Di Fabrizio (del 23/01/2011 @ 09:28:59, in Italia, visitato 1807 volte)
Milano 21 gennaio 2011: anche oggi c’è stato uno sgombero in via
Adriano.
Speravamo che il vicesindaco De Corato fosse soddisfatto dei 156 sgomberi
dell’anno scorso che, secondo lui, avrebbero ridotto dell’80% la presenza di
famiglie Rom.
Speravamo che le famiglie rifugiate in qualche stanza di un immenso palazzo
di Via Adriano da anni disabitato, potessero ripararsi dal freddo e restare
tranquille con le loro poche cose per tutto l’inverno. Invece stamattina le
forze della Polizia Locale, anche loro stanche di allontanare donne e bambini,
sono intervenute. Cinque famiglie Rom si trovano ora con i loro sacchetti di
poche cose in mezzo alla strada, al gelo. Si tratta di cinque famiglie con 10
bambini, alcune delle quali hanno collezionato 14 sgomberi in un anno.
Questa mattina durante lo sgombero erano assenti i servizi e gli assistenti
sociali che dovrebbero garantire ai minori il rispetto dei loro diritti.
Nessuna alternativa accettabile è stata offerta alle famiglie, se non la
solita proposta di dividere i nuclei familiari collocando le donne e i bimbi
piccoli in comunità, gli altri figli in un orfanotrofio e la strada per gli
uomini.
Conosciamo bene queste famiglie perché i bambini, con mille difficoltà sono
iscritti e vanno tutti i giorni a scuola, perché gli adulti lavorano
nell’edilizia oppure sono inseriti in percorsi di integrazione.
L’unico intervento di sostegno è stato quello dei volontari della Comunità di
Sant’Egidio, delle mamme e dei cittadini dei quartieri di Rubattino-Lambrate che
dallo sgombero del 19 novembre 2009 seguono queste famiglie.
Chi scrive, il 7 dicembre, ha ricevuto la benemerenza civica dal sindaco
Letizia Moratti perché "con tenacia, amore e grande senso civico ha scommesso
per un’integrazione possibile".
Questo senso civico può essere riconosciuto come un valore prima di Natale,
ed essere totalmente dimenticato poco dopo l’Epifania?
Dov’è il senso civico quando si nega ad Albert di 6 anni (sgomberato 10 volte
in 5 mesi) il diritto ad avere un tetto?
Purtroppo sembra che non si voglia porre fine a questa pulizia etnica: la
tristezza e la disperazione che ogni volta leggiamo sui volti di questa umanità
calpestata, resterà nella storia di Milano come il simbolo di una violenza che
non vorremmo esistesse.
A pochi giorni dal 27 gennaio, Giornata della Memoria, queste azioni non si
allontanano molto dal clima di pulizia etnica che scatenò tanto orrore.
L’integrazione è possibile quando si guarda con occhi nuovi verso le persone e
ci si chiede come insegnare a scrivere a Marius che ha 15 anni, come salvare la
biciclettina che Jonut voleva tenere a tutti durante lo sgombero, se Maria,
Florin, George e Adrian potranno mai sentirsi parte di questa umanità che li
scaccia, li umilia, li costringe a nascondersi, perdendo ogni volta scarpe,
libri e i pochi giocattoli?
Si nega loro l’infanzia nel nome della sicurezza, in realtà si prepara un
futuro di odio e paura verso tutti.
Milano 22 gennaio 2011 - Assunta Vincenti e le mamme e maestre di Ribattino
Der Spiegel By Siobhán Dowling in Alsószentmárton, Hungary
14/01/2011 - Il villaggio di Alsózentmárton è ai margini estremi d'Europa,
uno degli ultimi posti in Ungheria prima del confine croato. Tutti i suoi
abitanti sono Rom, tra i più marginalizzati nella UE. Ma un progetto condotto
dalla chiesa intende rompere il ciclo di esclusione sociale e svantaggio
educativo.
Non ci sono negozi, caffè o altre attività a Alsószentmárton. Una delle
poche cose che si distingue dalle file di case ad un piano, è l'imponente chiesa
bianca all'ingresso del villaggio. I bambini giocano per strada e vanno in
bicicletta e le giovani donne, non molto più vecchie, spingono passeggini
gridandosi saluti tra loro.
Alsószentmárton è un piccolo villaggio nell'Ungheria sud-occidentale, e tutti
i suoi residenti sono Rom, tra i popoli più marginalizzati d'Europa. Vivendo qui
ai margini estremi dell'Unione Europea, proprio sulla linea del confine con la
Croazia, gli abitanti stanno combattendo gli effetti di decenni di
svantaggio ed esclusione sociale. Un progetto guidato dal sacerdote
cattolico del posto sta cercando di attenuare quella povertà e affrontare uno
dei più grandi handicap della popolazione rom: la mancanza di accesso ad
un'istruzione decente.
Padre József Lánko, un omone con una barba bianca, indossa un maglione di
lana marrone. 55 anni, ha vissuto nel villaggio per 30, ed ha visto in prima
persona le devastazioni causate dalla crisi economica seguita alla fine del
comunismo. "Prima tutti avevano un lavoro, la gente di questo villaggio lavorava
nelle costruzioni o nel fare le strade," spiega. "Avevano un salario minimo, ma
erano certi ad ogni mese di avere i soldi, così da vivere in sicurezza." Con la
caduta della cortina di ferro, da un giorno all'altro, hanno perso tutto.
"Ora vivono come accattoni," dice Lánko. "E' contro l'umana dignità, sarebbe
sicuramente meglio se potessero occuparsi delle loro famiglie lavorando."
Lánko dice che qui la disoccupazione è oscillante. Per la maggior parte
dell'anno è del 90%, ma scende al 60% durante la stagione della vendemmia - il
villaggio è situato vicino alla famosa Via del Vino ungherese - quando la gente
trova lavoro nei vigneti locali. Dice: "D'inverno qui c'è poco, le famiglie non
hanno da mangiare, allora li aiutiamo per qualche giorno, gli diamo qualcosa
perché non debbano morire di fame."
Rapporti difficili con i vicini
Col sostegno finanziario di Renovabis, un ente di beneficenza tedesco che
finanzia progetti in Europa orientale, ora la chiesa può fornire i poveri del
villaggio con raccolta di vestiti e pasti caldi giornalieri. I 1.200 residenti
del villaggio sono Boyash, un gruppo distinto di Rom, la cui lingua è una forma
arcaica del rumeno. Per molti, l'ungherese non è la madre lingua. Lánko ed altri
operatori ecclesiali fanno anche da ponte per le barriere linguistiche, fornendo
assistenza per quanto riguarda la compilazione di moduli o assistendoli nei
rapporti con le banche e le organizzazioni statali.
I Rom sono i membri del più grande gruppo minoritario d'Europa, si pensa
siano tra i 10 e i 12 milioni. La maggior parte vive nell'Europa centrale e
orientale, molti vivono in povertà estrema. L'Ungheria, patria di 700.000 Rom,
dice di voler affrontare la questione rom durante i
sei mesi di presidenza UE. Ma Budapest, per non parlare di Bruxelles,
potrebbe sembrare troppo lontana in questo posto isolato.
Alsószentmárton è circondata da campi pianeggianti fin dove l'occhio può
vedere, ma gli abitanti non possiedono la terra. Era un villaggio misto, ma poi
la popolazione non-rom iniziò ad abbandonare la campagna negli anni '60 e '70
per andare a lavorare nelle fabbriche e nell'industria. Così i Rom poterono
comperare le case a buon mercato, ma non poterono permettersi i terreni
circostanti. Ora, anche se volessero allontanarsi, non potrebbero vendere le
loro case.
Lánko dice che le relazioni con la più ampia comunità non-rom possono essere
foriere di problemi. "Quando c'è bisogno di manodopera non specializzata, le
relazioni sono molto buone, sono manodopera a buon mercato," dice. "Ma
d'inverno, quando gli zingari congelano e vanno a far legna, non chiedono di chi
sia. Ed allora ci sono problemi."
Dice che Alsószentmárton è afflitta dai soliti problemi che accompagnano la
povertà, incluso l'alcolismo. E la gente qui soffre anche di una terribile forma
di sfruttamento per cui altri Rom li caricano di tassi di interessi altissimi in
maniera predatoria.
"Non possiamo davvero proteggere la gente. Nessuno mi può proteggere da me
stesso," ragiona il sacerdote. Lo fa, però, cercando di aiutare la gente a
chiedere normali prestiti dalle banche, perché possano scappare dai pagamenti
punitivi degli usurai.
Qui la gente può vivere in relativo isolamento, a circa 230 km. da Budapest,
ma si è comunque a conoscenza dell'aumento di violenze contro i Rom, incluso una
serie di omicidi nel 2008 e nel 2009, e le marce dell'ormai bandita Guardia
Ungherese. Né può mancare la prevalenza di
retorica piena d'odio anti-Rom in Ungheria, in particolare dall'estrema
destra del partito Jobbik. Lánko è caustico sulle affermazioni dei membri di
Jobbik, ora il terzo partito in parlameto, che i Rom abbiano paura del lavoro, e
che facciano molti figli solo per avere accesso ai generosi assegni
previdenziali.
"Spazzatura," rimugina. "Loro vorrebbero lavorare qui, se ci fosse lavoro. Ed
è spazzatura anche che una famiglia possa vivere con gli assegni famigliari.
Perché non ci provano - questi di Jobbik dovrebbero provare a vivere con gli
assegni famigliare - o con le piccole somme della previdenza. E' impossibile."
Discriminazione nell'istruzione
Mentre i lavori sono pochi e lontani tra loro, Alsószentmárton sta cercando
almeno di dare ai bambini i primi strumenti per aiutarli a fuggire dal circolo
vizioso dello svantaggio sociale e del ricorso alla previdenza sociale,
assicurando loro un'istruzione decente. Nel villaggio ci sono due asili nido,
uno statale e uno gestito dalla chiesa, ed un doposcuola, dove assistenti
aiutano i bambini nel fare i compiti ed organizzare attività per loro.
L'accesso ad una corretta istruzione in Ungheria può essere estremamente
difficile per i Rom. I tassi di completamento sono particolarmente bassi, con
solo il 50% dei bambini rom che completa l'istruzione elementare. E gli ultimi
dati forniti dal Fondo Istruzione Rom di Budapest mostrano che solo il 5% circa
continua gli studi all'università.
Uno dei più grandi problemi nell'istruzione ungherese è la segregazione, sia
attraverso classi separate nelle scuole, che tramite bambini rom dirottati in
scuole speciali per bambini con disabilità mentali, già dal primo giorno di
scuola. E' una forma di discriminazione che perpetua l'esclusione e la povertà
delle comunità rom.
"Una volta che sei in educazione speciale, non stai ottenendo un'istruzione,
e di sicuro non stai ricevendo un'istruzione che ti permetterà di progredire nel
sistema," dice Robert Kushen, direttore dell'European Roma Rights Center di
Budapest. "E non troverai un impiego."
L'organizzazione di Kushen ha già portato con successo la questione della
segregazione scolastica nella Repubblica Ceca alla Corte Europea dei Diritti
Umani. Ora ERRC sta monitorando anche la situazione in Ungheria, dove si stima
che un bambino rom su cinque subisca trattamenti simili.
Ágnes Jovánovics è una delle poche che sono riuscite a ricevere
un'istruzione. Rom del villaggio lei stessa, è ora direttrice del corso
prescolare della chiesa. 44 anni, aveva lasciato presto la scuola, come quasi
tutti a Alsószentmárton, come formazione era assistente alla vendita. Mentre
lavorava in città, decise di tornare a scuola serale e prendere un diploma di
scuola superiore.
Lánko, il prete del villaggio, le suggerì di provare a diventare insegnate di
prescuola, così poteva lavorare nel nuovo nido che era stato creato. Ora
supervisiona nove insegnanti d'asilo, tre dei quali non sono Rom.
Lánko ridacchia: "La gente è scioccata che lì il capo è una Rom. Una Rom che
dice ai non-rom cosa fare!"
Per Jovánovics la sfida più importante nel preparare i bambini alla scuola -
attualmente ce ne sono 81 al centro - è assicurarsi che sappiano parlare
ungherese correttamente. Però, il centro opera sia in ungherese che nel lingua
boyash nativa.
Lánko dice che è molto importante mantenere stretti contatti con le famiglie
dei bambini. Dice che i Rom "non possono vivere senza famiglia. Vivono in
prossimità molto stretta l'un l'altro... spesso con diverse generazioni in una
casa sola."
Non ci sono scuole nel villaggio, così i bambini devono prendere il bus per
la vicina città di Siklós, dove andare alle elementari. Alcuni frequentano lì
anche la scuola secondaria, mentre altri vanno in convitti altrove, incluso la
rinomata scuola Ghandi a conduzione rom, nella città di Pecs a circa 40 km. Gli
operatori della chiesa nel villaggio si assicurano che la mattina i bambini
vadano a scuola. Il progetto aiuta a pagare il percorso per la scuola e il cibo
dei bambini le cui famiglie non hanno soldi.
Orgogliosa delle sue radici rom
Tutti nel gruppo del doposcuola conoscono Jovánovics. Bambini con i volti
dipinti corrono a salutarla e dirle delle loro attività. Oggi, circa 30 bambini
sono stati divisi in gruppi per raccontarsi dei diversi continenti, i cui membri
sono identificati da sciarpe di differenti colori. Poi a turno partono le
performance. Fuori nel cortile, il diciassettenne Tomás sta cucinando in una
pentola gigante patate e paprika. Sta studiando da cuoco e dice che un giorno
vorrebbe lavorare come uno del villaggio.
Jovánovics dice che tutti i bambini vogliono imparare. "Devono farlo,
altrimenti non hanno prospettive," aggiunge.
D'altra parte, non è sempre facile persuadere i Rom che l'istruzione sia
qualcosa a cui aspirare. Dice che la prima volta che decise di studiare, fu
molto difficile per gli altri del villaggio - inclusa sua madre stessa,
comprendere perché lei, una Rom "in tutto e per tutto" voleva avere
un'istruzione. Ma Jovánovics rispose a sua madre che era una cosa che voleva
fare e finalmente è riuscita, dicendo "Se vuoi, puoi farlo."
La motivazione di
Jovánovics ha aiutato anche altri nel villaggio a seguire i suoi passi. Suo
figlio sta studiando italiano all'università, ed un'altra giovane sta
completando la laurea in educazione e spera di diventare un'insegnante.
Jovánovics è orgogliosa delle proprie radici rom e dice che l'istruzione non
le cambierà. "Nelle famiglie zingare ci sono buone tradizioni," dice,
aggiungendo che non vuole abbandonare ciò che ha ottenuto dai suoi genitori.
"Altrimenti, chi sarei? Al di là di quanto possa studiare, sono una zingara."
Uno dei gruppi meno conosciuti del nostro paese sono i gitani. Sappiamo di
loro, li abbiamo visti, ma non sappiamo quando arrivarono in Perù né come
vivono, né quali sono i loro costumi. Carlos Pardo-Figueroa laureato alla PCUP e
docente alle Università Ricardo Palma e di Ceprepuc, ha realizzato un'inchiesta
interessante che unisce documentari ed etnografia.
Per conoscere meglio la storia dei gitani in Perù, ripropongo l'intervista
che fece "Punto Edu" alcuni giorni addietro.
Plaza
San Martín (Lima, anni 60)
Qual'è la storia dei gitani in Perù? Ce lo racconta questo ricercatore
dell'Istituto Riva-Aguero e membro della
Gypsy Lore Society, istituzione
internazionale di studi gitani.
A partire di 1951, l'Istituto Riva-Aguero della nostra Università, offre tre
borse di studio per la ricerca, a membri ordinari della suo istituto. Nel 2007,
tra i beneficiari c'era Carlos Pardo-Figueroa Thays, per il suo progetto sui
gitani nel nostro paese. Iniziò a lavorare nel gennaio 2008, raccogliendo
informazioni orali tramite interviste e attingendo ad archivi giornalistici.
Poi, dopo l'elaborazione dei dati di carattere etnografico, sintetizzò i suoi
risultati in un "essai"il quale fu completato con del materiale audiovisivo di
matrimoni, feste d'addio al celibato, il quale rifletteva le tradizioni dei
gitani in Perù.
L'inchiesta si è conclusa nel novembre scorso e si spera di farne un libro.
Quali sono gli obiettivi di questa indagine?
Abbiamo due obiettivi principali. Il primo, storico è di approfondire la
conoscenza di questa etnia così poco conosciuta nel nostro paese: come
arrivarono, si stabilirono e divennero peruviani. Poi, ho proposto
un'inquadratura di carattere etnografico e antropologico: descrivere alcuni
elementi fondamentali della cultura dei gitani (matrimonio, religione, cibi,
musica, parentado). Per questo ho proposto che dei due assistenti di ricerca
concessi dall'IRA, uno sia di storia (Gabriella Adianzén) e l'altro di
antropologia (Maria Elena Gushiken) ambedue provenienti dall'Università.
Da dove proviene questo interesse per i gitani?
Mi sono preoccupato di studiare le
minoranze etniche in Perù, che si inseriscano
in una tendenza storiografica che esiste a partire degli anni ottanta. Ci sono
molte pubblicazioni sui cinesi, giapponesi, italiani, tedeschi... ma c'è stato
poco interesse verso i gitani. A questo si somma un fatto circostanziale: nelle
carte che mia madre conservava in casa, ho trovato un ritaglio di giornale il
quale parlava dell'esistenza di un progetto del 1952, il quale mirava
all'espulsione dei gitani del Perù. Questo destò la mia curiosità. Sarà anche un
terzo elemento, il fatto che vivo nel distretto di La Victoria, nel quale si
concentrano i pochi gitani che si trovano attualmente a Lima.
foto: Parco dell'Esposizione, vicino al Teatro La Cabana – Lima anni 50
Se vogliamo prendere caratteristiche dai gruppi che lei ha menzionato, come si
può definire un gitano?
C'è una miscela enorme di culture dietro ai Gitani, però ci sono dei fili
conduttori. Io li definisco come un'unione di gruppi etnici i quali condividono
alcuni elementi, come abitudini migratorie, lingua o il fatto di essere
organizzati in una società patrilineare, cioè che si organizzano in funzione
dell'autorità maschile. Un quarto elemento è un'intensa endogamia, legata a una
sorte di orgoglio razziale. Loro ci tengono a sposarsi tra di loro, appartenenti
allo stesso gruppo e così a mantenere la consapevolezza del proprio lignaggio e
preservarlo.
Si possono definire come una nazione, un gruppo etnico transnazionale e
multinazionale, perché nei loro spostamenti hanno raccolto le caratteristiche
dei luoghi che li hanno accolti. Prevale anche l'immagine del gitano esoterico,
incluso quella dell'imbroglione. Molte di queste descrizioni provengono dalla
letteratura spagnola. Quando domandiamo loro cosa pensano di quello che si dice
di loro, dicono che a volta "i giusti pagano per i peccatori". Sono consapevoli
di vivere in zone marginali e dello stile di vita che conducono, però bisogna
essere cauti nel generalizzare.
Così come scrivevano i giornali del secolo scorso, le donne gitane erano
impegnate principalmente nella divinazione. Sono ancora , nella maggior parte
dei gruppi, dedite all'esoterismo, questa è l'immagine più diffusa che ne
abbiamo.
A quali conclusioni è arrivato?
Che nel paese ci sono una diversità di gruppi gitani, e che la maggior parte di
loro appartiene al gruppo Rom, dell'Europa dell'est. Riguardo alla storia, ci
sono documenti che indicano che potrebbero essere arrivati nel XVI secolo,
perché poi, ci furono delle normative che cercavano di evitare che continuassero
a venire, a causa dell'immagine negativa che davano, e che veniva rafforzata
dalla letteratura, oltre che per le accuse, come furti e imbrogli. In quanto
all'aspetto etnografico, hanno una serie di particolarità, ma tuttavia almeno
dall'inizio del XX secolo, fanno parte della società peruviana e sono totalmente
integrati. Con questo non significa che abbiano perso le loro tradizioni; così
come non possiamo dubitare che sono gitani, tanto meno possiamo dubitare che
sono peruviani.
19/01/2011 - Il villaggio di Mayen, vicino alla città di Coblenza nello stato
tedesco della Renania-Palatinato, è governato da un'amministrazione
socialdemocratica (SPD). Una famiglia rom originaria del Kosovo viveva a Mayen
dal 1999. Nonostante la grave malattia di una dei suoi componenti, la signora
Borka T., l'intera famiglia è stata deportata in Kosovo in condizioni inumane,
all'inizio di dicembre. Appena un mese dopo, la signora T. è morta di emorragia
cerebrale.
Alle prime ore del 7 dicembre, la polizia ha portato via dalla loro casa a
Mayen la signora Borka T. con suo marito e loro figlio Avdil di 14 anni. Furono
dati loro solo 30 minuti per raccogliere un po' di loro cose personali.
Furono scortati dalla polizia all'aeroporto di Düsseldorf e con altri rifugiati
deportati a Pristina, capitale del Kosovo.
La signora Borka era stata visitata all'aeroporto di Düsseldorf da un dottore
il cui compito era dare l'ok alla sua deportazione. Lo specialista che l'aveva
in cura, le aveva diagnosticato disturbi post-traumatici da stress, depressione
e nevralgie. A causa di questi sintomi, riceveva farmaci e terapie regolari col
supporto della Caritas. Questi fatti erano conosciuti ma sono stati ignorati
dagli incaricati all'aeroporto.
Le condizioni di difficoltà della donna sono state spazzate via
dall'amministrazione locale di Mayen-Coblenza, che ha ordinato la deportazione
della famiglia. Il tribunale amministrativo di Treviri ha poi confermato la
deportazione, ben sapendo che per la donna in Kosovo non esisteva alcuna
possibilità di cura.
L'amministrazione di Mayen-Coblenza da parte sua ha negato ogni
responsabilità anche dopo l'annuncio della morte di Borka T. all'inizio di
quest'anno. Un portavoce ha semplicemente dichiarato che l'autorità si
appoggiava sul giudizio del tribunale amministrativo di Treviri, che affermava
c'erano possibilità di cura in Kosovo. Il portavoce ha smentito qualsiasi
correlazione tra la mancanza di medicine e la morte della donna come assurda,
dichiarando con cinismo: "L'emorragia intercranica è sempre una possibilità".
L'avvocato della famiglia, Jens Dieckmann, ha emesso il 7 gennaio un
comunicato stampa, che descrive la traumatica esperienza in Kosovo della
famiglia e la susseguente brutale deportazione di Borka T. e della sua famiglia:
"Nell'ottobre 1999 la signora T. arrivò in Germania con la sua famiglia.
Precedentemente avevano vissuto a Mitrovica, la città del Kosovo al centro dei
combattimenti (nella guerra jugoslava) che fu divisa (e rimane divisa) tra Serbi
e Albanesi del Kosovo. Assistette alla distruzione della sua casa durante
la guerra e alla morte di molti tra vicini, amici e parenti. La signora T. e la
sua famiglia sono membri del gruppo etnico rom e rimasero intrappolati nella
guerra del fuoco incrociato tra Serbi e Albanesi. Gli Albanesi espulsero da
Mitrovica la famiglia della signora T., assieme ad altri Rom, accusandoli di
collaborazione coi Serbi. In seguito la famiglia fuggì dalle rovine di Mitrovica."
"Dalla fuga da Mitrovica, dove la signora T. fu testimone di case in fiamme
ed innumerevoli morti e feriti, soffriva di stress post-traumatico. Perciò in
Germania era sottoposta a cure specialistiche e col supporto della Caritas
seguiva una terapia specifica per i traumi."
Poi l'avvocato continua descrivendo come il tribunale di Treviri ha deciso
sulla deportazione, anche se era pienamente consapevole della sua condizione.
Ignorando le ragioni umanitarie per negare la deportazione, la corte ha invece
preferito fare affidamento sulle informazioni completamente errate del ministero
degli esteri, secondo cui la donna sarebbe stata seguita da specialisti in
Kosovo e avrebbe avuto cure immediate.
In realtà, le condizioni reali a Pristina erano molto differenti. Qualsiasi
giustificazione da parte delle autorità tedesche di non aver potuto prevedere la
mancanza di strutture sanitarie in Kosovo è completamente insostenibile.
Diversi studi e relazioni di organizzazioni di aiuto ai rifugiati, come Pro
Asyl e l'UNICEF, hanno documentato la disperata situazione politica e sociale in
Kosovo.
Ci sono solo circa 300.000 posti di lavoro per il 1.800.000 di abitanti del
Kosovo, ed il tasso ufficiale di disoccupazione è del 45%. Per le comunità rom e
askali, il tasso varia dal 95 al 100%. Virtualmente non c'è una forma di
sostegno per i disoccupati, e l'assistenza medica è disponibile solo a chi possa
pagare. Anche l'istruzione è correlata al pagamento delle tasse. Il sistema
agricolo della provincia non è competitivo, e non esiste un settore produttivo
significativo. La principale esportazione del Kosovo sono i rottami metallici.
In un rapporto del Consiglio d'Europa, il Kosovo è descritto oggi come una
terra dominata dalle "mafie e dal crimine organizzato". Il comandante dell'ALK
ed attuale primo ministro, Hacim Thaci, è accusato di guidare un cartello
criminale coinvolto in omicidi, prostituzione e traffico di droga. (Cfr. "Washington's
"humanitarian" war and the crimes of the KLA")
Quando la famiglia T. tornò a Pristina non c'erano dottori, impiegati di
lingua tedesca dell'ambasciata o operatori umanitari ad incontrali. Dopo aver
completato le formalità di immigrazione, la famiglia venne completamente
abbandonata. "Potete andare dove volete," fu detto loro. L'unico denaro in loro
possesso erano 220 euro.
All'arrivo, la signora T. subì un attacco di panico e dichiarò che non
sarebbe tornata a Mitrovica. Poi la famiglia si fece due ore di taxi fino ad un
fratello della signora T. nella Serbia meridionale. Là, circa 40 membri della
famiglia vivono in baracche attrezzate poveramente. Ogni unità ha un angolo
cottura ed una stanza dove tutti mangiano e la notte si dorme per terra. Non ci
sono attrezzature adeguate per bagno o doccia.
Il figlio quattordicenne Avdil, che in Germania viveva e frequentava la
scuola dall'età di tre anni, era totalmente scioccato dalla povertà che lo
circondava. Non avendo alcuna conoscenza della lingua, non aveva lì alcuna
possibilità di andare a scuola.
Vistasi negate cure mediche e farmaci, la signora Borka T. collassò
rapidamente dopo Capodanno. Venne portata in una clinica a Kragujevac dove entrò
in coma per poi morire di emorragia cerebrale.
La tragica morte della signora Borka T. è un altro schiacciante atto d'accusa
del sistema tedesco di asilo e deportazione. Ogni anno, migliaia di persone che
soffrono di gravi malattie vengono deportate verso i loro paesi di origine. In
molti casi, hanno vissuto per anni o addirittura decenni in Germania. Dove, è
stato negato loro il diritto di soggiorno permanente e vivono in uno stato di
insicurezza permanente.
Molti di questi deportati sono bambini nati in Germania e cresciuti nel
paese. Questi bambini sono brutalmente strappati dalle loro scuole,
dall'ambiente familiare e dagli amici e deprivati di ogni prospettiva futura.
Anche per queste circostanze, era interamente di competenza
dell'amministrazione di Mayen-Coblenza garantire un permesso di residenza per
motivi umanitari alla famiglia T. Appena due settimane prima della deportazione
di una famiglia, la conferenza dei ministri degli interni aveva emesso un
decreto che rendeva possibili decisioni simili. Tuttavia, lo stato della Renania-Palatinato ha deciso di applicare il regolamento solo il 23 dicembre, a
più di un mese dall'emanazione.
Nella sua lettera del 7 gennaio alla stampa, l'avvocato della famiglia ha
sollevato alcune questioni vitali:
Perché non ci sono stati esami medici alla signora T. immediatamente
prima della sua deportazione?
Perché all'aeroporto di Pristina non erano presenti specialisti o
organizzazioni di soccorso, quando le autorità tedesche sapevano che quel
giorno veniva deportata una donna con problemi mentali?
Perché lo stato della Renania-Palatinato non si è unito al bando della
deportazione di Rom verso il Kosovo, come ad esempio lo stato del Nord
Reno-Westfalia? Il governo di Düsseldorf aveva preso la sua decisione sulla
base primaria del parere del ministro degli esteri e delle informazioni che
descrivevano la catastrofica situazione dei Rom in Kosovo.
Perché non è stata fermata la pratica delle deportazioni in seguito alla
decisione della conferenza dei ministri degli interni del 19 novembre 2010?
Durante la conferenza, venne concordato che poteva essere rilasciato un
permesso di residenza ai rifugiati che si erano integrati correttamente e
sarebbero stati protetti dalle deportazioni almeno i ragazzi sino a 18 anni.
Avdil ha frequentato per anni la scuola e senza dubbio aveva soddisfatto i
criteri stabiliti.
Secondo il suo insegnante, Avdil era un bravo studente, laborioso e curioso,
popolare tra i suoi compagni. Nondimeno, lui e la sua famiglia furono
brutalmente deportati.
D'altronde, questa crudeltà burocratica è intenzionale. Le deportazioni in
Kosovo sono l'obiettivo dichiarato dell'accordo firmato il 14 aprile 2010, tra
il ministro tedesco degli interni Thomas de
Maiziere (CDU) e la sua controparte kosovara, Bajram Rexhepi. Impegna il Kosovo
ad accettare 14.000 rifugiati dalla Germania. Oltre a più di 10.000 Rom, la
cifra include anche Askali, Egizi kosovari e membri della minoranza serba del
Kosovo.
La maggior parte dei Rom fuggì dal Kosovo nel 1999 durante la guerra NATO
contro la Jugoslavia. Se la dottrina ufficiale della NATO era di proteggere gli
Albanesi kosovari dagli attacchi serbi e dalla "pulizia etnica", la guerra
condotta dalla NATO e dalla UE alimentò i nazionalismi etnici e contribuì alla
campagna di cacciata delle minoranze serbe, rom ed askali dal Kosovo. Alcuni
fuggirono in Serbia, Macedonia e Montenegro, ma molti cercarono asilo
nell'Europa occidentale o sperarono di essere riconosciuti come rifugiati dalle
guerre civili. La maggior parte delle richieste asilo in Germania sono state
respinte.
Ora, molti di quanti hanno fatto ingresso nel paese sono stati deportati,
nonostante il freddo inverno nel Kosovo distrutto e dilaniato dalla guerra. Le
persone di ritorno incontreranno povertà, esclusione sociale e carenza di
alloggi. Molti che mancano di assistenza medica adeguata soffriranno di malattie
e per alcuni, come la signora Borka T., la deportazione significa morte.
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