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\\ Mahalla : VAI : musica e parole (inverti l'ordine)
Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Marylise Veillon (del 27/02/2013 @ 09:05:25, in musica e parole, visitato 1857 volte)

L'Express Israel Galvan: "danzare l'impossibile", il genocidio dei gitani - Par AFP, publié le 13/02/2013 à 09:52

PARIGI - Il sivigliano Israel Galvan danza dal 12 al 20 febbraio al "Théatre de la Ville" di Parigi "L'impossibile da danzare": il genocidio tzigane da parte dei nazisti, con il suo nuovo spettacolo "Le Réel, Lo Real, The Real".

Dimenticatevi del flamenco tradizionale, delle balze e degli "olé": il flamenco di Galvan è aspro, senza concessioni.

E' a torso nudo, dove si disegnano le costole, danzando sulla scena quasi vuota. Un piano stonato, dal quale verrà fuori il filo spinato dei campi di concentramento, dei binari cigolanti: ecco, la scenografia è montata. Lo spettatore trattiene il fiato: si soffre con lui.

Quando una ballerina irrompe, è vestita come una rom, come in segno di solidarietà con le persecuzioni di oggi.

Silhouette longilinea vestita di una calzamaglia nera, c'è un uomo dolcissimo, agli antipodi del solito ballerino brillante, il quale si esprime tramite interviste, attento alle domande, esitante nell'agganciare delle parole ai movimenti del corpo.

Cascato piccolino nel flamenco - i suoi genitori sono ballerini e suo padre insegnante in una scuola di flamenco a Siviglia - traccia rapidamente il proprio cammino, rischiando di sconvolgere i puristi.

"Hanno il loro posto, è importante conservare la tradizione" afferma Galvan, "ma il flamenco è in costante evoluzione, e mi sento molto libero".

Libero di scegliere un tema scottante come il genocidio dei gitani, e di introdurvi "anche della gioia", perché conviene celebrare tanto la loro sopravvivenza quanto la loro sofferenza.

Il genocidio era presente già nella sua infanzia, "se ne parlava molto a casa, per motivi religiosi", dice Galvan. I suoi genitori appartengono ai Testimoni di Geova, perseguitati e deportati dai nazisti a motivo dei loro legami internazionali e della loro opposizione al potere e alla guerra.

Sua madre è tzigana: il genocidio fa doppiamente parte della storia familiare. Però, Israel Galvan si è ispirato anche da documentari, libri, canzoni ("Hitler in my heart" del gruppo Antony and the Johnsons) per la sua creazione. Dice che come sempre, lo spettacolo risponde a "un'esigenza".

Con una dozzina di creazioni in 15 anni, Israel Galvan si è forgiato la reputazione di un ballerino profondamente innovatore nell'ambito molto codificato del flamenco. Applaudito a Parigi e nel nord-europeo da molto tempo, ha visto il suo lavoro riconosciuto per la prima volta a dicembre, dal Teatro Real di Madrid, che ha prodotto "Il Réel". 

Questo "ballerino delle solitudini", secondo il titolo di un libro che gli è stato consacrato dal filosofo e storico dell'arte francese Georges Didi Huberman (2006), è stato per la prima volta - per "Il Réel"- affiancato da due virtuose ballerine, Belén Maya e Isabel Bayon. Una decina di cantanti e musicisti fanno molto più che accompagnarlo, essendo la vera spina dorsale dello spettacolo.

Tra i suoi progetti, un duo con il ballerino britannico originario del Bangladesh Akram Khan, la cui danza è ispirata dal kathak, un'arte tradizionale indiana vicina al flamenco.

Israel Galvan vorrebbe anche "esplorare il suo lato femminile". Osserva che "Nel flamenco, l'uomo deve danzare da ++macho++ e la donna, in modo femminile". A lui piacerebbe "cambiare un po'". Butta là sorridendo: "Ho sempre danzato da uomo, è un po' stancante".

Una trasgressione fedele al suo percorso, che spiega però, senza alcuna aggressività. La violenza, la morte, onnipresenti nei suoi spettacoli, li conserva per la scena. In città, è un uomo timido, che parla dei suoi figli, tra cui c'è una bambina che danza già "il balletto".


Le Parisien Israel Galvan danza per i rom di Ris-Orangis Publié le 15.02.2013, 21h24

Nel bel mezzo di un accampamento di Rom a Ris-Orangis, la nuova stella del flamenco Israel Galvan, batte i tacchi con passione. Habitué delle grandi sale prestigiose d'Europa, è venuto qui per "confrontarsi con la realtà".

I rom dell'accampamento, autentica bidonville a 20 km al sud-est di Parigi, hanno terminato la costruzione della scena venerdì mattina, in modo da potere accogliere il ballerino, attualmente presente sulla locandina del Théatre de la Ville di Parigi.

All'inizio della serata, la silhouette longilinea d'Israel Galvan, pantalone colore arancio e piumino marrone, appare nel campo, atteso da circa 70 persone, abitanti del bidonville e membri di alcune associazioni di sostegno. I bambini, appena usciti dalla scuola o dal liceo dove alcuni di loro sono scolarizzati, si spazientiscono in mezzo al fango e alle capanne, costruite lungo la strada N7.

Petto all'infuori, accompagnato da due "cantaores" (cantanti di flamenco) esegue alcuni passi di danza per alcuni minuti, picchiando il suolo in modo rude e virile, come un torero atletico.

Ma è soprattutto felice d'invitare gli rom a ballare in mezzo alla piccola scena, fatta di travi di legno e decorata di ghirlande, che danno al posto delle arie di parco di divertimenti.

Una donna, la gonna nera della quale sfiora il pavimento, esita, poi finalmente si lancia nel cerchio sotto lo sguardo benevolo d'Israel Galvan.
Durante la serata, gli rom tirano fuori i propri strumenti: violini, fisarmoniche e tamburelli colpiti con l'aiuto di bottiglie di plastica.

"E' buono per i bambini, per noi, per la musica", dice Jorge, il quale abita nell'accampamento da circa otto mesi. "Apporta gioia!"

"Altro tipo di energia"

Figlio di una gitana, Israel Galvan percepisce qui una familiarità con ciò che conosce.

"Quando guardo la gente, vedo certi volti che potrebbero essere quello di mia nonna", dice sorridendo, all'AFP.

Aggiunge: "Ciò che mi colpisce, è che nonostante le difficoltà che incontrano queste popolazioni, riescono a fare venire fuori una gran gioia nel loro modo di vivere".
Nel suo spettacolo battezzato "Le réel" (il reale), egli evoca senza concessioni, la sorte tragica – e abbondantemente occultata – che fu riservata agli tzigani durante la Seconda Guerra Mondiale, perseguitati e sterminati dagli nazisti.

"Per creare il mio spettacolo, mi sono ispirato a libri e foto antiche di zigani. Ma venire qui, è la situazione la più reale alla quale mi sono trovato confrontato" spiega colui che, durante questi ultimi anni, si è tagliato una reputazione di ballerino profondamente avanguardista e novatore.

Considera: "Non ho mai ballato in questo genere di luoghi prima, ma è importante per un ballerino, venire a respirare un altro tipo di energia, diverso da quello dei teatri".

L'incontro, con l'iniziativa della rivista culturale "Mouvement" e dell'associazione "Perou" che viene in aiuto ai rom, non si ferma qui. Durante quattro sere, Israel Galvan invita dodici abitanti del bidonville a venire per assistere al suo spettacolo al Théatre de la Ville, che continuerà fino al 20 febbraio.

Dice che è importante che vengano a vedere lo spettacolo, in quanto questo parla della loro storia.

 
Di Fabrizio (del 24/02/2013 @ 09:01:48, in musica e parole, visitato 1542 volte)

CONSERVATORIO DI MILANO-SALA VERDI: Via Conservatorio, 12 Milano
Domenica 3 marzo 2013. h. 16.30

Nella splendida cornice della Sala Verdi del Conservatorio di Milano, Claudio Bisio, insieme a un ensemble urbano-sinfonico-multiculturale e ai colori di bellissimi acquarelli, ci racconta le avventure di Pierino, di un bruco e di come, insieme, diventano farfalla contro la prepotenza e contro ogni forma di pregiudizio e di solitudine.

Una prima esecuzione, un evento unico, organizzato in collaborazione con il Conservatorio di Milano e i cui proventi saranno devoluti alla ONLUS Soleterre, organizzazione umanitaria che da 10 anni si occupa di diritti umani, con una particolare attenzione a bambini e ragazzi.

Pierino e il bruco è una storia contro il bullismo che valorizza la ricchezza della diversità, in tutte le sue forme. Una storia per grandi e piccini. Una storia in cui, chi ha trascorso del tempo guardando le nuvole, non può non ritrovare anche se stesso nelle vicende del nostro protagonista.

L'autore delle musiche è Stefano Corradi, il cui percorso artistico va dalla musica classica al jazz con un grande amore per la "musica del mondo". Questa varietà è il frutto di intense collaborazioni con diversi gruppi multiculturali come la StageOrchestra di Moni Ovadia, l'Orchestra di Via Padova e la Bantu Band, collaborazioni di cui ha voluto portare testimonianza nello spettacolo di Pierino e il bruco coinvolgendone alcuni musicisti.

Sul palcoscenico ci saranno quindi artisti di diverse provenienze, sia culturali che geografiche. I grandi solisti jazz Tino Tracanna, Giovanni Falzone e Bebo Ferra affiancati dal fisarmonicista rom Albert Mihai, dagli studenti del Conservatorio fino al percussionista ivoriano Pegas Ekamba, formeranno un'orchestra di circa 30 musicisti che accompagneranno Pierino in un viaggio variegato ed emozionante, dove sono i piccoli gesti a costruire le singole esistenze e salvare il mondo.

La storia è stata scritta da Laura Rossi, la cui esperienza attinge al mondo del teatro e dei ragazzi. E' passata per il Piccolo Teatro di Milano, frequentando l"Officina degli scrittori" e il Masterclass diretto da Luca Ronconi, per il teatro Franco Parenti e la StageOrchestra di Moni Ovadia come assistente alla regia. Ha condotto per diversi anni laboratori teatrali per studenti delle scuole medie e superiori. E' autrice del libro "L'identità e la maschera", un confronto tra le figure femminili in Ibsen e Pirandello.

I "colori" delle musiche sono anche i colori delle scenografie, realizzati da Jacopo Ziliotto, illustratore, visualizer, autore di fumetti, creativo.

Apertura porte h. 15,30
Inizio spettacolo h.16,30

Biglietto: 15,00 euro intero; 10,00 euro ridotto per ragazzi fino a 16 anni.
Prevendite, dal 12/2/2013 on-line su: VivaTicket

CONSERVATORIO DI MILANO-SALA VERDI: Via Conservatorio, 12 Milano
Per Informazioni e prenotazioni:
lun-ven h 13,00 – 14,00 / sabato 10,00-13,00 - tel 3343149628
E-mail : info@lagrandejatte.it

www.pierinoeilbruco.it
www.soleterre.org/it/

 
Di Fabrizio (del 05/02/2013 @ 09:09:33, in musica e parole, visitato 1597 volte)

l'Arena.it SERGIO PRETTO

Sergio Pretto con la sposa a un matrimonio Rom

Un mondo che intravediamo appena, che non vogliamo vedere, che magari ci fa paura. Sergio Pretto, romano, 73 anni, giornalista prima della carta stampata poi alla Rai, racconta gli zingari attraverso un secolo di storia in Novecento Rom (Cartacanta, 400 pagine, 18 euro). Narra la storia di una famiglia, dagli anni Trenta al 2010, tessendo un arazzo di rapporti intrecciati. Se ne esce incantati da una scrittura a immagini, frammentata, a volte straniata, che si avvicina alla poesia.

Nella quarta di copertina si legge che lei è stato avviato alla scrittura da Pier Paolo Pasolini. Come?
Pasolini l'ho conosciuto da ragazzo su un campetto di calcio. Era un uomo che, a prima vista, intimoriva, dai tratti spigolosi, e che poi, invece, scoprii umanissimo. Diede una gran pallonata, che colpì il "palo" della nostra "porta", fatto da libri e quaderni di scuola legati con l'elastico, come si usava allora. Si scusò moltissimo, ma si soffermò sui quaderni. Soprattutto sul mio, quello dei temi e lì, subito, a darmi consigli, a dirmi di infrangere le regole, di esplorare le cose e insieme di aggredirle. E io cambiai il mio modo di scrivere. Lo cambiai più volte, dopo, anche sotto l'influsso del surrealismo di Calvino e del realismo magico di Màrquez, scrittori che riportano, anche se a prima vista non sembra, allo scavo nel torbido di PPP.

Perché si è interessato ai Rom?
È stato proprio Pasolini a insegnarmi a guardare agli ultimi. Il primo contatto l'ho avuto attraverso un'assistente sociale: cercavo informazioni per un altro libro, che stavo scrivendo. Abbiamo incontrato un giovane Rom, quello che nel romanzo io chiamo Decebal. Non è stato facile né da parte mia, né da parte sua. Ci dividevano mille pregiudizi. Ma mi sono reso conto che quello che noi vediamo - la sporcizia, il furto... - è la punta di un iceberg. Sotto c'è una cultura straordinaria, musicale, umanitaria, una solidarietà che non possiamo percepire. Siamo fermi agli stereotipi. E invece ci sono zingari docenti universitari, sportivi di fama (Andrea Pirlo, il calciatore), avvocati, pugili... C'è un'orchestra sinfonica di violinisti, tutti zingari, che sta girando l'Europa riscuotendo enorme successo. Una zingara di vent' anni, Laura Halinovic, ha vinto il Festival audiovisivo di Montecarlo con il documentario Io, la mia famiglia Rom e Woody Allen.

Come ha fatto a documentarsi?
Ho passato mesi tra i Rom. Decebal, una volta che siamo riusciti ad intenderci, mi ha detto che qui in Italia sono tutti giovani: per ascoltare la loro storia dovevo andare a Craiova, in Romania. Ho fatto partire il mio romanzo-verità da laggiù, quando Simplon, il padre di Decebal, decide di raccontare ai suoi figli la tragedia del Porrajmos, come gli zingari chiamano il genocidio pianificato dai nazisti: nei lager morirono 600mila Rom e Sinti. Simplon è depositario di testimonianze dirette, dal padre Ofiter e dalla madre Limpiana. Racconta come dei gitani si siano salvati nelle "marce della morte" verso i campi di sterminio. Quando seppellivano le vittime, alcuni si gettavano vivi nelle fosse: poi una coperta, quindi i morti, poi badilate di terra. L'ultimo della fila batteva sul tumulo cinque colpi: il segnale che la colonna si allontanava, così i sepolti vivi potevano uscire dalle fosse. Questo stratagemma l'avevano escogitato grazie alla loro antica tradizione di seppellire i morti durante il cammino. Non esistono cimiteri Rom o Sinti fino ai primi del Novecento: nomadi, gli zingari seppellivano i loro morti lungo la strada.

Rimangono impresse le figura femminili del libro. Ce ne vuol parlare?
Grifina era una giovane zingara dalla bellezza fiera e singolare. L'ufficiale medico del lager la notò e se la prese come infermiera e amante. Lei sopravvisse alle sevizie, accudendo una bambina che aveva trovato nel campo, sperduta, e con la certezza che un giorno si sarebbe vendicata. Alla fine, lo fece: uccise con il bisturi l'ufficiale medico. La giovane Jonela è invece l'esempio del contrasto tra gli anziani e i giovani. I ragazzi vedono i lati positivi della nostra società, quella di noi gagé, come ci chiamano i Rom. Jonela, cresciuta il Romania sotto il regime di Ceausescu, preferiva i jeans alle gonne a fiori e non voleva più camminare sempre un passo dietro al suo uomo...

I Rom sono così maschilisti?
Questo è un argomento, forse il primo, su cui ci siamo trovati a discutere. Ho parlato ai Rom di grandi donne di cui non conoscevano l'esistenza: le americane che nel 1908 scioperarono per protestare contro le terribili condizioni in cui erano costrette a lavorare e morirono nell'incendio scoppiato l'8 marzo. Madame Curie, Rita Levi Montalcini... Le donne, che prima si ritraevano, hanno cominciato a sorridermi, ad invitarmi a mangiare. Gli uomini a considerare le loro compagne in una nuova dimensione. Non ci siamo messi d'accordo, invece, sulla scuola. "L'istruzione", mi hanno detto, "dovrebbe portare alla felicità. Perché noi dovremmo accettare, senza discutere, la vostra?"

Apertesi le frontiere dell'Europa orientale, la famiglia di Decebal ha lasciato la Romania per Francoforte, quindi Roma: nel campo al Casalino, che poi è stato spazzato via, e infine al Tiburtino. La storia è chiusa?
Spero in un finale aperto. Finché noi li ghettizziamo, saranno sempre pronti a ripagarci con il peggio perché a questo porta la disperazione. Ci chiedono di lavorare, anche lavori umilissimi - li ho visti io stesso farli, insieme agli immigrati - e ci chiedono di non dover rinunciare all'essenza della loro cultura. Sono il popolo meno sanguinario del mondo, che non ha mai combattuto una guerra, anche perché non ha confini da difendere.

Alessandra Milanese

 
Di Fabrizio (del 31/01/2013 @ 08:59:32, in musica e parole, visitato 2363 volte)

Evento organizzato da e

Concerto di raccolta fondi per un progetto post-terremoto con INGRESSO A SOTTOSCRIZIONE
Giovedì 7 febbraio, ore 21.30 Enoteca Ligera, via Padova 133

Tutto a posto?
Ad oltre sei mesi dal terremoto, l'Emilia è dimenticata con ancora tutte le ferite aperte. Sta succedendo lo stesso agli scampati del terremoto a L'Aquila.
Abbiamo cercato dei referenti in Emilia, che seguissero un progetto tangibile e già in corso, per continuare a dimostrare la solidarietà emersa a fine maggio.
L'abbiamo trovato con
Sisma punto dodici e col loro progetto di autocostruzione.

Gli Unza, chi se li ricorda?

Furono i primi a far conoscere le storie e la musica dei Rom rumeni a Milano. Poi, come succede spesso, il gruppo si divise: qualcuno andò a lavorare in campagna, qualcuno tornò in Romania, altri continuarono a girare tra campi rom sempre più malmessi. Altri cammineranno sul percorso tracciato da loro.

Ma non puoi fermare la passione che scorre nelle vene di un musicista, la necessità di mettersi in gioco ancora una volta.

E... hanno pensato, noi che si è sempre vissuto in tende e roulottes, non vogliamo essere SPORCHI ZINGARI, anzi, possiamo impegnarci per il paese che ci ospita da anni: con questo concerto fortemente voluto: brani del repertorio romanì e del folklore rumeno, per scoprire le tante radici che legano popoli e culture. Una serata per ballare - certo, per riflettere - forse, per conoscersi e stare insieme.

 
Di Fabrizio (del 21/01/2013 @ 09:08:58, in musica e parole, visitato 1153 volte)

Bordeaux: Un polemico clip rap mette in scena la vita dei manouches - Publié le 13 décembre 2012 dans Actualités, Faits divers, Vidéo - sur INFO BORDEAUX

Una volta di più. il rapper Morsay (Mohamed Mehadji) potrebbe avere oltrepassato i confini della legalità. Il clip girato presso Berdeaux, a Taillan-Médoc, concentra un cocktail di numerosi crimini: uso di armi da fuoco, infrazioni al codice della strada, insulti alle forze dell'ordine ("fanculo a tutti i condé") e minacce ripetute (s'illumina il kalache(nikov)"):

Per Cyril Martinez (Alias), già citato in giudizio a giugno 2011 per "incitamento alla violenza", l'obiettivo era parlare della gens du voyage e della loro situazione: "E' la prima volta che facciamo un video con dei manouches, Volevamo mostrare che i voyageurs in Francia non sono dimenticati."

Nessun dubbio che riunendo tre rapper molto controversi (Morsay, Alias e Angelo), questo video farà parlare di sé.

Fondatore del collettivo "Truand 2 La Galère", Mohamed Mehadji afferma qui di "non dimenticare l'Algeria, paese da cui vengo." Alcuni commentatori su Internet suggeriscono che un ritorno in questo paese "sarebbe un vantaggio per tutti."

[cc] Infos Bordeaux, 2010-2012, Dépêches libres de copie et diffusion sous réserve de mention de la source d´origine [http://www.infos-bordeaux.fr/].

 
Di Fabrizio (del 17/01/2013 @ 09:04:16, in musica e parole, visitato 1659 volte)

Il Libraio.it

di Valentina Furlanetto
dal 17 gennaio 2013 in libreria
"Basta con la carità, c'è bisogno di giustizia... La liberazione viene sempre dal basso, dai poveri, mai dai ricchi. Alex Zanotelli"


Questo libro racconta un mondo, quello della solidarietà, di cui non si sa abbastanza. Tra sms che salvano, adozioni a distanza, partite del cuore, campagne televisive, azalee e arance benefiche, quanti milioni di euro raccolti arrivano a chi ha bisogno? La risposta che viene fuori dalle testimonianze di cooperanti italiani e internazionali e dai più recenti dati di bilancio (quando sono disponibili: in Italia non c'è l'obbligo di pubblicare un vero e proprio bilancio economico-finanziario) è che tra profit e non profit c'è ormai poca differenza. Migliaia di associazioni sono in lotta una contro l'altra per i fondi, quelle più grandi spendono milioni per promuoversi e farsi conoscere, intanto le più piccole sono schiacciate dalla concorrenza. Gli stipendi dei manager del settore non profit sono ormai uguali a quelli delle multinazionali (la buonuscita milionaria di Irene Khan, ex segretario generale di Amnesty International, è solo la punta dell'iceberg). Ma i soldi non sono che una parte della questione, c'è molto altro da sapere. Che fine fanno i vestiti che lasciamo ai poveri? Come funziona il sistema delle adozioni internazionali? E il commercio equo e solidale? La filantropia ha fatto cose importanti, ma è anche il simbolo del fallimento della politica. Gli esseri umani non dovrebbero dipendere dalla generosità di altri. Se poi questa generosità diventa un business è importante raccontarlo per impedire che qualcuno si arricchisca sulla buona fede dei donatori.

autore Valentina Furlanetto
collana Principio attivo
casa editrice CHIARE LETTERE
dettagli libro - cartonato con sovracoperta

 
Di Fabrizio (del 15/01/2013 @ 09:06:14, in musica e parole, visitato 1796 volte)

Da Czech_Roma

Prague, 26.12.2012 23:31, (Romano vod'i) - Inka Jurková, translated by Gwendolyn Albert
--ilustrační foto--

Roger Moreno Rathgeb è autodidatta, come molti musicisti rom, ma poco a poco ha iniziato ad usare la partitura musicale e a comporre. Diversi anni fa decise di comporre un requiem per le vittime del campo di sterminio di Auschwitz, ma il suo lavoro fu interrotto da una visita che lo  influenzò fortemente, bloccando per diversi anni le sue capacità creative. L'impulso a completare il lavoro arrivò sotto forma di richiesta da Albert Siebelink, che gli suggerì di presentare il  "Requiem for Auschwitz" all'International Gipsy Festival di Tilburg e poi in altre città europee.

Compositore e polistrumentista (suona fisarmonica, violino, contrabbasso, chitarra, piano e percussioni), Rathgeb è a Praga per la prima volta il suo lavoro sinora più vasto, "Requiem per Auschwitz" (ulteriori notizie su questo eccezionale evento su Romea.cz). Abbiamo parlato assieme nel foyer del Rudolfinum durante le prove generali, che potevamo udire dall'altra parte della parete. E' stato molto bello.

Sei nato in Svizzera nel 1956, cioè 11 anni dopo la guerra. Anche se la Svizzera era neutrale, hai patito le conseguenze della guerra?

In effetti in Svizzera non c'era la guerra, ma c'erano altri problemi. Ad esempio, proprio in quel periodo una specifica organizzazione svizzera (la Pro Juventute, ndr.) stava lavorando per sottrarre i bambini dalle famiglie romanì subito dopo la nascita, per darli a coppie non-romanì che erano sterili. E' durato sino al 1979. Si può dire che anche questa era una guerra, solo un po' diversa.

Da dove provenivano i tuoi genitori?

Mio padre non era Rom, era uno Svizzero tedesco. Mia madre era Rom - precisamente, era Sinti - ma anche lei era nata in Svizzera. All'epoca non crebbi nell'ambiente romanì tradizionale.  Con mia sorella frequentammo la scuola normalmente. Sino ai 12 o 13 anni nemmeno seppi che mia madre era sinti. Non solo a casa non parlavamo romanés, ma nemmeno sull'essere rom. Di fatto non so come si conobbero i miei genitori. Mio nonno (cioè il padre di mia madre) morì quando lei aveva sei anni, così de facto non conosceva la propria cultura.

Però parli il romanés. L'hai imparato dopo?

Sicuro. Nel 1980 con la mia band eravamo in tour in Olanda, dove incontrai parecchie famiglie di musicisti sinti. La band mi lasciò solo con loro [ride]. Parlavano solamente il sinto ed in mezzo a loro mi sentii subito a casa.

Quando eri con loro, sapevi già di essere un Sinto?

Sì. Da bambini i compagni di scuola ridevano di me e dicevano che ero uno "zingaro", accusa da cui mi difendevo perché davvero non sapevo niente delle mie origini. Dovevano aqverlo saputo in qualche modo. Una volta tornai a casa e mi lamentai con mia madre, così lei mi rivelò che ero un Rom. Non fu facile per lei dirmelo, si vergognava un po'. Poi, per molti anni, ho avuto problemi con la mia identità. Dopo tutto, sono cresciuto solo come un "normale" Svizzero, proprio come un gagio.

Oggi ti identifichi come Rom-Sinto?

Ho sempre avuto la sensazione di non essere come gli altri Svizzeri. Ero un ribelle. Contestavo le leggi, la società svizzera, protestavo contro tutto. Gli Svizzeri hanno una mentalità completamente differente. Sospettavo di non essere uno svizzero, che non fosse vero. Doveva esserci qualcos'altro.

Quando hai deciso di dedicarti professionalmente alla musica? Cosa ti ha portato a ciò?

Quando compii 10 anni, mia nonna (lato materno) mi regalò una chitarra. Avevo scoperto che avevo talento musicale, anche se sono il solo in famiglia che si è dedicato alla musica. In famiglia d'altra parte nessun altro ha mai avuto questa passione.

Qual è la musica che ti piace di più? Sei qui a Praga per un concerto di musica classica, o anche per la musica rom tradizionale?

Sì, la musica rom è sicuramente quella che mi piace di più. La strada per la musica classica per me è stata davvero lunga, perché per molto tempo non riuscivo nemmeno a leggere la musica.

Dove hai imparato la teoria musicale, che è così necessaria per comporre un requiem?

Incontrai le prime scale musicali quando avevo 35 anni. Prendevo lezioni di violino ed il mio insegnante era un Rom ungherese che suonava nell'orchestra sinfonica di Maastricht. Fu il primo a mostrarmi la notazione musicale e così facendo mi aprì un mondo intero davanti.

Oltre alla musica rom e a quella classica, che musica ascolti?

Di base amo tutta la musica. Una volta ho anche suonato la batteria in una rock'n'roll band e sino ad oggi ho avuto belle sensazioni su questo stile musicale, mi piace!

Tu hai collaborato con molti gruppi - di quali hai i ricordi migliori e quali hanno più impattato sulla tua vita?

Direi la famiglia sinti con cui iniziai a suonare dopo il trasferimento in Olanda [la Zigeunerorkest Nello Basily - nda]. Interpretavano la musica tradizionale dei Rom di Ungheria, Romania e Russia. Imparai da loro, in particolare dal suonatore di cimbalom, come distinguere le armonie ungheresi. Sono i migliori per apprendere l'accompagnamento, perché sono in costante evoluzione, e ciò rende più facile accompagnare anche canzoni che non si conoscono. Sono giunto alla più grande profondità di comprensione con quel gruppo.

Perché hai deciso di emigrare in Olanda?

Nel 1980 con la band eravamo in tour in Olanda, e la mentalità delle gente di quel paese mi coinvolse da subito. Gli Olandesi sono liberi pensatori, a differenza degli Svizzeri che sono terribilmente conservatori. La verità è che agli Svizzeri i Rom non piacciono. Gli Olandesi sono aperti e tolleranti ed hanno un paese meraviglioso. Fu una decisione molto rapida.

Hai scritto sceneggiature per diversi spettacoli teatrali - di che si tratta?

Con la band abbiamo creato degli spettacoli teatrali. Il primo si chiamava "Il Lungo Viaggio" e raccontava la storia della migrazione del popolo romanì dall'India in Europa. Il secondo l'abbiamo chiamato "La Vita" e lì ritraevamo la vita di ogni giorno dei musicisti rom. Sono pastiches di musica, poesia e narrativa. Ci sedevamo attorno a un fuoco, suonavamo i nostri strumenti e facevamo del nostro meglio per creare l'atmosfera di un campo rom. I gagé non conoscono molto del popolo rom e spesso mi chiedono della nostra storia e cultura. Volevamo in qualche modo avvicinarli alla nostra "Romanipé", perché la discriminazione deriva soprattutto dall'ignoranza.

Quanta gente veniva a sentirvi - erano soprattutto Rom oppure no?

Abbiamo recitato nei teatri di Belgio, Germania e Olanda, e il pubblico era soprattutto di gagé. E' triste - i Rom non sono interessati in queste cose, non so il perché.

Sei a Praga con tua moglie. E' musicista anche lei?

Sì, anche sul palco siamo assieme, è il nostro modo di vivere. E' buffo, che le mie composizioni siano suonate in tutta Europa, ma che che ancora io non ci abbia guadagnato, ed in qualche maniera si deve pur vivere. Suoniamo nei concerti, ai festival, nei teatri, ai matrimoni e nelle varie feste.

Sei uno degli interpreti principali del film "Musicians for Life", creato da Bob Entrop. Cosa puoi dirci del film?

E' una delle ragioni per cui sono a Praga. Albert Siebelink, il direttore del festival romanì di Tilburg, l'ha visto, e c'è un'intervista in cui parlo di "Requiem for Auschwitz". Dopo aver visto il film, Albert mi chiese se lo avessi completato, ma non era ancora pronto. Mi promise che se l'avessi completato, si sarebbe dato da fare per la sua esecuzione. Iniziai nuovamente a lavorarci nuovamente, ma lo stesso mi ci sono voluti altri tre anni.

"Musicians for Life" non è il solo film con cui ho collaborato con Bob Entrop.  C'è anche il documentario "A Hole in the Sky", sui sopravissuti alla II guerra mondiale.

Quando hai iniziato a lavorare a "Requiem"?

La prima volta ho visitato Auschwitz nel 1998 e subito ho avuto l'idea di scrivere un requiem. Iniziai a lavorarci, ma dopo qualche tempo tutta la mia ispirazione scomparve. Pensai che tornando ad Auschwitz avrei saputo come continuare - ma successe il contrario. Ero soltanto distrutto, è un posto molto macabro. Ho messo il lavoro da parte e non sono tornato al "Requiem" che otto anni dopo.

Ti definiresti un attivista rom o sinto?

Probabilmente, no - sono solo un musicista. Però, se la gente vede un messaggio nella mia musica, va benissimo.

Per un certo periodo hai collaborato con la cantante lirica Carla Schroyen. Di che progetto si trattava? E' iniziata da lì la tua idea di creare una grande opera musicale come "Requiem for Auschwitz"?

Carla Schroyen ha scritte diverse arie "zingare" per opera ed operetta e l'ho accompagnata alla fisarmonica, ma questo non ha influenzato la mia composizione. Già da prima mi ero dedicato alla musica classica.

Qual è stata la tua prima composizione classica?

Nel 1995 decisi di provare a scrivere un balletto per un ensemble di danza amatoriale a Maastricht. Tuttavia, alla fine, si trasformò in un lavoro sinfonico-poetico.

In "Requiem for Auschwitz" hai provato ad incorporare elementi della musica romanì?

Un poco, ci sono diversi motivi che tornano di continuo, però "Requiem" non è dedicato solo alle vittime romanì, ma a chiunque abbia sofferto e sia perito ad Auschwitz. Prima di scriverlo non avevo ascoltato altri requiem, così non sarei stato influenzato da altri lavori. Nel "Requiem" ci sono io, nessun altro, è per questo che lì si trovano alcuni motivi romanì.

Vedi qualche differenza tra il genocidio del popolo ebreo e quello del popolo rom?

E' del tutto la stessa cosa. I numeri differiscono un po', ma non è questo l'essenziale.

Tu hai suonato come apertura per Chuck Berry, per la famiglia reale olandese, e "Requiem for Auschwitz" è stato suonato nelle più celebri sale da concerto europeo. Quale consideri il tuo più grande successo, sinora? Hai altri piani o sogni?

Sto lavorando su un oratorio riguardo la migrazione dei Rom dall'India all'Europa. Penso che sarà un lavoro più ampio di "Requiem". Vorrei anche scrivere un'opera sui bambini rom portati via dalle loro famiglie e collocati in famiglie non-Rom in Svizzera. Come vedi, ho abbastanza piani! [ride]

 
Di Fabrizio (del 08/01/2013 @ 09:09:09, in musica e parole, visitato 1548 volte)

DIRITTI GLOBALI FONTE: ANDREA TARQUINI - LA REPUBBLICA | 02 GENNAIO 2013

Sul podio il maestro Sahiti, profugo dal Kosovo

BERLINO. Sono tutti bravi, strappano sempre grandi applausi e standing ovation. E sono tutti Rom. "Suoniamo soprattutto per mostrare che non è vero che se sei un Rom sei un criminale", è il loro motto. Girano di continuo l'Europa in tournée, sfidando anche pericoli in situazioni come quella ungherese, dove gli ultrà di destra e le loro milizie tipo Magyar Garda hanno le violenze razziste anti-Rom come attività quotidiana. Di orchestre sinfoniche ce ne sono tante ma questa è la storia di un'orchestra unica al mondo. Si chiama Frankfurter Philharmonische Verein der Sinti und Roma. Esiste da dieci anni, fondata dal musicista rom nato in Kossovo Riccardo Sahiti, oggi cinquantunenne. A Francoforte, nella metropoli finanziaria della democrazia tedesca, ha base sicura ma viaggia di continuo per portare in musica il suo messaggio antirazzista.

"L'idea mi venne perché all'inizio, io fuggito dal Kosovo in guerra e con una robusta formazione musicale sulle spalle, avevo difficoltà a farmi accettare nelle orchestre", ha spiegato Riccardo Sahiti alla Sueddeutsche Zeitung, l'autorevole quotidiano liberal di Monaco che all'orchestra sinfonica rom ha dedicato un reportage a tutta pagina. "Ho cercato e contattato colleghi ovunque, sapevo che musicisti sinti o rom erano attivi in orchestre importanti, dalla Wiener Staatsoper, all'Orchestra sinfonica della MDR (la tv pubblica dell'est tedesco) a Lipsia, all'orchestra nazionale romena".

Così nacque il progetto, nel novembre 2002 a Francoforte. Adesso a Praga hanno appena incassato il tutto esaurito suonando, tra l'altro, il Requiem per Auschwitz, composto da Roger Moreno, sinto di origine svizzera. "Nel maggio scorso", narra Moreno, "lo abbiamo eseguito ad Amsterdam e la regina Beatrice ci ha poi invitati a un caffè a palazzo reale per dare l'esempio contro i razzisti".

Non è facile farsi avanti, neanche nell'arte, se appartieni a una minoranza mal vista un po' ovunque. Sahiti è di buona famiglia, i genitori spesero tutto per il suo talento musicale, gli regalarono un pianoforte, riuscirono a mandarlo a studiare a Belgrado e poi a Mosca. Poi vennero le guerre volute dal dittatore serbo Slobodan Milosevic, i massacri etnici e gli stupri etnici di massa della sua soldataglia, asili e ospedali bombardati dai suoi Mig. Sahiti fuggì, appunto. E nel 2002, appena costituita, l'orchestra sinfonica Rom tenne proprio a Francoforte, gran pienone, il suo primo concerto.

"Aver creato l'orchestra vuol dire non perdersi di vista" spiega il violinista Johann Spiegelberg. "Ognuno di noi o quasi ha nella memoria brutte esperienze. Io una volta ero in una grossa città dell'est tedesco, alla fine d'un concerto, ancora in frac, arrivai a una pompa di benzina per fare il pieno con la mia vecchia Mercedes. Due giovinastri mi si sono avvicinati, mi hanno detto “eccolo là, il kanak (termine razzista per straniero usato dai neonazisti ma anche da gente comune nell'ex Ddr, dove tre generazioni vissero prima sotto Hitler poi sotto lo stalinismo, senza cultura democratica e quasi senza ribellarsi fino all'ultimo al contrario di polacchi o cecoslovacchi o ungheresi, ndr).

Ecco un altro kanak, bè kanak che ne dici, è sempre comodo per voi vivere bene qui a spese nostre e a casa nostra, no?”. Io non mi lasciai provocare".
"Ogni tournée è come un'allegra gita scolastica, eppure ce la mettiamo tutta". Musica sinfonica, classica, non folklore. E naturalmente anche musiche di opere ispirate al mondo Rom, da Carmenal Gobbo di Notre-Dame.

"Quella per noi è una nostra eredità culturale da tramandare". Il rischio, dice Jitkà Jurkovà, attivista dei gruppi antirazzisti cèchi che li aiuta a organizzare concerti, è che vengano visti come spettacolo esotico, e che il messaggio politico non sia capito appieno. Ma è un rischio che per il maestro Sahiti e i suoi orchestrali val la pena correre. Tanto da suonare il Requiem per Auschwitz anche in Germania.

 
Di Fabrizio (del 16/12/2012 @ 09:08:45, in musica e parole, visitato 1475 volte)

Domenica 23 Dicembre 2012, ore 21
Coop. Soc. Circolo Familiare di Unita' Proletaria - viale Monza 140- Milano (salone al primo piano) -
Ingresso 5,00 euro

Iniziò tutto dieci e più anni fa. Suonavano nella metropolitana, raccontarono la loro storia nel film "Miracolo alla Scala", rappresentarono l'Italia ad un concorso europeo in Grecia. Furono i primi a far conoscere le storie e la musica dei Rom rumeni a Milano. Poi, come succede spesso, il gruppo si divise: qualcuno andò a lavorare in campagna, qualcuno tornò in Romania, altri continuarono a girare tra campi rom sempre più malmessi. Altri cammineranno sul percorso tracciato da loro.

Ma non puoi fermare la passione che scorre nelle vene di un musicista, la necessità di mettersi in gioco ancora una volta. Eccoli allora, a presentare brani del repertorio romanì e del folklore rumeno, e scoprire le tante radici che legano questo popolo alla nostra cultura dell'800 e del '900. Una serata per ballare - certo, per riflettere - forse, per conoscersi e stare insieme nella magica atmosfera del nostro circolo.

 
Di Fabrizio (del 06/12/2012 @ 09:03:40, in musica e parole, visitato 1216 volte)

movieplayer.it a cura di Luciana Morelli pubblicato il 26 novembre 2012
Presentato in anteprima mondiale al Torino Film Festival 2012 nella sezione Festa Mobile il nuovo film del regista di origini sarde ambientato nel campo nomadi di Cagliari e incentrato sull'emarginazione.

Dopo I bambini della sua vita e il documentario su Liliana Cavani, Peter Marcias torna nella sua Sardegna per raccontarci una storia di emarginazione e insieme un dramma di volti e corpi che cerca di aprire lo sguardo ed allargare l'orizzonte su una realtà dolorosa e ingiusta che riguarda strettamente il nostro paese, un argomento che il cinema 'ufficiale' troppo spesso tende ad ignorare. Scritto da Gianni Loy, il film parla sì di un popolo relegato ai margini della società dallo Stato ma più in generale affronta il tema della diversità e dell'integrazione ma parla anche d'amore, amicizia e di comprensione, valori che vanno oltre la razza, il colore della pelle e la nazionalità. Ad accompagnare il film a Torino il giovane regista insieme allo sceneggiatore e ai due attori protagonisti Luli Bitri e Salvatore Cantalupo, rispettivamente una ragazza di origini rom che vive in Francia e un ispettore di polizia di mezza età che diventano amici. Prodotto e distribuito da Gianluca Arcopinto, rispettivamente con la Axelotil Film e con la Pablo, Dimmi che destino avrò è sostenuto dall'Unicef come film di interesse sociale per l'alto valore del messaggio e del tema trattato e sarà nelle sale a partire da giovedì 29 novembre.



Signor Marcias, ci spiega com'è entrato in contatto con la realtà dei campi rom?
Peter Marcias: Per la realizzazione di questo film siamo partiti da una sceneggiatura di Gianni Loy che collabora con la Fondazione Anna Ruggiu onlus e lavora con i tanti campi nomadi presenti in Sardegna, per lo più campi amministrati dalle autonomie locali. Personalmente era la prima volta che entravo in un campo rom, per me è stato un po' come seguire lo stesso percorso umano che intraprende il commissario nel film. E' stata un'esperienza importante per me sia dal punto di vista umano sia professionale.

Come descriverebbe il suo film in poche parole?
Peter Marcias: Dimmi che destino avrò è più di tutto un film sull'interazione più che sull'integrazione, un film che sfrutta elementi di fiction per raccontare la realtà.

Ci spiega perché nel suo film il rapporto che si instaura tra il commissario e la ragazza rom è un po' in controtendenza e cioè è l'autorità ad essere meno forte della parte 'lesa' vista solitamente come la più debole?
Peter Marcias:
Era sostanzialmente quello che volevo venisse fuori dal film, mi sembrava troppo semplicistico realizzare il solito thriller in cui c'è un commissario che esegue le indagini all'interno del campo rom, ho preferito farlo entrare a contatto con la realtà dei nomadi un po' in sordina, quasi in punta di piedi. Mi interessava poi che fosse una donna a prendere il sopravvento sulla vicenda ma non nascondo che questa linea è venuta fuori successivamente e cioè quando il film era già in corso d'opera. Capisco che questo aspetto possa sembrare un po' inverosimile ma ho preferito dirigere la storia verso binari non consueti, è per questo che abbiamo fatto in modo che non accadesse nulla di romantico tra i due protagonisti. Devo ammettere di aver un po' giocato sotto questo aspetto.



Ci spiega come sono andate le riprese nei campi e in che zone è stato girato il film?
Peter Marcias:
Abbiamo girato in due diversi campi, quello di Monserrato e quello vicino a Selargius. Il bello è che dovevamo stare una settimana ed invece alla fine ci siamo stati un mese e mezzo, all'inizio non è stato facile farsi accettare dalla comunità rom ed è anche comprensibile visto che siamo piombati nella loro vita all'improvviso con le nostre attrezzature senza aver loro prima spiegato il tutto. Successivamente si sono dimostrati curiosi nei confronti del film, dei meccanismi organizzativi sul set, dei ciak, degli attori mentre noi dal canto nostro abbiamo cercato di coinvolgerli in tutto e per tutto nelle scene del film facendo interpretare ad alcuni di loro il ruolo di alcuni poliziotti durante la scena della perquisizione. Quello che non volevamo era approfittare del loro naturale folklore per raccontare la nostra storia, abbiamo voluto raccontare la loro vita nella loro essenza.



Come hanno vissuto i due attori questo stretto contatto con la comunità rom e come hanno lavorato per affrontare al meglio i loro personaggi?
Luli Bitri: Per me era un po' più difficile perché dovevo essere una di loro, per prepararmi ho fatto ricerche letterarie ma quel che mi ha più aiutato è stato l'incontro con una ragazza che era nella stessa situazione di Alina, il mio personaggio, e quindi ho usato i suoi consigli linguistici e comportamentali per entrare nella psicologia delle donne della comunità. Col passare dei giorni poi sono diventati degli amici per me, mangiavamo insieme, stavamo ore a chiacchierare e qualcuno si è anche confidato intimamente con me, alla fine mi sono dimenticata di essere un'attrice. Posso dire di aver preso parte ad un pezzettino della loro vita e di aver regalato loro qualche momento di riflessione stuzzicando la loro curiosità e le loro speranze per il futuro.
Salvatore Cantalupo: Mi sono molto rispecchiato nei bambini rom che ho allenato sul campo di calcio nel film, facevano gli stessi giochi che facevo io da scugnizzo napoletano, ma più di ogni altra cosa ho cercato di vivere il più umanamente possibile il mio personaggio.

 

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