Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Da
Theatre Rom
Presentazione del libro "Speranza" di Antun Balzevic
Venerdì 8 Maggio alle 19:30 presso il laboratorio socio-culturale TANA LIBERI
TUTTI sarà presentato il libro “Speranza” di Antun Balzevic, in arte Tonizingaro,
con prefazione di Moni Ovadia:
Una snella raccolta di racconti e poesie scritte dall’aurore serbo nel corso di
questi ultimi anni, capace di intelligente ironia e sagace critica sociale.
In primo piano il popolo Rom, la sua quotidianità, la condizione esistenziale e
le sue relazioni con la società, argomenti questi che Toni conosce molto bene in
quanto da anni impegnato come mediatore culturale tra i Rom romani e il
Campidoglio. Uomo dalla vita traboccante di esperienze, avendo trascorso periodi
di disperazione e povertà come momenti di grande slancio e soddisfazioni, è
riuscito a concentrare alcune delle sue più interessanti impressioni in questo
testo che sa approfondire alcune questioni di particolare complessità con un
linguaggio spesso esilarante e comunque sempre accessibile ad un pubblico vasto.
In queste pagine Toni, zingaro metropolitano, ripone la speranza per un avvenire
migliore non solo per il proprio popolo ma per l’umanità tutta, perché, questo è
certo, nessuna società può considerarsi salva se ancora non sa superare e
“sconfiggere l’ignoranza e l’intolleranza”, sa che siamo ancora lontani da ciò
ma spera che le sue parole e le sue esperienze possano spostare qualcosa nel
quadro odierno, possano toccare la mente ed il cuore di qualcuno, anche pochi,
ma che possano aprire le loro menti e disporsi alla reciproca ospitalità.
In occasione della presentazione Tonizingaro sarà protagonista di un reading
musicato dalla sua band, il tutto accompagnato dagli ormai tipici aperitivi
della Tana, ancora una volta impegnata in eventi capaci di offrire un mix di
cultura, svago e socializzazione.
TANA LIBERI TUTTI, via G. Pitacco n 44 (zona Largo Telese)
tanaliberitutti@gmail.com
tanaliberitutti.blogspot.com
www.myspace.com/tana_liberi_tutti
Noi e Voi
Noi non ci vergogniamo perché ci chiamiamo, come dite Voi occidentali,
Zingari e perché veniamo da terre lontane piene di fango. Ascoltateci, perché
pure da noi esiste una per voi sconosciuta cultura.
Voi prima fate interrogatori e siete sospettosi, siete lontano dai vostri stessi
figli, dietro al tavolo non mettete mai uno sconosciuto.
Voi potete bere non offrendo a nessuno un bicchiere di vino.
Da noi le tradizioni ancora sono primitive, noi facciamo entrare tutti sotto il
nostro tetto, da noi ancora ci si bacia con gli sconosciuti.
Voi davvero avete milioni di statue di Cristo, ogni statua per ognuno di voi, le
avete per le strade, nelle scuole, nelle galere e sulle colline.
Da noi la gente quando crede in Dio lo porta dentro il cuor suo, e pure quando
dorme lo prega.
E’ vero che Voi per affrontare la vita avete a disposizione le macchine e tutto
quello che vi serve.
Noi ancora usiamo i nostri tradizionali strumenti per sopravvivenza, ma da noi
tutto è sano, la natura come la gallina, la morte, la nascita e la vita.
Voi avete le vostre leggi della scienza e della libertà, ma tutte scritte su un
pezzo di carta. Noi viviamo secondo le nostre leggi non scritte, viviamo liberi
e rispettiamo le nostre regole fatte di natura, di fuoco, di acqua e di vento.
Da voi davvero è tutto prescritto, come si beve, si mangia, si parla e ci si
veste, da noi quando si parla si urla, e gesticoliamo con le mani, quando
mangiamo la zuppa la risucchiamo rumorosamente, di pelle di animali sono fatti i
nostri guanti e le nostre scarpe.
Abbiamo tante abitudini dei contadini, ma pure gli antenati dei re erano
contadini. Occidente quando era arrabbiato ci tagliava la gola, bruciava e
distruggeva le nostre case, ma noi siamo quelli che sopportano tranquilli quello
che ci fanno, noi non pensiamo che tutto il mondo è nostro, noi non permetteremo
che per la colpa nostra gli innocenti piangeranno.
La nostra anima è grande come il mondo pur che siamo pochi, noi cantando e
ballando accompagnati dalla musica andiamo avanti verso il futuro.
Di Fabrizio (del 04/05/2009 @ 09:31:02, in Europa, visitato 2298 volte)
Da
Bulgarian_Roma
30 aprile 2009 FOCUS News Agency
Sofia - La Bulgaria è tra i paesi dove la minoranza rom si sente meno
discriminata, lo rivela un'indagine UE sui diritti delle minoranze. Secondo
quanto riportato, soltanto il 26% dei Rom in Bulgaria si sente vittima di
discriminazione. La Bulgaria viene seconda nella lista dei paesi più tolleranti,
subito dopo la Romania, dove il 25% dei Rom dice di essere discriminato.
La ricerca coinvolge sette stati membri UE - Bulgaria, Grecia, Polonia,
Repubblica Ceca, Romania e Ungheria. La Repubblica Ceca è riportata come la meno
tollerante verso la propria popolazione rom, dato che il 64% dice che i propri
diritti non sono osservati.
Di Fabrizio (del 04/05/2009 @ 16:39:17, in media, visitato 1409 volte)
Incredibile! Basta una storia strappalacrime perché uno dei
più razzisti giornali italiani decida di fare quello che sarebbe il suo
compito: informare e non fare da altoparlante ad una sola voce (quella del più
forte, di solito). Riporto tutto il pezzo, non perché sia veritiero o magari
commovente al punto giusto, ma perché in tutta la vicenda del un padre di un
personaggio pubblico, nessuno prima aveva voluto sapere anche la sua versione.
INTERVISTE 04/05/2009 - Si chiama Sahit Berisa, ha 39 anni ed è il padre di
Ferdi, il vincitore dell'ultima edizione del Grande Fratello. Oggi vive in un
campo nomadi del Centro Italia e ha rilasciato una lunga intervista al
settimanale Di Più, nella quale si rivolge direttamente al figlio "Quando ti ho
portato sul gommone in Italia, volevo solo il tuo bene". Sul suo conto sono
state dette tante cose, il figlio ha raccontato con amarezza la sua triste
infanzia ma ora Sahit cerca un riavvicinamento, giurando: “non voglio i tuoi
soldi”.
Tutto è iniziato con la separazione in casa, tra i genitori del giovane rom: “Io
e mia moglie non andavamo più d’accordo, litigavamo sempre. Io avevo le mie
colpe, non ero un marito perfetto, un padre perfetto, non trovavo un lavoro
stabile, continuavo a vendere stracci e a vivere alla giornata, a volte facevo
tardi, esageravo con il bere. La vita a casa nostra era diventata impossibile,
mia moglie aveva un altro e non mi voleva più. Lei al Gf, rivolgendosi a Ferdi,
ha raccontato che la maltrattavo che ero io ad avere un’altra ma non è così. Non
so perché mia moglie scarica tutte le colpe su di me, so che la verità è che
ormai non potevamo più stare insieme..."
"Ricordo che me ne sono andato di casa dopo un brutto litigio. Mi sono
trasferito da un mio parente e fin da quel momento il mio unico pensiero è stato
il bene dei figli. A casa mia non ci potevo più tornare perché mia moglie mi
cacciava, il suo nuovo uomo non mi faceva entrare, non mi facevano vedere i
bambini. Se mi avvicinavo mia moglie urlava: "'Ho una nuova vita, qua non c'è
posto per te vattene!". Ho provato a mettere a posto le cose, ma non ci sono
riuscito. Mi tormentavo, sapevo di avere sbagliato anch'io: la mia vita
disordinata, la mancanza di un lavoro, non mi avevano dato la possibilità di
garantire alla mia famiglia la serenità, e la situazione era tracollata. Mi ero
ritrovato da solo. E mi preoccupavo per Ferdi, perché senza un padre accanto
qualcuno poteva metterlo fin da piccolo su una brutta strada, in una realtà come
la nostra, di grande povertà. Tanti amici, tanti parenti, mi dicevano che Ferdi
e sua sorella non erano sereni a casa con la mamma...".
"Allora, mi sono detto che c'era un solo modo per risolvere il problema: portare
via i figli da quella casa. Così ho organizzato tutto. In una valigia ho messo
qualche vestito; sono andato di nascosto a prendere i bambini. Ho portato Elfa
da mia mamma, in un paese vicino, e le io detto: "Mamma, crescila meglio che
puoi: se viene mia moglie a cercarla. spiega che Elfia sta meglio con te". Poi,
sono andato via con Ferdi. Lui allora aveva 9 anni. Volevo andare in Italia con
un gommone, assieme ad altri come me, come noi, perché tutti dicevano che in
Italia c'era la ricchezza, che si poteva trovare la felicità. Tanti rom come me
fanno così, anche questo fa parte della nostra storia, del nostro modo di
vivere. Avevo organizzato il viaggio con persone che conoscevo. Mi è costato tre
milioni, una cifra enorme. Avevo raccolto tutti quei soldi facendo debiti con
alcuni miei parenti, avevo promesso che in Italia avrei trovato un lavoro e
avrei restituito tutto. Ricordo solo che Ferdi, quando siamo saliti sul gommone,
mi ha detto: "Papà, dove andiamo?", e io gli ho risposto: "A cercare una vita
migliore, figlio mio".
Per sfamare mio figlio dovevo arrangiarmi con l'elemosina per le strade, ed ero
costretto a portare Ferdi con me, non potevo lasciarlo solo. La notte dormivamo
nei campi rom, il giorno lo passavamo agli angoli dei marciapiedi. Una vita
dura, durissima. Alcuni come me, gente di strada che incontravo, avevano scelto
una via più facile, piccoli espedienti, piccoli furti. Ma io non volevo farmi
trascinare, per il bene del bambino, e continuavo ad andare avanti solo con
l'elemosina. Di una cosa sono orgoglioso: in tutti quei mesi che ho passato con
lui in Italia gli ho sempre dato un tetto sotto cui dormire. Non l'ho mai fatto
dormire per strada. Se un giorno, con l'elemosina, riuscivo a raccogliere
quaranta o cinquantamila lire, non lo portavo neanche al campo rom. Cercavo
qualche pensione da poco per dargli un letto come si deve.
C'era la paura di essere fermati dalla polizia, noi clandestini senza un
permesso di soggiorno. Infatti, quello che temevo è successo. Un giorno ci hanno
fermato per strada. Hanno controllato i documenti e mi hanno portato via il mio
bambino, perché hanno detto che non ero nelle condizioni di crescerlo. Sì,
avevano ragione, ero e rimango un vagabondo senza fissa dimora, ma che cosa
potevo fare? Ferdi piangeva: "Papà papà, stai con me", mi diceva tra le lacrime.
Non potevo fare niente per trattenerlo. È l'ultima volta che l'ho visto, ricordo
i suoi occhi gonfi e il suo sguardo spaventato. Non mi hanno neanche voluto dire
dove lo portavano. "Ecco, Sahit", mi dicevo "hai sbagliato tutto". "Hai perso
tutto", mi ripetevo. "Tuo figlio te l'hanno portato via, tua figlia non sai come
sta, non hai più nessuno". Ero disperato. Ricordo che ho preso un treno per
raggiungere il campo rom dove ho gli amici più cari. Ma non ho dormito in
roulotte. Ho dormito per una settimana sulla spiaggia, al freddo. Questo è
successo dodici anni fa, nel 1997, quando Ferdi aveva 10 anni, dopo che eravamo
stati insieme un anno in Italia. È allora che mi sono perduto”.
“Quando ho perso mio figlio, sono morto dentro e sono finito su strade
sbagliate. Ho cominciato a rubare, ho ripreso a bere. Sono finito in carcere
quattro volte, ho condiviso anche una cella con dodici persone e un solo bagno
per tutti. A volte mi ha sfiorato il pensiero di farla finita, ma non ho avuto
il coraggio perché, in fondo continuavo ad avere un obiettivo, ritrovare i miei
figli, riabbracciarli. La mia era ed è una vita da fuggitivo, disgraziato. Ma
non ho mai smesso di pensare a Ferdi. Chiedevo di lui ai parenti che vivono nei
campi rom. Sì, perché tra noi ci si aiuta, se si può. Siamo tanti, sparsi
ovunque. Una volta un cugino mi ha detto che forse Ferdi era a Cagliari mi sono
precipitato là. in un istituto religioso. Ma non mi hanno neanche fatto
entrare”.
“Dopo tante ricerche, tre o quattro anni fa, sono riuscito ad avere il suo
numero di telefono tramite un nostro parente. L'ho chiamato con le mani che mi
tremavano e gli occhi lucidi. Ma lui, mio figlio, è stato freddo, mi ha detto
solo: "Papa, quando sarò pronto mi farò vivo", e ha messo giù il telefono senza
neanche dirmi dove era. Allora, sono stato male, ho pensato che ce l'aveva con
me, che non mi perdonava la vita che gli aveva fatto fare, e chissà cos'altro.
Io cercato di capire, ho fatto tante telefonate, finché un parente che è rimasto
in contatto con lui mi ha detto che Ferdi aveva saputo brutte cose sul mio conto
e non voleva vedermi: pensava che l'avevo portato via con la forza da casa,
diceva che l'avevo picchiato e che lo avevo costretto a rubare”.
“Mi trovavo nel campo rom della Romagna quando Davide, un mio amico, mi ha
detto: "Sahit, credo proprio che tuo figlio sia in televisione". Tutti là,
infatti, sanno da anni la mia storia, sanno di Ferdi, del mio tormento. Non
volevo crederci: mio figlio in televisione? Quando ho visto Ferdi, al Grande
Fratello, ho fatto salti di gioia. Vedere che stava bene, che è bello, che è
sano mi rendeva contentissimo. L'ho baciato sullo schermo, ho pianto. Per tre
mesi ho guardato sempre Ferdi, attaccato alla televisione. Ho seguito tutto, mi
sono emozionato, ho riso, ho pianto. Sono stati i tre mesi più belli della mia
vita. Ho visto il messaggio della mamma, la mia ex moglie, mi accusava di averla
maltrattata, e ho sofferto. Allora, ho contattato la redazione del Grande
Fratello, ma mi hanno detto che Ferdi non voleva vedermi. Lo immaginavo, lui
pensa che io sia stato cattivo con lui. Poi, ho rivisto mia figlia in
televisione che parlava dalla Germania con Ferdi che era nella Casa. Anche lei
non la vedevo da moltissimi anni, e ho pianto ancora. Poi, mi sono arrabbiato
quando Gianluca, il concorrente di Napoli, ha accusato mio figlio di volere fare
piangere con la sua storia e gli ha dato una spinta. Poi. sono stato contento
quando Ferdi ha raccontato di essere cresciuto bene all'istituto Don Orione e
con un'altra famiglia. Ho applaudito quando Ferdi ha baciato Francesca e ho
festeggiato con i miei amici rom quando ha vinto. Così sono come rinato”.
“Quando Ferdi è uscito, ho tirato nuovamente fuori il bigliettino su cui anni
prima avevo segnato il suo numero. Non sapevo se chiamarlo o no, ero combattuto.
Ho deciso di chiamarlo dopo che a un giornale, il vostro Dipiù, Ferdi ha detto
che poteva dimenticare il passato, e che poteva pensare di riabbracciare me, suo
padre. L'ho chiamato con il cuore che mi batteva: "Figlio mio. sono tuo
padre...", gli ho detto. Ma lui, proprio come aveva fatto anni prima, mi ha
interrotto e ha detto: ' Papà, mi farò vivo io quando sarò pronto, ora devo
andare". In quel momento, ricordo, sono crollato su una sedia, con gli occhi
gonfi. Lo so, forse ho chiamato troppo presto, ma ho agito d'istinto, non potevo
aspettare, Ferdi ha bisogno di tempo. Lo so. lui pensa ancora che io ho fatto
del male, e non sarà facile fargli cambiare idea dopo tanti anni”
“Lo so. forse qualcuno, lui stesso pensa che adesso io mi sono fatto vivo perché
è ricco famoso. Ma non è così. Non ho mai avuto una casa. Vivo con i vestiti che
trovo. E credo di avere pagato per gli errori che ho fatto. I guai e l'amarezza
mi hanno consumato nel corpo e nella mente. Da quando ho perso mio figlio, non
ho più avuto un obiettivo. Ho solo il pensiero fisso di rivedere lui e la
sorella. Il Grande Fratello ha riportato la speranza, mi ha fatto ritrovare mio
figlio. Il mio sogno è uno solo. Abbracciare, anche solo per un minuto. Ferdi e
sua sorella, parlare con loro...".
Di Fabrizio (del 05/05/2009 @ 08:58:11, in media, visitato 1474 volte)
Da
Roma_ex_Yugoslavia
Cari Amici, Colleghi e Fratelli!
Mi chiamo Sami Mustafa, vengo dalla comunità rom in Kosovo del piccolo
villaggio di Plemetina. Ho prodotto e diretto circa 20 documentari sulle
tematiche rom e dei diritti umani in generale in Kosovo, Polonia (documentario
promozionale) e Bosnia Erzegovina negli ultimi sette anni.
La maggior parte dei miei lavori è stata presentata in festival mondiali, e
"La Strada verso Casa" (documentario) è stato premiato dalla Critica al Festival
di Cannes del 2007. [...]
Quest'anno sono stato accettato alla Scuola Filmica di Praga (PFS) per un
corso di un anno nella sezione documentari e premiato col dimezzamento delle
tasse scolastiche dalla PFS e dalla Fondazione Ralph per una cifra di 6.900
euro. La Scuola Filmica di Praga è riconosciuta in tutto il mondo come una delle
migliori, ed io sono l'unico Rom a cui sia stato concesso di studiarvi. Ho
quindi bisogno di 6.900 euro per il resto delle tasse scolastiche, 2.500 per i
seminari estivi che servono a terminare il corso di studio, e 2.000 per le spese
vive durante l'anno. Quindi, in totale 11.400 euro per iniziare i miei studi
quest'anno e non perdere la borsa di studio della PFS e della Fondazione Ralph.
Dato che la PFS è un'università privata, non ho diritto a borse di studio
pubbliche per i Rom. Per questo, vi chiedo la possibilità di
sponsorizzazioni/donazioni ed in cambio posso lavorare ai vostri film
promozionali per le vostre compagnie, o in lavori che comprendano qualsiasi tipo
di processo filmico per ripagarvi, ma sicuramente non sono in grado di ridare i
fondi ricevuti in denaro.
Se avete consigli, suggerimenti o volete farmi da sponsor, potete contattarmi
a romawood@gmail.com [...] Ulteriori
dettagli sul corso universitario, sui miei film o la mia biografia, li trovate
su www.romawood.org o
anche
www.myspace.com/sami_mustafa
Sperando di sentirvi presto, in fede
Sami Mustafa
Plemetina Obilic 28213
10000 Pristina, Kosovo
Tel: +381 28 467813
Mob: +381 65 6594567 | +377 44 908234
Di Fabrizio (del 05/05/2009 @ 09:25:44, in Europa, visitato 1629 volte)
Da
Roma_Francais [Di Yenisch (o
Jenisch) se ne è già scritto, soprattutto riguardo alle persecuzioni che
hanno patito. Qua invece si parla dei loro problemi pratici nella vita di tutti
i giorni. Mi interessa anche l'attenzione data ai rapporti non facili con i
"nomadi" stranieri, il doversi differenziare da loro per sopravvivere all'ondata
di stigmatizzazione che riguarda tutti. Se alcune affermazioni possono
sembrare non condivisibili, teniamo conto che queste difficoltà ci sono anche da
noi, ad esempio tra Sinti/Rom italiani e stranieri.]
Da
AgriHebdo par Pierre-André Cordonier
Le famiglie Yenisch della Svizzera cercano disperatamente dei posti
dove stazionare. Fanno appello agli agricoltori che disporrebbero di terreni.
Gli Yenisch svizzeri, circa 3.500 famiglie o più, che in occasione del
ritorno del bel tempo si preparano a levare i campi per esercitare i loro
mestieri tradizionali in tutta la Svizzera. Dei nomadi, o piuttosto dei
semi-sedentari, svizzeri da secoli, e che soffrono della cattiva reputazione che
ha la gente di viaggio presso la popolazione.
Confusione ed amalgami
Succede che Zigani, Rom o Manouche provenienti dalla Francia sbarcano tutti
gli anni in Romandia nello stesso periodo. Una concorrenza per gli Yenisch, ma
soprattutto molta confusione ed amalgami. I piccoli furtarelli, danni, inciviltà
delitti commessi da questi nomadi venuti da fuori aizzano la popolazione che non
fa differenze. Risultato, gli Yenisch svizzeri hanno sempre più difficoltà a
trovare posti dove accamparsi per proseguire lo stile di vita a cui tengono
caramente.
"La situazione ha cominciato a deteriorarsi da una ventina d'anni ed è andata
peggiorando. Noi prima eravamo conosciuti e spesso ben accetti, ma oggi abbiamo
perso il nostro status svizzero", spiega Francis
Kalbermatter. "Da qui la creazione di un'associazione, che ha già un anno, allo
scopo di sostenere la ricerca dei luoghi di stazionamento e di offrire una
garanzia a terzi, agricoltori, comuni o altri. I membri che contravvengono alle
regole in vigore o si rendono colpevoli di delitti sono esclusi
dall'associazione, dove le regole sono molto severe.
Domiciliati e viaggianti in Svizzera
Non è che gli Yenisch della Svizzera vogliano stigmatizzare i loro
confratelli stranieri. "Abbiamo sovente relazioni di vicinato serene", aggiunge
Sylvie Gerzner. Ma gli Yenisch tengono a smarcarsi da questa cattiva
reputazione, ereditata malgrado loro. "Noi siamo dei veri Svizzeri, abbiamo
comportamenti tipicamente elvetici, come l'igiene e la proprietà. Rispettiamo le
regole. E soprattutto, siamo domiciliati in Svizzera. Siamo quindi
rintracciabili facilmente e veniamo perseguiti legalmente se commettiamo delle
infrazioni. Cosa che sarebbe suicida, dato che siamo soliti tornare ogni anno",
intonano in coro i due responsabili. Gli Yenisch svizzeri d'altronde hanno come
tradizione di viaggiare solo in Svizzera.
Nessun problema oltre la Sarine (vedi
ndr)
Le autorità sono sensibili a questo problema e anche loro cercano delle
soluzioni. In tutti i cantoni. Vaud ha sistemato due posti di transito per la
gente di viaggio ed i comuni possono proporre luoghi di stazionamento secondo il
proprio bisogno, informa Pierrette Roulet-Grin, prefetto del distretto Jura-Nord
Vaudois, dal 2000 presidentessa del Gruppo di lavoro Gitans-Vaud (GT-Gitans-VD).
Ma questi ultimi non si presentano.
"Noi abbiamo dei comportamenti tipicamente svizzeri"
Ultima speranza: i contadini o proprietari di terreni sono pronti ad
affittare puntualmente un lotto. Nella Svizzera tedesca, è così da tempo, senza
alcun problema. Christian Stähli, agricoltore di Orges, è uno dei pochi a farlo
nella Svizzera romanda e conta circa 4.000 pernottamenti di gente di viaggio
all'anno, ha scritto il 16 aprile il 24 Heures Nord
vaudois-Broye. La famiglia Mast a Denens accoglie ugualmente degli Yenisch
durante sei mesi su 15 aree.
Ritorno per il contadino
"E' un ritorno per i contadini", precisa Francis Kalbermatter, "e stimiamo
che noi facciamo la nostra parte: le famiglie yenisch comperano i loro prodotti
all'azienda agricola se esiste l'offerta." Lo stesso per la legna, per il mitico
e tradizionale fuoco del campo al cadere della notte.
Riferimenti
Per tutte le proposte di messa a disposizione di terreni, contattare Francis
Kalbermatter, 1950 Sion 4, CP 4175, tél. 079 347 50 89,
francis-kalbermatter@hotmail.com o Sylvie Gerzner, 1462 Yvonand, CP 158,
tél. 076 222 2 66, sylvie70g@yahoo.fr
Quanti sono sensibili al mantenimento della cultura degli Yensich svizzeri
possono diventare membri-amici di Association Yenisch Suisse con una domanda
scritta e firmata al comitato dell'associazione
yenisch.suisse@gmail.com Sito
ufficiale: www.yenisch-suisse.ch
Per una ricerca su Internet, sono utilizzati diversi termini:
Yenisch, Yenische, Yenich, Jenisch, Jenische, ecc.
Blog:
http://yeniche1969.skyrock.com/
Di Fabrizio (del 05/05/2009 @ 14:26:33, in casa, visitato 1645 volte)
Segnalazione di Ernesto Rossi
Popica onlus
Venerdì 1 maggio 2009, circa 60 rom romeni tra
uomini, donne e bambini, dell'insediamento romano di via di Centocelle, hanno
deciso di partecipare al corteo della MayDay con un proprio spezzone aperto da
uno striscione sul quale era scritto: "SIAMO ROM, NON SIAMO NOMADI VOGLIAMO
LA CASA. I Rom e le Romnì di via di 100celle". Durante il percorso della
manifestazione, nella quale si rivendicava casa e reddito per tutti e tutte, la
comunità ha anche diffuso un volantino nel quale veniva illustrata la propria
volontà di uscire allo scoperto e a rivendicare i propri diritti. Noi di
POPICA ONLUS, da sempre vicini alla comunità di via di Centocelle, esprimiamo il
nostro totale apprezzamento per l'iniziativa dei Rom e delle Romni, coi quali
quotidianamente collaboriamo. In particolare con questo comunicato vogliamo
segnalare all'opinione pubblica che quest'importantissima iniziativa cancella il
luogo comune dei Rom "geneticamente" predisposti a vivere in baracche senza luce
né acqua o nei cosiddetti campi nomadi. E mostra inoltre come in alcune comunità
Rom stia nascendo un genuino e fondamentale movimento per la rivendicazione dei
diritti. Noi di POPICA ONLUS continueremo ad essere al fianco di questa comunità
che sta smettendo di aver paura, cominciando un nuovo cammino sul quale ci
troveranno compagni di viaggio
Di Fabrizio (del 06/05/2009 @ 09:01:37, in Regole, visitato 2393 volte)
Ricevo da Roberto Malini
Napoli, 4 maggio 2009. "La giovane Rom ha subito una condanna assurda, senza
prove, senza indagini approfondite, senza buon senso," dichiarano i leader del
Gruppo EveryOne Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau. "Abbiamo
inviato al giudice del Tribunale d'Appello un dossier che ne dimostra
l'innocenza". Il grande giurista Juan de Dios Ramirez Heredia si è detto pronto
a "indossare la toga per difenderla, accanto all'avvocato Valle". Angelica viene
da Bistrita-Nasaud città della Transilvania. Era arrivata in Italia da pochi
mesi con il giovane marito Emiliano e alcuni familiari. Ha una figlia di 3 anni,
Alessandra Emiliana, che è rimasta in Romania. "Ma come possono pensare che
io abbia cercato di rapire una bambina?" protesta Angelica davanti a un
attivista di EveryOne, che ha avuto il permesso dal giudice di visitarla. "Sono
una mamma e se qualcuno mi portasse via la bambina, morirei dal dolore".
A Napoli la ragazza viveva di elemosina "e di qualche piccolo furto,"
confessa, "ma solo quando non sapevo come procurarmi da vivere, perché il mio
sogno era quello di lavorare, se solo avessi avuto un'occasione". Il 10 maggio
Angelica viene arrestata con un'accusa terribile: una donna di Ponticelli
afferma di averla sorpresa mentre avrebbe tentato di rapire la sua bambina in
fasce. "Per entrare nella stanza in cui dormiva la piccola," ricostruiscono gli
attivisti, "Angelica avrebbe dovuto trovare contemporaneamente aperti il
cancello esterno, il portone dell'edificio e la porta blindata
dell'appartamento, senza imbattersi in un inquilino e senza che la piccola, una
volta afferrata, si mettesse a piangere. Tutto questo, in un periodo
caratterizzato a Ponticelli da una vera e propria fobia nei confronti degli
'zingari', tanto che tre mesi prima era nato un Comitato di Ponticelli per il
problema dei Rom. Inverosimile".
Leggendo gli atti del processo e il dispositivo di sentenza, si rileva che
non esistono prove a carico di Angelica, ma solo la testimonianza della madre
della bambina neonata. "Non vediamo perché la donna avrebbe dovuto mentire,"
scrive il magistrato. "E' una sentenza priva di razionalità, proprio per la 'zingarofobia'
che si era impadronita in quei giorni degli abitanti di Ponticelli," prosegue
EveryOne. "La Storia ci insegna che fin dal Medioevo la sola presenza di
'zingari' vicino a un bambino 'cristiano' faceva gridare le comunità locali al
ratto di minore. Anche volendo credere alla buona fede dell'accusatrice, il
fattore-pregiudizio non può in alcun modo essere ignorato nel giudizio di un
caso come questo. Una perizia, che non è stata mai eseguita, avrebbe dimostrato
che Angelica avrebbe dovuto muoversi al rallentatore per essere vista dalla
madre, già sul pianerottolo e con la bimba in braccio, e quindi raggiunta e
bloccata. Sembra che la madre della neonata descriva una propria paura piuttosto
che un evento reale. I seguito è ancora più irreale. La madre leva la piccola
dalle braccia di Angelica, rientra in casa, pone la bambina a terra, grida e...
Angelica è rimasta ancora sul pianerottolo, giusto per farsi raggiungere dal
nonno della neonata e poi da altri vicini, che cercano di linciarla".
Alcuni cittadini di Ponticelli hanno ricordato che l'accusatrice ha
precedenti giudiziari per falso ideologico. Le stesse conclusioni tratte dal
Gruppo EveryOne e dal giurista spagnolo Heredia sono state tratte dal
giornalista investigativo spagnolo Miguel Mora sulle pagine di El Pais: "Il
teorema che ha portato alla condanna si basa solo sulle parole contraddittorie
dell'accusatrice. "Il caso di Angelica ha scatenato gli abitanti di Ponticelli,"
commentano gli attivisti, "che in men che non si dica hanno sgomberato con
brutalità i terreni occupati da Rom romeni, che erano al centro di un progetto
urbanistico in attesa di un finanziamento pubblico di milioni di euro,
finanziamento che poco dopo il 'pogrom' sono arrivati".
Angelica, secondo la giurisprudenza, è una "minore non accompagnata" e il
legislatore ritiene che un minore di età debba rimanere in Istituto il minor
tempo possibile, favorendo tutte le possibilità di reinserimento sociale. "Ma
Angelica è già dentro da un anno," conclude EveryOne, "e sconcerta il fatto che
non le sia stato concesso il patrocino gratuito per un motivo surreale: era
impossibile al magistrato stabilire le sue condizioni economiche in Romania". Se
in appello sarà fatta giustizia, per Angelica si aprono due possibilità: tornare
in Romania e ricostruirsi una vita con i suoi cari oppure restare in Italia,
grazie a una famiglia che si è offerta di aiutarla in un percorso di inserimento
sociale positivo, in attesa di ricongiungersi alla famiglia. Intanto il suo caso
ha destato l'attenzione della Commissione europea, del Cerd (Nazioni Unite) e
delle più importanti organizzazioni contro la discriminazione e gli abusi che
colpiscono il popolo Rom in Europa, da Union Romani a ERRC, dall'OSI al
Coordinamento Antirazzista Sa Phrala.
Scriviamo al Presidente della Corte di Appello di Napoli Sezione Minorenni dr
Vincenzo Trione e al Presidente del Tribunale per i Minorenni di Napoli dr.
Stefano Trapani:
info@tribunalenapoli.it
tribmin.napoli@giustizia.it
Per informazioni:
info@everyonegroup.com
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Di Fabrizio (del 06/05/2009 @ 09:20:58, in Europa, visitato 3966 volte)
Di Alberto
Maria Melis, tratto da "La terza metà del cielo"
(foto tratta da "Romà anni 80 e 90 Selargius Cagliari")
Roger Bastide, nel volume "Ethnologie Général, EncycIopedie de la Pléiade",
dice che ogni rito "... è un ricominciare ciò che è accaduto nei tempi
primordiali, ma non è una semplice commemorazione, abolisce il tempo profano per
fare penetrare l'uomo nell'eternità. Il mito rivive, il tempo mistico viene
restaurato, ridi viene presente, con tutta la sua forza attiva. Cosicché tutte
le feste, tutte le cerimonie, non sono altro che il ricominciare di ciò che è
accaduto... La natura e la storia vengono rigenerate mentre sono reintegrate in
questo "illo tempore ", che in effetti ha fondato all'inizio del mondo sia la
natura che la storia".
Il rivivere di questo mito, la restaurazione di questo tempo mistico, esplode
con incommensurabile vitalità quando i Roma cagliaritani festeggiano alcune
ricorrenze di carattere religioso, delle quali la più importante e la più
sentita è certamente la Festa di Primavera, che si svolge il 6 Maggio e che
viene anche chiamata Gurgevdan, cioé Festa di San Giorgio.
È parere di alcuni ziganologi che gli Zingari festeggino le ricorrenze in
qualche modo assimilate dalle popolazioni cristiane e islamiche che hanno
incontrato lungo la strada dall'India.
Di questa assimilazione sarebbero un esempio i festeggiamenti più noti tra
gli Zingari di fede cristiana, quelli cioè relativi al pellegrinaggio che ogni
anno essi fanno sino al Santuario di Saintes-Maries-de-la-Mer, in Camargue, dove
la leggenda vuole che nel 40 d.c. fossero approdate tre donne, insieme a San
Lazzaro resuscitato, a Massimino e a Sidone, su una barca abbandonata in alto
mare dagli Ebrei.
Delle tre donne, le cui reliquie sarebbero state riportate alla luce da Re
Renato di Provenza nel 1448, gli Zingari ne venerano in particolare una, Santa
Sara l'Egiziana, la santa di pelle nera che essi hanno adottato come loro
patrona e che dicono fosse della loro stessa razza.
Secondo il De Foletier è probabile che questo culto abbia avuto inizio solo
in tempi non troppo remoti e grazie all'identificazione in una santa che come
loro era "Kalé", cioè di pelle scura.
Nel caso del Gurgevdan invece le origini sono probabilmente assai più lontane
nel tempo e se assimilazioni vi sono state è altrettanto probabile che esse si
siano innestate alla perfezione su ricorrenze ancora più antiche.
Il San Giorgio, la Festa di Primavera, come cadenza temporale, si collega ad
un periodo che per gli Zingari ha un'importanza fondamentale: viene a morire
l'inverno e la Primavera dà inizio ad un nuovo ciclo vitale, le tenebre vengono
sostituite dalla Luce, cessa il sonno della natura che si risveglia nella sua
nuova esistenza.
Può essere un fatto casuale, o da ricollegarsi ad altre usanze rituali, ma
appare opportuno ricordare che anche nel Peloponneso, e parliamo di più di
seicento anni fa, gli Zingari del Feudo degli Acingani, nel mese di Maggio, si
recavano in festante corteo sino alla residenza del feudatario e qui, tra balli
e canti, rizzavano l'Albero di Maggio.
E sono proprio l'albero e l'acqua, come vedremo più avanti, i simboli
primordiali della vita, che ritornano con puntualità nelle celebrazioni della
Festa di Primavera e in quella, per gli Zingari cristiani, del San Giorgio Verde
(altra ricorrenza che si svolge in primavera).
Nel San Giorgio Verde un ragazzo viene "vestito" con rami e foglie di salice,
quasi a diventare un albero vivente il cui compito sarà quello di esorcizzare,
tra le altre cose, i corsi d'acqua.
Nel Gurgevdan invece i corsi d'acqua e gli alberi trovano una diversa
collocazione. Prima di descrivere nei particolari lo svolgersi della festa
occorre dire due parole sulla figura di San Giorgio, che nella mistica cristiana
è il simbolo della lotta del bene contro il male e di cui si sa, ma con poca
certezza, che potrebbe essere stato un guerriero martire a Lydda, in Palestina,
sotto l'impero di Diocleziano.
Ma San Giorgio è un santo particolare anche per un altro motivo: egli è
l'unico riconosciuto tale sia dai cattolici, sia dagli ortodossi e sia dai
musulmani. Viene festeggiato anche nella ex-Jugoslavia e più in generale in
tutti i Balcani. Nel Kosovo, il 6 Maggio di ogni anno, i pellegrini si recano
alla Roccia di Drahovco, luogo in cui, secondo le leggende locali, San Giorgio
arrestò il proprio cavallo sul finire di una dura battaglia. Perito ed assetato
venne salvato dall' animale, il quale, battendo gli zoccoli su una grande roccia
nera, ne fece sgorgare l'acqua che lo dissetò.
Nei Campi di Cagliari i preparativi per la ricorrenza cominciano solitamente
alcuni giorni prima. Tutte le famiglie, anche quelle più povere nelle quali di
norma i pasti non sono certo abbondanti, si sono costrette al risparmio perché
per il giorno della festa niente venga a mancare.
Gli uomini hanno provveduto per tempo ad ordinare una o più pecore, il piatto
più importante dei banchetti, presso i pastori che pascolano le greggi nelle
campagne circostanti la città.
La mattina presto, appena sorge il sole, le donne, gli uomini e i bambini più
grandi, preparano i fuochi. Mentre il Campo prende vita e il fumo dei fuochi si
confonde con la bruma, tutti si scambiano i saluti augurali: un abbraccio e un
bacio sulle labbra ripetuto alcune volte.
Poi, mentre le auto sono state agghindate con fiori e pezze di tessuto
colorato, ci si prepara ad un breve viaggio: la sua meta è un corso d'acqua, un
fiumiciattolo, sito ad una ventina di chilometri dalla città. Quando la carovana
di auto giunge sul posto è ancora molto presto e le acque del piccolo fiume sono
molto fredde.
Nonostante questo tutti fanno in modo di bagnarsi almeno le gambe; per alcuni
minuti, tra grida di gioia e grandi risate, si cammina o si corre nell'acqua,
poi ci si avvicina agli alberi che cingono le rive del fiume e ognuno prende
alcuni ramoscelli.
Anche i ramoscelli vengono immersi nell'acqua.
Prima di andar via si effettua un brindisi e si scambiano altri saluti
augurali. Rientrati al Campo i ramoscelli vengono offerti a quelli che non hanno
potuto recarsi al fiume (gli anziani, i malati, le donne rimaste a custodire i
bambini più piccoli) e altri vengono posti sulla porta di ogni baracca. L'intera
mattinata verrà poi trascorsa nei preparativi per la festa vera e propria, che
comincerà nelle prime ore del pomeriggio.
Le pecore vengono uccise, appese sui pali o sui rami degli alberi e
accuratamente scuoiate. Poi, ripulite, vengono infilzate su lunghi pali e
lasciate un paio d'ore ad asciugare al sole.
Sulla tarda mattinata gli uomini, che hanno già preparato i tappeti di brace,
sistemano le pecore sui fuochi e ne curano la cottura, girando ogni tanto i pali
per far sì che essa sia ben uniforme. Nel pomeriggio, quando anche gli ospiti
gagé sono ormai arrivati al Campo, si dà inizio alla festa.
Non si tratta, in questo caso, di un unico grande banchetto: ogni famiglia
prepara nella sua baracca il proprio personale pranzo, che viene sistemato o su
lunghi tavoli o su grandi piatti circolari chiamati Tevsie e direttamente
poggiati sui tappeti: la pecora arrosto, E Bakri, riveste un significato
particolare. Il suo sacrificio, secondo i Roma più anziani, ricorda l'episodio
di Abramo e Isacco presente nel Vecchio Testamento ed in qualche modo funge da
ringraziamento per le grazie ricevute. Se queste vengono ritenute
particolarmente importanti allora il Kurbano (il sacrificio), assume un
significato più solenne e con la carne della pecora viene cucinata la Shastimace,
il cibo della guarigione.
Esso viene poi offerto a tutte le famiglie del Campo perché ognuno possa
partecipare alla gioia del ringraziamento.
Il fatto che ogni famiglia abbia preparato il suo tavolo imbandito non
significa affatto che la festa venga celebrata in forma privata.
Infatti, mentre tra le baracche cominciano a risuonare le musiche slave
emesse ad altissimo volume dagli altoparlanti, l'intero gruppo si muove compatto
e dà inizio ad un'interminabile teoria di visite che lo porterà, di baracca in
baracca, a rendere reciproco omaggio a tutte le famiglie del Campo.
Sulla porta di ogni baracca tutti vengono accolti dal capo-famiglia, al quale
entrando si rivolge il saluto "Bahatalò givé" (felice giornata) e dal quale si
riceve l'augurio "The avé sasto taj bahatalò" (vieni salvo e fortunato).
Il capofamiglia porge poi ad ognuno dei nuovi arrivati un bicchierino di
liquore, che viene bevuto tutto d'un fiato prima di accomodarsi sui tappeti.
Poi, incrociando le gambe, ci si siede e si fa veramente festa.
Rispetto alla povertà dei pasti di ogni giorno la quantità di cibo messa in
mostra appare addirittura spropositata. Oltre alla pecora arrosto, che a volte
viene presentata ripiena con patate e riso, vengono offerti altri piatti tipici,
come la Pita, un torti no a base di farina, uova e formaggio, o la Sarma, un
involtino di foglie di cavolo verde con un ripieno di riso, cipolle, salsa di
pomodoro e altre spezie. Altri piatti che veramente vale la pena di assaggiare
sono il Suguko, una salsiccia di carne bovina, i Peré Paprike, peperoni scottati
al fuoco e poi infarciti con carne macinata, spezie e riso, e la Baklava, un
dolce a sfoglia i cui ingredienti sono farina, zucchero, strutto, noci e uva
passa. Nel corso di ogni visita tutti badano bene a non esagerare: si assaggia
qualcosa per rendere omaggio alla famiglia ma non si dimentica che si è attesi
da altre visite e da altri banchetti: tanti quante sono le baracche del Campo.
Più di un vero e proprio pasto si tratta insomma di una forma di convivialità
che si esprime nei canti, nelle chiacchiere, nelle risate, nella gioia di
un'intensità rara a trovarsi e che traspare con forza dai visi segnati da rughe
precoci.
È in questo momento che l'ospite gagé, frastornato e reso partecipe della
stessa gioia, capisce con quanta forza gli Zingari vivono la propria vita oltre
tutte le difficoltà alle quali sono sottoposti nella quotidianità.
Tra una visita ad una famiglia e ad un' altra, ma a volte anche durante i
banchetti, si svolgono i Celipé: uomini e donne, gli uni vestiti spesso di
bianco e le altre coi loro migliori e più sgargianti abiti, danzano il Kolo
(molto simile al Su Ballu Tundu sardo) o l'Ingra Indja. A volte, ma solo per
pochi intimi, viene ballato un ballo che ricorda la danza del ventre turca e che
appare di rara bellezza e plasticità di movimenti.
Così la festa va avanti per ore e ore sino al tramonto del sole.
Di Sucar Drom (del 06/05/2009 @ 11:42:25, in blog, visitato 1642 volte)
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Di Fabrizio (del 07/05/2009 @ 09:07:27, in Italia, visitato 1333 volte)
Ricevo da Sergio Franzese
GRUPPO DI STUDI EBRAICI di TORINO
COMUNITA’ EBRAICA TORINO
organizzano giovedì 14 maggio, alle ore 20,30
presso i locali della comunità, in
Piazzetta Primo Levi 12 TORINO
un incontro sul "Porrajmós". Dalla persecuzione nazifascista alle
attuali politiche anti-rom (con presentazione del doppio DVD "A forza di
essere vento"). Relatore: Paolo Finzi, redattore della rivista
anarchica "A"
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