Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Domenica 30 settembre 2012, h. 20.00
PALAZZO DUCALE Piazza Matteotti 9 - Genova - info tel. 010 5574064 / 65
www.palazzoducale.genova.it
Una notte di musica, poesia, pittura e cinema Rom.
Allegria, forza espressiva, festa per la vita, sono le caratteristiche
principali dell'arte romanì.
Una serata per affacciarsi su un mondo sconosciuto: la musica,
la letteratura, la poesia, il cinema e le arti figurative dei rom e dei
sinti. L'universo artistico romanì muove dalla quotidianità interna
alla famiglia di appartenenza, ma attraverso una sorprendente
vivacità espressiva riesce a diventare coinvolgentelinguaggio universale.
La musica è l'arte più nota dei rom e dei sinti: "Sublime canto mistico"
come sosteneva Franz Liszt, ma di notevole interesse è
anche la giovane letteratura con le sue aspirazioni a una visione
libera, pura e naturale della vita.
Una serata per vedere e parlare anche di cinema e arti figurative
che attraverso un linguaggio a volte onirico, a volte autoironico,
ma sempre permeato di voglia di andare avanti, ci raccontano
l'uomo, le sue meraviglie e le sue miserie.
con
Seo Cizmic
Pino Petruzzelli
Paola Piacentini
Claudio Pozzani
Claudia Priano
e le musiche tradizionali e il jazz manouche
di Django Reinhardt con il gruppo sinto
The Gipsyes Vàganes.
I sinto altoatesini The Gipsyes Vàganes fino a poco tempo fa si chiamavano
U Sinto ed erano un gruppo musicale composto da zii e nipoti della
famiglia Gabrielli. I nipoti con un nome nuovo che in italiano significa "i
sinti antichi", proseguono, rileggendola, la tradizione dei loro avi.
a cura di
Seo Cizmic e Pino Petruzzelli
Mantova,
Bologna e Luino (VA)
Domenica 28 ottobre 2012 ore 19.00,
RAT MORT via Cairoli 18, 46100 Mantova
Grande Occasione!!! ragazzi questa sera avremo l'onore di avere come ospite
al Rat Mort Paul Polansky! venite numerosi a godervi una serata di poesia,
musica e ovviamente drink d'altissima qualità con noi! Possibilità di degustare
Ardbeg Uigeadail e Manhattan Cocktail preparato con prodotti super premium su
prenotazione. (per favore indicate in bacheca se desiderate la degustazione.
Costo per i due drink 20euro).
Martedì 30 ottobre 2012 ore 20,30, SENZA NOME
via Belvedere 11/b Bologna PUGNI ZINGARI E MALAVITA. A cura di
100 thousand poets for change, in collaborazione con
Associazione FARM
Mercoledì 31 ottobre 2012 ore 20.30
Palazzo Verbania a Luino (VA). Organizzano Mahalla e Officine di Lago
Trovata lunedì mattina nella posta. Per ascoltarla in italiano ed in
lingua originale
QUI
Lei stava appoggiata
al muro vicino
all'Hotel Tevere con in mano
un bicchiere di plastica
quando iniziò a piovere.
Ho cercato una moneta, le sono
andato vicino
e l'ho fatta cadere nel bicchiere.
Cadde sul fondo
di un'aranciata.
Sono arrossito, ho guardato
i suoi occhi devastati e la pelle
e i capelli diventati prematuramente
grigi, e ho detto che
mi dispiaceva, che avevo pensato
avesse bisogno di soldi.
"Ne ho bisogno", rispose
e sorrise "Stavo
solo bevendo
qualcosa".
E restammo così
a ridere assieme
mentre guardavamo le gocce di pioggia cadere
sul lago d'arancia
sopra la moneta che affondava.
Traduzione: Bruno Gullì
A rivista anarchica -
anno 42 n. 375 -
novembre 2012
in direzione ostinata e contraria 6
Intervista a Santino "Alexian" Spinelli
di Renzo Sabatini
Rom abruzzese, compositore, musicista, insegnante, poeta, saggista, studioso di
linguistica e musicologia, insegnante di cultura Romanì all'Università di
Trieste, ambasciatore della cultura Romanì nel mondo... una biografia molto
ricca! Da dove nascono tutte queste tue passioni?
Dalla famiglia di origine. Ho una grande passione per le lingue ma soprattutto,
fin da piccolo, ho avuto una grande passione per la musica. Questa della musica
è una cosa che si eredita all'interno delle famiglie Rom.
Esistono varie culture e lingue Rom. Chi sono i Rom abbruzzesi?
Noi siamo la prima comunità Rom arrivata in Italia, alla fine del 1300, quindi
la nostra comunità è in Italia da molti secoli, ma la lingua Romanì non ha nulla
a che vedere né con il rumeno né con le lingue romanze, né tantomeno con il
romanesco! È una lingua che deriva dal sanscrito e che si è arricchita nei
secoli con le lingue dei paesi che abbiamo attraversato e dei popoli con cui
siamo entrati in contatto. I Rom, suddivisi in cinque grandi gruppi e
innumerevoli comunità, provengono dall'India del nord e attraverso la Persia,
l'Armenia e l'Impero Bizantino sono arrivati in Europa. I Rom abruzzesi in
particolare sono approdati all'epoca sulle coste di quelle regioni oggi
conosciute come Abruzzo e Molise.
Fabrizio De André nel 1996 ha pubblicato Khorakhané, una canzone interamente
dedicata al popolo Rom, con una poesia finale in Romanì. Tu ne hai curata una
bellissima versione in Romanì abruzzese, ci puoi raccontare come nasce questo
progetto?
Mi è stato proposto dalla rivista anarchica e ho accettato molto volentieri,
essendo De André uno strenuo difensore della nostra cultura e soprattutto dei
diritti umani del nostro popolo, purtroppo ancora oggi vittima di una serie
infinita di discriminazioni. Khorakhané in realtà è il nome di un sottogruppo,
una comunità particolare di Rom, che pratica la religione musulmana. Io ho visto
come molto significativo il sottotitolo della canzone: "a forza di essere
vento", che sottolinea come De André avesse capito perfettamente che i Rom non
sono nomadi per cultura ma piuttosto itineranti coatti; un sottotitolo con cui
voleva, secondo me, allo stesso tempo, sottolineare lo stereotipo romantico che
avvolge da sempre il nostro mondo, sottolineare quindi il fatto che i Rom, in
realtà, non sono assolutamente conosciuti per quello che sono veramente.
Questa canzone non voleva essere soltanto un omaggio ma anche un veicolo di
conoscenza, un ponte per oltrepassare l'ostacolo del pregiudizio e far conoscere
meglio la nostra realtà culturale. Quindi, da parte mia, nel momento in cui mi è
stata offerta la possibilità di lavorare su Khorakhané grazie a questa rivista
che aveva proposto a una trentina di gruppi di nicchia di fare un omaggio a De
André, ho accettato volentieri. Dal Romanes harvado della poesia ho curato una
versione in Romanes italiano, ovviamente con una interpretazione assolutamente
originale, consona alla tradizione dei Rom italiani.
- La sensibilità: dei Rom italiani
La canzone rappresenta i tratti essenziali della cultura e storia dei Rom. È
come se in poche righe fossero condensati decine di libri. In effetti prima di
lavorare al testo della canzone De André ha voluto studiare tutto il materiale
disponibile. Pensi che abbia colto nel segno? Anche se non era un Rom trovi che
abbia parlato in maniera corretta del tuo popolo?
Assolutamente sì, perché ha capito, ripeto, che i Rom non sono nomadi per
cultura ma itineranti coatti, eterni perseguitati, costantemente discriminati.
Per questo il sottotitolo è per me così importante, perché noi siamo definiti
spesso, romanticamente: "i figli del vento" e in realtà con questo romanticismo
si sono istituzionalizzate in Italia la segregazione razziale e la
discriminazione. I campi nomadi sono una realtà orrenda del nostro mondo,
rappresentano una forma di segregazione razziale e di apartheid di casa nostra e
attraverso questa canzone De Andrè denuncia questo, fin dal titolo.
Quindi a tuo parere i Rom sono essenzialmente un popolo discriminato?
Certamente. I Rom rappresentano la minoranza etnica più diffusa in Europa e,
secondo le ricerche della Commissione della Comunità Europea, è anche la
minoranza che subisce, nel continente, le maggiori discriminazioni. I Rom
subiscono ancora oggi la violazione dei diritti più elementari e l'Italia
purtroppo si trova al primo posto per ciò che riguarda la discriminazione nei
nostri confronti.
Per la poesia che chiude la canzone De André si è servito della collaborazione
di Giorgio Bezzecchi, un Rom harvado. Tu per fare la tua versione hai avuto modo
di confrontarti con lui?
No, io sono andato direttamente alla musica di De André e Fossati e ho lavorato
su quella, facendo però una versione assolutamente originale, cercando di
mettere in risalto la sensibilità dei Rom italiani, senza però nulla togliere al
valore semantico, alla bellezza di questa poesia e alla bellezza della musica.
Perché la musica, nella sua semplicità, è fortemente evocativa e carica di
pathos, e questo va a merito di De André e Fossati per la loro straordinaria
sensibilità. Insomma il brano è di per sé già bellissimo, io non ho fatto altro
che dare una mia interpretazione.
Bezzecchi ha scritto che: "Khorakhané è in fondo una canzone sulla libertà
conquistata attraverso l'emarginazione". Condividi questa affermazione?
Si, la condivido, anche se a me interessa maggiormente sottolineare l'aspetto
della denuncia sociale da parte di De André. Certo, comunque sicuramente la
canzone esalta la libertà. La libertà ad esempio di avere una identità che sia
ben chiara, al di là delle discriminazioni e delle politiche di assimilazione.
La popolazione Romanì è rimasta sé stessa nel tempo e nello spazio senza aver
mai fatto guerra a nessuno, senza aver mai avuto un esercito, senza mai aver
attuato alcuna forma di terrorismo. Questa senz'altro è anche l'essenza di
questa canzone.
Ma allora secondo te il popolo Rom per essere libero, per rivendicare questa
libertà deve per forza anche accettare l'emarginazione?
Assolutamente no, anzi, al contrario! La popolazione Romanì che si trova in
Italia è generalmente composta da cittadini italiani e non deve essere
discriminata, perché questo ce lo dice la Costituzione. Non possiamo accettare
che ci siano cittadini di serie A e cittadini di serie B. Cittadini che hanno
diritti ed altri che non li hanno. I diritti elementari: scolarizzazione,
lavoro, casa, assistenza sanitaria, sono diritti inalienabili. Invece nel caso
dei Rom questi diritti elementari, che conferiscono cittadinanza, vengono
violati quotidianamente. Questo è non solo ingiusto ma anche anticostituzionale,
perché stiamo parlando di cittadini italiani. Quindi, per quanto riguarda la
libertà, si tratta di essere cittadini soggetti di diritti e questa è la vera
libertà che i Rom devono ancora conquistare sul suolo italiano.
Nella tournée di "Anime Salve" De André presentava Khorakhané parlando a lungo
degli "zingari". La sua riflessione lo portava a chiedere, per gli zingari, il
premio Nobel per la pace perché, come hai appena sottolineato anche tu: "girano
il mondo da duemila anni senza armi". Questa è una bella provocazione rispetto
ai tanti italiani che gli zingari invece li considerano addirittura pericolosi.
Qual è stata la tua reazione a questo atteggiamento di De André?
Secondo me ha colto l'essenza, ha capito fino in fondo la nostra cultura e l'ha
difesa a spada tratta. L'errore però è definirci: "zingari", noi non siamo
zingari, siamo Rom. Zingaro è offensivo ed è un eteronimo, non è la maniera in
cui definiamo noi stessi, è la maniera in cui i gagé, i non Rom, ci definiscono,
spregiativamente. Anche questo concetto quindi va superato.
- Ribellione e richiesta di aiuto
Penso che De André usasse il termine: "zingari" a mo' di provocazione e anche
per maggiore chiarezza. Visto che al termine è associato il disprezzo generale
dire: "Nobel per la pace agli zingari" è certamente più forte, come
provocazione, che dire "Nobel ai Rom".
Si, ne sono convinto anch'io. Lui utilizzava il termine a mo' di provocazione ma
sapeva perfettamente che noi siamo Rom. Però per me è importante chiarire, per
chi ci ascolta, per coloro che non conoscono profondamente la nostra realtà
culturale ma ci conoscono solo attraverso il filtro di stereotipi negativi che
spesso allontanano, spingono a non manifestare neanche l'interesse nei nostri
confronti. Così succede, da una parte, che un enorme patrimonio culturale e
artistico non viene valorizzato e dall'altra che dei semplici fatti sociali
vengono addirittura elevati a modelli culturali, per cui l'errore del singolo
porta inevitabilmente alla condanna di tutte la comunità, che sono invece tante
e molto diversificate fra loro.
Eppure i Rom, nonostante la discriminazione in Europa, hanno contribuito a
crearla, l'Europa! Pensiamo alla cultura musicale: nel periodo romantico, nel
momento in cui si sviluppa il concetto di "nazione", in cui si parla di fattori
locali e di radici culturali, in quella fase i Rom hanno dato un contributo
enorme ai grandi compositori. Listz, Brahms, Schubert, Granado, Debussy,
Mussowski, Stravinskij, Chaikovski, Dvorak, Bela Bartok: tutti si sono ispirati
alla nostra musica. Fino ad arrivare ad oggi. Pensiamo a Goran Bregovic: che
operazione ha fatto? Ha preso a piene mani dalla musica dei Rom in macedonia, ma
poi per quanto riguarda i diritti di autore risulta che questa musica è sua! La
stessa cosa che ha fatto Brahms con le danze ungheresi o Listz con le rapsodie
ungheresi.
I Rom poi hanno arricchito l'Europa portando strumenti fondamentali. Anzitutto
il "cimbalom", introdotto in Europa ad immagine e somiglianza del "Santur"
indiano. Dal cimbalom ungherese e rumeno nacque il clavicembalo, da cui poi, per
altre vie, nacque il pianoforte. Quindi lo strumento dei Rom è stato l'antenato
del pianoforte e questo ben pochi lo sanno! Così come nei territori balcanici i
Rom hanno introdotto la "zurna", uno strumento a doppia ancia dal quale in
Europa derivano due strumenti, uno colto e l'altro popolare: l'oboe, che si
suona nelle orchestre sinfoniche e, nel sud dell'Italia, la ciaramella, che è
uno strumento conico di forma allungata a doppia ancia.
Ma tornando a questa idea di De André, il premio Nobel per la pace ai Rom. Tu
come reagisci?
I Rom hanno risposto alle discriminazioni con un atteggiamento di passività che
voleva essere una forma di ribellione e una pacifica richiesta di aiuto. Hanno
utilizzato forme di resistenza passiva analoghe a quelle adottate da Ghandi
secoli dopo. Credo sia molto significativo avere un popolo che non ha mai usato
le armi in un'Europa in cui l'etnocentrismo ha causato danni incalcolabili. De
André aveva capito perfettamente il nostro spirito e la qualità, la carica
emotiva della nostra musica, il coinvolgimento fisico della nostra ritmica.
Aveva capito perché aveva studiato i Rom e in questa canzone, Khorakhané, aveva
riassunto tutta la sua esperienza, la sua profonda conoscenza di un mondo che
ancora, a molti, appare sconosciuto, negativo, degradato, perché in realtà non
lo conoscono.
Insomma, sul Nobel non ti sei sbilanciato! Con la frase: "i soldati prendevano
tutti e tutti buttavano via", De André nella sua canzone affronta anche il tema
delle persecuzioni subite dai Rom...
Certo. I Rom e i Sinti sono stati barbaramente massacrati durante la seconda
guerra mondiale. Oltre mezzo milione di Rom e Sinti trucidati, seviziati, usati
come cavie per gli esperimenti, depredati dei loro averi: oro, terre, case e
soldi mai restituiti. E su questo, da subito c'è stata una rimozione: nessun Rom
o Sinto è stato chiamato a Norimberga a denunciare i propri carnefici. Quindi
questo genocidio, nella storia, è stato totalmente rimosso. Ancora oggi l'Europa
deve un riconoscimento, dal punto di vista morale, psicologico, culturale e
storico, perché oggi, quando si celebra la giornata della memoria, si celebra
una giornata mutilata, offensiva e discriminante, perché si ricorda soltanto una
parte delle vittime, non tutte. Quindi i Rom sono vittime discriminate anche nel
ricordo.
Infatti lo sterminio nazista delle popolazioni Rom è un capitolo della storia
poco noto e poco studiato sia in Italia che altrove...
Sì, però bisogna dire che all'estero se ne parla molto di più che in Italia. In
Germania per esempio ci sono stati anche dei risarcimenti, esiste un museo
dell'Olocausto Rom, vengono promosse delle iniziative importanti. Ne cito una
per fare un esempio: nel 2008, di fronte al Parlamento tedesco che nel 1933
Hitler fece bruciare, dove già c'è un monumento che ricorda lo sterminio degli
ebrei, sorgerà un monumento enorme, anche molto bello (ho visto il progetto),
dedicato a Rom e Sinti. Tra l'altro sul monumento apparirà proprio una mia
poesia, Auschwitz, che sarà illuminata ventiquattro ore su ventiquattro.
La canzone riassume i tratti essenziali della cultura e della storia dei Rom.
Paolo Finzi, anarchico e amico di Fabrizio, ci raccontava che prima di scriverla
De André aveva studiato tutto il materiale disponibile. Secondo te De André ha
colto nel segno? Ha parlato correttamente del tuo popolo, pur senza essere lui
stesso Rom? Ha colto l'essenza?
Certo. Io penso che sia straordinario come De André abbia sintetizzato in una
sola canzone, in poche righe, tutto il mondo Rom. Ha fatto una sintesi che solo
un genio artistico poteva fare in quel modo. Per questo ho cantato questo brano
con una particolare dedizione e con tanta attenzione, perché era importante
sottolineare tutto quello che lui aveva scritto cercando però di dare al pezzo
l'anima Romanì. Ecco questo è stato il mio contributo: ho cercato di dare a
questo pezzo un'emotività tipicamente Romanì.
Tu dicevi che i Rom sono spesso conosciuti solo attraverso gli stereotipi,
magari ammantati di romanticismo. Con Khorakhané invece De André ci ha
avvicinato al popolo Rom così com'è, in carne ed ossa. Mi piacerebbe sapere se
questa canzone si è fatta strada anche nel popolo Rom. Se è conosciuta,
apprezzata, se la gente è stata contenta, se si è sentita magari, per una volta,
ben rappresentata.
Come no, certamente. Ovviamente, fra i Rom, gli intellettuali, quelli con un
grado di istruzione più elevato, hanno capito meglio, hanno potuto cogliere la
profondità, la valorizzazione del mondo Rom che c'è dietro questa canzone. Altri
invece magari hanno apprezzato soprattutto la musica, perché la musica già di
per sé è un linguaggio, che arriva al cuore prima che alla mente. Per cui molti
Rom e Sinti apprezzano tantissimo questo brano. Ma del resto molti Rom e Sinti
appezzano proprio l'artista De André in maniera particolare, anche al di là di
questo brano.
Parlando invece degli "altri", dei non Rom, De André ha raccontato che questo
testo ha sollevato qualche malumore. Aveva anche ricevuto qualche lettera di
protesta, come del resto c'era da aspettarsi.
Tu hai avuto la sensazione che comunque la canzone sia servita, che sia arrivata
al cuore di qualcuno, che magari prima aveva un atteggiamento negativo e che
poi, a partire da una riflessione su Khorakhané, abbia cominciato a porsi in
modo nuovo nei confronti dei Rom?
Ma io direi che la canzone in realtà rappresenta un pezzo, una testimonianza di
un movimento in atto in Italia, un movimento di opinione che coinvolge in
qualche misura il mondo Rom e Sinto che per ora, in questo paese, è ancora
segregato e discriminato. Forse De André di questo movimento è stato proprio un
precursore, gli ha dato l'input, perché ha scritto questa canzone quando questo
movimento ancora non esisteva. Quindi io gli riconoscerei questo grandissimo
merito: come in tanti altri casi, come per tante altre sue canzoni, lui è stato
un precursore. E il genio è anche questo: il saper cogliere prima degli altri
determinati aspetti della nostra società, del mondo, della stessa città in cui
viviamo. Lui, da questo punto di vista, è stato sicuramente un precursore.
In questa canzone c'è anche la gioia di stare assieme, divertirsi, fare festa.
C'è una strofa che, non a caso, viene subito dopo quella sulle persecuzioni,
come se il momento della festa fosse anche un momento di riconciliazione con la
vita, con il mondo e con gli altri.
Infatti qui Fabrizio ha colto perfettamente questo aspetto della nostra cultura.
Se da una parte ci sono le discriminazioni, le persecuzioni, dall'altra esce
fuori l'aspetto reale dei Rom, l'essenza, il carattere brioso, allegro, di
persone che, in qualsiasi condizione, riescono a sorridere alla vita. Laddove
altre persone, nelle stesse condizioni, finirebbero per cadere in depressione o
fare scelte estreme, come il suicidio, i Rom, invece, comunque sorridono alla
vita non ostante tutto. Credo che questo aspetto abbia colpito profondamente De
André e quella strofa della canzone ce lo fa capire. Lì lui ha colto la
baldanza, l'allegria, la voglia di vivere di un popolo che non si è mai
rassegnato. Del resto persino ad Auschwitz i bambini Rom, fino all'ultimo
giorno, fino all'ultimo respiro, hanno sempre mostrato la loro voglia di vivere.
Questa è una cosa che tanti, molti ebrei, molti sopravvissuti, hanno
sottolineato: erano proprio i Rom che ad Auschwitz riuscivano a dare una
dimensione un po' più umana del lager, di quel campo di orrore e morte.
La canzone parla di Rom senza avanzare giudizi, com'era nello stile di De André.
C'è però un passaggio particolarmente coraggioso che mi piace sottolineare:
quando parla delle "spose bambine" che vanno a "caritare". Qui non solo non si
avanzano giudizi ma si invitano gli ascoltatori alla cautela nell'esprimerli
perché: "Se questo vuol dire rubare, lo può dire soltanto chi sa di raccogliere
in bocca il punto di vista di Dio".
Su questo tema poi De André nei concerti diceva; "certo gli zingari rubano, ma
non ho mai sentito dire che abbiano rubato tramite banca". Ancora una volta c'è
un bel ribaltamento della morale comune.
Beh, De André sapeva già ed aveva capito perfettamente che rubare per
sopravvivere è ben diverso dal rubare per arricchirsi. Rubare del resto non è
per i Rom un fatto culturale, come molti credono, infatti i Rom fra di loro non
si rubano né si chiedono l'elemosina. Quindi bisogna dare il giusto valore alle
cose, capirle, conoscerle profondamente. I Rom, quando venivano fatti oggetto di
violenza, nel corso dei secoli, non volendo né potendo controbattere con
altrettanta violenza o con la guerra, si sono ripiegati su atteggiamenti solo
apparentemente umili, come la mendicità.
Ma la mendicità in realtà è una forma di resistenza passiva e di ribellione
pacifica e questo De André l'aveva capito. Perché il fatto di dire,
provocatoriamente, che i Rom rubano... ed è vero che molti rubano, certo, non
tutti, perché anche qui generalizzare è assurdo, perché ci sono Rom medici,
ingegneri, docenti universitari, artisti, vigili urbani, ci sono tanti Rom
impegnati nei mestieri più vari quindi, ovviamente, quando si parla dei Rom che
rubano, esce fuori uno stereotipo, per cui i Rom così vengono generalmente
definiti come criminali e questo è profondamente ingiusto. È altrettanto vero
che discriminazione e degrado portano inevitabilmente all'illegalità. Però, non
ostante tutto, i Rom anche nell'illegalità si sono sempre limitati a cose tutto
sommato futili, quelle necessarie alla sopravvivenza. Non si sono arricchiti
tramite le banche, appunto. Quindi sono altri i veri criminali a mio avviso.
Quelli che rubano per arricchirsi e per detenere un potere soggiogando le masse.
- Il concetto di multiculturalità
Nelle canzoni degli anni Sessanta De André invitava alla compassione e alla
pietà. Invece negli anni Novanta con Khorakhané, parlando dei Rom, che la
società considera un problema, lui li considera portatori di valori.
In un'intervista aveva detto che: "gli zingari custodiscono una tradizione che
rappresenta la cultura più vera e semplice dell'uomo" e che: "potrebbero
insegnarci un cammino più umano e più spirituale per un futuro migliore". Tu la
condividi un'affermazione di questo genere?
Sì, perché la società Romanì è una società semplice, precapitalistica, basata
sui concetti di dare, avere e ricambiare. Il tutto regolato dalla morale di
"fortuna / sfortuna", e dal concetto di "puro e impuro", laddove al concetto di
puro si collegano parole e comportamenti che danno al soggetto onorabilità e
rispetto e al concetto di impuro tutto il contrario. Questo è il mondo Rom, che
evidentemente De André aveva capito nella sua essenza.
Nel documentario "Faber" di Bigoni e Giuffrida c'è un'intervista a Giorgio
Bezzecchi che tra l'altro dice che De André anche se era un "Gagé" in fondo,
spiritualmente, era un Rom. Cosa voleva dire? Cosa si può cogliere in De André
che lo faccia sentire così vicino alla tua gente?
La solidarietà umana! La sua solidarietà con il popolo Rom. Lui aveva capito la
discriminazione, l'ingiustizia, il fatto che questo popolo è imbavagliato, senza
diritto di espressione, in un'epoca in cui la diversità ancora non era un valore
ma qualcosa da eliminare.
Oggi il concetto di multiculturalità è entrato a far parte del nostro
vocabolario quotidiano ma ancora è di là da venire una vera società
multiculturale, che abbia una vera base interculturale; cioè una società in cui
non basti la conoscenza ma dove ci sia anche la capacità di viverla un'altra
cultura. Oggi noi siamo preparati ad accogliere l'altro come noi stessi? Siamo
incuriositi? Abbiamo la capacità di valorizzare l'altro per quello che è e non
per quello che noi vorremmo che fosse? Questi sono i quesiti che De André ha
posto e ancora non ci sono delle risposte.
All'inizio di questa serie radiofonica abbiamo intervistato lo scrittore Stefano
Benni, il quale tra l'altro ci ha raccontato di aver avuto una nonna Rom. Lui
sostiene che queste canzoni, proprio perché raccontano senza giudicare, sono un
antidoto contro ogni razzismo.
Tu pensi che una canzone possa davvero combattere pregiudizio, razzismo,
addirittura aiutare concretamente un popolo discriminato?
Certamente sì, la canzone può essere parte di un percorso di formazione. La
canzone arriva al cuore, prima che alla mente, parla alla parte più intima
dell'essere umano, dialoga, e può davvero svelare delle verità a persone che non
conoscono. Spesso la disinformazione impedisce il dialogo, impedisce il
confronto costruttivo, la conoscenza. Nella ricerca della verità una canzone
sicuramente aiuta. Pensiamo al successo straordinario che ha avuto questa
canzone di De André: ha formato, incentivato, stimolato la curiosità nei
confronti dei Rom e questo, sicuramente, è un grandissimo merito.
Proprio da questo punto di vista De André è stato un Rom e non un Gagé. Ha fatto
ancor prima di me ciò che io sto facendo per la mia gente, che è il tentativo di
valorizzare un enorme patrimonio culturale che è patrimonio dell'intera umanità.
Perché la lingua, la cultura, la storia dei Rom appartengono all'umanità tutta e
se un domani dovessero scomparire l'umanità intera ne sarebbe impoverita.
Bisogna allontanare lo spettro dell'appiattimento del genere umano e questo è il
valore profondo del canto impegnato di De André: evviva la diversità! Evviva
l'essere individuo nella sua essenzialità, nella sua ricchezza, nella sua
complessità, nella sua pienezza. Questo è il valore profondo della testimonianza
di De André e Khorakhané lo rivela chiaramente.
Oltre a De André ci sono stati altri artisti Gagé che hanno cantato dei Rom? E
se sì, lo hanno fatto in maniera corretta e utile o restiamo nel campo degli
stereotipi?
Pochi, però in genere siamo ancora nel campo dello stereotipo: "Ho visto anche
degli zingari felici"... è bello sì, però nessuno vuole essere discriminato.
Bisogna stare attenti, perché è un po' come l'olocausto: il termine è sbagliato,
perché nessuno voleva morire. Non è che ci si volesse immolare per qualcosa.
Bisognerebbe parlare di genocidio. E allo stesso modo, non è che i Rom cerchino
la discriminazione, l'emarginazione: i Rom sono discriminati dal sistema. Ma non
c'è nessuno a cui piace vivere nel fango, o senza diritti. Quelli che vengono a
fare oggi in Italia i "nomadi", ieri nella ex Jugoslavia o in Romania avevano
tutti le loro case!
Noi Rom italiani abbiamo le case, non da adesso, da secoli! È la disinformazione
dilagante che vuole vedermi per forza o criminale, da una parte, oppure,
dall'altra, il rovescio della medaglia, vuole vedermi in quell'idea romantica
del Rom libero, che sta al di fuori delle istituzioni... tutte queste
stupidaggini! In realtà la cosa più difficile da far capire all'opinione
pubblica è che i Rom sono esseri umani normalissimi e che come tutti gli esseri
umani vogliono avere rispetto, diritti, vogliono vivere in pace con tutti.
Questo ci racconta la storia secolare dei Rom, all'eterna ricerca di uno spazio
vitale e invece costretti ad essere eterni migranti, perché scacciati da una
parte e dall'altra dell'Europa, perché non protetti dalla politica, perché non
rappresentati nelle istituzioni.
È facile prendersela con chi non può reagire! Ho visto delle trasmissioni
televisive che sono veramente dei crimini contro l'umanità! Trasmissioni dove
viene presentato il popolo Rom senza dare l'opportunità di esprimersi, dove
quindi viene influenzata l'opinione pubblica che diventa una vittima di questo
sistema. È chiaro che poi diventa molto difficile rivendicare i propri diritti!
Certi servizi giornalistici, certi articoli, sono, assieme ai campi nomadi, dei
crimini contro l'umanità.
Quindi la disinformazione è uno dei problemi maggiori che dovete affrontare?
I Rom non hanno spazio nei mass media, ma non è solo questo. Non c'è ad esempio
una valorizzazione dal punto di vista artistico-culturale. La musica che faccio
io è presente in Italia da oltre sei secoli. Chi la conosce? E questo ti fa
capire. Se provi a chiedere a un laureato di indicare un solo nome di un artista
Rom, di citare una poesia Rom, ti risponderà che non ne conosce. Il livello di
ignoranza è altissimo nei confronti dei Rom. Ecco perché poi gli stessi
intellettuali non esprimono solidarietà. È questa la differenza di De André: ha
mostrato solidarietà. Uno fra i primissimi e uno fra i pochissimi intellettuali
e artisti italiani che abbia mostrato solidarietà umana nei confronti delle
popolazioni Romanì indifese e discriminate. È questo il fatto straordinario. Per
questo per noi Rom De André è un alfiere d'amore e di pace. Io se avessi potuto
incontrarlo gli avrei stretto semplicemente la mano e lo avrei salutato
fraternamente alla maniera Rom: (pronuncia una frase in lingua Romanì)...
Noi allora ti salutiamo con le stesse parole, anche se non saprei proprio
pronunciarle...
(ridendo) ...il saluto lo estendo fraternamente a tutti gli ascoltatori. Queste
parole significano letteralmente: "Che possiate essere sani e fortunati". Perché
la salute e la fortuna sono due elementi importanti nella cultura Romanì. Nel
mondo Rom stare bene e non incappare in qualcosa di negativo, per una società
fortemente oppressa come quella Rom, è l'augurio più grande e più profondo che
si possa esprimere nei confronti di un congiunto. Io lo esprimo altrettanto
fraternamente alla famiglia di De André, alla sua memoria e a tutti quelli che
ci stanno ascoltando. Vi abbraccio forte e spero che questa musica di cui De
André si è fatto alfiere sia sempre più conosciuta, apprezzata e valorizzata.
(intervista realizzata via telefono nell'aprile 2007. Registrata presso gli
studi di Rete Italia - Melbourne. Andata in onda nell'ambito della trasmissione
radiofonica settimanale: "In Direzione Ostinata e contraria", dedicata ai
personaggi delle canzoni di Fabrizio De André)
In direzione ostinata e contraria
Con questa intervista a Santino "Alexian" Spinelli, prosegue la pubblicazione su
"A" di una parte significativa delle 27 interviste radiofoniche realizzate da
Renzo Sabatini e andate in onda in Australia nel programma "In direzione
ostinata e contraria" sulle frequenze di Rete Italia fra il maggio 2007 e
l’agosto 2008. In tutto si è trattato di sessanta puntate (ciascuna della durata
di circa quaranta minuti, per un totale di quasi 40 ore di trasmissioni), nel
corso delle quali sono state trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte le
canzoni di Fabrizio De André. Si tratta dunque della più lunga e dettagliata
serie radiofonica mai dedicata al cantautore genovese.
Se proponiamo questi testi, è innanzitutto per dare ancora una volta spazio e
voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio e voce ne hanno poco o
niente nella "cultura" ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del
cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio e poste alla base di
una riflessione critica sul mondo e sulla società, con quello sguardo profondo e
illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con una profonda sensibilità
libertaria e - scusate la rima - sempre in direzione ostinata e contraria.
Precedenti interviste pubblicate: a
Piero Milesi ("A" 370, aprile 2012), a
Carla
Corso ("A" 371, maggio 2012),
Porpora Marcasciano ("A" 372, maggio 2012),
Franco
Grillini ("A" 373, estate 2012),
Massimo ("A" 374, ottobre 2012).
Santino Spinelli
in arte Alexian, nasce a Pietrasanta (Lu) nel 1964.
È musicista, cantautore, insegnante, poeta e saggista.
Ha due lauree: una in Lingue e letterature straniere e l'altra in Musicologia,
entrambe conseguite presso l'Università degli Studi di Bologna.
Attualmente vive a Lanciano, in Abruzzo. Insegna Lingua e cultura romaní presso
l'Università di Chieti e con il suo gruppo, l' Alexian group, tiene numerosi
concerti di musica romaní in Italia e all'estero.
Tra i suoi numerosi lavori discografici ricordiamo:
Romano Thèm - Orizzonti Rom (CNI - Compagnia Nuove Indie, 2007)
Andrè mirò Romano Gi, viaggio nella mia anima Rom (Ass. Thèm Romanó e Provincia
dell'Aquila)
Romano Drom - Carovana romaní (Ethnoword, Milano, 2002)
Dromos (Associazione Dromos, 2001)
Segnaliamo inoltre alcuni lavori di natura letteraria e saggistica:
Princkarang - Conosciamoci, incontro con la tradizione dei Rom Abruzzesi
(Editrice Italica, Pescara, 1994)
Baxtaló Divès (Collezione Interface, Centro di Ricerche zingare dell'Università
di Parigi, Consiglio d'Europa, 2002)
Baro Romano Drom - la Lunga strada dei Rom, Sinti, Kalé, Manouches e Romanichals
(Meltemi editore, Roma, 2003)
Per chi volesse approfondire la conoscenza con Santino Spinelli:
e-mail: spithrom@webzone.it - telefono: 0872.66.00.99
sito ufficiale: www.alexian.it
movieplayer.it a cura di Luciana Morelli pubblicato il 26 novembre
2012
Presentato in anteprima mondiale al Torino Film Festival 2012 nella sezione
Festa Mobile il nuovo film del regista di origini sarde ambientato nel campo
nomadi di Cagliari e incentrato sull'emarginazione.
Dopo
I bambini della sua vita e il documentario su Liliana Cavani,
Peter Marcias
torna nella sua Sardegna per raccontarci una storia di emarginazione e insieme
un dramma di volti e corpi che cerca di aprire lo sguardo ed allargare
l'orizzonte su una realtà dolorosa e ingiusta che riguarda strettamente il
nostro paese, un argomento che il cinema 'ufficiale' troppo spesso tende ad
ignorare. Scritto da
Gianni Loy, il film parla sì di un popolo relegato ai
margini della società dallo Stato ma più in generale affronta il tema della
diversità e dell'integrazione ma parla anche d'amore, amicizia e di
comprensione, valori che vanno oltre la razza, il colore della pelle e la
nazionalità. Ad accompagnare il film a Torino il giovane regista insieme allo
sceneggiatore e ai due attori protagonisti
Luli Bitri e
Salvatore Cantalupo,
rispettivamente una ragazza di origini rom che vive in Francia e un ispettore di
polizia di mezza età che diventano amici. Prodotto e distribuito da
Gianluca Arcopinto, rispettivamente con la Axelotil Film e con la Pablo,
Dimmi che
destino avrò è sostenuto dall'Unicef come film di interesse sociale per l'alto
valore del messaggio e del tema trattato e sarà nelle sale a partire da giovedì
29 novembre.
Signor Marcias, ci spiega com'è entrato in contatto con la realtà dei campi rom?
Peter Marcias: Per la realizzazione di questo film siamo partiti da una
sceneggiatura di Gianni Loy che collabora con la Fondazione Anna Ruggiu onlus e
lavora con i tanti campi nomadi presenti in Sardegna, per lo più campi
amministrati dalle autonomie locali. Personalmente era la prima volta che
entravo in un campo rom, per me è stato un po' come seguire lo stesso percorso
umano che intraprende il commissario nel film. E' stata un'esperienza importante
per me sia dal punto di vista umano sia professionale.
Come descriverebbe il suo film in poche parole?
Peter Marcias: Dimmi che destino avrò è più di tutto un film sull'interazione
più che sull'integrazione, un film che sfrutta elementi di fiction per
raccontare la realtà.
Ci spiega perché nel suo film il rapporto che si instaura tra il commissario e
la ragazza rom è un po' in controtendenza e cioè è l'autorità ad essere meno
forte della parte 'lesa' vista solitamente come la più debole?
Peter Marcias: Era sostanzialmente quello che volevo venisse fuori dal film, mi
sembrava troppo semplicistico realizzare il solito thriller in cui c'è un
commissario che esegue le indagini all'interno del campo rom, ho preferito farlo
entrare a contatto con la realtà dei nomadi un po' in sordina, quasi in punta di
piedi. Mi interessava poi che fosse una donna a prendere il sopravvento sulla
vicenda ma non nascondo che questa linea è venuta fuori successivamente e cioè
quando il film era già in corso d'opera. Capisco che questo aspetto possa
sembrare un po' inverosimile ma ho preferito dirigere la storia verso binari non
consueti, è per questo che abbiamo fatto in modo che non accadesse nulla di
romantico tra i due protagonisti. Devo ammettere di aver un po' giocato sotto
questo aspetto.
Ci spiega come sono andate le riprese nei campi e in che zone è stato girato il
film?
Peter Marcias: Abbiamo girato in due diversi campi, quello di Monserrato e
quello vicino a Selargius. Il bello è che dovevamo stare una settimana ed invece
alla fine ci siamo stati un mese e mezzo, all'inizio non è stato facile farsi
accettare dalla comunità rom ed è anche comprensibile visto che siamo piombati
nella loro vita all'improvviso con le nostre attrezzature senza aver loro prima
spiegato il tutto. Successivamente si sono dimostrati curiosi nei confronti del
film, dei meccanismi organizzativi sul set, dei ciak, degli attori mentre noi
dal canto nostro abbiamo cercato di coinvolgerli in tutto e per tutto nelle
scene del film facendo interpretare ad alcuni di loro il ruolo di alcuni
poliziotti durante la scena della perquisizione. Quello che non volevamo era
approfittare del loro naturale folklore per raccontare la nostra storia, abbiamo
voluto raccontare la loro vita nella loro essenza.
Come hanno vissuto i due attori questo stretto contatto con la comunità rom e
come hanno lavorato per affrontare al meglio i loro personaggi?
Luli Bitri: Per me era un po' più difficile perché dovevo essere una di loro,
per prepararmi ho fatto ricerche letterarie ma quel che mi ha più aiutato è
stato l'incontro con una ragazza che era nella stessa situazione di Alina, il
mio personaggio, e quindi ho usato i suoi consigli linguistici e comportamentali
per entrare nella psicologia delle donne della comunità. Col passare dei giorni
poi sono diventati degli amici per me, mangiavamo insieme, stavamo ore a
chiacchierare e qualcuno si è anche confidato intimamente con me, alla fine mi
sono dimenticata di essere un'attrice. Posso dire di aver preso parte ad un
pezzettino della loro vita e di aver regalato loro qualche momento di
riflessione stuzzicando la loro curiosità e le loro speranze per il futuro.
Salvatore Cantalupo: Mi sono molto rispecchiato nei bambini rom che ho allenato
sul campo di calcio nel film, facevano gli stessi giochi che facevo io da
scugnizzo napoletano, ma più di ogni altra cosa ho cercato di vivere il più
umanamente possibile il mio personaggio.
Domenica 23 Dicembre 2012, ore 21
Coop. Soc. Circolo Familiare di Unita' Proletaria - viale Monza 140- Milano
(salone al primo piano) - Ingresso 5,00 euro
Iniziò tutto dieci e più anni fa. Suonavano nella metropolitana, raccontarono la
loro storia nel film "Miracolo alla Scala", rappresentarono l'Italia ad un
concorso europeo in Grecia. Furono i primi a far conoscere le storie e la musica
dei Rom rumeni a Milano. Poi, come succede spesso, il gruppo si divise: qualcuno
andò a lavorare in campagna, qualcuno tornò in Romania, altri continuarono a
girare tra campi rom sempre più malmessi. Altri cammineranno sul percorso
tracciato da loro.
Ma non puoi fermare la passione che scorre nelle vene di un musicista, la
necessità di mettersi in gioco ancora una volta. Eccoli allora, a presentare
brani del repertorio romanì e del folklore rumeno, e scoprire le tante radici
che legano questo popolo alla nostra cultura dell'800 e del '900. Una serata per
ballare - certo, per riflettere - forse, per conoscersi e stare insieme nella
magica atmosfera del nostro circolo.
DIRITTI GLOBALI FONTE: ANDREA TARQUINI - LA REPUBBLICA | 02 GENNAIO 2013
Sul podio il maestro Sahiti, profugo dal Kosovo
BERLINO. Sono tutti bravi, strappano sempre grandi applausi e standing ovation.
E sono tutti Rom. "Suoniamo soprattutto per mostrare che non è vero che se sei
un Rom sei un criminale", è il loro motto. Girano di continuo l'Europa in
tournée, sfidando anche pericoli in situazioni come quella ungherese, dove gli
ultrà di destra e le loro milizie tipo Magyar Garda hanno le violenze razziste
anti-Rom come attività quotidiana. Di orchestre sinfoniche ce ne sono tante ma
questa è la storia di un'orchestra unica al mondo. Si chiama Frankfurter
Philharmonische Verein der Sinti und Roma. Esiste da dieci anni, fondata dal
musicista rom nato in Kossovo Riccardo Sahiti, oggi cinquantunenne. A
Francoforte, nella metropoli finanziaria della democrazia tedesca, ha base
sicura ma viaggia di continuo per portare in musica il suo messaggio
antirazzista.
"L'idea mi venne perché all'inizio, io fuggito dal Kosovo in guerra e con una
robusta formazione musicale sulle spalle, avevo difficoltà a farmi accettare
nelle orchestre", ha spiegato Riccardo Sahiti alla Sueddeutsche Zeitung,
l'autorevole quotidiano liberal di Monaco che all'orchestra sinfonica rom ha
dedicato un reportage a tutta pagina. "Ho cercato e contattato colleghi ovunque,
sapevo che musicisti sinti o rom erano attivi in orchestre importanti, dalla
Wiener Staatsoper, all'Orchestra sinfonica della MDR (la tv pubblica dell'est
tedesco) a Lipsia, all'orchestra nazionale romena".
Così nacque il progetto, nel novembre 2002 a Francoforte. Adesso a Praga hanno
appena incassato il tutto esaurito suonando, tra l'altro, il Requiem per
Auschwitz, composto da Roger Moreno, sinto di origine svizzera. "Nel maggio
scorso", narra Moreno, "lo abbiamo eseguito ad Amsterdam e la regina Beatrice ci
ha poi invitati a un caffè a palazzo reale per dare l'esempio contro i
razzisti".
Non è facile farsi avanti, neanche nell'arte, se appartieni a una minoranza mal
vista un po' ovunque. Sahiti è di buona famiglia, i genitori spesero tutto per
il suo talento musicale, gli regalarono un pianoforte, riuscirono a mandarlo a
studiare a Belgrado e poi a Mosca. Poi vennero le guerre volute dal dittatore
serbo Slobodan Milosevic, i massacri etnici e gli stupri etnici di massa della
sua soldataglia, asili e ospedali bombardati dai suoi Mig. Sahiti fuggì,
appunto. E nel 2002, appena costituita, l'orchestra sinfonica Rom tenne proprio
a Francoforte, gran pienone, il suo primo concerto.
"Aver creato l'orchestra vuol dire non perdersi di vista" spiega il violinista
Johann Spiegelberg. "Ognuno di noi o quasi ha nella memoria brutte esperienze.
Io una volta ero in una grossa città dell'est tedesco, alla fine d'un concerto,
ancora in frac, arrivai a una pompa di benzina per fare il pieno con la mia
vecchia Mercedes. Due giovinastri mi si sono avvicinati, mi hanno detto “eccolo
là, il kanak (termine razzista per straniero usato dai neonazisti ma anche da
gente comune nell'ex Ddr, dove tre generazioni vissero prima sotto Hitler poi
sotto lo stalinismo, senza cultura democratica e quasi senza ribellarsi fino
all'ultimo al contrario di polacchi o cecoslovacchi o ungheresi, ndr).
Ecco un altro kanak, bè kanak che ne dici, è sempre comodo per voi vivere bene
qui a spese nostre e a casa nostra, no?”. Io non mi lasciai provocare".
"Ogni tournée è come un'allegra gita scolastica, eppure ce la mettiamo tutta".
Musica sinfonica, classica, non folklore. E naturalmente anche musiche di opere
ispirate al mondo Rom, da Carmenal Gobbo di Notre-Dame.
"Quella per noi è una nostra eredità culturale da tramandare". Il rischio, dice Jitkà Jurkovà, attivista dei gruppi antirazzisti cèchi che li aiuta a
organizzare concerti, è che vengano visti come spettacolo esotico, e che il
messaggio politico non sia capito appieno. Ma è un rischio che per il maestro
Sahiti e i suoi orchestrali val la pena correre. Tanto da suonare il Requiem per
Auschwitz anche in Germania.
Da
Czech_Roma Prague, 26.12.2012 23:31, (Romano vod'i)
- Inka Jurková, translated by Gwendolyn Albert
--ilustrační foto--
Roger Moreno Rathgeb è autodidatta, come molti musicisti rom, ma poco a poco
ha iniziato ad usare la partitura musicale e a comporre. Diversi anni fa decise
di comporre un requiem per le vittime del campo di sterminio di Auschwitz,
ma il suo lavoro fu interrotto da una visita che lo influenzò fortemente,
bloccando per diversi anni le sue capacità creative. L'impulso a completare il
lavoro arrivò sotto forma di richiesta da Albert Siebelink, che gli suggerì di
presentare il "Requiem for Auschwitz" all'International Gipsy Festival di Tilburg
e poi in altre città europee.
Compositore e polistrumentista (suona fisarmonica, violino, contrabbasso,
chitarra, piano e percussioni), Rathgeb è a Praga per la prima volta il suo
lavoro sinora più vasto, "Requiem per Auschwitz" (ulteriori notizie su
questo eccezionale evento su
Romea.cz). Abbiamo parlato assieme nel foyer del Rudolfinum durante le prove
generali, che potevamo udire dall'altra parte della parete. E' stato molto
bello.
Sei nato in Svizzera nel 1956, cioè 11 anni dopo la guerra. Anche se
la Svizzera era neutrale, hai patito le conseguenze della guerra?
In effetti in Svizzera non c'era la guerra, ma c'erano altri problemi. Ad
esempio, proprio in quel periodo una specifica organizzazione svizzera (la
Pro Juventute, ndr.) stava lavorando per sottrarre i bambini dalle famiglie
romanì subito dopo la nascita, per darli a coppie non-romanì che erano sterili.
E' durato sino al 1979. Si può dire che anche questa era una guerra, solo un po'
diversa.
Da dove provenivano i tuoi genitori?
Mio padre non era Rom, era uno Svizzero tedesco. Mia madre era Rom -
precisamente, era Sinti - ma anche lei era nata in Svizzera. All'epoca non
crebbi nell'ambiente romanì tradizionale. Con mia sorella frequentammo la
scuola normalmente. Sino ai 12 o 13 anni nemmeno seppi che mia madre era sinti.
Non solo a casa non parlavamo romanés, ma nemmeno sull'essere rom. Di fatto non
so come si conobbero i miei genitori. Mio nonno (cioè il padre di mia madre)
morì quando lei aveva sei anni, così de facto non conosceva la propria
cultura.
Però parli il romanés. L'hai imparato dopo?
Sicuro. Nel 1980 con la mia band eravamo in tour in Olanda, dove incontrai
parecchie famiglie di musicisti sinti. La band mi lasciò solo con loro [ride].
Parlavano solamente il sinto ed in mezzo a loro mi sentii subito a casa.
Quando eri con loro, sapevi già di essere un Sinto?
Sì. Da bambini i compagni di scuola ridevano di me e dicevano che ero uno
"zingaro", accusa da cui mi difendevo perché davvero non sapevo niente delle mie
origini. Dovevano aqverlo saputo in qualche modo. Una volta tornai a casa e mi
lamentai con mia madre, così lei mi rivelò che ero un Rom. Non fu facile per lei
dirmelo, si vergognava un po'. Poi, per molti anni, ho avuto problemi con la mia
identità. Dopo tutto, sono cresciuto solo come un "normale" Svizzero, proprio
come un gagio.
Oggi ti identifichi come Rom-Sinto?
Ho sempre avuto la sensazione di non essere come gli altri Svizzeri. Ero un
ribelle. Contestavo le leggi, la società svizzera, protestavo contro tutto. Gli
Svizzeri hanno una mentalità completamente differente. Sospettavo di non essere
uno svizzero, che non fosse vero. Doveva esserci qualcos'altro.
Quando hai deciso di dedicarti professionalmente alla musica? Cosa ti
ha portato a ciò?
Quando compii 10 anni, mia nonna (lato materno) mi regalò una chitarra. Avevo
scoperto che avevo talento musicale, anche se sono il solo in famiglia che si è
dedicato alla musica. In famiglia d'altra parte nessun altro ha mai avuto questa
passione.
Qual è la musica che ti piace di più? Sei qui a Praga per un concerto
di musica classica, o anche per la musica rom tradizionale?
Sì, la musica rom è sicuramente quella che mi piace di più. La strada per la
musica classica per me è stata davvero lunga, perché per molto tempo non
riuscivo nemmeno a leggere la musica.
Dove hai imparato la teoria musicale, che è così necessaria per
comporre un requiem?
Incontrai le prime scale musicali quando avevo 35 anni. Prendevo lezioni di
violino ed il mio insegnante era un Rom ungherese che suonava nell'orchestra
sinfonica di Maastricht. Fu il primo a mostrarmi la notazione musicale e così
facendo mi aprì un mondo intero davanti.
Oltre alla musica rom e a quella classica, che musica ascolti?
Di base amo tutta la musica. Una volta ho anche suonato la batteria in una
rock'n'roll band e sino ad oggi ho avuto belle sensazioni su questo stile
musicale, mi piace!
Tu hai collaborato con molti gruppi - di quali hai i ricordi migliori
e quali hanno più impattato sulla tua vita?
Direi la famiglia sinti con cui iniziai a suonare dopo il trasferimento in
Olanda [la Zigeunerorkest Nello Basily - nda]. Interpretavano la musica
tradizionale dei Rom di Ungheria, Romania e Russia. Imparai da loro, in
particolare dal suonatore di cimbalom, come distinguere le armonie ungheresi.
Sono i migliori per apprendere l'accompagnamento, perché sono in costante
evoluzione, e ciò rende più facile accompagnare anche canzoni che non si
conoscono. Sono giunto alla più grande profondità di comprensione con quel
gruppo.
Perché hai deciso di emigrare in Olanda?
Nel 1980 con la band eravamo in tour in Olanda, e la mentalità delle gente di
quel paese mi coinvolse da subito. Gli Olandesi sono liberi pensatori, a
differenza degli Svizzeri che sono terribilmente conservatori. La verità è che
agli Svizzeri i Rom non piacciono. Gli Olandesi sono aperti e tolleranti ed
hanno un paese meraviglioso. Fu una decisione molto rapida.
Hai scritto sceneggiature per diversi spettacoli teatrali - di che si
tratta?
Con la band abbiamo creato degli spettacoli teatrali. Il primo si chiamava
"Il Lungo Viaggio" e raccontava la storia della migrazione del popolo romanì
dall'India in Europa. Il secondo l'abbiamo chiamato "La Vita" e lì ritraevamo la
vita di ogni giorno dei musicisti rom. Sono pastiches di musica, poesia
e narrativa. Ci sedevamo attorno a un fuoco, suonavamo i nostri strumenti e
facevamo del nostro meglio per creare l'atmosfera di un campo rom. I gagé non
conoscono molto del popolo rom e spesso mi chiedono della nostra storia e
cultura. Volevamo in qualche modo avvicinarli alla nostra "Romanipé", perché la
discriminazione deriva soprattutto dall'ignoranza.
Quanta gente veniva a sentirvi - erano soprattutto Rom oppure no?
Abbiamo recitato nei teatri di Belgio, Germania e Olanda, e il pubblico era
soprattutto di gagé. E' triste - i Rom non sono interessati in queste cose, non
so il perché.
Sei a Praga con tua moglie. E' musicista anche lei?
Sì, anche sul palco siamo assieme, è il nostro modo di vivere. E' buffo, che
le mie composizioni siano suonate in tutta Europa, ma che che ancora io non ci
abbia guadagnato, ed in qualche maniera si deve pur vivere. Suoniamo nei
concerti, ai festival, nei teatri, ai matrimoni e nelle varie feste.
Sei uno degli interpreti principali del film "Musicians for Life",
creato da Bob Entrop. Cosa puoi dirci del film?
E' una delle ragioni per cui sono a Praga. Albert Siebelink, il direttore del
festival romanì di Tilburg, l'ha visto, e c'è un'intervista in cui parlo di "Requiem for Auschwitz".
Dopo aver visto il film, Albert mi chiese se lo avessi completato, ma non era
ancora pronto. Mi promise che se l'avessi completato, si sarebbe dato da fare
per la sua esecuzione. Iniziai nuovamente a lavorarci nuovamente, ma lo stesso
mi ci sono voluti altri tre anni.
"Musicians for Life" non è il solo film con cui ho collaborato con Bob Entrop.
C'è anche il documentario "A Hole in the Sky", sui sopravissuti alla
II guerra mondiale.
Quando hai iniziato a lavorare a "Requiem"?
La prima volta ho visitato Auschwitz nel 1998 e subito ho avuto l'idea di
scrivere un requiem. Iniziai a lavorarci, ma dopo qualche tempo tutta la mia
ispirazione scomparve. Pensai che tornando ad Auschwitz avrei saputo come
continuare - ma successe il contrario. Ero soltanto distrutto, è un posto molto
macabro. Ho messo il lavoro da parte e non sono tornato al "Requiem" che otto
anni dopo.
Ti definiresti un attivista rom o sinto?
Probabilmente, no - sono solo un musicista. Però, se la gente vede un
messaggio nella mia musica, va benissimo.
Per un certo periodo hai collaborato con la cantante lirica Carla Schroyen.
Di che progetto si trattava? E' iniziata da lì la tua idea di creare una grande
opera musicale come
"Requiem for Auschwitz"?
Carla Schroyen ha scritte diverse arie "zingare" per opera ed operetta e l'ho
accompagnata alla fisarmonica, ma questo non ha influenzato la mia composizione.
Già da prima mi ero dedicato alla musica classica.
Qual è stata la tua prima composizione classica?
Nel 1995 decisi di provare a scrivere un balletto per un ensemble di danza
amatoriale a Maastricht. Tuttavia, alla fine, si trasformò in un lavoro
sinfonico-poetico.
In "Requiem for Auschwitz" hai provato ad incorporare elementi
della musica romanì?
Un poco, ci sono diversi motivi che tornano di continuo, però "Requiem" non è
dedicato solo alle vittime romanì, ma a chiunque abbia sofferto e sia perito ad
Auschwitz. Prima di scriverlo non avevo ascoltato altri requiem, così non sarei
stato influenzato da altri lavori. Nel "Requiem" ci sono io, nessun altro, è per
questo che lì si trovano alcuni motivi romanì.
Vedi qualche differenza tra il genocidio del popolo ebreo e quello
del popolo rom?
E' del tutto la stessa cosa. I numeri differiscono un po', ma non è questo
l'essenziale.
Tu hai suonato come apertura per Chuck Berry, per la famiglia reale
olandese, e "Requiem for Auschwitz" è stato suonato nelle più celebri sale
da concerto europeo. Quale consideri il tuo più grande successo, sinora? Hai
altri piani o sogni?
Sto lavorando su un oratorio riguardo la migrazione dei Rom dall'India
all'Europa. Penso che sarà un lavoro più ampio di "Requiem". Vorrei anche
scrivere un'opera sui bambini rom portati via dalle loro famiglie e collocati in
famiglie non-Rom in Svizzera. Come vedi, ho abbastanza piani! [ride]
Il Libraio.it
di Valentina Furlanetto
dal 17 gennaio 2013 in libreria
"Basta con la carità, c'è bisogno di giustizia... La liberazione viene sempre
dal basso, dai poveri, mai dai ricchi. Alex Zanotelli"
Questo libro racconta un mondo, quello della solidarietà, di cui non si sa
abbastanza. Tra sms che salvano, adozioni a distanza, partite del cuore,
campagne televisive, azalee e arance benefiche, quanti milioni di euro raccolti
arrivano a chi ha bisogno? La risposta che viene fuori dalle testimonianze di
cooperanti italiani e internazionali e dai più recenti dati di bilancio (quando
sono disponibili: in Italia non c'è l'obbligo di pubblicare un vero e proprio
bilancio economico-finanziario) è che tra profit e non profit c'è ormai poca
differenza. Migliaia di associazioni sono in lotta una contro l'altra per i
fondi, quelle più grandi spendono milioni per promuoversi e farsi conoscere,
intanto le più piccole sono schiacciate dalla concorrenza. Gli stipendi dei
manager del settore non profit sono ormai uguali a quelli delle multinazionali
(la buonuscita milionaria di Irene Khan, ex segretario generale di Amnesty
International, è solo la punta dell'iceberg). Ma i soldi non sono che una parte
della questione, c'è molto altro da sapere. Che fine fanno i vestiti che
lasciamo ai poveri? Come funziona il sistema delle adozioni internazionali? E il
commercio equo e solidale? La filantropia ha fatto cose importanti, ma è anche
il simbolo del fallimento della politica. Gli esseri umani non dovrebbero
dipendere dalla generosità di altri. Se poi questa generosità diventa un
business è importante raccontarlo per impedire che qualcuno si arricchisca sulla
buona fede dei donatori.
autore Valentina Furlanetto
collana Principio attivo
casa editrice CHIARE LETTERE
dettagli libro - cartonato con sovracoperta
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