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Gurgevdan
Di Fabrizio (del 06/05/2009 @ 09:20:58, in Europa, visitato 3961 volte)

Di Alberto Maria Melis, tratto da "La terza metà del cielo"

(foto tratta da "Romà anni 80 e 90 Selargius Cagliari")

Roger Bastide, nel volume "Ethnologie Général, EncycIopedie de la Pléiade", dice che ogni rito "... è un ricominciare ciò che è accaduto nei tempi primordiali, ma non è una semplice commemorazione, abolisce il tempo profano per fare penetrare l'uomo nell'eternità. Il mito rivive, il tempo mistico viene restaurato, ridi viene presente, con tutta la sua forza attiva. Cosicché tutte le feste, tutte le cerimonie, non sono altro che il ricominciare di ciò che è accaduto... La natura e la storia vengono rigenerate mentre sono reintegrate in questo "illo tempore ", che in effetti ha fondato all'inizio del mondo sia la natura che la storia".

Il rivivere di questo mito, la restaurazione di questo tempo mistico, esplode con incommensurabile vitalità quando i Roma cagliaritani festeggiano alcune ricorrenze di carattere religioso, delle quali la più importante e la più sentita è certamente la Festa di Primavera, che si svolge il 6 Maggio e che viene anche chiamata Gurgevdan, cioé Festa di San Giorgio.

È parere di alcuni ziganologi che gli Zingari festeggino le ricorrenze in qualche modo assimilate dalle popolazioni cristiane e islamiche che hanno incontrato lungo la strada dall'India.

Di questa assimilazione sarebbero un esempio i festeggiamenti più noti tra gli Zingari di fede cristiana, quelli cioè relativi al pellegrinaggio che ogni anno essi fanno sino al Santuario di Saintes-Maries-de-la-Mer, in Camargue, dove la leggenda vuole che nel 40 d.c. fossero approdate tre donne, insieme a San Lazzaro resuscitato, a Massimino e a Sidone, su una barca abbandonata in alto mare dagli Ebrei.

Delle tre donne, le cui reliquie sarebbero state riportate alla luce da Re Renato di Provenza nel 1448, gli Zingari ne venerano in particolare una, Santa Sara l'Egiziana, la santa di pelle nera che essi hanno adottato come loro patrona e che dicono fosse della loro stessa razza.

Secondo il De Foletier è probabile che questo culto abbia avuto inizio solo in tempi non troppo remoti e grazie all'identificazione in una santa che come loro era "Kalé", cioè di pelle scura.

Nel caso del Gurgevdan invece le origini sono probabilmente assai più lontane nel tempo e se assimilazioni vi sono state è altrettanto probabile che esse si siano innestate alla perfezione su ricorrenze ancora più antiche.

Il San Giorgio, la Festa di Primavera, come cadenza temporale, si collega ad un periodo che per gli Zingari ha un'importanza fondamentale: viene a morire l'inverno e la Primavera dà inizio ad un nuovo ciclo vitale, le tenebre vengono sostituite dalla Luce, cessa il sonno della natura che si risveglia nella sua nuova esistenza.

Può essere un fatto casuale, o da ricollegarsi ad altre usanze rituali, ma appare opportuno ricordare che anche nel Peloponneso, e parliamo di più di seicento anni fa, gli Zingari del Feudo degli Acingani, nel mese di Maggio, si recavano in festante corteo sino alla residenza del feudatario e qui, tra balli e canti, rizzavano l'Albero di Maggio.

E sono proprio l'albero e l'acqua, come vedremo più avanti, i simboli primordiali della vita, che ritornano con puntualità nelle celebrazioni della Festa di Primavera e in quella, per gli Zingari cristiani, del San Giorgio Verde (altra ricorrenza che si svolge in primavera).

Nel San Giorgio Verde un ragazzo viene "vestito" con rami e foglie di salice, quasi a diventare un albero vivente il cui compito sarà quello di esorcizzare, tra le altre cose, i corsi d'acqua.

Nel Gurgevdan invece i corsi d'acqua e gli alberi trovano una diversa collocazione. Prima di descrivere nei particolari lo svolgersi della festa occorre dire due parole sulla figura di San Giorgio, che nella mistica cristiana è il simbolo della lotta del bene contro il male e di cui si sa, ma con poca certezza, che potrebbe essere stato un guerriero martire a Lydda, in Palestina, sotto l'impero di Diocleziano.

Ma San Giorgio è un santo particolare anche per un altro motivo: egli è l'unico riconosciuto tale sia dai cattolici, sia dagli ortodossi e sia dai musulmani. Viene festeggiato anche nella ex-Jugoslavia e più in generale in tutti i Balcani. Nel Kosovo, il 6 Maggio di ogni anno, i pellegrini si recano alla Roccia di Drahovco, luogo in cui, secondo le leggende locali, San Giorgio arrestò il proprio cavallo sul finire di una dura battaglia. Perito ed assetato venne salvato dall' animale, il quale, battendo gli zoccoli su una grande roccia nera, ne fece sgorgare l'acqua che lo dissetò.

Nei Campi di Cagliari i preparativi per la ricorrenza cominciano solitamente alcuni giorni prima. Tutte le famiglie, anche quelle più povere nelle quali di norma i pasti non sono certo abbondanti, si sono costrette al risparmio perché per il giorno della festa niente venga a mancare.

Gli uomini hanno provveduto per tempo ad ordinare una o più pecore, il piatto più importante dei banchetti, presso i pastori che pascolano le greggi nelle campagne circostanti la città.

La mattina presto, appena sorge il sole, le donne, gli uomini e i bambini più grandi, preparano i fuochi. Mentre il Campo prende vita e il fumo dei fuochi si confonde con la bruma, tutti si scambiano i saluti augurali: un abbraccio e un bacio sulle labbra ripetuto alcune volte.

Poi, mentre le auto sono state agghindate con fiori e pezze di tessuto colorato, ci si prepara ad un breve viaggio: la sua meta è un corso d'acqua, un fiumiciattolo, sito ad una ventina di chilometri dalla città. Quando la carovana di auto giunge sul posto è ancora molto presto e le acque del piccolo fiume sono molto fredde.

Nonostante questo tutti fanno in modo di bagnarsi almeno le gambe; per alcuni minuti, tra grida di gioia e grandi risate, si cammina o si corre nell'acqua, poi ci si avvicina agli alberi che cingono le rive del fiume e ognuno prende alcuni ramoscelli.

Anche i ramoscelli vengono immersi nell'acqua.

Prima di andar via si effettua un brindisi e si scambiano altri saluti augurali. Rientrati al Campo i ramoscelli vengono offerti a quelli che non hanno potuto recarsi al fiume (gli anziani, i malati, le donne rimaste a custodire i bambini più piccoli) e altri vengono posti sulla porta di ogni baracca. L'intera mattinata verrà poi trascorsa nei preparativi per la festa vera e propria, che comincerà nelle prime ore del pomeriggio.

Le pecore vengono uccise, appese sui pali o sui rami degli alberi e accuratamente scuoiate. Poi, ripulite, vengono infilzate su lunghi pali e lasciate un paio d'ore ad asciugare al sole.

Sulla tarda mattinata gli uomini, che hanno già preparato i tappeti di brace, sistemano le pecore sui fuochi e ne curano la cottura, girando ogni tanto i pali per far sì che essa sia ben uniforme. Nel pomeriggio, quando anche gli ospiti gagé sono ormai arrivati al Campo, si dà inizio alla festa.

Non si tratta, in questo caso, di un unico grande banchetto: ogni famiglia prepara nella sua baracca il proprio personale pranzo, che viene sistemato o su lunghi tavoli o su grandi piatti circolari chiamati Tevsie e direttamente poggiati sui tappeti: la pecora arrosto, E Bakri, riveste un significato particolare. Il suo sacrificio, secondo i Roma più anziani, ricorda l'episodio di Abramo e Isacco presente nel Vecchio Testamento ed in qualche modo funge da ringraziamento per le grazie ricevute. Se queste vengono ritenute particolarmente importanti allora il Kurbano (il sacrificio), assume un significato più solenne e con la carne della pecora viene cucinata la Shastimace, il cibo della guarigione.

Esso viene poi offerto a tutte le famiglie del Campo perché ognuno possa partecipare alla gioia del ringraziamento.

Il fatto che ogni famiglia abbia preparato il suo tavolo imbandito non significa affatto che la festa venga celebrata in forma privata.

Infatti, mentre tra le baracche cominciano a risuonare le musiche slave emesse ad altissimo volume dagli altoparlanti, l'intero gruppo si muove compatto e dà inizio ad un'interminabile teoria di visite che lo porterà, di baracca in baracca, a rendere reciproco omaggio a tutte le famiglie del Campo.

Sulla porta di ogni baracca tutti vengono accolti dal capo-famiglia, al quale entrando si rivolge il saluto "Bahatalò givé" (felice giornata) e dal quale si riceve l'augurio "The avé sasto taj bahatalò" (vieni salvo e fortunato).

Il capofamiglia porge poi ad ognuno dei nuovi arrivati un bicchierino di liquore, che viene bevuto tutto d'un fiato prima di accomodarsi sui tappeti. Poi, incrociando le gambe, ci si siede e si fa veramente festa.

Rispetto alla povertà dei pasti di ogni giorno la quantità di cibo messa in mostra appare addirittura spropositata. Oltre alla pecora arrosto, che a volte viene presentata ripiena con patate e riso, vengono offerti altri piatti tipici, come la Pita, un torti no a base di farina, uova e formaggio, o la Sarma, un involtino di foglie di cavolo verde con un ripieno di riso, cipolle, salsa di pomodoro e altre spezie. Altri piatti che veramente vale la pena di assaggiare sono il Suguko, una salsiccia di carne bovina, i Peré Paprike, peperoni scottati al fuoco e poi infarciti con carne macinata, spezie e riso, e la Baklava, un dolce a sfoglia i cui ingredienti sono farina, zucchero, strutto, noci e uva passa. Nel corso di ogni visita tutti badano bene a non esagerare: si assaggia qualcosa per rendere omaggio alla famiglia ma non si dimentica che si è attesi da altre visite e da altri banchetti: tanti quante sono le baracche del Campo.
Più di un vero e proprio pasto si tratta insomma di una forma di convivialità che si esprime nei canti, nelle chiacchiere, nelle risate, nella gioia di un'intensità rara a trovarsi e che traspare con forza dai visi segnati da rughe precoci.

È in questo momento che l'ospite gagé, frastornato e reso partecipe della stessa gioia, capisce con quanta forza gli Zingari vivono la propria vita oltre tutte le difficoltà alle quali sono sottoposti nella quotidianità.

Tra una visita ad una famiglia e ad un' altra, ma a volte anche durante i banchetti, si svolgono i Celipé: uomini e donne, gli uni vestiti spesso di bianco e le altre coi loro migliori e più sgargianti abiti, danzano il Kolo (molto simile al Su Ballu Tundu sardo) o l'Ingra Indja. A volte, ma solo per pochi intimi, viene ballato un ballo che ricorda la danza del ventre turca e che appare di rara bellezza e plasticità di movimenti.

Così la festa va avanti per ore e ore sino al tramonto del sole.