movieplayer.it a cura di Luciana Morelli pubblicato il 26 novembre
2012
Presentato in anteprima mondiale al Torino Film Festival 2012 nella sezione
Festa Mobile il nuovo film del regista di origini sarde ambientato nel campo
nomadi di Cagliari e incentrato sull'emarginazione.
Dopo
I bambini della sua vita e il documentario su Liliana Cavani,
Peter Marcias
torna nella sua Sardegna per raccontarci una storia di emarginazione e insieme
un dramma di volti e corpi che cerca di aprire lo sguardo ed allargare
l'orizzonte su una realtà dolorosa e ingiusta che riguarda strettamente il
nostro paese, un argomento che il cinema 'ufficiale' troppo spesso tende ad
ignorare. Scritto da
Gianni Loy, il film parla sì di un popolo relegato ai
margini della società dallo Stato ma più in generale affronta il tema della
diversità e dell'integrazione ma parla anche d'amore, amicizia e di
comprensione, valori che vanno oltre la razza, il colore della pelle e la
nazionalità. Ad accompagnare il film a Torino il giovane regista insieme allo
sceneggiatore e ai due attori protagonisti
Luli Bitri e
Salvatore Cantalupo,
rispettivamente una ragazza di origini rom che vive in Francia e un ispettore di
polizia di mezza età che diventano amici. Prodotto e distribuito da
Gianluca Arcopinto, rispettivamente con la Axelotil Film e con la Pablo,
Dimmi che
destino avrò è sostenuto dall'Unicef come film di interesse sociale per l'alto
valore del messaggio e del tema trattato e sarà nelle sale a partire da giovedì
29 novembre.
Signor Marcias, ci spiega com'è entrato in contatto con la realtà dei campi rom?
Peter Marcias: Per la realizzazione di questo film siamo partiti da una
sceneggiatura di Gianni Loy che collabora con la Fondazione Anna Ruggiu onlus e
lavora con i tanti campi nomadi presenti in Sardegna, per lo più campi
amministrati dalle autonomie locali. Personalmente era la prima volta che
entravo in un campo rom, per me è stato un po' come seguire lo stesso percorso
umano che intraprende il commissario nel film. E' stata un'esperienza importante
per me sia dal punto di vista umano sia professionale.
Come descriverebbe il suo film in poche parole?
Peter Marcias: Dimmi che destino avrò è più di tutto un film sull'interazione
più che sull'integrazione, un film che sfrutta elementi di fiction per
raccontare la realtà.
Ci spiega perché nel suo film il rapporto che si instaura tra il commissario e
la ragazza rom è un po' in controtendenza e cioè è l'autorità ad essere meno
forte della parte 'lesa' vista solitamente come la più debole?
Peter Marcias: Era sostanzialmente quello che volevo venisse fuori dal film, mi
sembrava troppo semplicistico realizzare il solito thriller in cui c'è un
commissario che esegue le indagini all'interno del campo rom, ho preferito farlo
entrare a contatto con la realtà dei nomadi un po' in sordina, quasi in punta di
piedi. Mi interessava poi che fosse una donna a prendere il sopravvento sulla
vicenda ma non nascondo che questa linea è venuta fuori successivamente e cioè
quando il film era già in corso d'opera. Capisco che questo aspetto possa
sembrare un po' inverosimile ma ho preferito dirigere la storia verso binari non
consueti, è per questo che abbiamo fatto in modo che non accadesse nulla di
romantico tra i due protagonisti. Devo ammettere di aver un po' giocato sotto
questo aspetto.
Ci spiega come sono andate le riprese nei campi e in che zone è stato girato il
film?
Peter Marcias: Abbiamo girato in due diversi campi, quello di Monserrato e
quello vicino a Selargius. Il bello è che dovevamo stare una settimana ed invece
alla fine ci siamo stati un mese e mezzo, all'inizio non è stato facile farsi
accettare dalla comunità rom ed è anche comprensibile visto che siamo piombati
nella loro vita all'improvviso con le nostre attrezzature senza aver loro prima
spiegato il tutto. Successivamente si sono dimostrati curiosi nei confronti del
film, dei meccanismi organizzativi sul set, dei ciak, degli attori mentre noi
dal canto nostro abbiamo cercato di coinvolgerli in tutto e per tutto nelle
scene del film facendo interpretare ad alcuni di loro il ruolo di alcuni
poliziotti durante la scena della perquisizione. Quello che non volevamo era
approfittare del loro naturale folklore per raccontare la nostra storia, abbiamo
voluto raccontare la loro vita nella loro essenza.
Come hanno vissuto i due attori questo stretto contatto con la comunità rom e
come hanno lavorato per affrontare al meglio i loro personaggi?
Luli Bitri: Per me era un po' più difficile perché dovevo essere una di loro,
per prepararmi ho fatto ricerche letterarie ma quel che mi ha più aiutato è
stato l'incontro con una ragazza che era nella stessa situazione di Alina, il
mio personaggio, e quindi ho usato i suoi consigli linguistici e comportamentali
per entrare nella psicologia delle donne della comunità. Col passare dei giorni
poi sono diventati degli amici per me, mangiavamo insieme, stavamo ore a
chiacchierare e qualcuno si è anche confidato intimamente con me, alla fine mi
sono dimenticata di essere un'attrice. Posso dire di aver preso parte ad un
pezzettino della loro vita e di aver regalato loro qualche momento di
riflessione stuzzicando la loro curiosità e le loro speranze per il futuro.
Salvatore Cantalupo: Mi sono molto rispecchiato nei bambini rom che ho allenato
sul campo di calcio nel film, facevano gli stessi giochi che facevo io da
scugnizzo napoletano, ma più di ogni altra cosa ho cercato di vivere il più
umanamente possibile il mio personaggio.