L'essere straniero per me non è altro che una via diretta al concetto di identità. In altre parole, l'identità non è qualcosa che già possiedi, devi invece passare attraverso le cose per ottenerla. Le cose devono farsi dubbie prima di potersi consolidare in maniera diversa.
Un Minuto Con: Kelemen, violinista ungherese - orgoglioso delle sue
radici rom - By Michael Roddy (Editing by Pravin Char) Copyright Thomson Reuters,
2013.
LONDRA (Reuters) - Il violinista ungherese Barnabas Kelemen che studiò col
virtuoso Isaac Stern e ha ottenuto il premio della rivista Gramophone per il
miglior Cd del 2013 di musica da camera, ciò che lo rende orgoglioso è la sua
origine rom.
Kelemen, che era a Londra per ritirare il prestigioso premio Gramophone per
il suo disco sulle suonate per violino di Bartok ed esibirsi domenica con sua
moglie Katalin Kokas nel Kelemen Quartet alla Wigmore Hall, riconosce suo nonno
violinista come la figura ispiratrice della sua vita.
"Posso suonare lo stile gypsy e lo adoro," dice Kelemen, 35 anni, in
un'intervista alla Reuters.
"E' molto importante artisticamente," dice, notando che a causa della
discriminazione contro la comunità rom in Ungheria e altrove nell'Europa
centrale, "ci sono molti esempi di genitori che non parlano della loro
provenienza."
Kelemen, d'altra parte, è orgoglioso che suo nonno Pali Pertis potrebbe
essere stato il modello del compositore francese Maurice Ravel, quando scrisse
il famoso "Tzigane" ispirato ai Rom, se non direttamente attinto dai Rom. Fu
commissionato dalla violinista ungherese Jelly d'Aranyi e da lei eseguita la
prima volta nel 1924.
"Mio nonno nacque nel 1903 e fu un vero bambino prodigio, da giovane viaggiò
in Europa e non è improbabile che Ravel stesso abbia ascoltato mio nonno a
Parigi.
Kokas, seduto al tavolo durante l'intervista, interviene suggerendo che sia
andata così, ma Kelemen, pur non in disaccordo, dice "Non è provato".
Ecco cos'altro ha avuto da dire sul perché musica dei principali compositori
ungheresi come Bartok e Kodaly si suoni meglio che mai, sul perché gli Ungheresi
possano avere un vantaggio ma non siano gli unici a poterla eseguire, e sul
futuro della sua carriera.
Le sonate per violino per cui tu e il pianista Zoltan Kocsis avete vinto
il premio Gramophone per la musica da camera, non sono delle novità su disco,
infatti il vostro mentore Isaac Stern registrò la prima sonata già nel 1951.
Cosa rende speciale la vostra versione?
Devo dirti che la generazione di musicisti ungheresi che ora opera e ha
studiato negli ultimi 10-20 anni, ha appreso da maestri fantastici che a loro
volta furono educati dalla generazione dei Bartok e ne bevvero come il latte
materno. Ciò che per loro era nuovo, per noi è naturale, ma ancora molto fresco.
Parliamo un linguaggio che è unico e io stesso sto insegnando a nuove
generazioni di studenti. Quindi, siamo in un momento molto fortunato riguardo lo
stile di Bartok e Kodaly.
Si dice spesso che i migliori interpreti della musica russa sono i Russi,
della musica ungherese gli Ungheresi, ma è così nel vostro caso?
Non sono tra quanti dicono che Bartok può essere suonato soltanto da
Ungheresi, ma è molto importante per gli Ungheresi... e devi capire che parte
della nostra musica data da tempi antichi, alcune melodie popolari hanno
relazioni con la musica cinese e asiatica, e quindi è realmente unica...
Il premio Gramophone, il recital alla Wigmore Hall e l'apparizione a
novembre come solista nell'estremamente impegnativo concerto per violino di
Penderecki assieme alla London Philarmonic Orchestra, questo sembra essere il
tuo anno, giusto?
Non sta a me dirlo, ma faccio il mio lavoro e cerco di suonare il meglio
possibile, godendo delle cose belle che stanno arrivando. Sono sempre stato una
persona e un musicista che si è divertito nello sviluppare passo dopo passo la
sua carriera concertistica. Non mi sono mai spinto, e nessuno mi ha mai fatto
pressioni eccessive.
Parlo di questo libro PROPRIO perché non c'è una sola parola su rom, sinti,
travellers, gorani, askali ecc.
Che poi, più che altro per ragioni di sintesi, è il motivo per cui
Polansky continua ad adoperare la parola zingari, non volendo riscrivere ogni
volta le Pagine Gialle. Ovvio che questa parola a molti non va giù e vedrò in
seguito di capire perché a volte le parole sono un muro ed altre un ponte.
Leggo nell'introduzione:
Dopo aver vissuto con gli zingari nei ghetti dell'Europa dell'est, nei campi
dei rifugiati delle Nazioni Unite in Kosovo, in Macedonia, e sui marciapiedi in
India, credevo di aver capito finalmente cosa significasse essere poveri, perché
loro erano poveri.
Ma quando sono tornato negli Stati Uniti dopo aver vissuto all'estero per 37
anni, non ero così sicuro di capire i poveri in America. Perché c'erano cosi
tanti senzatetto nel paese più ricco del mondo? Perché centinaia di migliaia
dormivano all'aperto o cercavano un letto nei rifugi dei senzatetto e nelle
missioni?
Sapevo che c'era un solo modo per scoprirlo: vivere con i senzatetto così come
avevo fatto con gli zingari in Europa e in India. Alla fine non c'è stato
bisogno di andare a New York, Chicago o San Francisco per trovarli. Ce n'erano
anche nella mia città, dappertutto nel cuore dell'America.
Per parecchi mesi durante l'inverno del 2000-2001 ho ammazzato il tempo con
loro, ascoltando le loro storie. Come con gli zingari, non ho giudicato la loro
scelta di vita. Ho solo raccolto le loro storie e usato le loro parole per
scrivere queste poesie.
Da qua parto con una riflessione: perché ci sono persone che a vario titolo e
dalle posizioni più diverse, scrivono di rom e sinti (per non parlare del
resto)?
C'è chi lo fa, perché attratto dalla cultura, dalle origini,
dalla lingua di un popolo misterioso, anche se presente da
secoli nel nostro continente.
C'è chi invece è spinto a farlo dall'esposizione scandalosa
della miseria che è legata a questo stesso popolo.
Sospetto che esista un collegamento tra i due punti, ma non mi è chiaro: da
un lato questa miseria contribuisce a rendere più oscuro il fattore
storico-linguistico-culturale, dall'altro l'isolamento indotto dalla miseria è
un fattore di conservazione di questi tratti.
Non me ne voglia il primo gruppo, ma è il secondo aspetto quello che ci
impatta (per razzismo o all'opposto per pietismo). Ci IMPATTANO non tanto i
furti, i bambini malnutriti, lo schifo dei campi, ma il fatto che nella nostra
società sopravvivano e siano SOVRAESPOSTE simili condizioni di vita medioevali,
un affronto alla nostra ricchezza. Ricchezza, specifico, di ex poveri che hanno
una paura fottuta della crisi e di ritornare con le pezze al culo.
Fosse una povertà, una miseria lontana, sarebbe tollerabile, ma con questa
occorre fare i conti. Razzismo e pietismo sono la sintesi dell'impossibile
tentativo di ignorare o esorcizzare questa esibita differenza.
Ecco che la prefazione citata sopra smaschera una parte del trucco: anche nei
ricchi Stati Uniti, dove Rom e Kalé sono relativamente invisibili, c'è gente che
vive come questi ultimi in Europa. Tra loro, molta gente bianca.
Credo che abbiamo una paura fottuta, nelle attuali incertezze, di finire come
questa gente. Scrive Paul Polansky di aver "usato le loro parole" nelle sue
poesie. Parole violente, rabbia, che ci sembrano estranee alla nostra
tranquillità (che prima o poi sarà rotta da qualche scandalo), ma ancora non
bastano a stabilire un confine con l'ALTRO. Leggo, a pagina 11:
Per lo più si pensa
che se vivi sulla strada
sei solo un pezzo di merda
che non vale niente.
Sì, ci insultano,
ci prendono a calci in culo.
I porci ci sbattono in galera,
o ci dicono di andar via.
Alcuni senzatetto chiedono l'elemosina,
altri mostrano un cartello.
Ehi, abbiamo anche bisogno di aiuto.
Sigarette, birra, cibo,
benzina, droghe.
Proprio come
tutti gli altri.
Polansky non giudica, riferisce. E per farlo, per riportare quei pensieri
così come nascono nudi e crudi, vive e convive. Quello che manca a gran parte
del resto della cronaca. Potremmo chiamarla empatia, in ogni caso è la lezione
che dovrebbe arrivare anche a chi SCRIVE-GIUDICA-DECIDE PER Rom, Sinti ecc.
Il secondo insegnamento che arriva da questa raccolta è, forse, culturale.
C'è violenza, crudeltà, scandalo, nelle poesie, ma senza compiacimento. Quegli
homeless rischiano un annichilimento culturale, se mai hanno avuto una cultura
come noi la intendiamo, al pari dei loro sfigati cugini rom e sinti in Europa.
Ma la perdita della propria cultura, non necessariamente significa il vuoto.
Spesso significa adattare la propria cultura e le proprie tradizioni alla
situazione contingente, poter creare prima o poi una cultura che sarà differente
dalla tradizione e anche dal modello maggioritario. Se riusciremo a capire e
rispettare, prima che la testa, l'ingombrante presenza fisica dei dropout.
Termino, con gli appuntamenti a Milano e dintorni:
Lunedì 4 novembre 2013 alle 21,00 - Incontro con la
partecipazione di Enzo Giarmoleo poeta e traduttore del libro.
L'incontro avrà luogo al CAM Ponte delle Gabelle, in via San
Marco, 45 a Milano.
Martedì 5 novembre 2013 alle 20,30 - Incontro con la
partecipazione di Valeria Ferrario che avrà luogo allo Spazio
Cantiere "Simon Weil" in Via Giordano Bruno 9 a Piacenza;
Mercoledì 6 novembre 2013 alle 18,30 - Incontro con la
partecipazione di Luca Chiarei e Gaetano Blaiotta con
intrattenimento musicale a cura di Achille Giglio al
contrabbasso. L'incontro avrà luogo al Twiggy Club via de
Cristoforis n. 5, a Varese;
Mercoledì 12 novembre 2013 alle 21,00 - Incontro con la
partecipazione di Tito Truglia ed Enzo Giarmoleo che avrà luogo
all'Osteria Letteraria Sottovento in Via Siro Comi n. 8 a Pavia;
Giovedì 14 novembre 2013 alle 18,30 - Incontro con la
partecipazione di Giorgio Mannacio e Beppe Provenzale che avrà
luogo alla Libreria Linea d'Ombra in Via Calocero, 29 (MM2
Sant'Agostino) a Milano;
Venerdì 15 novembre 2013 alle 20,30 - Incontro con la
partecipazione di Enzo Giarmoleo, vari studiosi e rappresentanti
di alcune associazioni che si occupano dei senza dimora nella
nostra città. L'incontro avrà luogo alla CGIL in Piazza Segesta
con ingresso da Via Albertinelli 14 (discesa passo carraio ) a
Milano;
Dall'introduzione: E TU, QUANTI ZINGARI CONOSCI? Era lo
slogan di una campagna dell'UNAR dell'anno scorso. Questo piccolo volume non
parlerà della cultura rom, o delle origini della loro lingua, o delle
persecuzioni che hanno subito... Parla del conoscersi.
I Rom e i Sinti sono in mezzo a noi, ovunque in Italia e in Europa, e quando
viene loro concesso, lavorano tra noi, mandano a scuola i loro figli assieme ai
nostri. Perché a Pessano deve essere diverso? Perché aspettarsi che possano
migliorare, se si nega loro la possibilità di affrancarsi dalla miseria?
Ma questi fogli raccontano anche di una cultura, che magari non si trova nei
testi di antropologia, che è vivere quotidiano, proprio in questo Nord-Est
milanese. In parole povere: per una volta non si scrive di tutto ciò di cui
avrebbero bisogno (anzi: avrebbero diritto), ma di quello che potrebbero
insegnarci, anche da subito, se ne avessero la possibilità. Sempre per la solita
ragione: sono in mezzo a noi tutti i giorni.
Testimonianze pratiche: sono sicuro che a tutti (anche a chi non sopporta gli
zingari), interessa conoscere qualcosa su STAR BENE e MANGIARE. Scoprirete che
anche un'anziana romnì può avere qualcosa da insegnarci.
QUESTA E' LA PRIMA RAGIONE. La seconda è che queste famiglie, che stiano
accanto a noi (magari insegnandoci qualcosa) o che vadano via (ad insegnarlo
altrove), potrebbero vivere in una roulotte, in una casa, sotto un ponte, in un
campo... non cambierebbe niente nella loro cultura.
Ma, dovunque andranno o si fermeranno, dovranno trovare la possibilità e i
mezzi per vivere. Il terzo punto, altrettanto interessante, è GUADAGNARE, tutti
(voi con Maria e la sua famiglia): non vi chiediamo carità, ma rispetto e
condivisione. Se una persona dovesse dipendere per sempre dal vostro buon cuore,
rimarrà sempre qualcuno "ai margini" di cui sarà facile disfarsi. Se invece
troverete interessante quello che ha scritto Maria, a voi costerà poco, ma per
lei il ricavato della vendita di queste pagine sarà importante.
Per i soldi, certo, ma anche perché dopo tanto tempo ASSIEME si sarà
cominciato a costruire una relazione.
A tutti i lettori, un sincero augurio di continuarla.
[...]
L'autrice:Hajrija Seferovic (Maria) è
nata da genitori Kalderasha nel 1938 a Tramnik, nell'ex Jugoslavia, prima di
cinque figli. La famiglia si spostava spesso per guadagnarsi da vivere con la
vendita di cavalli, e facendo pentole e piatti di rame che vendevano ai mercati.
Maria si ricorda una gioventù bella, sotto le tende in una grande "kumpanja".
Nei vari spostamenti il suo gruppo veniva spesso in Italia. All'inizio della
guerra in Bosnia la famiglia è scappata con l'aiuto di organizzazioni umanitarie
(ONU). Alcuni dei suoi familiari sono andati a vivere in Francia, altri in
Germania e negli Stati Uniti, lei e la sua famiglia a Torino dove hanno vissuto
per 10 anni, e da dove dopo sono stati sgomberati. Da allora hanno cercato di
mettere radici a Napoli, in Sicilia, a Roma, e Bologna ma sono sempre stati
sgomberati.
All'inizio del 2000 si sono nuovamente spostati arrivando
a Pessano con Bornago, ove hanno comperato un piccolo terreno agricolo con
l'intento di fermarsi, per essere vicini al marito di Maria che era in cura a
San Raffaele per una grave malattia, che lo ha portato alla morte.
Maria allora decise di fermarsi a Pessano ma ciò non fu
possibile a causa dei continui sgomberi. In questo momento Maria sta a Trezzo
sull'Adda in una povera roulotte, dove continua a curare suo figlio cieco dalla
nascita ed ha vicino la maggiore parte dei suoi numerosi figli.
Coordinamento editoriale:
Natalija Halilovic
Frances Oliver Catania
Fabrizio Casavola
Copertina:
Rebecca Covaciu
Dettagli:
Copyright A.S.D. La Comune, via Novara, 97 Milano (Licenza
di copyright standard)
Il titolo significa poco... solo alcuni pensieri randagi. Da qualche giorno
si sta ricordando il cinquantenario dell'assassinio di Kennedy. Ieri sera, una
radio per ricordare quei tempi trasmetteva il brano che trovate in fondo.
Ascoltavo quel pezzo, vecchio e stranoto, come se fosse la prima volta. Strade
da percorrere all'infinito, una pace impossibile da trovare, morti, pianti e
gente che non vuol vedere e non vuol sentire... Non soltanto una frontiera, un
equilibrio da cercare, ma la storia, quasi didascalica, di quelle genti ospiti
delle pagine di Mahalla. Senza essere un flamenco, senza essere balcanica,
quella è una canzone rom.
Credo che Bob non se ne sia reso conto, aveva 21 anni nel 1963... Ma, se un
gagio con radici ebraiche, è stato capace di fare un manifesto generazionale di
quella ricerca e di quel vagare, significa che la "condizione esistenziale" dei
Rom e dei Sinti è qualcosa che anche noi possiamo intendere e sentire
sulla nostra pelle. Sentirli, ogni tanto, quasi fossero vicini, forse fratelli
(no, forse sto esagerando), con cui dividere un inno.
E non alieni portatori di una cultura (ma cosa significa, cultura????)
inconciliabile col nostro modo di vita.
How many roads must a man walk down Before you call him a man?
Yes, 'n' how many seas must a white dove sail Before she sleeps in the sand?
Yes, 'n' how many times must the cannon balls fly Before they're forever banned?
The answer, my friend, is blowin' in the wind,
The answer is blowin' in the wind.
How many times must a man look up Before he can see the sky?
Yes, 'n' how many ears must one man have Before he can hear people cry?
Yes, 'n' how many deaths will it take till he knows That too many people have died?
The answer, my friend, is blowin' in the wind,
The answer is blowin' in the wind.
How many years can a mountain exist Before it's washed to the sea?
Yes, 'n' how many years can some people exist Before they're allowed to be free?
Yes, 'n' how many times can a man turn his head, Pretending he just doesn't see?
The answer, my friend, is blowin' in the wind,
The answer is blowin' in the wind.
Banda rock romanì da lezione di cultura a giovani rappers
the BOLTON News7:40am Wednesday 20th November 2013 in NW KAL con il gruppo-laboratorio di Kamosi
GIOVANI rapper di talento hanno azzeccato ogni nota dopo aver condiviso la
ribalta nella con alcune superstar reali.
I rocker romanì KAL questa settimana si sono uniti al gruppo Kamosi di Wigan
sul palco del Leigh's Derby Rooms per un master class su musica, patrimonio e
identità culturale.
La band di Belgrado ha portato con sé un importante messaggio sul riconoscere
l'identità romanì e combattere i pregiudizi. Dragan Ristic, front-man di Kal, ha
detto:
"Sono davvero impressionato dai giovani che abbiamo incontrato stasera. Vogliamo
mostrare loro che possono esprimersi attraverso la musica. Può aiutare gli altri
a capire cosa pensano e sentono... Vogliamo anche che continuino a celebrare la
loro cultura. Sono venuti qui dall'Europa Orientale e si sono adattati ad un
nuovo modo di vita, ma conservare il senso della loro identità per loro può
essere un vantaggio. Abbiamo apprezzato molto lavorare con loro e il messaggio
che abbiamo lasciato loro e di concentrarsi sulla loro istruzione e di lavorare
duro. Così potranno davvero realizzare i loro sogni e fare quello che vogliono
nella vita."
I menestrelli serbi mescolano i suoni rom balcanici con una stupefacente varietà
di stili, tra cui tango, musica mediorientale, turca e occidentale.
Tano Udila, di 13 anni, della Westleigh High School, ha detto: "Per noi è
un'opportunità fantastica di mostrare il nostro talento e parlare di chi siamo.
Il rap che abbiamo composto è tutto sull'amore, perché sentiamo che è importante
per tutti, di qualsiasi provenienza o cultura. La musica è un grande modo per
far girare un messaggio e mi ha fatto anche comprendere il valore di un'idea
sulla propria storia."
L'evento è stato organizzato da Wigan Council's Voice and Engagement Service,
Community Arts Northwest (CAN) e da Manchester's-own World Music DJ collective
Satellite State Disko (SSD).
Bronisława Wajs - detta Papusza, poetessa dimenticata, incompresa e sconosciuta,
è stata riscoperta nel 2013 grazie alla pubblicazione della sua storia scritta
dalla giornalista Angelika Kuzhniak e intitolata Papusza. In più il film scritto
e diretto da Joanna Kos-Krauze e di Krzysztof Krauze "Papusza" (i coniugi-autori
del premiato "Nikifor" del 2004) ha fatto riscoprire l'eccezionalità di
quest'artista così insolita.
Bronisława Wajs nasce... non si sa quando. Gli zingari non prendono nota delle
date sul calendario, regolano il passare del tempo in base al ritmo della
natura. Bronisława nacque nel giorno in cui gli agricoltori terminarono la
mietitura del grano, metà agosto del 1910 (o 1908 o 1909, secondo le diverse
testimonianze). Il padre rimane una figura sconosciuta, la madre è una zingara
galiziana. La ragazza cresce in mezzo alla natura, osserva attentamente gli
alberi, i fiori, gli uccelli. Di sera siede al ruscello e canta. Sa anche
ballare bene. Conosce il potere magico delle erbe. E' bellissima, la chiamano "Papusza",
cioè "Bambola".
Zingarella povera, giovane,
bella come un mirtillo,
denti bianchi come perle,
occhi brillanti come l'oro vero.
Gli orecchini fatti di foglie, eccoli
Come oro genuino son belli (frammento di "Orecchino di foglia", p. 57)
Impara a leggere e a scrivere da sola, comprando (e pagando con galline rubate)
qualche minuto di lezione dai ragazzi che frequentano le scuole e da una
commessa ebrea. Conosce Jerzy Ficowski (1924-2006) - poeta, critico, scrittore,
traduttore, studioso di Bruno Schulz e della cultura zingara ed ebrea - che dopo
aver letto le sue poesie, s'impegna a promuoverla, a tradurla in polacco
(mantenendo l'asprezza dello stile), a farla pubblicare (e dunque guadagnare) e
a iscriverla all'Associazione dei Letterati Polacchi con tutti i privilegi che
ne derivano, inclusa la pensione. Grazie a Ficowski incontra Julian Tuwim
(1894-1953) - uno dei fondatori del movimento poetico "Skamander", forse uno dei
più grandi poeti polacchi - che trova le poesie della Wajs piene d'innocenza e
di onestà, virtù che lui stesso cerca di trasmettere. Le creazioni di Papusza
sono apprezzate anche da altri, tra cui Wisława Szymborska.
Fino a questo punto la vita di Papusza sembra una favola. La realtà però non è
il mondo delle fiabe e così ben presto arriva un'ombra che offusca e distrugge
questo mondo idilliaco.
Prima la seconda guerra mondiale, con la persecuzione e la strage degli zingari
(il numero totale degli zingari ammazzati in Europa Orientale rimane
sconosciuto). L'esistenza ridotta al minimo: la fame attenuata con qualche
corteccia, le notti passate fra le canne con le gambe in acqua gelata, il tifo,
la morte delle persone care. Dopo il massacro arriva il nuovo regime, nuove
regole, nuove persecuzioni. E' sterile, adotta un bambino (che chiama Tarzan,
affascinata dall'immagine di un ragazzo selvaggio seduto su un ramo accanto a
una fanciulla), figlio di uno zingaro e una gagi. Dopo la pubblicazione di
qualche articolo sulla cultura zingara di Ficowski e qualche poesia di Papusza,
gli zingari smettono di fidarsi di lei, cominciano a trattarla come una spia,
traditrice dei loro segreti. La Wajs è costretta a fuggire con il figlio e il
marito arpista (in effetti suo zio, fratello del patrigno, molto più grande di
lei), ma le persecuzioni continueranno per tutta la vita e la porteranno
all'esaurimento nervoso. Bronisława Wajs muore... questa volta la data è certa -
l'8 febbraio 1987. Le infermiere diranno che poco prima di morire, Papusza si
toccava le orecchie in cerca dei suoi orecchini preferiti, fatti con le galle di
quercia:
Dov'è il mio orecchino preferito?
Si sarà nascosto nel bosco selvatico?
Quanto mancano agli occhi neri
Questi miei orecchini cari! (frammento di "Orecchino di foglia", p. 56).
Papusza è considerata la più grande poetessa zingara polacca. Zingara, sì, e
fiera di esserlo, addirittura rideva quando si sentiva chiamare con quella
parola politicamente corretta e artificiale "rom". Zingara polacca, anche se
spesso si sentiva dire di tornare "nel suo paese". Le poesie trasmettono un
senso di pace, anche quando descrivono le persecuzioni più atroci. Saranno i
suoi occhi da bambina, meravigliata di fronte allo spettacolo del creato, a
diffondere questa unica sensazione di quiete. Proprio come una bambina chiede
alle stelle di rendere ciechi i nemici:
Ah, tu, la mia buona stellina! [...]
Acceca gli occhi ai tedeschi!
Torci le loro vie!
Non mostrargli la strada giusta!
Conducili per il sentiero infido,
perché sopravviva il bambino ebreo e zingaro. (frammento di "Lacrime di sangue -
cosa abbiamo vissuto al tempo dei nazisti in Volinia nel '43 e '44", p. 68).
E come una bambina non tratta seriamente i propri versi, anzi, si stupisce ogni
volta che qualcuno la considera una persona importante: "Son venuti a parlare
con me? Ci sono poeti, ci sono poesie belle, favole meravigliose, ma io son
niente. Non possiedo nessuna istruzione, nessuna scuola. Cosa può dire una
vecchia Zingara che assomiglia ad un porcino dimenticato nel bosco di autunno?
Sono una ragazza povera, vivo sotto il cespuglio. Nervosa, ho un'anima
piccolissima. Sono una persona ordinaria, forse peggiore degli altri" (p. 20).
Ovvero: "[Dicono che scrivo] poesie, ma non sono poesie. Canzoni. Le poesie son
roba diversa. Ci vogliono le rime, la canzone è semplice. La canzone è
inferiore. E la poesia è in alto, ci vuole gente istruita. Ci vuole l'università
ed io non ho finito neanche una classe. Non posso scrivere poesie". (p. 70).
Come una bambina commette molti errori di ortografia, di sintassi, di
interpunzione. Nelle lettere indirizzate a Ficowski o a Tuwim si scusa della
calligrafia che considera racchia. Ma è proprio grazie a questo suo modo di
scrivere unico che il lettore riesce a vedere meglio il mondo descritto, riesce
anch'egli a diventare bambino.
Quello che scrive rimane sempre legato alla sua identità, al suo essere zingara,
che la porta a delle considerazioni sorprendenti: "Oggi se una Zingara è brava,
sa leggere meglio il futuro, se è scema non sa più farlo. Dice qualsiasi cosa
per guadagnare e andare avanti. Io per esempio leggo il futuro in modo psichico:
riconosco se una persona non è di umore giusto e quando è amata e innamorata,
riconosco dalla sua fronte che tipo di persona può essere; se è buona o cattiva,
se saggia o stupida, se caratterizzata da una forte volontà oppure debole.
Quando leggo le carte assumo un'espressione seria e leggo il futuro con la
serietà. Lo stesso fa un poeta, penso. Ci deve essere qualche spirito, qualche
respiro e subito si sa tutto". (p. 65). La capacità di osservazione e lo spirito
di curiosità la portano alla riflessione sull'origine, sul significato e sul
senso della parola: "La mia canzone è silenziosa come una lacrima. Io canto a me
stessa, non a qualcuno. Da quando ero bambina qualcosa in me non andava bene.
Avevo paura perché non sapevo da dove provenivano le parole, chi me le ha
insegnate. Diciamo "foglia", "uccello", "prato", ma è vero quello che diciamo?
Forse Dio ha fatto sì che noi ci siamo accordati a parlare così?". (p. 82).
Dopo molti anni,
ma forse molto prima, tra poco,
le tue mani troveranno la mia canzone.
Da dove è venuta?
Nel giorno o nel sonno?
E mi ricorderai, mi penserai -
era una favola
o vero era?
E ti scorderai
delle mie canzoni
e di tutto. ("Canzone", p. 83).
Il 2013 è stato l'anno di Papusza in Polonia. Il libro di Angelika Kuzhniak è una
forma di reportage dove i frammenti degli scritti della Wajs, le trascrizioni
delle vecchie interviste e il racconto della Kuzhniak si intrecciano senza un
particolare ordine cronologico, ma con la tenerezza di qualcuno che vuole bene
al soggetto che sta cercando di ritrarre. Il film di Joanna Kos-Krauze e
Krzysztof Krauze, assolutamente fenomenale e girato in bianco e nero, si
concentra sull'eccezionalità della figura di Papusza, una donna straordinaria
che ha avuto il coraggio di essere se stessa. La pellicola è stata già
apprezzata durante il Festival internazionale del cinema di Karlovy Vary.
***
Tutte le citazioni provengono da Papusza di Angelika Kuzhniak (ed. Czarne,
Wołowiec 2013).
Le poesie provengono dalla raccolta Lesie, ojcze moj [Bosco, padre mio] di Papusza (ed. Nisza, Warszawa 2013).
Trailer del film
Papusza (diretto da Joanna Kos-Krauze, Krzysztof Krauze, 2013):
Dove ricercheremo noi le corone di fiori
Le musiche dei violini e le fiaccole delle sere
Dove saranno gli ori delle pupille
Le tenebre, le voci - quando traverso il pianto
Discenderanno i cavalieri di grigi mantelli
Sui prati senza colore, accennando. E di noi
Dietro quel trotto senza suono per le valli
D'esilio irrevocabili, seguiranno le immagini.
Ma il più distrutto destino è libertà
Odora eterna la rosa sepolta.
Dove splendeva la nostra fedele letizia
Altri ritroverà le corone di fiori.
Franco Fortini - Foglio di via (Einaudi 1946 - 1980)
Chi era Franco Fortini (la domanda è d'obbligo per i lettori più giovani)? Uno
dei maggiori intellettuali ed operatori culturali italiani della seconda metà
del secolo scorso. Rileggete la sua poesia con un occhio al
testo (in italiano)
di Gelem Gelem, e ditemi se non suonano simili.
Ne avevo già scritto
qualche settimana fa: c'è
anche una memoria nostra, recente - non occorre tornare alla preistoria, che era
capace di interloquire, di intercettare (quindi di iniziare a comprendere),
motivi profondi della cultura (la domanda ricorre:
cosa è la cultura
e a cosa serve?)
romanì, tanto di quelli che vivono senza speranza nei ghetti e nei campi, che di
quella fascia minoritaria di classe intellettuale.
Può essere, uso termini semplicistici, cultura alta (come in Franco Fortini),
cultura pop e folk (come con Bob Dylan), o soltanto memoria popolare (vedi
l'anno scorso). Le divisioni in generi non mi interessano, vanno tenute
assieme con la medesima dignità.
Scrivo, avendo in mente che la nostra cultura del recente passato,
aveva radici più antiche, ugualmente condivise. Ma queste radici possono
inaridirsi, anche dove sembrava avessero attecchito:
in difesa popolazione rom? Vi assicuro che qui in Italia i rom ci sono, e
sono proprio le persone più spregevoli e disoneste, maleducate e cattive che io
abbia mai visto. Non fraintendete, il fatto che abbiano subito un genocidio
durante l'ultima guerra mondiale non li giustifica affatto, non giustifica il
loro comportamento. Il degrado in cui vivono (e dove vogliono stare e continuare
a viverci) è frutto delle loro colpe,
Lorenzo Cardinali
Non bisogna avere paura delle parole, basta siano corrette. I rom, nella
stragrande maggioranza, vivono di di furti, per questo non sono simpatici a
nessuno, ma pochi, pubblicamente, lo ammettono. IC redazione
Nessuno stupore: può accadere a chiunque, forse in futuro persino a Rom e
Sinti. La responsabilità di percorrere assieme un pezzo di strada o di
allontanarci, è nostra.
Perché
Quello che leggerete, è già stato pubblicato negli ultimi anni, sul mio blog
Mahalla ed anche da altre parti. Niente di nuovo, se non il tentativo di fare
ordine e cercare il filo del discorso.
Di fatti accaduti 70 anni fa, e che spesso hanno radici più antiche.
Nessuna pretesa di un scrivere un documento storico, solo vorrei vedere allo
specchio questa Memoria. Cercare, attraverso testimonianze di personaggi noti e
altri che non lo sono mai stati, di capire dopo tutto questo tempo come la
memoria può convivere, quanto ci appartiene e quanto invece sia distante.
Fate conto di fare una chiacchierata, seduti ad un tavolo, magari con una
tazza di brodo caldo in mano. Per capirsi, per condividere. Per sapere dove si
può finire. Pagine di canzoni, poesie e qualche riflessione.
La memoria è un lusso, il dialogo una necessità. Quindi, dopo averci pensato un
attimo, ho pensato bene che chiunque potesse scaricare gratis questi appunti.
Sperando che il lettore alla fine mi scriva... una lettera, un pensiero o una
cartolina.
Ringraziamenti
La foto di copertina è di Cristina Simen, e anche quelle del campo di
Rho dopo la demolizione. Le foto del campo di Rho in festa sono di Ivana
Kerecki, sua anche la registrazione del video finale della festa dello
Zecchino d'Oro
Voglio inoltre ringraziare: Doriana Chierici Casadio, Gaia Moretti, Carlo
Stasolla, Luca Bravi, Carlo Berini, Sergio Franzese, Federico Bevilacqua e
Alessandro Morazzini per i contributi e le istruttive e civili discussioni.
Infine, un ringraziamento particolare al Teatro Officina per la
calda ospitalità che mi ha offerto.
Copyright Attribuzione Creative Commons 2.0 Pubblicato il 21 gennaio 2014 Lingua Italiano Pagine 31 Formato del file PDF Dimensioni del file 1.08 MB
Lo Spirito nomade: viaggio nella religiosità dei rom e dei sinti
Con Giorgio Bezzecchi, Graziano Halilovic, Daniele Degli Innocenti, Lucia La
Santina e Viola Della Santa Casa
Ancora uno sguardo di Uomini e Profeti fissato su ciò che è minoritario,
laterale, recessivo nella scala di valori della cultura ufficiale e dei grandi
dibattiti. Nella puntata di oggi ci incamminiamo lungo le strade percorse dallo
Spirito nomade, per entrare nella religiosità che abita i margini, quelli lungo
i quali si spostano e si soffermano le carovane dei rom e dei sinti. Una
religiosità permeabile che accoglie ciò che incontra e lo assorbe, facendone una
devozione semplice e forte, che non ha nulla di esotico, proprio come i campi
nomadi in cui viene vissuta, o per dirla in modo più politicamente corretto, le
microaree. Le microaree come quella dei sinti evangelici del quartiere di San
Basilio, nella periferia di Roma, dove abbiamo incontrato il pastore evangelico
Daniele Degli Innocenti, Lucia La Santina e Viola Della Santa Casa, che parlano
con discrezione e consapevolezza della loro fede, del loro risveglio, della loro
chiesa costruita con le proprie mani, nella quale ci siamo seduti a parlare,
mentre i rumori del vicino raccordo anulare e un pauroso nubifragio rendeva la
periferia romana ancora più livida.
Con gli ospiti in studio, Giorgio Bezzecchi, Graziano Halilovic rom khorakhanè,
ovvero musulmano, arricchiremo di ulteriori tessere il mosaico di
un'appartenenza religiosa mutevole come le terre che attraversa.
Suggerimenti di lettura
L. Narciso, La maschera e il pregiudizio. Storia degli zingari, Melusina 1996
L. Piasere, Un mondo di mondi. Antropologia delle culture rom, L'Ancora del
Mediterraneo 1999
L. Piasere, Italia Romanì, vol I, II, III, Cisu edizioni, 1996, 1999, 2002
A. Luciani, Un popolo senza territorio e senza nazionalismi: gli zingari
dell'Europa orientale, in A. Roccucci, Chiese e culture nell'Est europeo, Ed.
Paoline 2007, pp.275-326
Stojka Ceija, Forse sogno di vivere. Una bambina rom a Bergen-Belsen, Giuntina
2007
Parole Cvava sero po tute
i kerava jek sano ot mori
i taha jek jak kon kasta vasu ti baro nebo
avi ker kon ovla so mutavia kon ovla ovla kon ascovi
me gava palan ladi
me gava palan bura ot croiuti
Poserò la testa sulla tua spalla
e farò
un sogno di mare
e domani un fuoco di legna
perché l'aria azzurra
diventi casa
chi sarà a raccontare
chi sarà
sarà chi rimane
io seguirò questo migrare
seguirò
questa corrente di ali Versi in lingua romanés tratti da Khorakhanè, di Fabrizio De André e Giorgio
Bezzecchi
Musica Minor swing- Django Reinhardt (1910-1953), chitarrista di origine sinti,
ideatore e maggiore esponente storico del Jazz Manouche (Dal cd Retrospective et.
SAGA/038 164-2)
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