L'ExpressIsrael Galvan: "danzare l'impossibile", il genocidio dei
gitani - Par AFP, publié le 13/02/2013 à 09:52
PARIGI - Il sivigliano Israel Galvan danza dal 12 al 20 febbraio al "Théatre
de la Ville" di Parigi "L'impossibile da danzare": il genocidio tzigane da parte
dei nazisti, con il suo nuovo spettacolo "Le Réel, Lo Real, The Real".
Dimenticatevi del flamenco tradizionale, delle balze e degli "olé":
il flamenco di Galvan è aspro, senza concessioni.
E' a torso nudo, dove si disegnano le costole, danzando sulla scena
quasi vuota. Un piano stonato, dal quale verrà fuori il filo spinato dei campi
di concentramento, dei binari cigolanti: ecco, la scenografia è montata. Lo
spettatore trattiene il fiato: si soffre con lui.
Quando una ballerina irrompe, è vestita come una rom, come in segno di
solidarietà con le persecuzioni di oggi.
Silhouette longilinea vestita di una calzamaglia nera, c'è un uomo
dolcissimo, agli antipodi del solito ballerino brillante, il quale si esprime
tramite interviste, attento alle domande, esitante nell'agganciare delle parole
ai movimenti del corpo.
Cascato piccolino nel flamenco - i suoi genitori sono ballerini e suo padre
insegnante in una scuola di flamenco a Siviglia - traccia rapidamente il proprio
cammino, rischiando di sconvolgere i puristi.
"Hanno il loro posto, è importante conservare la tradizione" afferma Galvan,
"ma il flamenco è in costante evoluzione, e mi sento molto libero".
Libero di scegliere un tema scottante come il genocidio dei gitani, e di
introdurvi "anche della gioia", perché conviene celebrare tanto la loro
sopravvivenza quanto la loro sofferenza.
Il genocidio era presente già nella sua infanzia, "se ne parlava molto a
casa, per motivi religiosi", dice Galvan. I suoi genitori appartengono ai
Testimoni di Geova, perseguitati e deportati dai nazisti a motivo dei loro
legami internazionali e della loro opposizione al potere e alla guerra.
Sua madre è tzigana: il genocidio fa doppiamente parte della storia
familiare. Però, Israel Galvan si è ispirato anche da documentari, libri,
canzoni ("Hitler in my heart" del gruppo Antony and the Johnsons) per la sua
creazione. Dice che come sempre, lo spettacolo risponde a "un'esigenza".
Con una dozzina di creazioni in 15 anni, Israel Galvan si è forgiato la
reputazione di un ballerino profondamente innovatore nell'ambito molto
codificato del flamenco. Applaudito a Parigi e nel nord-europeo da molto tempo,
ha visto il suo lavoro riconosciuto per la prima volta a dicembre, dal Teatro
Real di Madrid, che ha prodotto "Il Réel".
Questo "ballerino delle solitudini", secondo il titolo di un libro che gli è
stato consacrato dal filosofo e storico dell'arte francese Georges Didi Huberman
(2006), è stato per la prima volta - per "Il Réel"- affiancato da due
virtuose ballerine, Belén Maya e Isabel Bayon. Una decina di cantanti e musicisti fanno
molto più che accompagnarlo, essendo la vera spina dorsale dello spettacolo.
Tra i suoi progetti, un duo con il ballerino britannico originario del
Bangladesh Akram Khan, la cui danza è ispirata dal kathak, un'arte tradizionale
indiana vicina al flamenco.
Israel Galvan vorrebbe anche "esplorare il suo lato femminile". Osserva che
"Nel flamenco, l'uomo deve danzare da ++macho++ e la donna, in modo femminile". A
lui piacerebbe "cambiare un po'". Butta là sorridendo: "Ho sempre danzato da
uomo, è un po' stancante".
Una trasgressione fedele al suo percorso, che spiega però, senza alcuna
aggressività. La violenza, la morte, onnipresenti nei suoi spettacoli, li
conserva per la scena. In città, è un uomo timido, che parla dei suoi
figli, tra cui c'è una bambina che danza già "il balletto".
Le ParisienIsrael Galvan danza per i rom di Ris-Orangis Publié
le 15.02.2013, 21h24
Nel bel mezzo di un accampamento di Rom a Ris-Orangis, la nuova stella del
flamenco Israel Galvan, batte i tacchi con passione. Habitué delle grandi sale
prestigiose d'Europa, è venuto qui per "confrontarsi con la realtà".
I rom dell'accampamento, autentica bidonville a 20 km al sud-est di Parigi,
hanno terminato la costruzione della scena venerdì mattina, in modo da potere
accogliere il ballerino, attualmente presente sulla locandina del Théatre de la
Ville di Parigi.
All'inizio della serata, la silhouette longilinea d'Israel Galvan, pantalone
colore arancio e piumino marrone, appare nel campo, atteso da circa 70 persone,
abitanti del bidonville e membri di alcune associazioni di sostegno. I bambini,
appena usciti dalla scuola o dal liceo dove alcuni di loro sono scolarizzati, si
spazientiscono in mezzo al fango e alle capanne, costruite lungo la strada N7.
Petto all'infuori, accompagnato da due "cantaores" (cantanti di flamenco) esegue
alcuni passi di danza per alcuni minuti, picchiando il suolo in modo rude e
virile, come un torero atletico.
Ma è soprattutto felice d'invitare gli rom a ballare in mezzo alla piccola
scena, fatta di travi di legno e decorata di ghirlande, che danno al posto delle
arie di parco di divertimenti.
Una donna, la gonna nera della quale sfiora il pavimento, esita, poi finalmente
si lancia nel cerchio sotto lo sguardo benevolo d'Israel Galvan.
Durante la serata, gli rom tirano fuori i propri strumenti: violini,
fisarmoniche e tamburelli colpiti con l'aiuto di bottiglie di plastica.
"E' buono per i bambini, per noi, per la musica", dice Jorge, il quale abita
nell'accampamento da circa otto mesi. "Apporta gioia!"
"Altro tipo di energia"
Figlio di una gitana, Israel Galvan percepisce qui una familiarità con ciò che
conosce.
"Quando guardo la gente, vedo certi volti che potrebbero essere quello di mia
nonna", dice sorridendo, all'AFP.
Aggiunge: "Ciò che mi colpisce, è che nonostante le difficoltà che incontrano
queste popolazioni, riescono a fare venire fuori una gran gioia nel loro modo di
vivere".
Nel suo spettacolo battezzato "Le réel" (il reale), egli evoca senza
concessioni, la sorte tragica – e abbondantemente occultata – che fu riservata
agli tzigani durante la Seconda Guerra Mondiale, perseguitati e sterminati dagli
nazisti.
"Per creare il mio spettacolo, mi sono ispirato a libri e foto antiche di
zigani. Ma venire qui, è la situazione la più reale alla quale mi sono trovato
confrontato" spiega colui che, durante questi ultimi anni, si è tagliato una
reputazione di ballerino profondamente avanguardista e novatore.
Considera: "Non ho mai ballato in questo genere di luoghi prima, ma è importante
per un ballerino, venire a respirare un altro tipo di energia, diverso da quello
dei teatri".
L'incontro, con l'iniziativa della rivista culturale "Mouvement" e
dell'associazione "Perou" che viene in aiuto ai rom, non si ferma qui. Durante
quattro sere, Israel Galvan invita dodici abitanti del bidonville a venire per
assistere al suo spettacolo al Théatre de la Ville, che continuerà fino al 20
febbraio.
Dice che è importante che vengano a vedere lo spettacolo, in quanto questo parla
della loro storia.
CONSERVATORIO DI MILANO-SALA VERDI: Via Conservatorio, 12 Milano Domenica 3 marzo
2013. h. 16.30
Nella splendida cornice della Sala Verdi del Conservatorio di Milano, Claudio
Bisio, insieme a un ensemble urbano-sinfonico-multiculturale e ai colori di
bellissimi acquarelli, ci racconta le avventure di Pierino, di un bruco e di
come, insieme, diventano farfalla contro la prepotenza e contro ogni forma di
pregiudizio e di solitudine.
Una prima esecuzione, un evento unico, organizzato in collaborazione con il
Conservatorio di Milano e i cui proventi saranno devoluti alla ONLUS Soleterre,
organizzazione umanitaria che da 10 anni si occupa di diritti umani, con una
particolare attenzione a bambini e ragazzi.
Pierino e il bruco è una storia contro il bullismo che valorizza la ricchezza
della diversità, in tutte le sue forme. Una storia per grandi e piccini. Una
storia in cui, chi ha trascorso del tempo guardando le nuvole, non può non
ritrovare anche se stesso nelle vicende del nostro protagonista.
L'autore delle musiche è Stefano Corradi, il cui percorso artistico va dalla
musica classica al jazz con un grande amore per la "musica del mondo". Questa
varietà è il frutto di intense collaborazioni con diversi gruppi multiculturali
come la StageOrchestra di Moni Ovadia, l'Orchestra di Via Padova e la Bantu
Band, collaborazioni di cui ha voluto portare testimonianza nello spettacolo di
Pierino e il bruco coinvolgendone alcuni musicisti.
Sul palcoscenico ci saranno quindi artisti di diverse provenienze, sia culturali
che geografiche. I grandi solisti jazz Tino Tracanna, Giovanni Falzone e Bebo
Ferra affiancati dal fisarmonicista rom Albert Mihai, dagli studenti del
Conservatorio fino al percussionista ivoriano Pegas Ekamba, formeranno
un'orchestra di circa 30 musicisti che accompagneranno Pierino in un viaggio
variegato ed emozionante, dove sono i piccoli gesti a costruire le singole
esistenze e salvare il mondo.
La storia è stata scritta da Laura Rossi, la cui esperienza attinge al mondo del
teatro e dei ragazzi. E' passata per il Piccolo Teatro di Milano, frequentando
l"Officina degli scrittori" e il Masterclass diretto da Luca Ronconi, per il
teatro Franco Parenti e la StageOrchestra di Moni Ovadia come assistente alla
regia. Ha condotto per diversi anni laboratori teatrali per studenti delle
scuole medie e superiori. E' autrice del libro "L'identità e la maschera", un
confronto tra le figure femminili in Ibsen e Pirandello.
I "colori" delle musiche sono anche i colori delle scenografie, realizzati da
Jacopo Ziliotto, illustratore, visualizer, autore di fumetti, creativo.
Apertura porte h. 15,30
Inizio spettacolo h.16,30
Biglietto: 15,00 euro intero; 10,00 euro ridotto per ragazzi fino a 16 anni.
Prevendite, dal 12/2/2013 on-line su:
VivaTicket
CONSERVATORIO DI MILANO-SALA VERDI: Via Conservatorio, 12 Milano
Per Informazioni e prenotazioni:
lun-ven h 13,00 – 14,00 / sabato 10,00-13,00 - tel 3343149628
E-mail : info@lagrandejatte.it
Un mondo che intravediamo appena, che non vogliamo vedere, che magari ci fa
paura. Sergio Pretto, romano, 73 anni, giornalista prima della carta stampata
poi alla Rai, racconta gli zingari attraverso un secolo di storia in Novecento
Rom (Cartacanta, 400 pagine, 18 euro). Narra la storia di una famiglia, dagli
anni Trenta al 2010, tessendo un arazzo di rapporti intrecciati. Se ne esce
incantati da una scrittura a immagini, frammentata, a volte straniata, che si
avvicina alla poesia.
Nella quarta di copertina si legge che lei è stato avviato alla scrittura da
Pier Paolo Pasolini. Come?
Pasolini l'ho conosciuto da ragazzo su un campetto di calcio. Era un uomo che, a
prima vista, intimoriva, dai tratti spigolosi, e che poi, invece, scoprii
umanissimo. Diede una gran pallonata, che colpì il "palo" della nostra "porta",
fatto da libri e quaderni di scuola legati con l'elastico, come si usava allora.
Si scusò moltissimo, ma si soffermò sui quaderni. Soprattutto sul mio, quello
dei temi e lì, subito, a darmi consigli, a dirmi di infrangere le regole, di
esplorare le cose e insieme di aggredirle. E io cambiai il mio modo di scrivere.
Lo cambiai più volte, dopo, anche sotto l'influsso del surrealismo di Calvino e
del realismo magico di Màrquez, scrittori che riportano, anche se a prima vista
non sembra, allo scavo nel torbido di PPP.
Perché si è interessato ai Rom?
È stato proprio Pasolini a insegnarmi a guardare agli ultimi. Il primo contatto
l'ho avuto attraverso un'assistente sociale: cercavo informazioni per un altro
libro, che stavo scrivendo. Abbiamo incontrato un giovane Rom, quello che nel
romanzo io chiamo Decebal. Non è stato facile né da parte mia, né da parte sua.
Ci dividevano mille pregiudizi. Ma mi sono reso conto che quello che noi vediamo
- la sporcizia, il furto... - è la punta di un iceberg. Sotto c'è una cultura
straordinaria, musicale, umanitaria, una solidarietà che non possiamo percepire.
Siamo fermi agli stereotipi. E invece ci sono zingari docenti universitari,
sportivi di fama (Andrea Pirlo, il calciatore), avvocati, pugili... C'è
un'orchestra sinfonica di violinisti, tutti zingari, che sta girando l'Europa
riscuotendo enorme successo. Una zingara di vent' anni, Laura Halinovic, ha
vinto il Festival audiovisivo di Montecarlo con il documentario Io, la mia
famiglia Rom e Woody Allen.
Come ha fatto a documentarsi?
Ho passato mesi tra i Rom. Decebal, una volta che siamo riusciti ad intenderci,
mi ha detto che qui in Italia sono tutti giovani: per ascoltare la loro storia
dovevo andare a Craiova, in Romania. Ho fatto partire il mio romanzo-verità da
laggiù, quando Simplon, il padre di Decebal, decide di raccontare ai suoi figli
la tragedia del Porrajmos, come gli zingari chiamano il genocidio pianificato
dai nazisti: nei lager morirono 600mila Rom e Sinti. Simplon è depositario di
testimonianze dirette, dal padre Ofiter e dalla madre Limpiana. Racconta come
dei gitani si siano salvati nelle "marce della morte" verso i campi di
sterminio. Quando seppellivano le vittime, alcuni si gettavano vivi nelle fosse:
poi una coperta, quindi i morti, poi badilate di terra. L'ultimo della fila
batteva sul tumulo cinque colpi: il segnale che la colonna si allontanava, così
i sepolti vivi potevano uscire dalle fosse. Questo stratagemma l'avevano
escogitato grazie alla loro antica tradizione di seppellire i morti durante il
cammino. Non esistono cimiteri Rom o Sinti fino ai primi del Novecento: nomadi,
gli zingari seppellivano i loro morti lungo la strada.
Rimangono impresse le figura femminili del libro. Ce ne vuol parlare?
Grifina era una giovane zingara dalla bellezza fiera e singolare. L'ufficiale
medico del lager la notò e se la prese come infermiera e amante. Lei sopravvisse
alle sevizie, accudendo una bambina che aveva trovato nel campo, sperduta, e con
la certezza che un giorno si sarebbe vendicata. Alla fine, lo fece: uccise con
il bisturi l'ufficiale medico. La giovane Jonela è invece l'esempio del
contrasto tra gli anziani e i giovani. I ragazzi vedono i lati positivi della
nostra società, quella di noi gagé, come ci chiamano i Rom. Jonela, cresciuta il
Romania sotto il regime di Ceausescu, preferiva i jeans alle gonne a fiori e non
voleva più camminare sempre un passo dietro al suo uomo...
I Rom sono così maschilisti?
Questo è un argomento, forse il primo, su cui ci siamo trovati a discutere. Ho
parlato ai Rom di grandi donne di cui non conoscevano l'esistenza: le americane
che nel 1908 scioperarono per protestare contro le terribili condizioni in cui
erano costrette a lavorare e morirono nell'incendio scoppiato l'8 marzo. Madame
Curie, Rita Levi Montalcini... Le donne, che prima si ritraevano, hanno
cominciato a sorridermi, ad invitarmi a mangiare. Gli uomini a considerare le
loro compagne in una nuova dimensione. Non ci siamo messi d'accordo, invece,
sulla scuola. "L'istruzione", mi hanno detto, "dovrebbe portare alla felicità.
Perché noi dovremmo accettare, senza discutere, la vostra?"
Apertesi le frontiere dell'Europa orientale, la famiglia di Decebal ha lasciato
la Romania per Francoforte, quindi Roma: nel campo al Casalino, che poi è stato
spazzato via, e infine al Tiburtino. La storia è chiusa?
Spero in un finale aperto. Finché noi li ghettizziamo, saranno sempre pronti a
ripagarci con il peggio perché a questo porta la disperazione. Ci chiedono di
lavorare, anche lavori umilissimi - li ho visti io stesso farli, insieme agli
immigrati - e ci chiedono di non dover rinunciare all'essenza della loro
cultura. Sono il popolo meno sanguinario del mondo, che non ha mai combattuto
una guerra, anche perché non ha confini da difendere.
Concerto di raccolta fondi per un progetto post-terremoto
con INGRESSO A SOTTOSCRIZIONE Giovedì 7 febbraio, ore 21.30 Enoteca Ligera,
via Padova 133
Tutto a posto? Ad oltre sei mesi dal terremoto, l'Emilia è dimenticata con ancora tutte
le ferite aperte. Sta succedendo lo stesso agli scampati del terremoto a
L'Aquila.
Abbiamo cercato dei referenti in Emilia, che seguissero un progetto tangibile e
già in corso, per continuare a dimostrare la solidarietà emersa a fine maggio.
L'abbiamo trovato con Sisma punto
dodici e col loro progetto di autocostruzione.
Furono i primi a far conoscere le storie e la musica dei Rom rumeni a Milano.
Poi, come succede spesso, il gruppo si divise: qualcuno andò a lavorare in
campagna, qualcuno tornò in Romania, altri continuarono a girare tra campi rom
sempre più malmessi. Altri cammineranno sul percorso tracciato da loro.
Ma non puoi fermare la passione che scorre nelle vene di un musicista, la
necessità di mettersi in gioco ancora una volta.
E... hanno pensato, noi che si è sempre vissuto in tende e roulottes, non
vogliamo essere SPORCHI ZINGARI, anzi, possiamo impegnarci per il paese
che ci ospita da anni: con questo concerto
fortemente voluto: brani del repertorio romanì e del folklore rumeno,
per
scoprire le tante radici che legano popoli e culture. Una serata per ballare - certo, per riflettere - forse, per conoscersi
e stare insieme.
Bordeaux: Un polemico clip rap mette in scena la vita dei manouches
- Publié le 13 décembre 2012 dans Actualités, Faits divers, Vidéo -
sur
INFO BORDEAUX
Una volta di più. il rapper Morsay (Mohamed Mehadji) potrebbe avere
oltrepassato i confini della legalità. Il clip girato presso Berdeaux, a Taillan-Médoc,
concentra un cocktail di numerosi crimini: uso di armi da fuoco, infrazioni al
codice della strada, insulti alle forze dell'ordine ("fanculo a tutti i
condé") e minacce ripetute (s'illumina il kalache(nikov)"):
Per Cyril Martinez (Alias), già
citato in giudizio a giugno 2011 per "incitamento alla violenza",
l'obiettivo era parlare della gens du voyage e della loro situazione: "E'
la prima volta che facciamo un video con dei manouches, Volevamo mostrare che i voyageurs
in Francia non sono dimenticati."
Nessun dubbio che riunendo tre rapper molto controversi (Morsay, Alias e Angelo),
questo video farà parlare di sé.
Fondatore del collettivo "Truand 2 La Galère", Mohamed Mehadji afferma qui di
"non dimenticare l'Algeria, paese da cui vengo." Alcuni commentatori su
Internet suggeriscono che un ritorno in questo paese "sarebbe un vantaggio
per tutti."
[cc] Infos Bordeaux, 2010-2012, Dépêches libres de copie et diffusion sous
réserve de mention de la source d´origine [http://www.infos-bordeaux.fr/].
di Valentina Furlanetto dal 17 gennaio 2013 in libreria "Basta con la carità, c'è bisogno di giustizia... La liberazione viene sempre
dal basso, dai poveri, mai dai ricchi. Alex Zanotelli"
Questo libro racconta un mondo, quello della solidarietà, di cui non si sa
abbastanza. Tra sms che salvano, adozioni a distanza, partite del cuore,
campagne televisive, azalee e arance benefiche, quanti milioni di euro raccolti
arrivano a chi ha bisogno? La risposta che viene fuori dalle testimonianze di
cooperanti italiani e internazionali e dai più recenti dati di bilancio (quando
sono disponibili: in Italia non c'è l'obbligo di pubblicare un vero e proprio
bilancio economico-finanziario) è che tra profit e non profit c'è ormai poca
differenza. Migliaia di associazioni sono in lotta una contro l'altra per i
fondi, quelle più grandi spendono milioni per promuoversi e farsi conoscere,
intanto le più piccole sono schiacciate dalla concorrenza. Gli stipendi dei
manager del settore non profit sono ormai uguali a quelli delle multinazionali
(la buonuscita milionaria di Irene Khan, ex segretario generale di Amnesty
International, è solo la punta dell'iceberg). Ma i soldi non sono che una parte
della questione, c'è molto altro da sapere. Che fine fanno i vestiti che
lasciamo ai poveri? Come funziona il sistema delle adozioni internazionali? E il
commercio equo e solidale? La filantropia ha fatto cose importanti, ma è anche
il simbolo del fallimento della politica. Gli esseri umani non dovrebbero
dipendere dalla generosità di altri. Se poi questa generosità diventa un
business è importante raccontarlo per impedire che qualcuno si arricchisca sulla
buona fede dei donatori.
autore Valentina Furlanetto
collana Principio attivo
casa editrice CHIARE LETTERE
dettagli libro - cartonato con sovracoperta
Prague, 26.12.2012 23:31, (Romano vod'i)
- Inka Jurková, translated by Gwendolyn Albert --ilustrační foto--
Roger Moreno Rathgeb è autodidatta, come molti musicisti rom, ma poco a poco
ha iniziato ad usare la partitura musicale e a comporre. Diversi anni fa decise
di comporre un requiem per le vittime del campo di sterminio di Auschwitz,
ma il suo lavoro fu interrotto da una visita che lo influenzò fortemente,
bloccando per diversi anni le sue capacità creative. L'impulso a completare il
lavoro arrivò sotto forma di richiesta da Albert Siebelink, che gli suggerì di
presentare il "Requiem for Auschwitz" all'International Gipsy Festival di Tilburg
e poi in altre città europee.
Compositore e polistrumentista (suona fisarmonica, violino, contrabbasso,
chitarra, piano e percussioni), Rathgeb è a Praga per la prima volta il suo
lavoro sinora più vasto, "Requiem per Auschwitz" (ulteriori notizie su
questo eccezionale evento su
Romea.cz). Abbiamo parlato assieme nel foyer del Rudolfinum durante le prove
generali, che potevamo udire dall'altra parte della parete. E' stato molto
bello.
Sei nato in Svizzera nel 1956, cioè 11 anni dopo la guerra. Anche se
la Svizzera era neutrale, hai patito le conseguenze della guerra?
In effetti in Svizzera non c'era la guerra, ma c'erano altri problemi. Ad
esempio, proprio in quel periodo una specifica organizzazione svizzera (la
Pro Juventute, ndr.) stava lavorando per sottrarre i bambini dalle famiglie
romanì subito dopo la nascita, per darli a coppie non-romanì che erano sterili.
E' durato sino al 1979. Si può dire che anche questa era una guerra, solo un po'
diversa.
Da dove provenivano i tuoi genitori?
Mio padre non era Rom, era uno Svizzero tedesco. Mia madre era Rom -
precisamente, era Sinti - ma anche lei era nata in Svizzera. All'epoca non
crebbi nell'ambiente romanì tradizionale. Con mia sorella frequentammo la
scuola normalmente. Sino ai 12 o 13 anni nemmeno seppi che mia madre era sinti.
Non solo a casa non parlavamo romanés, ma nemmeno sull'essere rom. Di fatto non
so come si conobbero i miei genitori. Mio nonno (cioè il padre di mia madre)
morì quando lei aveva sei anni, così de facto non conosceva la propria
cultura.
Però parli il romanés. L'hai imparato dopo?
Sicuro. Nel 1980 con la mia band eravamo in tour in Olanda, dove incontrai
parecchie famiglie di musicisti sinti. La band mi lasciò solo con loro [ride].
Parlavano solamente il sinto ed in mezzo a loro mi sentii subito a casa.
Quando eri con loro, sapevi già di essere un Sinto?
Sì. Da bambini i compagni di scuola ridevano di me e dicevano che ero uno
"zingaro", accusa da cui mi difendevo perché davvero non sapevo niente delle mie
origini. Dovevano aqverlo saputo in qualche modo. Una volta tornai a casa e mi
lamentai con mia madre, così lei mi rivelò che ero un Rom. Non fu facile per lei
dirmelo, si vergognava un po'. Poi, per molti anni, ho avuto problemi con la mia
identità. Dopo tutto, sono cresciuto solo come un "normale" Svizzero, proprio
come un gagio.
Oggi ti identifichi come Rom-Sinto?
Ho sempre avuto la sensazione di non essere come gli altri Svizzeri. Ero un
ribelle. Contestavo le leggi, la società svizzera, protestavo contro tutto. Gli
Svizzeri hanno una mentalità completamente differente. Sospettavo di non essere
uno svizzero, che non fosse vero. Doveva esserci qualcos'altro.
Quando hai deciso di dedicarti professionalmente alla musica? Cosa ti
ha portato a ciò?
Quando compii 10 anni, mia nonna (lato materno) mi regalò una chitarra. Avevo
scoperto che avevo talento musicale, anche se sono il solo in famiglia che si è
dedicato alla musica. In famiglia d'altra parte nessun altro ha mai avuto questa
passione.
Qual è la musica che ti piace di più? Sei qui a Praga per un concerto
di musica classica, o anche per la musica rom tradizionale?
Sì, la musica rom è sicuramente quella che mi piace di più. La strada per la
musica classica per me è stata davvero lunga, perché per molto tempo non
riuscivo nemmeno a leggere la musica.
Dove hai imparato la teoria musicale, che è così necessaria per
comporre un requiem?
Incontrai le prime scale musicali quando avevo 35 anni. Prendevo lezioni di
violino ed il mio insegnante era un Rom ungherese che suonava nell'orchestra
sinfonica di Maastricht. Fu il primo a mostrarmi la notazione musicale e così
facendo mi aprì un mondo intero davanti.
Oltre alla musica rom e a quella classica, che musica ascolti?
Di base amo tutta la musica. Una volta ho anche suonato la batteria in una
rock'n'roll band e sino ad oggi ho avuto belle sensazioni su questo stile
musicale, mi piace!
Tu hai collaborato con molti gruppi - di quali hai i ricordi migliori
e quali hanno più impattato sulla tua vita?
Direi la famiglia sinti con cui iniziai a suonare dopo il trasferimento in
Olanda [la Zigeunerorkest Nello Basily - nda]. Interpretavano la musica
tradizionale dei Rom di Ungheria, Romania e Russia. Imparai da loro, in
particolare dal suonatore di cimbalom, come distinguere le armonie ungheresi.
Sono i migliori per apprendere l'accompagnamento, perché sono in costante
evoluzione, e ciò rende più facile accompagnare anche canzoni che non si
conoscono. Sono giunto alla più grande profondità di comprensione con quel
gruppo.
Perché hai deciso di emigrare in Olanda?
Nel 1980 con la band eravamo in tour in Olanda, e la mentalità delle gente di
quel paese mi coinvolse da subito. Gli Olandesi sono liberi pensatori, a
differenza degli Svizzeri che sono terribilmente conservatori. La verità è che
agli Svizzeri i Rom non piacciono. Gli Olandesi sono aperti e tolleranti ed
hanno un paese meraviglioso. Fu una decisione molto rapida.
Hai scritto sceneggiature per diversi spettacoli teatrali - di che si
tratta?
Con la band abbiamo creato degli spettacoli teatrali. Il primo si chiamava
"Il Lungo Viaggio" e raccontava la storia della migrazione del popolo romanì
dall'India in Europa. Il secondo l'abbiamo chiamato "La Vita" e lì ritraevamo la
vita di ogni giorno dei musicisti rom. Sono pastiches di musica, poesia
e narrativa. Ci sedevamo attorno a un fuoco, suonavamo i nostri strumenti e
facevamo del nostro meglio per creare l'atmosfera di un campo rom. I gagé non
conoscono molto del popolo rom e spesso mi chiedono della nostra storia e
cultura. Volevamo in qualche modo avvicinarli alla nostra "Romanipé", perché la
discriminazione deriva soprattutto dall'ignoranza.
Quanta gente veniva a sentirvi - erano soprattutto Rom oppure no?
Abbiamo recitato nei teatri di Belgio, Germania e Olanda, e il pubblico era
soprattutto di gagé. E' triste - i Rom non sono interessati in queste cose, non
so il perché.
Sei a Praga con tua moglie. E' musicista anche lei?
Sì, anche sul palco siamo assieme, è il nostro modo di vivere. E' buffo, che
le mie composizioni siano suonate in tutta Europa, ma che che ancora io non ci
abbia guadagnato, ed in qualche maniera si deve pur vivere. Suoniamo nei
concerti, ai festival, nei teatri, ai matrimoni e nelle varie feste.
Sei uno degli interpreti principali del film "Musicians for Life",
creato da Bob Entrop. Cosa puoi dirci del film?
E' una delle ragioni per cui sono a Praga. Albert Siebelink, il direttore del
festival romanì di Tilburg, l'ha visto, e c'è un'intervista in cui parlo di "Requiem for Auschwitz".
Dopo aver visto il film, Albert mi chiese se lo avessi completato, ma non era
ancora pronto. Mi promise che se l'avessi completato, si sarebbe dato da fare
per la sua esecuzione. Iniziai nuovamente a lavorarci nuovamente, ma lo stesso
mi ci sono voluti altri tre anni.
"Musicians for Life" non è il solo film con cui ho collaborato con Bob Entrop.
C'è anche il documentario "A Hole in the Sky", sui sopravissuti alla
II guerra mondiale.
Quando hai iniziato a lavorare a "Requiem"?
La prima volta ho visitato Auschwitz nel 1998 e subito ho avuto l'idea di
scrivere un requiem. Iniziai a lavorarci, ma dopo qualche tempo tutta la mia
ispirazione scomparve. Pensai che tornando ad Auschwitz avrei saputo come
continuare - ma successe il contrario. Ero soltanto distrutto, è un posto molto
macabro. Ho messo il lavoro da parte e non sono tornato al "Requiem" che otto
anni dopo.
Ti definiresti un attivista rom o sinto?
Probabilmente, no - sono solo un musicista. Però, se la gente vede un
messaggio nella mia musica, va benissimo.
Per un certo periodo hai collaborato con la cantante lirica Carla Schroyen.
Di che progetto si trattava? E' iniziata da lì la tua idea di creare una grande
opera musicale come
"Requiem for Auschwitz"?
Carla Schroyen ha scritte diverse arie "zingare" per opera ed operetta e l'ho
accompagnata alla fisarmonica, ma questo non ha influenzato la mia composizione.
Già da prima mi ero dedicato alla musica classica.
Qual è stata la tua prima composizione classica?
Nel 1995 decisi di provare a scrivere un balletto per un ensemble di danza
amatoriale a Maastricht. Tuttavia, alla fine, si trasformò in un lavoro
sinfonico-poetico.
In "Requiem for Auschwitz" hai provato ad incorporare elementi
della musica romanì?
Un poco, ci sono diversi motivi che tornano di continuo, però "Requiem" non è
dedicato solo alle vittime romanì, ma a chiunque abbia sofferto e sia perito ad
Auschwitz. Prima di scriverlo non avevo ascoltato altri requiem, così non sarei
stato influenzato da altri lavori. Nel "Requiem" ci sono io, nessun altro, è per
questo che lì si trovano alcuni motivi romanì.
Vedi qualche differenza tra il genocidio del popolo ebreo e quello
del popolo rom?
E' del tutto la stessa cosa. I numeri differiscono un po', ma non è questo
l'essenziale.
Tu hai suonato come apertura per Chuck Berry, per la famiglia reale
olandese, e "Requiem for Auschwitz" è stato suonato nelle più celebri sale
da concerto europeo. Quale consideri il tuo più grande successo, sinora? Hai
altri piani o sogni?
Sto lavorando su un oratorio riguardo la migrazione dei Rom dall'India
all'Europa. Penso che sarà un lavoro più ampio di "Requiem". Vorrei anche
scrivere un'opera sui bambini rom portati via dalle loro famiglie e collocati in
famiglie non-Rom in Svizzera. Come vedi, ho abbastanza piani! [ride]
DIRITTI GLOBALIFONTE: ANDREA TARQUINI - LA REPUBBLICA | 02 GENNAIO 2013
Sul podio il maestro Sahiti, profugo dal Kosovo
BERLINO. Sono tutti bravi, strappano sempre grandi applausi e standing ovation.
E sono tutti Rom. "Suoniamo soprattutto per mostrare che non è vero che se sei
un Rom sei un criminale", è il loro motto. Girano di continuo l'Europa in
tournée, sfidando anche pericoli in situazioni come quella ungherese, dove gli
ultrà di destra e le loro milizie tipo Magyar Garda hanno le violenze razziste
anti-Rom come attività quotidiana. Di orchestre sinfoniche ce ne sono tante ma
questa è la storia di un'orchestra unica al mondo. Si chiama Frankfurter
Philharmonische Verein der Sinti und Roma. Esiste da dieci anni, fondata dal
musicista rom nato in Kossovo Riccardo Sahiti, oggi cinquantunenne. A
Francoforte, nella metropoli finanziaria della democrazia tedesca, ha base
sicura ma viaggia di continuo per portare in musica il suo messaggio
antirazzista.
"L'idea mi venne perché all'inizio, io fuggito dal Kosovo in guerra e con una
robusta formazione musicale sulle spalle, avevo difficoltà a farmi accettare
nelle orchestre", ha spiegato Riccardo Sahiti alla Sueddeutsche Zeitung,
l'autorevole quotidiano liberal di Monaco che all'orchestra sinfonica rom ha
dedicato un reportage a tutta pagina. "Ho cercato e contattato colleghi ovunque,
sapevo che musicisti sinti o rom erano attivi in orchestre importanti, dalla
Wiener Staatsoper, all'Orchestra sinfonica della MDR (la tv pubblica dell'est
tedesco) a Lipsia, all'orchestra nazionale romena".
Così nacque il progetto, nel novembre 2002 a Francoforte. Adesso a Praga hanno
appena incassato il tutto esaurito suonando, tra l'altro, il Requiem per
Auschwitz, composto da Roger Moreno, sinto di origine svizzera. "Nel maggio
scorso", narra Moreno, "lo abbiamo eseguito ad Amsterdam e la regina Beatrice ci
ha poi invitati a un caffè a palazzo reale per dare l'esempio contro i
razzisti".
Non è facile farsi avanti, neanche nell'arte, se appartieni a una minoranza mal
vista un po' ovunque. Sahiti è di buona famiglia, i genitori spesero tutto per
il suo talento musicale, gli regalarono un pianoforte, riuscirono a mandarlo a
studiare a Belgrado e poi a Mosca. Poi vennero le guerre volute dal dittatore
serbo Slobodan Milosevic, i massacri etnici e gli stupri etnici di massa della
sua soldataglia, asili e ospedali bombardati dai suoi Mig. Sahiti fuggì,
appunto. E nel 2002, appena costituita, l'orchestra sinfonica Rom tenne proprio
a Francoforte, gran pienone, il suo primo concerto.
"Aver creato l'orchestra vuol dire non perdersi di vista" spiega il violinista
Johann Spiegelberg. "Ognuno di noi o quasi ha nella memoria brutte esperienze.
Io una volta ero in una grossa città dell'est tedesco, alla fine d'un concerto,
ancora in frac, arrivai a una pompa di benzina per fare il pieno con la mia
vecchia Mercedes. Due giovinastri mi si sono avvicinati, mi hanno detto “eccolo
là, il kanak (termine razzista per straniero usato dai neonazisti ma anche da
gente comune nell'ex Ddr, dove tre generazioni vissero prima sotto Hitler poi
sotto lo stalinismo, senza cultura democratica e quasi senza ribellarsi fino
all'ultimo al contrario di polacchi o cecoslovacchi o ungheresi, ndr).
Ecco un altro kanak, bè kanak che ne dici, è sempre comodo per voi vivere bene
qui a spese nostre e a casa nostra, no?”. Io non mi lasciai provocare".
"Ogni tournée è come un'allegra gita scolastica, eppure ce la mettiamo tutta".
Musica sinfonica, classica, non folklore. E naturalmente anche musiche di opere
ispirate al mondo Rom, da Carmenal Gobbo di Notre-Dame.
"Quella per noi è una nostra eredità culturale da tramandare". Il rischio, dice Jitkà Jurkovà, attivista dei gruppi antirazzisti cèchi che li aiuta a
organizzare concerti, è che vengano visti come spettacolo esotico, e che il
messaggio politico non sia capito appieno. Ma è un rischio che per il maestro
Sahiti e i suoi orchestrali val la pena correre. Tanto da suonare il Requiem per
Auschwitz anche in Germania.
Domenica 23 Dicembre 2012, ore 21
Coop. Soc. Circolo Familiare di Unita' Proletaria - viale Monza 140- Milano
(salone al primo piano) - Ingresso 5,00 euro
Iniziò tutto dieci e più anni fa. Suonavano nella metropolitana, raccontarono la
loro storia nel film "Miracolo alla Scala", rappresentarono l'Italia ad un
concorso europeo in Grecia. Furono i primi a far conoscere le storie e la musica
dei Rom rumeni a Milano. Poi, come succede spesso, il gruppo si divise: qualcuno
andò a lavorare in campagna, qualcuno tornò in Romania, altri continuarono a
girare tra campi rom sempre più malmessi. Altri cammineranno sul percorso
tracciato da loro.
Ma non puoi fermare la passione che scorre nelle vene di un musicista, la
necessità di mettersi in gioco ancora una volta. Eccoli allora, a presentare
brani del repertorio romanì e del folklore rumeno, e scoprire le tante radici
che legano questo popolo alla nostra cultura dell'800 e del '900. Una serata per
ballare - certo, per riflettere - forse, per conoscersi e stare insieme nella
magica atmosfera del nostro circolo.
movieplayer.ita cura di Luciana Morelli pubblicato il 26 novembre
2012 Presentato in anteprima mondiale al Torino Film Festival 2012 nella sezione
Festa Mobile il nuovo film del regista di origini sarde ambientato nel campo
nomadi di Cagliari e incentrato sull'emarginazione.
Dopo
I bambini della sua vita e il documentario su Liliana Cavani,
Peter Marcias
torna nella sua Sardegna per raccontarci una storia di emarginazione e insieme
un dramma di volti e corpi che cerca di aprire lo sguardo ed allargare
l'orizzonte su una realtà dolorosa e ingiusta che riguarda strettamente il
nostro paese, un argomento che il cinema 'ufficiale' troppo spesso tende ad
ignorare. Scritto da
Gianni Loy, il film parla sì di un popolo relegato ai
margini della società dallo Stato ma più in generale affronta il tema della
diversità e dell'integrazione ma parla anche d'amore, amicizia e di
comprensione, valori che vanno oltre la razza, il colore della pelle e la
nazionalità. Ad accompagnare il film a Torino il giovane regista insieme allo
sceneggiatore e ai due attori protagonisti
Luli Bitri e
Salvatore Cantalupo,
rispettivamente una ragazza di origini rom che vive in Francia e un ispettore di
polizia di mezza età che diventano amici. Prodotto e distribuito da
Gianluca Arcopinto, rispettivamente con la Axelotil Film e con la Pablo,
Dimmi che
destino avrò è sostenuto dall'Unicef come film di interesse sociale per l'alto
valore del messaggio e del tema trattato e sarà nelle sale a partire da giovedì
29 novembre.
Signor Marcias, ci spiega com'è entrato in contatto con la realtà dei campi rom?
Peter Marcias: Per la realizzazione di questo film siamo partiti da una
sceneggiatura di Gianni Loy che collabora con la Fondazione Anna Ruggiu onlus e
lavora con i tanti campi nomadi presenti in Sardegna, per lo più campi
amministrati dalle autonomie locali. Personalmente era la prima volta che
entravo in un campo rom, per me è stato un po' come seguire lo stesso percorso
umano che intraprende il commissario nel film. E' stata un'esperienza importante
per me sia dal punto di vista umano sia professionale.
Come descriverebbe il suo film in poche parole? Peter Marcias: Dimmi che destino avrò è più di tutto un film sull'interazione
più che sull'integrazione, un film che sfrutta elementi di fiction per
raccontare la realtà.
Ci spiega perché nel suo film il rapporto che si instaura tra il commissario e
la ragazza rom è un po' in controtendenza e cioè è l'autorità ad essere meno
forte della parte 'lesa' vista solitamente come la più debole? Peter Marcias: Era sostanzialmente quello che volevo venisse fuori dal film, mi
sembrava troppo semplicistico realizzare il solito thriller in cui c'è un
commissario che esegue le indagini all'interno del campo rom, ho preferito farlo
entrare a contatto con la realtà dei nomadi un po' in sordina, quasi in punta di
piedi. Mi interessava poi che fosse una donna a prendere il sopravvento sulla
vicenda ma non nascondo che questa linea è venuta fuori successivamente e cioè
quando il film era già in corso d'opera. Capisco che questo aspetto possa
sembrare un po' inverosimile ma ho preferito dirigere la storia verso binari non
consueti, è per questo che abbiamo fatto in modo che non accadesse nulla di
romantico tra i due protagonisti. Devo ammettere di aver un po' giocato sotto
questo aspetto.
Ci spiega come sono andate le riprese nei campi e in che zone è stato girato il
film? Peter Marcias: Abbiamo girato in due diversi campi, quello di Monserrato e
quello vicino a Selargius. Il bello è che dovevamo stare una settimana ed invece
alla fine ci siamo stati un mese e mezzo, all'inizio non è stato facile farsi
accettare dalla comunità rom ed è anche comprensibile visto che siamo piombati
nella loro vita all'improvviso con le nostre attrezzature senza aver loro prima
spiegato il tutto. Successivamente si sono dimostrati curiosi nei confronti del
film, dei meccanismi organizzativi sul set, dei ciak, degli attori mentre noi
dal canto nostro abbiamo cercato di coinvolgerli in tutto e per tutto nelle
scene del film facendo interpretare ad alcuni di loro il ruolo di alcuni
poliziotti durante la scena della perquisizione. Quello che non volevamo era
approfittare del loro naturale folklore per raccontare la nostra storia, abbiamo
voluto raccontare la loro vita nella loro essenza.
Come hanno vissuto i due attori questo stretto contatto con la comunità rom e
come hanno lavorato per affrontare al meglio i loro personaggi? Luli Bitri: Per me era un po' più difficile perché dovevo essere una di loro,
per prepararmi ho fatto ricerche letterarie ma quel che mi ha più aiutato è
stato l'incontro con una ragazza che era nella stessa situazione di Alina, il
mio personaggio, e quindi ho usato i suoi consigli linguistici e comportamentali
per entrare nella psicologia delle donne della comunità. Col passare dei giorni
poi sono diventati degli amici per me, mangiavamo insieme, stavamo ore a
chiacchierare e qualcuno si è anche confidato intimamente con me, alla fine mi
sono dimenticata di essere un'attrice. Posso dire di aver preso parte ad un
pezzettino della loro vita e di aver regalato loro qualche momento di
riflessione stuzzicando la loro curiosità e le loro speranze per il futuro.
Salvatore Cantalupo: Mi sono molto rispecchiato nei bambini rom che ho allenato
sul campo di calcio nel film, facevano gli stessi giochi che facevo io da
scugnizzo napoletano, ma più di ogni altra cosa ho cercato di vivere il più
umanamente possibile il mio personaggio.
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