dossier, reportage, rilevazioni statistiche, studi e ricerche sistematiche.
Ci sono per esempio i dati della Polizia di Stato sui minori scomparsi. In nessun caso si parla di bambini o adolescenti ritrovati presso famiglie rom o in "campi nomadi" (si veda qui, e per dati aggiornati al 2013 qui).
Poi ci sono inchieste giornalistiche ben fatte, reperibili anche in rete: come quella realizzata nel 2007 da Carmilla Online, dove si dimostrava che i numerosi episodi di presunto rapimento di minori erano delle bufale belle e buone. O come quella, più recente, di Elena Tebano per il Corriere, che arriva alle stesse conclusioni.
Infine, c'è la ricerca dell'antropologa fiorentina Sabrina Tosi Cambini, che ha analizzato tutti i casi di presunti rapimenti, seguendo sia le notizie diffuse dalla stampa che i verbali dei processi nelle aule di Tribunale. L'esito di questa meticolosa indagine è sempre il solito: nessuna donna rom ha mai rapito nessun bambino.

Le origini della leggenda: un mito letterario
Ma allora da dove nasce la bufala dei rom che portano via i bambini? Pochi sanno che si tratta di una storia vecchia di qualche secolo, e che può vantare un'origine "colta", addirittura letteraria: i primi a parlare di "zingare rapitrici" sono stati infatti i commediografi italiani e spagnoli del Cinque-Seicento. Nell'arco di qualche decennio, la trama delle loro opere è diventata leggenda di senso comune: la finzione, potremmo dire, si è fatta realtà (o, per meglio dire, il racconto è divenuto cronaca e falsa notizia). Ma andiamo con ordine.
Tutto comincia nel 1544 a Venezia. Il luogo non è casuale, perché proprio in quegli anni la Serenissima avvia una dura politica di espulsioni, bandi e atti repressivi contro gli "zingari". Mentre la gloriosa Repubblica si industria ad allontanare i rom, i veneziani frequentano il teatro, luogo di svago e di vita mondana: e come in un gioco di specchi, gli "zingari" cacciati dalla città fanno capolino sul palco.
Nel 1544 viene messa in scena La Zingana, una commedia di un certo Gigio Artemio Giancarli. Qui si racconta di una giovane rom che sottrae dalla culla un bambino, sostituendolo col proprio figlio: per quanto se ne sa, si tratta della prima traccia del mito della "zingara rapitrice". Il successo della commedia oltrepassa i confini della Repubblica: nel giro di pochi anni un drammaturgo spagnolo, Lope de Rueda, scrive la Medora, che è nient'altro che una traduzione e un adattamento della Zingana di Giancarli. E attraverso Lope de Rueda, la leggenda della "zingara rapitrice" arriva a Cervantes (l'autore del Don Chisciotte), che ne fa l'oggetto di una delle sue "Novelle esemplari", La Gitanilla.

Da opera letteraria a leggenda metropolitana
Insomma, la storia della "zingara rapitrice" nasce come trama di commedie, novelle e opere teatrali. Poi, nel giro di pochi decenni, oltrepassa l'ambito letterario: a Milano, agli inizi del Seicento, Federico Borromeo accusa i "cingari" di rapire i bambini cristiani, mentre in Spagna Juan de Quiñones, nel 1631, formula un'accusa simile in un virulento pamphlet che invoca l'espulsione dei "gitani". I giochi sono fatti: la trama romanzesca si è trasformata in accusa reale, leggenda metropolitana e falsa notizia.
A cosa si deve questa metamorfosi? Sul punto, le ricerche storiche sono ancora agli inizi, e risposte sicure non esistono. Si possono però formulare alcune ipotesi. E, come punto di partenza, occorre ricordare che i rom non erano gli unici destinatari di questa infamante accusa: altri gruppi sociali, altre minoranze erano sospettate - negli stessi anni - di "rubare i bambini".
C'erano per esempio gli ebrei, già allora discriminati e vittime di persecuzioni (perché l'antisemitismo, è bene ricordarlo, non nasce nel Novecento). Dei "giudei" si diceva sin dal medioevo che rapivano i piccoli cristiani per cibarsi del loro sangue a scopo rituale. Ovviamente non era vero, ma intere comunità ebraiche furono vittime di aggressioni, stragi, processi o condanne a morte.
Poi c'erano i vagabondi e i mendicanti, accusati spesso di rapire i bambini per portarli a chiedere l'elemosina. Piero Camporesi, storico e antropologo, racconta ad esempio la vicenda del "ritrovamento fortunoso da parte di una madre della figlia, rapitale due anni prima, mentre chiedeva l'elemosina in compagnia del suo rapitore davanti alle porte del santuario di Assisi; non solo rapita, ma resa ad arte macilenta e ulcerata sulle spalle per impietosire i fedeli".
Infine, il fenomeno dei rapimenti era diffuso nella pirateria barbaresca: corsari, avventurieri e pirati musulmani solcavano il Mediterraneo, e per guadagnare qualche soldo rapivano uomini, donne e bambini, chiedendo poi un riscatto per la loro liberazione.

Zingari, ebrei, mori, vagabondi
Ebrei, "mori" e vagabondi erano insomma protagonisti di episodi - veri, o più spesso presunti - di sottrazione di minori. Naturalmente, per capire quanto queste figure abbiano influito sull'immagine dei rom occorrerebbe compiere ricerche specifiche. Ma alcuni indizi ci segnalano che, nell'immaginario della prima età moderna, questi gruppi erano spesso confusi, o almeno accostati per similitudine.
La "zingana" della commedia del Giancarli, per esempio, parla un dialetto arabo: all'epoca si pensava che i rom fossero "egiziani", cioè arabi, mentre la teoria dell'origine indiana si diffuse solo qualche secolo dopo. Lutero, dal canto suo, affermava che il "gergo" dei mendicanti (una specie di lingua segreta diffusa nei "bassifondi" della società) aveva origini ebraiche. Dei vagabondi si diceva che erano discendenti di Caino - e per questo condannati a vagare - mentre per gli "zingari" si ipotizzava una provenienza dalla figura biblica di Cam: ma nei testi dell'epoca Cam e Caino erano spesso confusi, e i rom erano trattati come semplici vagabondi.
Insomma, è come se il mito della "zingara rapitrice" fosse nato per una sorta di "osmosi" con analoghe leggende già diffuse a proposito di altri gruppi. Per dirla in altri termini, è come se lo stereotipo degli "zingari" avesse condensato, e mescolato, le caratteristiche proprie dei "marginali": erranti come gli ebrei e i vagabondi, estranei e nemici come i "mori" musulmani.

Quando gli zingari eravamo noi
Nato in età moderna, il mito dei rom rapitori di bambini ha dimostrato una sorprendente longevità: ha attraversato i secoli, arrivando pressoché intatto fino ai nostri giorni. I titoli allarmistici dei giornali delle ultime settimane, i resoconti dei fatti di Farsala e di Dublino, sembrano riecheggiare le inquietudini dei commediografi veneziani del Cinquecento.
È difficile comprendere le ragioni di questa "longevità". Certo è che il tema del "rapimento di bambini" è assai diffuso nel tempo e nello spazio: molti gruppi minoritari, molte comunità marginali e discriminate hanno prima o poi dovuto difendersi da questa infamante accusa, o da altre simili.
È capitato anche ai migranti italiani, nei decenni centrali dell'Ottocento. Dai villaggi rurali del Sud e dalle regioni appenniniche del centro-nord, intere famiglie contadine praticavano all'epoca forme di mobilità stagionale, legate ai mestieri girovaghi di musicante e suonatore. Nel XIX secolo, l'arpa dei "viggianesi" (Viggiano è un paese della Basilicata) e l'organetto dei liguri avevano risuonato nelle strade delle città europee, richiamando l'attenzione dei passanti su queste strane figure di musicisti straccioni.
I bambini che suonavano l'organetto in mezzo alla strada, si diceva, erano stati "venduti" dalle famiglie di origine a trafficanti senza scrupoli. Non erano proprio bambini rapiti, ma quasi: perché i loro genitori, poverissimi, erano spesso costretti a venderli per racimolare qualche soldo. "Il costume di mendicare di città in città col mezzo di fanciulli", scriveva la Società Italiana di Beneficenza di Parigi nel 1868, "ha dato origine ad un traffico che si pratica sotto gli occhi e colla tolleranza delle autorità": una frase che riecheggia i peggiori stereotipi sugli "zingari".
Traffico di bambini, mendicità aggressiva, offesa al decoro, furti e criminalità di strada furono i principali capi d'accusa contestati agli emigranti. E, come i rom di oggi, gli italiani di ieri subirono processi, espulsioni, condanne. Subirono, soprattutto, una degradazione della loro immagine pubblica: chi incontrava un italiano metteva mano al portafogli, per paura di subire dei furti. E nascondeva il proprio bambino.

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Di Fabrizio (del 29/11/2013 @ 09:09:43, in Italia, visitato 2116 volte)

Spett. ex vicesindaco di Milano per una vita, per una volta i ladri non sono quelli che tutti immaginano. Quella che segue non è una storia facile.

Ci eravamo lasciati un paio di anni fa, con 500 sgomberi e passa sul gobbo. Cioè, sempre le stesse persone che venivano sgomberate e continuavano a girare lì attorno.

Era un gioco a rimpiattino, tu, polizia municipale e le ruspe da una parte, 2/300 rom con i carrelli della spesa dall'altra parte. E noi, buonisti nostro malgrado, a ripeterti: "Guarda che questi pezzenti conoscono il gioco meglio di te, non li caccerai mai!" Lo avessimo detto a un pirla qualunque, magari ci avrebbe dato retta, ma tu eri "l'eterno vicesindaco" (lei non sa chi sono me, signor cittadino) e te ne facesti un punto d'onore: continuasti anche quando era chiaro a tutti (anche a te, non negarlo) che non avresti tirato un ragno fuori dal buco. Perché:

  1. alternative non eri capace di trovarle da solo;
  2. pensavi che, in quanto vicesindaco e pure di destra, tu dovessi aver ragione "a prescindere", anche al di là dei fatti.

E' finita che le elezioni le hai perse tu, mica noi. E poi, dopo due anni, le stiamo perdendo anche noi, buonisti nostro malgrado.

    (E qua le cose si complicano: perché tra persone civili è sempre un casino stabilire chi perda le elezioni e perché. Occorre tornare a quella fine maggio del 2011)

MAGGIO 2011: Certo, il vento arancione, la sconfitta della destra, gli scandali (ricordate la casa di Batman?) grandi e piccoli... Sul fronte degli sgomberi, la gente (quella che vota) dopo anni di "cattivismo", aveva votato contro l'allora maggioranza perché da un lato s'era resa conto di quanti soldi andassero spesi in continui sgomberi senza risultati, in secondo luogo perché cominciava a intuire che, in fin dei conti, anche gli sgomberati fossero persone, bambini, anziani, malati... come tutti, e con gli stessi diritti di tante altre persone. Anche criminali? C'erano anche quelli, ma a furia di essere trattati tutti come CRIMINALI, a furia di essere trattati come pacchi postali, non c'erano altre prospettive che diventarlo.

Noi, buonisti nostro malgrado, ripartimmo da lì. Mi ricordo quello che ci raccontava una delle "madri e maestre di Rubattino":

    "Non facemmo niente di speciale, se non quello che ritenevano giusto. A volte eravamo da sole, più spesso c'era gente sconosciuta che ci chiamava, ci offriva aiuto e solidarietà. Perché quello che accadeva ai compagni di scuola dei nostri figli e dei nostri alunni era qualcosa che ci faceva vergognare come cittadine. Fu un momento di uscita da un ghetto mentale in cui si era noi da una parte e i rom dall'altra. Ci fu chi fece cose simili in passato, questa volta fummo in tanti, senza essere un movimento, senza altra identità che quella di cittadini e cittadine di Milano."

Nel frattempo, cosa combinava la macchina comunale, quelle stesse persone con cui si era affrontato la campagna elettorale spalla a spalla? Sgomberi ce ne sono stati ancora (in tutto questo tempo) ma si è trattato di una specie di "terapia a scalare": quello che prima veniva sbandierato ora avveniva col maggior silenzio possibile; di sicuro non sono stati 500, le famiglie non corrono più il rischio di essere divise, la polizia fa meno mostra di testosterone... a cinque mesi dall'insediamento della nuova giunta mantenevo tutta una serie di dubbi e insoddisfazioni. Dopo oltre due anni momenti critici continuano.

    (Il discorso va complicandosi ancora, abbiate pazienza)

Andando per punti:

  • Restando alla faccenda "sgomberi": non sono un tabù, ci sono dei casi in cui vanno effettuati. Ricordava Ernesto Rossi nel suo recente intervento che devono essere una misura da prendere quando non ci sono alternative, e quindi dev'esserci un adeguato preavviso, assistenza, una destinazione alternativa garantita. Non si tratta soltanto di trattati internazionali che l'Italia ha sottoscritto (e che ci indignano se è uno stato estero a non rispettarli), ma il nodo POLITICO è la gestione: lo sgombero deve presupporre determinate garanzie date da una trattativa con i soggetti coinvolti, altrimenti è solo una misura discrezionale del governante, buono o cattivo che sia.
  • Quindi le politiche, anche quelle repressive, devono presupporre interlocuzione: con i cittadini, con le loro associazioni, con i rom stessi. Questo è mancato assolutamente con l'amministrazione passata, con quella attuale, dopo un primo periodo di incomprensioni reciproche, il dialogo è stato una costante doccia scozzese. Da un lato si è certamente allargato il ventaglio dei soggetti coinvolti, dall'altro cittadini, associazioni, rom sono stati cooptati in singoli momenti periodici, escludendoli poi al momento delle decisioni e delle scelte. Certe volte il dialogo è avvenuto solo con circoli ristretti, rischiando di rompere le forme associative comuni che si erano formate. A parte questo, la costante dell'approccio alle richieste della "società civile" (se vogliamo usare un termine di moda) è stato di una sequela infinita di promesse, quasi mai mantenute. Rileggevo una sobria lettera inviata dalla comunità rom di via Idro (sì, proprio quella che impazza nelle cronache attuali) a giugno 2011: non una delle loro richieste è stata, non dico risolta, ma iniziata ad affrontare. Non c'è da stupirsi se ad un certo punto la situazione è precipitata O era quello per cui qualcuno lavorava in segreto già da allora?
  • Si è partiti, quindi, con speranze e promesse, già cassate a luglio 2011 dal famigerato "Patto di stabilità". Non ci sono soldi, ci è stato ripetuto in tutte le salse e anche un bambino lo capisce che senza palanche le promesse rimangono sogni. Però, ridurre le scelte e la progettualità ad una questione di FONDI DISPONIBILI è stato per questa maggioranza un lampante ERRORE POLITICO: da un lato perché il messaggio che ne deriva è che senza soldi non si possono fare scelte, e che siamo tutti MENDICANTI alla mercé del benefattore di turno (insomma, la solita politica classista); dall'altro perché esisteva (e forse esiste ancora) un capitale politico UMANO (lo stesso che ha deciso l'esito delle precedenti elezioni comunali) che poteva essere speso. Da questa impostazione politica comunale derivano alcune scelte: ad esempio sin dall'inizio  si erano ventilati colloqui tra comune e famiglie residenti nei campi comunali; per quanto fosse un'operazione a costo quasi zero, non sono ancora stati avviati; l'anno scorso è pure stata messa la cifra (spropositata, secondo la mia opinione) a bilancio nell'iper pubblicizzato PIANO COMUNALE, ebbene, tutto è ancora fermo.
  • Ma quando i soldi c'erano, che fine hanno fatto? De Corato ha potuto finanziare parte dei suoi infiniti sgomberi (ma la questione di dove provenissero i fondi è ancora misteriosa), dai 29 milioni circa del piano Maroni. L'altro grosso intervento fu la chiusura del campo comunale Triboniano-Barzaghi, con la campagna elettorale ormai in pieno svolgimento.
  • Alcuni degli sgomberati dei campi Brunetti e Montefeltro sono dei profughi di quell'altro sgombero di oltre due anni fa, tanto per dare una misura dell'efficacia di allora. Altra maggioranza, e il problema si ripropone. Differenti i toni: tutto tranquillo, le operazioni si sono svolte senza problemi, in 254 hanno accettato l'ospitalità offerta dal comune.
  • Certo, tutto tranquillo, SINORA. Ci sono 300 persone a spasso nella zona, in cerca di un posto dove rifugiarsi; viene da chiedersi:
  1. cosa è cambiato rispetto a due anni fa?
  2. così la situazione è destinata a rimanere tranquilla?
  • Il punto dell'ospitalità è interessante. Perché sembra che la capacità di ospitare da parte del comune non superasse le 200 presenze (su 600 sgomberati circa). Stabilito che comunque qualcuno si sarebbe "nascosto" per tempo, forse il comune offriva un'ospitalità inesistente.
  • Ma torniamo a parlare di soldi. Se De Corato (forse) finanziava i suoi sgomberi coi fondi del piano Maroni, quando il piano è stato bloccato, non solo sono terminati tutti gli interventi di sostegno alla comunità (compresi quelli dell'ordinaria manutenzione dei campi comunali, e non si capisce il perché) ma, anche volendo, non c'erano più soldi per sgomberare, dato che anche sgomberare ha un costo. Sbloccati nuovamente i fondi (ne restavano circa 5 milioni) ben 2 milioni vengono investiti nel centro do emergenza (emergenza? A De Corato sono fischiate le orecchie!) di via Lombroso, contro i 260.000 destinati a scuola e lavoro. La declinazione di EMERGENZA non si applicava ai nomadi: ma alla solita compagnia di imprese, cooperative, professionisti della gestione dei campi, che da tempo non vedevano più un soldo.
  • C'è un nuovo soggetto che da un po' di tempo sta facendo sentire il suo fiato, si chiama EXPO. A volte in maniera inquietante, altre volte in maniera più civile. Cioè, da 10 anni sento parlare di "superamento dei campi", senza vedere atti concreti corrispondenti. Là dove sinora non era arrivata la politica, stanno riuscendo gli appetiti suscitati da questo EXPO. Capita l'antifona, va ripetendolo anche il comune: i campi (comunali o no) s'hanno da chiudere, ed è stato trovato il sistema più semplice: basta non intervenire di fronte a qualsiasi urgenza, umana o strutturale che sia. Nel frattempo, come nel caso di via Lombroso, se ne stanno costruendo di nuovi, per la gioia degli amici di sempre, che offrano ospitalità a termine (mascherata da integrazione) e gestiti in maniera privatistica, come certe carceri USA.

Insomma, niente di facile e di promettente. Sembra che l'amministrazione attuale abbia scelto per "la riduzione del danno": politiche forse più UMANE di quelle precedenti (forse più ipocrite), che però non ne mettano in discussione le logiche e gli interessi.

Può essere, che qualche lettore particolarmente sveglio, noti qualche somiglianza tra l'approccio municipale alle questioni rom e quello ad altri punti problematici della città. Qualcuno, forse ragionerà sulla similitudini tra queste politiche, e la situazione nazionale dove, che si vota per la destra o la sinistra, ti servono sempre la stessa minestra. Non lo so ; - ) in Mahalla si ragiona di rom e di sinti, ma... si è anche ripetuto molte volte che come si affrontano queste problematiche è uno specchio di come veniamo trattati noi cittadini di serie A.

    PS: e le prossime elezioni? De Corato ed eredi hanno fatto poco o niente per meritarlo, ma secondo me non ci sarebbe niente di strano se la prossima volta a vincere fosse la sua banda.
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Di Fabrizio (del 30/11/2013 @ 09:08:11, in lavoro, visitato 1592 volte)

I Rom a Geyve vivono di mele cotogne da MEDIAROMA

I Rom di Geyve (regione di Marmara), nonostante ogni tipo di pregiudizio e calunnie rivolte loro, usano la loro creatività per rendere la loro vita simile a quella dei fratelli e sorelle di altre parti della Turchia. Le famiglie a Geyve inviano le mele cotogne difettose coltivate nelle locali aziende agricole a compagnie di esportazione di marmellate e succhi di frutta.

I prezzi delle cotogne a Geyve sono bassi, a causa dell'abbondante raccolto. Perciò i produttori non devono aggiungere quelle difettose alla loro lista di vendita. Queste ultime sono ben sfruttate dai Rom, che le dividono dalle altre. Il tasso di disoccupazione tra i Rom di Geyve è superiore alla media nazionale del gruppo. Quindi questi Rom cercano di sfruttare ogni occasione per sopravvivere alle circostanze, facendo delle cotogne un modo di vita, almeno per ora.

Source: Geyveyoresi.com

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Di Fabrizio (del 01/12/2013 @ 09:02:51, in Italia, visitato 1406 volte)

Asce: "Ingiustificata e senza mandato" L'UNIONE SARDA Venerdì 29 novembre 2013 20:27
L'associazione attraverso il presidente Antonio Pabis chiede di far luce sull'accaduto e scrive al prefetto Giuffrida.

"Un'irruzione ingiustificata". E' così che Antonio Pabis, presidente della Asce (Associazione sarda contro l'emarginazione), definisce la perquisizione da parte di un contingente dei carabinieri all'interno di tutte le abitazioni dell'insediamento in località Pizz'e Pranu a Selargius. "L'associazione è venuta a conoscenza di questa irruzione e, secondo una prima ricostruzione, pare che questa sia avvenuta senza che vi fosse un regolare mandato", sottolinea Pabis. Inotre, sempre secondo quanto riporta il presidente dell'Asce, "le modalità sono state ingiustamente invasive". L'Asce oltre denunciare l'accaduto ha chiesto un incontro con il Prefetto di Cagliari, Alessio Giuffrida attraverso una lettera nella quale si sottolinea che "l'accaduto non favorisca l'auspicato clima di inclusione sociale già più volte evidenziato anche dal Consiglio dei ministri".

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Di Fabrizio (del 02/12/2013 @ 09:09:06, in lavoro, visitato 1726 volte)


Torino, 19 novembre 2013. Cristian Santauan, ragazzo rom rumeno, ha spiegato all'incontro "Torino Meno Rifiuti" , organizzato da Eco dalle città, la sua esperienza di recuperatore, che durante la settimana scandaglia i cassonetti e poi sabato e domenica tenta di vendere al Balon gli oggetti recuperati: abiti, scarpe, persino piatti e bicchieri. Commenta questa pratica l'assessore all'Ambiente del Comune di Torino Roberto Ronco

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Di Fabrizio (del 03/12/2013 @ 09:06:23, in Italia, visitato 1533 volte)

Amalia Chiovaro 1 dicembre 2013 su corriere delle migrazioni

Via Boito n. 7, la palazzina in cui era situato il centro si trova nel quartiere Malaspina, a pochi passi dalla centralissima Via Notarbartolo. Il Laboratorio Zeta era il luogo sempre aperto ed accogliente in cui incontrarsi, pensare iniziative, realizzare quello che decenni di amministrazioni inadempienti non avevano voluto o potuto garantire ad un pezzo di Palermo. "La ragione di questa decisione consiste principalmente nell'impossibilità di continuare a coniugare le attività del centro sociale con l'accoglienza di rifugiati politici e quindi con la dimensione abitativa", si legge nel comunicato, pubblicato sul sito del collettivo, che ha dichiarato conclusa l'esperienza dello Zeta Lab, così era chiamato lo stabile che l'ha ospitato per oltre dieci anni.

Si tratta di un centro sociale nato nel 2001, considerato fin da subito uno dei centri pulsanti della città, che ha preso forma dall'incontro di diverse anime, esperienze e realtà sociali, tutte accomunate dalla voglia di cambiamento e da "no" risoluti verso razzismo, guerra, globalizzazione e ingiustizia sociale. Un gruppo che si è organizzato, fin da subito, in base al principio dell'autogestione e al potere decisionale dell'assemblea.

Ma lo Zeta Lab è stato anche di più, e chi l'ha vissuto o semplicemente attraversato questo lo sa. Laboratorio di idee, spazio politico e aggregativo, ha assunto negli anni un ruolo esemplare rispetto a pratiche di accoglienza e inclusione sociale, in materia di politiche migratorie.

Era il primo marzo 2003, quando una cinquantina di Sudanesi, riunitisi davanti alla Prefettura di Palermo, chiedevano asilo politico e un'accoglienza degna di uno Stato democratico. Di fronte al silenzio dell'amministrazione, lo Zeta Lab si fece carico di questa emergenza, pur non essendo attrezzato allo scopo. Gli stanzoni umidi, nel giro di poco tempo, divennero i luoghi più "caldi" che la città potesse offrire loro. Quell'ospitalità immaginata provvisoria si trasformerà in definitiva, dando vita a una lunga esperienza di cogestione.

Circa seicento migranti, provenienti da diverse parti del mondo, hanno attraversato, negli anni, questo spazio che, grazie al contributo di molti volontari e militanti, è divenuto oggi un luogo simbolo. La sua storia, infatti, è un intrecciarsi di percorsi di singoli e associazioni che ne hanno fatto casa propria.
È stato promotore di manifestazioni di ogni tipo e diversi progetti sono decollati da lì, esempio ne è il caso della Rete Antirazzista Siciliana, protagonista di numerose vertenze locali e nazionali.

Tra sgomberi e ri-occupazioni, - si tratta di uno stabile mai assegnato formalmente a scopi sociali - lo Zeta è riuscito a costruire uno spazio pubblico per la città, regalandole concerti, dibattiti, presentazioni di libri, cineforum, una biblioteca, una scuola di italiano per stranieri e uno sportello legale. Una grossa perdita, questa, per una città già sofferente, carente di servizi sociali e di spazi d'aggregazione. Ma suo contributo lo si è visto anche su altri fronti sociali, come quello della lotta antimafia, terreno su cui il centro è sempre stato molto determinato, dei senzacasa e dei beni comuni.

Dario Librizzi, una della anime del collettivo, spiega così le ragioni della chiusura e ci chiarisce: "Lo Zeta Lab non è nato per fare accoglienza, gli spazi erano stati pensati e destinati ad altre attività. In più di dieci anni, nessuna amministrazione ha trovato alcuna struttura da destinare ai ragazzi sudanesi, ritrovandoci a supplire questo vuoto istituzionale. Ma adesso non è più possibile. Da una parte questa decisione nasce dall'impossibilità di occuparsi di accoglienza, e dall'altra da una sofferta convivenza e dall'incapacità di trovare regole comuni. Attualmente sono rimasti circa sette sudanesi nei locali e con alcune di queste persone ci sono stati problemi personali molto gravi. Negli ultimi due anni lo Zeta è diventato un bivacco vero e proprio, non più un punto di partenza per provare a cambiare la propria vita, ma uno stallo". Ma si ragiona anche di futuro altrove per lo Zeta: "Stiamo ragionando - continua Dario Librizzi - su varie ipotesi. Il collettivo continua a riunirsi, discute e partecipa alla vita politica della città. Insomma lo Zeta Lab esiste e resiste". Oggi lo stabile di via Boito è diventato sede del Centro Culturale Sudanese Baobab. Lo spazio, infatti, è stato lasciato agli ultimi profughi sudanesi rimasti, declinando a loro ogni responsabilità nella gestione, come è stato dichiarato. "Le lotte dello Zeta - però - continueranno ad essere portate avanti, ma in altre forme, in altri luoghi e con altri nomi". Lo hanno promesso.

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Di Sucar Drom (del 04/12/2013 @ 09:07:55, in lavoro, visitato 1803 volte)

Etichette: sintologia

Così Gianni Fava intervenendo al convegno sul tema tenutosi oggi a Milano. L'assessore alla Cultura della Lombardia ha sottolineato: "Il processo attuale di presidio va sostenuto". Trecentottandadue giostre che servono circa 105.000 persone, per una presenza annua in 8.000 fiere paesane. E', in sintesi, il ritratto delle piccole giostre in Lombardia, ovvero l'insieme delle attività dello spettacolo viaggiante, che, oltre alla rivitalizzazione delle piazze comunali, comprende le tradizionali piccole attività di spettacolo gestite in particolare da appartenenti alle minoranze linguistiche sinte e destinate in particolare ai più piccoli, dai tratti fortemente identitari per la tradizione lombarda.

"Attività di nicchia - ha detto l'assessore regionale all'Agricoltura Gianni Fava, intervenendo, oggi, in apertura dei lavori del convegno 'Spettacoli tradizionali delle giostre in Lombardia: sicurezza e valorizzazione delle attività verso Expo 2015' - e di qualità, frutto di attività che assicurano il mantenimento di un presidio fondamentale nei piccoli paesi: se le giostre abbandonano i nostri piccoli centri, le piazze dei piccoli centri rimangono vuote e perderanno sempre di più il loro carattere di incontro e sicurezza"

...continua su U VELTO

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Di Fabrizio (del 05/12/2013 @ 09:02:26, in Italia, visitato 1379 volte)

di Jacopo Paoletti su MARINO24ORE

Da qualche anno a questa parte esiste una realtà molto positiva sul territorio italiano, che ha fatto e sta facendo davvero molto per migliorare l'interazione degli immigrati nella quotidianità del tessuto sociale del nostro Paese, in particolare a Roma. Questa realtà ha il nome e i volti degli operatori e dei volontari dell'associazione Popica Onlus. La mission dell'organizzazione di promozione sociale è il sostegno e la tutela delle persone con difficoltà socio-economiche, a partire dai rom provenienti dall'Europa Balcanica. Interviene, inoltre, nella delicata situazione dei bambini e adolescenti in Romania. Il nome Popica (che in italiano significa birillo) deriva proprio dal nomignolo di uno dei tanti bambini di strada per il quale l'associazione ha lavorato. Insieme a Christian Picucci, referente di Popica Onlus a Roma per quanto riguarda gli interventi di inserimento scolastico dei bambini rom, e a Mauro Nicolò Cipriano, che da un paio di anni si occupa del progetto di sostegno all'apprendimento dei rom nelle elementari, esploriamo più da vicino la situazione capitolina e il mondo del volontariato.

Christian, quando è nata Popica Onlus? E' nata nel 2006 con progetti attuati in Romania in favore dei bambini di strada e nel 2008 ha esteso il suo raggio d'azione a Roma, in particolare sviluppando interventi di sostegno nei confronti dei rom presenti nella Capitale. Vorrei sottolineare che a Roma, sui campi rom cosiddetti "autorizzati" o "tollerati", esiste già un intervento di scolarizzazione ma contemporaneamente sono sorti, specialmente a seguito delle ultime ondate migratorie, tantissimi altri insediamenti di rom romeni che possiamo definire spontanei e proprio in questa nicchia si è inserita Popica Onlus dato il pazzesco ritardo delle istituzioni in questa situazione.

Quali sono stati i primi passi mossi dall'associazione? Nel novembre del 2008, in collaborazione con altre associazioni, è stato avviato un progetto di monitoraggio e di mappatura dei campi rom abusivi, al fine di sopperire alle esigenze primarie delle persone che vivevano in questi insediamenti. Poi, una volta riscontrati dei casi urgenti si è passati alla fase di intervento, ad esempio con gli accessi alle scuole, l'accesso alla sanità e l'orientamento verso le strutture del territorio. Terminata la collaborazione Popica ha continuato il proprio lavoro dedicandosi all'inserimento scolastico dei bambini, seguendo con costanza la relativa frequenza e soprattutto l'apprendimento. Operiamo come supporto alle scuole, anche perché alcune volte gli stessi insegnanti non sono pronti, visti i notevoli problemi della scuola italiana, a cogliere le diversità.

Come hanno vissuto i bambini l'avvicinamento alla scuola? Abbiamo iniziato, sempre nel 2008, con delle realtà in cui i bambini rom neanche sapevano cosa fosse la scuola. Poi, col tempo, abbiamo registrato un notevole riscontro. Molti bambini e adolescenti sono passati da una totale estraneità alla scuola ad una completa frequenza quotidiana. Alcuni hanno perfino conseguito la terza media. E' veramente importante la positività dell'apprendimento per questi bambini.
Alcuni anche grandicelli - interviene Mauro -, che presentavano delle lacune rispetto ai pari età italiani, attraverso l'inserimento e il sostegno scolastico sono riusciti a colmarle. Questo testimonia che il lavoro condotto, da tutti i punti di vista, non è assolutamente inutile.

C'è una storia particolare che ti è rimasta impressa più delle altre? Mi ricordo lo sguardo fiero e commosso dei genitori che osservavano i propri figli accingersi ad entrare in classe per il primo giorno di scuola. In quel caso ho percepito che l'ambiente scolastico è anche una forma di riscatto per i rom. Purtroppo, però, è anche vero che buona parte dell'associazionismo di settore si è spesso mosso su binari di mero assistenzialismo, vissuto come una sorta di "scambio" da parte degli stessi genitori, nel senso "io ti do mio figlio, tu che cosa mi dai?". Un disinteresse nel seguire i propri figli nella vita scolastica in cui Popica ha cercato di essere presente per sopperire a questa mancanza, stando anche a stretto contatto con gli insegnanti.

E lo sport? Quanto può aiutare nel processo di interazione? E' determinante quanto la scuola - spiega Christian -. Da quasi tre anni abbiamo affiancato a Popica l'attività calcistica dei bambini sfociata, poi, nella nascita dell'Associazione Sportiva Dilettantistica Birilli (che ha a disposizione le categorie Pulcini, Esordienti e Giovanissimi ndr), di cui sono il presidente e Mauro, insieme a Lorenzo Bartolomei, è uno dei soci fondatori nonché allenatore. Si tratta di un'esperienza di sport sociale per Roma, con lo scopo in primis di insegnare il rispetto per compagni ed avversari. Una tappa fondamentale di questo percorso è stata Palermo dove, nel 2011 e quest'anno, abbiamo partecipato al Mediterraneo Antirazzista insieme ad una squadra di rifugiati. Proprio nell'edizione di due anni fa ci siamo accorti che potevamo espandere l'attività di Popica ed è germogliata l'idea di costituire l'Asd Birilli, il frutto di una continuità del lavoro seminato in precedenza. Vorrei ringraziare la Uisp (Unione italiana sport per tutti), che ci ha aiutato a muovere i primi passi; l'Asd Sporting Tor Sapienza che ci ha da subito supportato con donazioni di materiale sportivo; Daniele e l'Atletico San Raimondo di Anagnina che tante volte ci ha ospitati per allenamenti e amichevoli. Un ringraziamento particolare va sicuramente ai Blocchi precari metropolitani e all'occupazione del Metropoliz che ci hanno ospitati per gli allenamenti, dando un contributo fondamentale alla nostra partecipazione al Mediterraneo del 2011. Al Metropoliz, oltretutto, alcuni rom ripetutamente sgomberati dalle baraccopoli senza una soluzione abitativa alternativa hanno trovato una casa, insieme a italiani, peruviani e altri. Un altro ringraziamento particolare va a Silvia e al centro sociale Corto Circuito di Cinecittà, che settimanalmente mette a disposizione dei ragazzi il campo da calcetto Auro Bruni e la struttura del centro sportivo, unitamente a competenze e materiale per gli allenamenti, per non parlare della campagna "porta un birillo a Palermo", con cui si è contribuito a finanziare la nostra discesa al Mediterraneo l'estate scorsa.

Quali altri progetti sono stati realizzati o avete in mente di concretizzare? Di recente abbiamo collaborato ad un progetto dell'OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) in partnership con Amnesty International, rivolto agli abitanti rom romeni delle baraccopoli di Roma. E' stata attuata una forte campagna di sensibilizzazione dal titolo "Conosci i tuoi Diritti", elaborando un opuscolo informativo in italiano e romeno, realizzato da alcuni rom da noi formati, su argomenti di rilievo come l'accesso alla scuola, alla sanità e ad altri servizi primari. E' stato ideato anche un video proiettato nelle baraccopoli. Per il futuro speriamo che altri progetti presentati per dei bandi, anche europei, vengano finanziati.

Il volontariato s'inserisce lì dove c'è un'assenza dello Stato. Cosa si dovrebbe o si potrebbe fare per migliorare l'integrazione? Tutto ciò che riguarda lo stato sociale dovrebbe essere un qualcosa di pubblico. Il nostro obiettivo è quello di diventare un giorno "inutili", significherebbe l'autonomia delle persone. Lo Stato in alcuni settori è carente e noi cerchiamo di sopperire a questa assenza con il sostegno e l'orientamento, senza nessuna intenzione di lucrare sull'emergenza. Il giorno che i rom saranno "integrati", termine che peraltro non ci entusiasma e a cui preferiamo quello di "non esclusi", ci occuperemo di altro.

Grazie al vostro lavoro, avete notato dei cambiamenti socio-culturali riguardo alla situazione dei rom? Qual è il vero valore del volontariato in questo senso? Inviterei tutti a trovare altre fonti d'informazione che non siano i giornali o la televisione perché, dietro alla situazione dei rom, c'è un mondo positivo che spesso e volentieri non è raccontato - afferma deciso Mauro -. Devo ringraziare il mio vecchio amico Lorenzo, che mi ha avvicinato al volontariato e per me è stato un modo per riempire il tempo in maniera costruttiva per gli altri. E' vero che esiste una situazione di volontariato "egoista", cioè il sentirsi utili a tutti i costi, tuttavia la mia esperienza personale mi ha portato a conoscere una nuova realtà che mi ha arricchito totalmente, anche in altri ambiti diversi dalla situazione dei rom. Bisognerebbe essere un po' più altruisti, pensare al prossimo in qualsiasi ambiente e ne esistono davvero tanti nella nostra società in cui c'è bisogno di una mano.
Non posso che essere in totale accordo - ribadisce Christian -. Credo che nella vita di ognuno di noi, oltre alla famiglia, al lavoro e agli amici, ci debba essere un po' di spazio per dedicare del tempo al prossimo. Ho iniziato a conoscere i rom nel 1999 e, come la stragrande maggioranza delle persone, ero convinto che fossero tutt'altro rispetto a quanto ho poi scoperto: un mondo davvero colmo di positività."

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Di Fabrizio (del 06/12/2013 @ 09:07:52, in media, visitato 1302 volte)

Elmas Arus, regista turca di origine rom, insignita del premio Raoul Wallenberg - 02/12/2013, da Consiglio d'Europa

Strasburgo, 02.12.2013 - La giuria del premio Raoul Wallenberg - Consiglio d'Europa ha assegnato per la prima volta il premio a Elmas Arus, giovane regista rom della Turchia. Il premio 2014 riconosce l'eccezionale contributo di Arus nel sensibilizzare sulle condizioni dei Rom in Turchia e altrove. Ha cercato di migliorare la loro situazione, particolarmente quella delle donne, e di portare la discriminazione nei loro confronti alla ribalta del dibattito politico.

"Il duro lavoro portato avanti da Elmas Arus, con coraggio e perseveranza, è un contributo realmente impressionante alla lotta contro i pregiudizi radicati a fondo e le discriminazioni sofferte dal popolo rom in tutto il nostro continente," ha detto il segretario generale Thorbjoern Jagland, annunciando la decisione della giuria.

Tra il 2001 e il 2010, Arus con un gruppo di volontari della sua università ha visitato oltre 400 insediamenti rom in 38 città turche. Hanno prodotto 360 ore di documentazione, e creato un documentario di un'ora sulle sfide dei differenti gruppi rom in Turchia. Successivamente, Arus ha fondato l'organizzazione Zero Discriminazione, che ha aperto la strada ad altri gruppi simili, ora in Turchia ci sono oltre 200 associazioni rom. Il suo lavoro ha giocato un ruolo cruciale nell'elaborazione nel 2009 della politica di "Apertura ai Rom" del governo turco.

La cerimonia di assegnazione del premio - che ammonta a 10.000 euro - avrà luogo il 17 gennaio 2014 alla sede del Consiglio d'Europa a Strasburgo.

Sito di Zero Discrimination Organisation (in turco)

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Di Fabrizio (del 07/12/2013 @ 09:00:03, in Kumpanija, visitato 2608 volte)

di Giorgio Bezzecchi

Signor Galli,

Sono un attivista Rom che da 30 anni condivide la realtà quotidiana dei Rom e Sinti. Ho riflettuto prima di scriverle per l'antica abitudine a sopportare il pregiudizio e la discriminazione, ma alla fine sento il bisogno di rispondere al suo articolo scritto sul "Corriere della Sera" apparso martedì 26 novembre 2013 a pagina 3 della cronaca di Milano a proposito dei funerali di Luca Braidic. Lei parla di "Funerali..........con più poliziotti che familiari"; "celebrati il più in fretta possibile"; e soprattutto di "funerali da boss di mafia...".

Io ho partecipato ai funerali di Luca Braidic celebrati da Monsignor Mario Riboldi, con Padre Luigi Peraboni (da 60 anni tra i Rom e Sinti) con don Massimo Mapelli della Caritas ambrosiana, i Padri Somaschi e esponenti di altre associazioni anche loro impegnati da molti anni con i Rom e Sinti, da lei neppure considerati evidentemente per non essersi degnato di venire a vedere o di informarsi compiutamente.

Premesso che i poliziotti erano 6 con 3 auto e parlavano tranquillamente tra loro sulla piazzetta antistante la chiesa, mentre le famiglie Rom hanno riempito la chiesa con la presenza del Sindaco con partecipazione seria secondo la nostra tradizione; che se per fretta s'intende percorrere i circa 2 chilometri dalla chiesa alla cascina per la sosta per l'ultimo saluto all'abitazione del defunto con fuochi, musica pianti fino all'imbrunire per poi percorrere un altro chilometro fino al cimitero con la cassa portata a spalla, la banda, le decine di corone, di fiori sparsi senza parsimonia (almeno l'ultima strada.... è fiorita anche per lui), certo i bersaglieri invidieranno la nostra velocità; ma la cosa che più mi ha colpito è stato definire da parte sua questi come "Funerali da boss di mafia", un insulto gravissimo per la cultura dei Rom e Sinti.

Tutto il suo articolo è pervaso, oltre che dall'ignoranza delle tradizioni di un popolo antico che avrebbe da insegnare qualcosa anche a lei, da affermazioni approssimative e infamanti ("...persone sopra i 14 anni tutte con precedenti") e quando parla di faida da una vera e totale ignoranza di quello che è veramente successo nelle comunità di via Idro e di via Chiesa Rossa e di quello che ha portato a questo tragico epilogo. Ma tanto siamo "zingari" con i quali lei certo - e per fortuna, aggiungo io - non è in grado di parlare... e per questo lei che fa il giornalista - non ho detto che lo è - dovrebbe almeno avere il dovere non dico di cercare la verità, ma almeno di non sputarci addosso.

Saluti

Milano, 05/12/2013
Rag. Giorgio Bezzecchi
Presidente Museo del viaggio Fabrizio De Andrè

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