Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di Fabrizio (del 28/11/2013 @ 09:00:00, in Europa, visitato 2102 volte)
Sergio Bontempelli 25 novembre 2013 su
Corriere delle migrazioni
Quella della "zingara rapitrice" è una falsa leggenda, ormai lo
sanno (quasi) tutti. Ma pochi conoscono l'origine di questo mito, che risale
all'età moderna e ha una lunga storia letteraria.
A volte i fatti di cronaca sono molto istruttivi. A volte, non sempre. Il 19
ottobre scorso, a Farsala in Grecia, i poliziotti trovano una bambina bionda in
un insediamento rom. E siccome i rom - così pensano gli agenti - non possono
essere biondi, la bambina sarà stata senz'altro rubata. Parte la caccia ai
"veri" genitori, che vengono rintracciati nel giro di pochi giorni: si tratta di
una coppia di rom bulgari, anche loro tutt'altro che biondi. La bambina non è
stata rubata, ma ceduta dalla famiglia di origine, che non poteva mantenerla.
Due giorni dopo, la polizia irlandese ferma una coppia di rom a Dublino e
trattiene la loro piccola figlia, anche lei "troppo bionda per essere zingara".
Ma il caso si sgonfia subito: il test del Dna rivela che i due rom sono i
genitori "naturali" della piccola.
Il 3 novembre,
Il Messaggero riporta la notizia di una rom bulgara che avrebbe
tentato di rapire un neonato a Roma. La presunta rapitrice verrebbe dai dintorni
di Napoli, dal "campo nomadi di Striano". Bastano poche ore per capire che si
tratta di una bufala: a seguito di una rapida verifica, l'Associazione 21 Luglio
scopre che non esiste nessun
"campo nomadi di Striano", mentre un
articolo del
giornale online Giornalettismo ridimensionava l'ipotesi del rapimento. La donna
- che probabilmente non era rom - era in evidente stato confusionale, e la sua
volontà di "sottrarre" il bambino è tutta da verificare.
I rom non rubano i bambini...
Tre episodi di rapimento, rivelatesi tre colossali bufale. Ancora una volta, la
storia degli "zingari" che portano via i bambini si rivela per quello che è: una
leggenda metropolitana.
Del resto, che i rom non rubino i neonati lo sanno tutti. O, almeno, tutte le
persone serie e minimamente informate. Anche perché sul tema si è accumulata una
corposa letteratura: dossier, reportage, rilevazioni statistiche, studi e
ricerche sistematiche.
Ci sono per esempio i dati della Polizia di Stato sui minori scomparsi. In
nessun caso si parla di bambini o adolescenti ritrovati presso famiglie rom o in
"campi nomadi" (si veda
qui, e per dati aggiornati al 2013
qui).
Poi ci sono inchieste giornalistiche ben fatte, reperibili anche in rete: come
quella realizzata nel 2007 da
Carmilla Online, dove si dimostrava che i numerosi
episodi di presunto rapimento di minori erano delle bufale belle e buone. O come
quella, più recente, di
Elena Tebano per il
Corriere, che arriva alle stesse
conclusioni.
Infine, c'è la ricerca dell'antropologa fiorentina Sabrina Tosi Cambini, che ha
analizzato tutti i casi di presunti rapimenti, seguendo sia le notizie diffuse
dalla stampa che i verbali dei processi nelle aule di Tribunale. L'esito di
questa meticolosa indagine è sempre il solito: nessuna donna rom ha mai rapito
nessun bambino.
Le origini della leggenda: un mito letterario
Ma allora da dove nasce la bufala dei rom che portano via i bambini? Pochi sanno
che si tratta di una storia vecchia di qualche secolo, e che può vantare
un'origine "colta", addirittura letteraria: i primi a parlare di "zingare
rapitrici" sono stati infatti i commediografi italiani e spagnoli del
Cinque-Seicento. Nell'arco di qualche decennio, la trama delle loro opere è
diventata leggenda di senso comune: la finzione, potremmo dire, si è fatta
realtà (o, per meglio dire, il racconto è divenuto cronaca e falsa notizia). Ma
andiamo con ordine.
Tutto comincia nel 1544 a Venezia. Il luogo non è casuale, perché proprio in
quegli anni la Serenissima avvia una dura politica di espulsioni, bandi e atti
repressivi contro gli "zingari". Mentre la gloriosa Repubblica si industria ad
allontanare i rom, i veneziani frequentano il teatro, luogo di svago e di vita
mondana: e come in un gioco di specchi, gli "zingari" cacciati dalla città fanno
capolino sul palco.
Nel 1544 viene messa in scena La Zingana, una commedia di un certo Gigio Artemio
Giancarli. Qui si racconta di una giovane rom che sottrae dalla culla un
bambino, sostituendolo col proprio figlio: per quanto se ne sa, si tratta della
prima traccia del mito della "zingara rapitrice". Il successo della commedia
oltrepassa i confini della Repubblica: nel giro di pochi anni un drammaturgo
spagnolo, Lope de Rueda, scrive la Medora, che è nient'altro che una traduzione
e un adattamento della Zingana di Giancarli. E attraverso Lope de Rueda, la
leggenda della "zingara rapitrice" arriva a Cervantes (l'autore del Don
Chisciotte), che ne fa l'oggetto di una delle sue "Novelle esemplari", La
Gitanilla.
Da opera letteraria a leggenda metropolitana
Insomma, la storia della "zingara rapitrice" nasce come trama di commedie,
novelle e opere teatrali. Poi, nel giro di pochi decenni, oltrepassa l'ambito
letterario: a Milano, agli inizi del Seicento, Federico Borromeo accusa i "cingari"
di rapire i bambini cristiani, mentre in Spagna Juan de Quiñones, nel 1631,
formula un'accusa simile in un virulento pamphlet che invoca l'espulsione dei
"gitani". I giochi sono fatti: la trama romanzesca si è trasformata in accusa
reale, leggenda metropolitana e falsa notizia.
A cosa si deve questa metamorfosi? Sul punto, le ricerche storiche sono ancora
agli inizi, e risposte sicure non esistono. Si possono però formulare alcune
ipotesi. E, come punto di partenza, occorre ricordare che i rom non erano gli
unici destinatari di questa infamante accusa: altri gruppi sociali, altre
minoranze erano sospettate - negli stessi anni - di "rubare i bambini".
C'erano per esempio gli ebrei, già allora discriminati e vittime di persecuzioni
(perché l'antisemitismo, è bene ricordarlo, non nasce nel Novecento). Dei
"giudei" si diceva sin dal medioevo che rapivano i piccoli cristiani per cibarsi
del loro sangue a scopo rituale. Ovviamente non era vero, ma intere comunità
ebraiche furono vittime di aggressioni, stragi, processi o condanne a morte.
Poi c'erano i vagabondi e i mendicanti, accusati spesso di rapire i bambini per
portarli a chiedere l'elemosina. Piero Camporesi, storico e antropologo,
racconta ad esempio la vicenda del "ritrovamento fortunoso da parte di una madre
della figlia, rapitale due anni prima, mentre chiedeva l'elemosina in compagnia
del suo rapitore davanti alle porte del santuario di Assisi; non solo rapita, ma
resa ad arte macilenta e ulcerata sulle spalle per impietosire i fedeli".
Infine, il fenomeno dei rapimenti era diffuso nella pirateria barbaresca:
corsari, avventurieri e pirati musulmani solcavano il Mediterraneo, e per
guadagnare qualche soldo rapivano uomini, donne e bambini, chiedendo poi un
riscatto per la loro liberazione.
Zingari, ebrei, mori, vagabondi
Ebrei, "mori" e vagabondi erano insomma protagonisti di episodi - veri, o più
spesso presunti - di sottrazione di minori. Naturalmente, per capire quanto
queste figure abbiano influito sull'immagine dei rom occorrerebbe compiere
ricerche specifiche. Ma alcuni indizi ci segnalano che, nell'immaginario della
prima età moderna, questi gruppi erano spesso confusi, o almeno accostati per
similitudine.
La "zingana" della commedia del Giancarli, per esempio, parla un dialetto arabo:
all'epoca si pensava che i rom fossero "egiziani", cioè arabi, mentre la teoria
dell'origine indiana si diffuse solo qualche secolo dopo. Lutero, dal canto suo,
affermava che il "gergo" dei mendicanti (una specie di lingua segreta diffusa
nei "bassifondi" della società) aveva origini ebraiche. Dei vagabondi si diceva
che erano discendenti di Caino - e per questo condannati a vagare - mentre per
gli "zingari" si ipotizzava una provenienza dalla figura biblica di Cam: ma nei
testi dell'epoca Cam e Caino erano spesso confusi, e i rom erano trattati come
semplici vagabondi.
Insomma, è come se il mito della "zingara rapitrice" fosse nato per una sorta di
"osmosi" con analoghe leggende già diffuse a proposito di altri gruppi. Per
dirla in altri termini, è come se lo stereotipo degli "zingari" avesse
condensato, e mescolato, le caratteristiche proprie dei "marginali": erranti
come gli ebrei e i vagabondi, estranei e nemici come i "mori" musulmani.
Quando gli zingari eravamo noi
Nato in età moderna, il mito dei rom rapitori di bambini ha dimostrato una
sorprendente longevità: ha attraversato i secoli, arrivando pressoché intatto
fino ai nostri giorni. I titoli allarmistici dei giornali delle ultime
settimane, i resoconti dei fatti di Farsala e di Dublino, sembrano riecheggiare
le inquietudini dei commediografi veneziani del Cinquecento.
È difficile comprendere le ragioni di questa "longevità". Certo è che il tema
del "rapimento di bambini" è assai diffuso nel tempo e nello spazio: molti
gruppi minoritari, molte comunità marginali e discriminate hanno prima o poi
dovuto difendersi da questa infamante accusa, o da altre simili.
È capitato anche ai migranti italiani, nei decenni centrali dell'Ottocento. Dai
villaggi rurali del Sud e dalle regioni appenniniche del centro-nord, intere
famiglie contadine praticavano all'epoca forme di mobilità stagionale, legate ai
mestieri girovaghi di musicante e suonatore. Nel XIX secolo, l'arpa dei "viggianesi"
(Viggiano è un paese della Basilicata) e l'organetto dei liguri avevano
risuonato nelle strade delle città europee, richiamando l'attenzione dei
passanti su queste strane figure di musicisti straccioni.
I bambini che suonavano l'organetto in mezzo alla strada, si diceva, erano stati
"venduti" dalle famiglie di origine a trafficanti senza scrupoli. Non erano
proprio bambini rapiti, ma quasi: perché i loro genitori, poverissimi, erano
spesso costretti a venderli per racimolare qualche soldo. "Il costume di
mendicare di città in città col mezzo di fanciulli", scriveva la Società
Italiana di Beneficenza di Parigi nel 1868, "ha dato origine ad un traffico che
si pratica sotto gli occhi e colla tolleranza delle autorità": una frase che
riecheggia i peggiori stereotipi sugli "zingari".
Traffico di bambini, mendicità aggressiva, offesa al decoro, furti e criminalità
di strada furono i principali capi d'accusa contestati agli emigranti. E, come i
rom di oggi, gli italiani di ieri subirono processi, espulsioni, condanne.
Subirono, soprattutto, una degradazione della loro immagine pubblica: chi
incontrava un italiano metteva mano al portafogli, per paura di subire dei
furti. E nascondeva il proprio bambino.
Di Fabrizio (del 29/11/2013 @ 09:09:43, in Italia, visitato 2116 volte)
Spett. ex vicesindaco di Milano per una vita, per una volta i ladri non sono
quelli che tutti immaginano. Quella che segue non è una storia facile.
Ci eravamo lasciati un paio di anni fa, con 500 sgomberi e passa sul gobbo.
Cioè, sempre le stesse persone che venivano sgomberate e continuavano a girare
lì attorno.
Era un gioco a rimpiattino, tu, polizia municipale e le ruspe da una parte,
2/300 rom con i carrelli della spesa dall'altra parte. E noi, buonisti nostro
malgrado, a ripeterti: "Guarda che questi pezzenti conoscono il gioco meglio
di te, non li caccerai mai!" Lo avessimo detto a un pirla qualunque, magari
ci avrebbe dato retta, ma tu eri "l'eterno vicesindaco" (lei non sa chi sono me,
signor cittadino) e te ne facesti un punto d'onore: continuasti anche quando era
chiaro a tutti (anche a te, non negarlo) che non avresti tirato un ragno fuori
dal buco. Perché:
- alternative non eri capace di trovarle da solo;
- pensavi che, in quanto vicesindaco e pure di destra, tu
dovessi aver ragione "a prescindere", anche al di là dei fatti.
E' finita che le elezioni le hai perse tu, mica noi. E poi, dopo due anni, le
stiamo perdendo anche noi, buonisti nostro malgrado.
(E qua le cose si complicano: perché tra persone civili è sempre un
casino stabilire chi perda le elezioni e perché. Occorre tornare a quella fine
maggio del 2011)
MAGGIO 2011: Certo, il vento arancione, la sconfitta della destra, gli
scandali (ricordate la
casa di Batman?) grandi e piccoli... Sul fronte degli
sgomberi, la gente (quella che vota) dopo anni di "cattivismo", aveva votato
contro l'allora maggioranza perché da un lato s'era resa conto di quanti soldi
andassero spesi in continui sgomberi senza risultati, in secondo luogo perché
cominciava a intuire che, in fin dei conti, anche gli sgomberati fossero
persone, bambini, anziani, malati... come tutti, e con gli stessi diritti di
tante altre persone. Anche criminali? C'erano anche quelli, ma a furia di essere
trattati tutti come CRIMINALI, a furia di essere trattati come pacchi postali,
non c'erano altre prospettive che diventarlo.
Noi, buonisti nostro malgrado, ripartimmo da lì. Mi ricordo quello che ci
raccontava una delle "madri e maestre di Rubattino":
"Non facemmo niente di speciale, se non quello che ritenevano giusto. A
volte eravamo da sole, più spesso c'era gente sconosciuta che ci chiamava, ci
offriva aiuto e solidarietà. Perché quello che accadeva ai compagni di scuola
dei nostri figli e dei nostri alunni era qualcosa che ci faceva vergognare come
cittadine. Fu un momento di uscita da un ghetto mentale in cui si era noi da una
parte e i rom dall'altra. Ci fu chi fece cose simili in passato, questa volta
fummo in tanti, senza essere un movimento, senza altra identità che quella di
cittadini e cittadine di Milano."
Nel frattempo, cosa combinava la macchina comunale, quelle stesse persone con
cui si era affrontato la campagna elettorale spalla a spalla? Sgomberi ce ne
sono stati ancora (in tutto questo tempo) ma si è trattato di una specie di
"terapia a scalare": quello che prima veniva sbandierato ora avveniva
col maggior silenzio possibile; di sicuro non sono stati 500, le famiglie non corrono più
il rischio di essere divise, la polizia fa meno mostra di testosterone... a
cinque mesi dall'insediamento della nuova giunta mantenevo tutta una serie di
dubbi e insoddisfazioni. Dopo oltre due anni
momenti critici continuano.
(Il discorso va complicandosi ancora, abbiate pazienza)
Andando per punti:
- Restando alla faccenda "sgomberi": non sono un tabù, ci sono
dei casi in cui vanno effettuati. Ricordava Ernesto Rossi nel
suo recente intervento che devono essere una misura da prendere
quando non ci sono alternative, e quindi dev'esserci un adeguato
preavviso, assistenza, una destinazione alternativa garantita.
Non si tratta soltanto di trattati internazionali che l'Italia
ha sottoscritto (e che ci indignano se è uno stato estero a non
rispettarli), ma il nodo POLITICO è la gestione: lo sgombero
deve presupporre determinate garanzie date da una trattativa con
i soggetti coinvolti, altrimenti è solo una misura discrezionale
del governante, buono o cattivo che sia.
- Quindi le politiche, anche quelle repressive, devono
presupporre interlocuzione: con i cittadini, con le loro
associazioni, con i rom stessi. Questo è mancato assolutamente
con l'amministrazione passata, con quella attuale, dopo un primo
periodo di incomprensioni reciproche, il dialogo è stato una
costante doccia scozzese. Da un lato si è certamente allargato
il ventaglio dei soggetti coinvolti, dall'altro cittadini,
associazioni, rom sono stati cooptati in singoli momenti
periodici, escludendoli poi al momento delle decisioni e delle
scelte. Certe volte il dialogo è avvenuto solo con circoli
ristretti, rischiando di rompere le forme associative comuni che
si erano formate. A parte questo, la costante dell'approccio
alle richieste della "società civile" (se vogliamo usare un
termine di moda) è stato di una sequela infinita di promesse,
quasi mai mantenute. Rileggevo una sobria
lettera inviata dalla comunità rom di via Idro (sì, proprio
quella che impazza nelle cronache attuali) a giugno 2011: non
una delle loro richieste è stata, non dico risolta, ma iniziata
ad affrontare. Non c'è da stupirsi se ad un certo punto la
situazione è precipitata O era quello per cui qualcuno lavorava
in segreto già da allora?
- Si è partiti, quindi, con speranze e promesse, già cassate a
luglio 2011 dal famigerato "Patto di stabilità". Non ci sono
soldi, ci è stato ripetuto in tutte le salse e anche un bambino
lo capisce che senza palanche le promesse rimangono sogni. Però,
ridurre le scelte e la progettualità ad una questione di FONDI
DISPONIBILI è stato per questa maggioranza un lampante ERRORE
POLITICO: da un lato perché il messaggio che ne deriva è che
senza soldi non si possono fare scelte, e che siamo tutti
MENDICANTI alla mercé del benefattore di turno (insomma, la
solita politica classista); dall'altro
perché esisteva (e forse esiste ancora) un capitale politico
UMANO (lo stesso che ha deciso l'esito delle precedenti elezioni
comunali) che poteva essere speso. Da questa impostazione
politica comunale derivano alcune scelte: ad esempio sin
dall'inizio si erano ventilati colloqui tra comune e
famiglie residenti nei campi comunali; per quanto fosse
un'operazione a costo quasi zero, non sono ancora stati avviati;
l'anno scorso è pure stata messa la cifra (spropositata, secondo
la mia opinione) a bilancio nell'iper pubblicizzato PIANO
COMUNALE, ebbene, tutto è ancora fermo.
- Ma quando i soldi c'erano, che fine hanno fatto? De Corato
ha potuto finanziare parte dei suoi infiniti sgomberi (ma la
questione di dove provenissero i fondi è ancora misteriosa), dai
29 milioni circa del piano Maroni. L'altro grosso intervento fu
la chiusura del campo comunale Triboniano-Barzaghi, con la
campagna elettorale ormai in pieno svolgimento.
- Alcuni degli
sgomberati dei campi Brunetti e Montefeltro sono dei profughi di
quell'altro sgombero di oltre due anni fa, tanto per dare una
misura dell'efficacia di allora. Altra maggioranza, e il
problema si ripropone. Differenti i toni:
tutto tranquillo, le operazioni si sono svolte senza
problemi, in 254 hanno accettato l'ospitalità offerta dal
comune.
- Certo, tutto tranquillo, SINORA. Ci sono 300 persone a
spasso nella zona, in cerca di un posto dove rifugiarsi; viene
da chiedersi:
- cosa è cambiato rispetto a due anni fa?
- così la situazione è destinata a rimanere tranquilla?
- Il punto dell'ospitalità è interessante. Perché sembra che
la capacità di ospitare da parte del comune non superasse le 200
presenze (su 600 sgomberati circa). Stabilito che comunque
qualcuno si sarebbe "nascosto" per tempo, forse il comune
offriva un'ospitalità inesistente.
- Ma torniamo a parlare di soldi. Se De Corato (forse)
finanziava i suoi sgomberi coi fondi del piano Maroni, quando il
piano è stato bloccato, non solo sono terminati tutti gli
interventi di sostegno alla comunità (compresi quelli
dell'ordinaria manutenzione dei campi comunali, e non si capisce
il perché) ma, anche volendo, non c'erano più soldi per
sgomberare, dato che anche sgomberare ha un costo.
Sbloccati nuovamente i fondi (ne restavano circa 5 milioni)
ben 2 milioni vengono investiti nel centro do emergenza
(emergenza? A De Corato sono fischiate le orecchie!) di via
Lombroso, contro i 260.000 destinati a scuola e lavoro. La
declinazione di EMERGENZA non si applicava ai nomadi: ma alla
solita compagnia di imprese, cooperative, professionisti della
gestione dei campi, che da tempo non vedevano più un soldo.
- C'è un nuovo soggetto che da un po' di tempo sta facendo
sentire il suo fiato, si chiama EXPO. A volte
in maniera inquietante, altre volte in maniera più civile.
Cioè, da 10 anni sento parlare di "superamento dei campi", senza
vedere atti concreti corrispondenti. Là dove sinora non era
arrivata la politica, stanno riuscendo gli appetiti suscitati da
questo EXPO. Capita l'antifona, va ripetendolo anche il comune:
i campi (comunali o no) s'hanno da chiudere, ed è stato trovato
il sistema più semplice: basta non intervenire di fronte a
qualsiasi urgenza, umana o strutturale che sia. Nel frattempo,
come nel caso di via Lombroso, se ne stanno costruendo di nuovi,
per la gioia degli amici di sempre, che offrano ospitalità a
termine (mascherata da integrazione) e gestiti in maniera
privatistica, come certe carceri USA.
Insomma, niente di facile e di promettente. Sembra che l'amministrazione
attuale abbia scelto per "la riduzione del danno": politiche forse più UMANE di
quelle precedenti (forse più ipocrite), che però non ne mettano in discussione le logiche e gli
interessi.
Può essere, che qualche lettore particolarmente sveglio, noti qualche
somiglianza tra l'approccio municipale alle questioni rom e quello ad altri
punti problematici della città. Qualcuno, forse ragionerà sulla similitudini tra
queste politiche, e la situazione nazionale dove, che si vota per la destra o la
sinistra, ti servono sempre la stessa minestra. Non lo so in Mahalla si
ragiona di rom e di sinti, ma... si è anche ripetuto molte volte che
come si affrontano queste problematiche è uno specchio di come veniamo trattati
noi cittadini di serie A.
PS: e le prossime elezioni? De Corato ed eredi hanno fatto poco o niente
per meritarlo, ma secondo me non ci sarebbe niente di strano se la prossima volta
a vincere fosse la sua banda.
Di Fabrizio (del 30/11/2013 @ 09:08:11, in lavoro, visitato 1592 volte)
I Rom a Geyve vivono di mele cotogne da
MEDIAROMA
I Rom di Geyve (regione di Marmara), nonostante ogni tipo di pregiudizio e
calunnie rivolte loro, usano la loro creatività per rendere la loro vita simile
a quella dei fratelli e sorelle di altre parti della Turchia. Le famiglie a
Geyve inviano le mele cotogne difettose coltivate nelle locali aziende agricole
a compagnie di esportazione di marmellate e succhi di frutta.
I prezzi delle cotogne a Geyve sono bassi, a causa dell'abbondante raccolto.
Perciò i produttori non devono aggiungere quelle difettose alla loro lista di
vendita. Queste ultime sono ben sfruttate dai Rom, che le dividono dalle altre.
Il tasso di disoccupazione tra i Rom di Geyve è superiore alla media nazionale
del gruppo. Quindi questi Rom cercano di sfruttare ogni occasione per
sopravvivere alle circostanze, facendo delle cotogne un modo di vita, almeno per
ora.
Source: Geyveyoresi.com
Di Fabrizio (del 01/12/2013 @ 09:02:51, in Italia, visitato 1406 volte)
Asce: "Ingiustificata e senza mandato"
L'UNIONE SARDA
Venerdì 29 novembre 2013 20:27
L'associazione attraverso il presidente Antonio Pabis chiede di far luce
sull'accaduto e scrive al prefetto Giuffrida.
"Un'irruzione ingiustificata". E' così che Antonio Pabis, presidente della Asce
(Associazione sarda contro l'emarginazione), definisce la perquisizione da parte
di un contingente dei carabinieri all'interno di tutte le abitazioni
dell'insediamento in località Pizz'e Pranu a Selargius. "L'associazione è venuta
a conoscenza di questa irruzione e, secondo una prima ricostruzione, pare che
questa sia avvenuta senza che vi fosse un regolare mandato", sottolinea Pabis.
Inotre, sempre secondo quanto riporta il presidente dell'Asce, "le modalità sono
state ingiustamente invasive". L'Asce oltre denunciare l'accaduto ha chiesto un
incontro con il Prefetto di Cagliari, Alessio Giuffrida attraverso una lettera
nella quale si sottolinea che "l'accaduto non favorisca l'auspicato clima di
inclusione sociale già più volte evidenziato anche dal Consiglio dei ministri".
Di Fabrizio (del 02/12/2013 @ 09:09:06, in lavoro, visitato 1726 volte)
Torino, 19 novembre 2013. Cristian Santauan, ragazzo rom rumeno, ha spiegato
all'incontro "Torino Meno Rifiuti" , organizzato da Eco dalle città, la sua
esperienza di recuperatore, che durante la settimana scandaglia i cassonetti
e poi sabato e domenica tenta di vendere al Balon gli oggetti recuperati: abiti,
scarpe, persino piatti e bicchieri. Commenta questa pratica l'assessore
all'Ambiente del Comune di Torino Roberto Ronco
Di Fabrizio (del 03/12/2013 @ 09:06:23, in Italia, visitato 1533 volte)
Amalia Chiovaro 1 dicembre 2013 su
corriere delle migrazioni
Via Boito n. 7, la palazzina in cui era situato il centro si trova nel
quartiere Malaspina, a pochi passi dalla centralissima Via Notarbartolo. Il
Laboratorio Zeta era il luogo sempre aperto ed accogliente in cui incontrarsi,
pensare iniziative, realizzare quello che decenni di amministrazioni
inadempienti non avevano voluto o potuto garantire ad un pezzo di Palermo. "La
ragione di questa decisione consiste principalmente nell'impossibilità di
continuare a coniugare le attività del centro sociale con l'accoglienza di
rifugiati politici e quindi con la dimensione abitativa", si legge nel
comunicato, pubblicato sul sito del collettivo, che ha dichiarato conclusa
l'esperienza dello Zeta Lab, così era chiamato lo stabile che l'ha ospitato per
oltre dieci anni.
Si tratta di un centro sociale nato nel 2001, considerato fin da subito uno
dei centri pulsanti della città, che ha preso forma dall'incontro di diverse
anime, esperienze e realtà sociali, tutte accomunate dalla voglia di cambiamento
e da "no" risoluti verso razzismo, guerra, globalizzazione e ingiustizia
sociale. Un gruppo che si è organizzato, fin da subito, in base al principio
dell'autogestione e al potere decisionale dell'assemblea.
Ma lo Zeta Lab è stato anche di più, e chi l'ha vissuto o semplicemente
attraversato questo lo sa. Laboratorio di idee, spazio politico e aggregativo,
ha assunto negli anni un ruolo esemplare rispetto a pratiche di accoglienza e
inclusione sociale, in materia di politiche migratorie.
Era il primo marzo 2003, quando una cinquantina di Sudanesi, riunitisi
davanti alla Prefettura di Palermo, chiedevano asilo politico e un'accoglienza
degna di uno Stato democratico. Di fronte al silenzio dell'amministrazione, lo
Zeta Lab si fece carico di questa emergenza, pur non essendo attrezzato allo
scopo. Gli stanzoni umidi, nel giro di poco tempo, divennero i luoghi più
"caldi" che la città potesse offrire loro. Quell'ospitalità immaginata
provvisoria si trasformerà in definitiva, dando vita a una lunga esperienza di
cogestione.
Circa seicento migranti, provenienti da diverse parti del mondo, hanno
attraversato, negli anni, questo spazio che, grazie al contributo di molti
volontari e militanti, è divenuto oggi un luogo simbolo. La sua storia, infatti,
è un intrecciarsi di percorsi di singoli e associazioni che ne hanno fatto casa
propria.
È stato promotore di manifestazioni di ogni tipo e diversi progetti sono
decollati da lì, esempio ne è il caso della Rete Antirazzista Siciliana,
protagonista di numerose vertenze locali e nazionali.
Tra sgomberi e ri-occupazioni, - si tratta di uno stabile mai assegnato
formalmente a scopi sociali - lo Zeta è riuscito a costruire uno spazio pubblico
per la città, regalandole concerti, dibattiti, presentazioni di libri,
cineforum, una biblioteca, una scuola di italiano per stranieri e uno sportello
legale. Una grossa perdita, questa, per una città già sofferente, carente di
servizi sociali e di spazi d'aggregazione. Ma suo contributo lo si è visto anche
su altri fronti sociali, come quello della lotta antimafia, terreno su cui il
centro è sempre stato molto determinato, dei senzacasa e dei beni comuni.
Dario Librizzi, una della anime del collettivo, spiega così le ragioni della
chiusura e ci chiarisce: "Lo Zeta Lab non è nato per fare accoglienza, gli spazi
erano stati pensati e destinati ad altre attività. In più di dieci anni, nessuna
amministrazione ha trovato alcuna struttura da destinare ai ragazzi sudanesi,
ritrovandoci a supplire questo vuoto istituzionale. Ma adesso non è più
possibile. Da una parte questa decisione nasce dall'impossibilità di occuparsi
di accoglienza, e dall'altra da una sofferta convivenza e dall'incapacità di
trovare regole comuni. Attualmente sono rimasti circa sette sudanesi nei locali
e con alcune di queste persone ci sono stati problemi personali molto gravi.
Negli ultimi due anni lo Zeta è diventato un bivacco vero e proprio, non più un
punto di partenza per provare a cambiare la propria vita, ma uno stallo". Ma si
ragiona anche di futuro altrove per lo Zeta: "Stiamo ragionando - continua Dario
Librizzi - su varie ipotesi. Il collettivo continua a riunirsi, discute e
partecipa alla vita politica della città. Insomma lo Zeta Lab esiste e resiste".
Oggi lo stabile di via Boito è diventato sede del Centro Culturale Sudanese
Baobab. Lo spazio, infatti, è stato lasciato agli ultimi profughi sudanesi
rimasti, declinando a loro ogni responsabilità nella gestione, come è stato
dichiarato. "Le lotte dello Zeta - però - continueranno ad essere portate
avanti, ma in altre forme, in altri luoghi e con altri nomi". Lo hanno promesso.
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sintologia
Così Gianni Fava intervenendo al convegno sul tema tenutosi oggi a Milano.
L'assessore alla Cultura della Lombardia ha sottolineato: "Il processo attuale
di presidio va sostenuto". Trecentottandadue giostre che servono circa 105.000
persone, per una presenza annua in 8.000 fiere paesane. E', in sintesi, il
ritratto delle piccole giostre in Lombardia, ovvero l'insieme delle attività
dello spettacolo viaggiante, che, oltre alla rivitalizzazione delle piazze
comunali, comprende le tradizionali piccole attività di spettacolo gestite in
particolare da appartenenti alle minoranze linguistiche sinte e destinate in
particolare ai più piccoli, dai tratti fortemente identitari per la tradizione
lombarda.
"Attività di nicchia - ha detto l'assessore regionale all'Agricoltura Gianni
Fava, intervenendo, oggi, in apertura dei lavori del convegno 'Spettacoli
tradizionali delle giostre in Lombardia: sicurezza e valorizzazione delle
attività verso Expo 2015' - e di qualità, frutto di attività che assicurano il
mantenimento di un presidio fondamentale nei piccoli paesi: se le giostre
abbandonano i nostri piccoli centri, le piazze dei piccoli centri rimangono
vuote e perderanno sempre di più il loro carattere di incontro e sicurezza"
...continua su
U VELTO
Di Fabrizio (del 05/12/2013 @ 09:02:26, in Italia, visitato 1379 volte)
di Jacopo Paoletti su
MARINO24ORE
Da qualche anno a questa parte esiste una realtà molto positiva sul territorio
italiano, che ha fatto e sta facendo davvero molto per migliorare l'interazione
degli immigrati nella quotidianità del tessuto sociale del nostro Paese, in
particolare a Roma. Questa realtà ha il nome e i volti degli operatori e dei
volontari dell'associazione Popica Onlus. La mission dell'organizzazione di
promozione sociale è il sostegno e la tutela delle persone con difficoltà
socio-economiche, a partire dai rom provenienti dall'Europa Balcanica.
Interviene, inoltre, nella delicata situazione dei bambini e adolescenti in
Romania. Il nome Popica (che in italiano significa birillo) deriva proprio dal
nomignolo di uno dei tanti bambini di strada per il quale l'associazione ha
lavorato. Insieme a Christian Picucci, referente di Popica Onlus a Roma per
quanto riguarda gli interventi di inserimento scolastico dei bambini rom, e a
Mauro Nicolò Cipriano, che da un paio di anni si occupa del progetto di sostegno
all'apprendimento dei rom nelle elementari, esploriamo più da vicino la
situazione capitolina e il mondo del volontariato.
Christian, quando è nata Popica Onlus? E' nata nel 2006 con progetti attuati in
Romania in favore dei bambini di strada e nel 2008 ha esteso il suo raggio
d'azione a Roma, in particolare sviluppando interventi di sostegno nei confronti
dei rom presenti nella Capitale. Vorrei sottolineare che a Roma, sui campi rom
cosiddetti "autorizzati" o "tollerati", esiste già un intervento di
scolarizzazione ma contemporaneamente sono sorti, specialmente a seguito delle
ultime ondate migratorie, tantissimi altri insediamenti di rom romeni che
possiamo definire spontanei e proprio in questa nicchia si è inserita Popica
Onlus dato il pazzesco ritardo delle istituzioni in questa situazione.
Quali sono stati i primi passi mossi dall'associazione? Nel novembre del 2008,
in collaborazione con altre associazioni, è stato avviato un progetto di
monitoraggio e di mappatura dei campi rom abusivi, al fine di sopperire alle
esigenze primarie delle persone che vivevano in questi insediamenti. Poi, una
volta riscontrati dei casi urgenti si è passati alla fase di intervento, ad
esempio con gli accessi alle scuole, l'accesso alla sanità e l'orientamento
verso le strutture del territorio. Terminata la collaborazione Popica ha
continuato il proprio lavoro dedicandosi all'inserimento scolastico dei bambini,
seguendo con costanza la relativa frequenza e soprattutto l'apprendimento.
Operiamo come supporto alle scuole, anche perché alcune volte gli stessi
insegnanti non sono pronti, visti i notevoli problemi della scuola italiana, a
cogliere le diversità.
Come hanno vissuto i
bambini l'avvicinamento alla scuola? Abbiamo iniziato, sempre nel 2008, con
delle realtà in cui i bambini rom neanche sapevano cosa fosse la scuola. Poi,
col tempo, abbiamo registrato un notevole riscontro. Molti bambini e adolescenti
sono passati da una totale estraneità alla scuola ad una completa frequenza
quotidiana. Alcuni hanno perfino conseguito la terza media. E' veramente
importante la positività dell'apprendimento per questi bambini.
Alcuni anche grandicelli - interviene Mauro -, che presentavano delle lacune
rispetto ai pari età italiani, attraverso l'inserimento e il sostegno scolastico
sono riusciti a colmarle. Questo testimonia che il lavoro condotto, da tutti i
punti di vista, non è assolutamente inutile.
C'è una storia particolare che ti è rimasta impressa più delle altre? Mi ricordo
lo sguardo fiero e commosso dei genitori che osservavano i propri figli
accingersi ad entrare in classe per il primo giorno di scuola. In quel caso ho
percepito che l'ambiente scolastico è anche una forma di riscatto per i rom.
Purtroppo, però, è anche vero che buona parte dell'associazionismo di settore si
è spesso mosso su binari di mero assistenzialismo, vissuto come una sorta di "scambio" da parte degli stessi genitori, nel senso
"io ti do mio
figlio, tu che cosa mi dai?". Un disinteresse nel seguire i propri figli
nella vita scolastica in cui Popica ha cercato di essere presente per sopperire
a questa mancanza, stando anche a stretto contatto con gli insegnanti.
E lo sport? Quanto
può aiutare nel processo di interazione? E' determinante quanto la scuola
-
spiega Christian -. Da quasi tre anni abbiamo affiancato a Popica l'attività
calcistica dei bambini sfociata, poi, nella nascita dell'Associazione Sportiva
Dilettantistica Birilli (che ha a disposizione le categorie Pulcini, Esordienti
e Giovanissimi ndr), di cui sono il presidente e Mauro, insieme a Lorenzo
Bartolomei, è uno dei soci fondatori nonché allenatore. Si tratta di
un'esperienza di sport sociale per Roma, con lo scopo in primis di insegnare il
rispetto per compagni ed avversari. Una tappa fondamentale di questo percorso è
stata Palermo dove, nel 2011 e quest'anno, abbiamo partecipato al Mediterraneo
Antirazzista insieme ad una squadra di rifugiati. Proprio nell'edizione di due
anni fa ci siamo accorti che potevamo espandere l'attività di Popica ed è
germogliata l'idea di costituire l'Asd Birilli, il frutto di una continuità del
lavoro seminato in precedenza. Vorrei ringraziare la Uisp (Unione italiana sport
per tutti), che ci ha aiutato a muovere i primi passi; l'Asd Sporting Tor
Sapienza che ci ha da subito supportato con donazioni di materiale sportivo;
Daniele e l'Atletico San Raimondo di Anagnina che tante volte ci ha ospitati per
allenamenti e amichevoli. Un ringraziamento particolare va sicuramente ai
Blocchi precari metropolitani e all'occupazione del Metropoliz che ci hanno
ospitati per gli allenamenti, dando un contributo fondamentale alla nostra
partecipazione al Mediterraneo del 2011. Al Metropoliz, oltretutto, alcuni rom
ripetutamente sgomberati dalle baraccopoli senza una soluzione abitativa
alternativa hanno trovato una casa, insieme a italiani, peruviani e altri. Un
altro ringraziamento particolare va a Silvia e al centro sociale Corto Circuito
di Cinecittà, che settimanalmente mette a disposizione dei ragazzi il campo da
calcetto Auro Bruni e la struttura del centro sportivo, unitamente a competenze
e materiale per gli allenamenti, per non parlare della campagna "porta un
birillo a Palermo", con cui si è contribuito a finanziare la nostra discesa al
Mediterraneo l'estate scorsa.
Quali altri progetti sono stati realizzati o avete in mente di concretizzare? Di
recente abbiamo collaborato ad un progetto dell'OSCE (Organizzazione per la
sicurezza e la cooperazione in Europa) in partnership con Amnesty International,
rivolto agli abitanti rom romeni delle baraccopoli di Roma. E' stata attuata una
forte campagna di sensibilizzazione dal titolo "Conosci i tuoi Diritti",
elaborando un opuscolo informativo in italiano e romeno, realizzato da alcuni
rom da noi formati, su argomenti di rilievo come l'accesso alla scuola, alla
sanità e ad altri servizi primari. E' stato ideato anche un video proiettato
nelle baraccopoli. Per il futuro speriamo che altri progetti presentati per dei
bandi, anche europei, vengano finanziati.
Il volontariato s'inserisce lì dove c'è un'assenza dello Stato. Cosa si dovrebbe
o si potrebbe fare per migliorare l'integrazione? Tutto ciò che riguarda lo
stato sociale dovrebbe essere un qualcosa di pubblico. Il nostro obiettivo è
quello di diventare un giorno "inutili", significherebbe l'autonomia
delle persone. Lo Stato in alcuni settori è carente e noi cerchiamo di sopperire
a questa assenza con il sostegno e l'orientamento, senza nessuna intenzione di
lucrare sull'emergenza. Il giorno che i rom saranno "integrati",
termine che peraltro non ci entusiasma e a cui preferiamo quello di "non
esclusi", ci occuperemo di altro.
Grazie al vostro lavoro, avete notato dei cambiamenti socio-culturali riguardo
alla situazione dei rom? Qual è il vero valore del volontariato in questo senso?
Inviterei tutti a trovare altre fonti d'informazione che non siano i giornali o
la televisione perché, dietro alla situazione dei rom, c'è un mondo positivo che
spesso e volentieri non è raccontato - afferma deciso Mauro -. Devo ringraziare
il mio vecchio amico Lorenzo, che mi ha avvicinato al volontariato e per me è
stato un modo per riempire il tempo in maniera costruttiva per gli altri. E'
vero che esiste una situazione di volontariato "egoista", cioè il
sentirsi utili a tutti i costi, tuttavia la mia esperienza personale mi ha
portato a conoscere una nuova realtà che mi ha arricchito totalmente, anche in
altri ambiti diversi dalla situazione dei rom. Bisognerebbe essere un po' più
altruisti, pensare al prossimo in qualsiasi ambiente e ne esistono davvero tanti
nella nostra società in cui c'è bisogno di una mano.
Non posso che essere in totale accordo - ribadisce Christian -. Credo che nella
vita di ognuno di noi, oltre alla famiglia, al lavoro e agli amici, ci debba
essere un po' di spazio per dedicare del tempo al prossimo. Ho iniziato a
conoscere i rom nel 1999 e, come la stragrande maggioranza delle persone, ero
convinto che fossero tutt'altro rispetto a quanto ho poi scoperto: un mondo
davvero colmo di positività."
Di Fabrizio (del 06/12/2013 @ 09:07:52, in media, visitato 1302 volte)
Elmas Arus, regista turca di origine rom, insignita del premio Raoul Wallenberg
- 02/12/2013, da
Consiglio d'Europa
Strasburgo, 02.12.2013 - La giuria del premio Raoul Wallenberg - Consiglio
d'Europa ha assegnato per la prima volta il premio a Elmas Arus, giovane regista
rom della Turchia. Il premio 2014 riconosce l'eccezionale contributo di Arus nel
sensibilizzare sulle condizioni dei Rom in Turchia e altrove. Ha cercato di
migliorare la loro situazione, particolarmente quella delle donne, e di portare
la discriminazione nei loro confronti alla ribalta del dibattito politico.
"Il duro lavoro portato avanti da Elmas Arus, con coraggio e perseveranza, è un
contributo realmente impressionante alla lotta contro i pregiudizi radicati a
fondo e le discriminazioni sofferte dal popolo rom in tutto il nostro
continente," ha detto il segretario generale Thorbjoern Jagland, annunciando la
decisione della giuria.
Tra il 2001 e il 2010, Arus con un gruppo di volontari della sua università ha
visitato oltre 400 insediamenti rom in 38 città turche. Hanno prodotto 360 ore
di documentazione, e creato un documentario di un'ora sulle sfide dei differenti
gruppi rom in Turchia. Successivamente, Arus ha fondato l'organizzazione Zero
Discriminazione, che ha aperto la strada ad altri gruppi simili, ora in Turchia
ci sono oltre 200 associazioni rom. Il suo lavoro ha giocato un ruolo cruciale
nell'elaborazione nel 2009 della politica di "Apertura ai Rom" del governo
turco.
La cerimonia di assegnazione del premio - che ammonta a 10.000 euro - avrà luogo
il 17 gennaio 2014 alla sede del Consiglio d'Europa a Strasburgo.
Sito di Zero Discrimination Organisation (in
turco)
di Giorgio Bezzecchi
Signor Galli,
Sono un attivista Rom che da 30 anni condivide la realtà quotidiana dei Rom e
Sinti. Ho riflettuto prima di scriverle per l'antica abitudine a sopportare il
pregiudizio e la discriminazione, ma alla fine sento il bisogno di rispondere al
suo articolo scritto sul "Corriere della Sera" apparso martedì 26 novembre 2013
a pagina 3 della cronaca di Milano a proposito dei funerali di Luca Braidic. Lei
parla di "Funerali..........con più poliziotti che familiari"; "celebrati il più
in fretta possibile"; e soprattutto di "funerali da boss di mafia...".
Io ho partecipato ai funerali di Luca Braidic celebrati da Monsignor Mario
Riboldi, con Padre Luigi Peraboni (da 60 anni tra i Rom e Sinti) con don Massimo
Mapelli della Caritas ambrosiana, i Padri Somaschi e esponenti di altre
associazioni anche loro impegnati da molti anni con i Rom e Sinti, da lei
neppure considerati evidentemente per non essersi degnato di venire a vedere o
di informarsi compiutamente.
Premesso che i poliziotti erano 6 con 3 auto e parlavano tranquillamente tra
loro sulla piazzetta antistante la chiesa, mentre le famiglie Rom hanno riempito
la chiesa con la presenza del Sindaco con partecipazione seria secondo la nostra
tradizione; che se per fretta s'intende percorrere i circa 2 chilometri dalla
chiesa alla cascina per la sosta per l'ultimo saluto all'abitazione del defunto
con fuochi, musica pianti fino all'imbrunire per poi percorrere un altro
chilometro fino al cimitero con la cassa portata a spalla, la banda, le decine
di corone, di fiori sparsi senza parsimonia (almeno l'ultima strada.... è
fiorita anche per lui), certo i bersaglieri invidieranno la nostra velocità; ma
la cosa che più mi ha colpito è stato definire da parte sua questi come
"Funerali da boss di mafia", un insulto gravissimo per la cultura dei Rom e
Sinti.
Tutto il suo articolo è pervaso, oltre che dall'ignoranza delle tradizioni di un
popolo antico che avrebbe da insegnare qualcosa anche a lei, da affermazioni
approssimative e infamanti ("...persone sopra i 14 anni tutte con precedenti") e
quando parla di faida da una vera e totale ignoranza di quello che è veramente
successo nelle comunità di via Idro e di via Chiesa Rossa e di quello che ha
portato a questo tragico epilogo. Ma tanto siamo "zingari" con i quali lei certo
- e per fortuna, aggiungo io - non è in grado di parlare... e per questo lei che
fa il giornalista - non ho detto che lo è - dovrebbe almeno avere il dovere non
dico di cercare la verità, ma almeno di non sputarci addosso.
Saluti
Milano, 05/12/2013
Rag. Giorgio Bezzecchi
Presidente Museo del viaggio Fabrizio De Andrè
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