Poco meno di due mesi fa, sono tornato da una visita in Kosovo.
Intendevo scrivere sulle mie esperienze ed impressioni nella provincia, ma
ogni volta che mettevo la penna sulla carta, non ne seguivano le parole.
Come in ogni zona di conflitto - soprattutto conflitti etnici del tipo visti
in Kosovo - i punti di vista che si sentono dai locali sono troppo polarizzati,
le emozioni espresse troppo forte ed i simboli molto umani delle distruzioni
illustrate dalle case bruciate; e cumuli di macerie che ancora delimitano le
strade nel nord del paese sono ancora troppo evidenti per trarre una conclusione
equa riguardo i "diritti" e "torti" di ogni situazione.
Non mi dilungherò sulle politiche in corso riguardo il futuro del Kosovo come
nazione, né discuterò sulle continue intimidazioni e le misere condizioni delle
minoranze della provincia. Invece, intendo sottolineare una significativa lacuna
della comunità internazionale: il trattamento e le condizioni di vita dei
rifugiati rom nel paese.
Questo problema risale al conflitto nel Kosovo tra il 1998 e il 1999, quando
l'Armata di Liberazione del Kosovo espulse dalle loro case 90.000 cittadini di
etnia rom sulle basi delle paure nazionaliste albanesi che la comunità fosse al
servizio di Slobodan Milosevic.
Tra questi c'era la comunità rom di Mitrovica, una città nel settentrione
della provincia etnicamente divisa tra la maggioranza serba a nord del fiume
Ibar e la più vasta città albanese a sud. In precedenza casa di una delle più
vaste comunità rom nei Balcani, 8.000 Rom, Ascali ed Egizi, la "Mahalla"
(comunità) sulle rive dell'Ibar fu rasa al suolo dalle forze ALK nel giugno
1999, a seguito della ritirata dell'esercito serbo.
Temendo per le proprie vite, i cittadini rom di Mitrovica sono stati numerosi
tra le centinaia di migliaia di rifugiati - Albanesi, Serbi, Gorani, Turchi e
Bosniaci - scappati dal Kosovo [...].
Dal 1999, la maggioranza dei 90.000 Rom espulsi sono tornati in Kosovo, anche
se oltre 30.000 non son mai tornati nelle loro case. La maggior parte di questa
diaspora, non vedendo alcun futuro sotto il ruolo dell'amministrazione quasi
monopolizzata dai nazionalisti albanesi, sceglie piuttosto di rimanere nella
Repubblica Serba o di restare vicino alle proprie ex case nei grotteschi campi
per rifugiati nella zona controllata dai Serbi a Mitrovica Nord.
Benvenuti nel complesso minerario di Trepça, dove 650 uomini, donne e bambini
vivono in condizioni che non accetterebbe neanche un maiale.
Ho visitato uno dei campi, Cesmin Lug, una nuvolosa domenica pomeriggio.
In un accatastarsi di cemento ricoperto di ruggine, macchinari abbandonati e
pozze di acqua stagnante grandi come piscine, a fatica si può credere che una
volta le miniere rappresentavano il 70% della produzione di minerali della
Jugoslavia ed occupavano circa 25.000 persone del posto in quattro differenti
pozzi. Sono passati oltre venti anni da quando Trepça era pienamente operativa,
ma rimane ancora nell'aria un leggero odore di zolfo. Graffiti coprono
ogni centimetro di edifici abbandonati e colonne di fumo si alzano contro
l'orizzonte. Arbusti occasionali a parte, le cui radici si attaccano tenacemente
al suolo, la vegetazione è sparsa stranamente.
Secondo la mia guida, una donna serba di mezza età chiamata Jasna, vengono
fatti sforzi occasionali per riattivare parti del complesso, sforzi che
invariabilmente si arenano al primo ostacolo. L'elettricità scarseggia (l'intera
provincia del Kosovo ottiene la sua energia da stazione appena fuori da
Pristina) ed oltre un decennio di abbandono significa che gran parte del
complesso minerario è ora irreversibilmente sott'acqua.
Mentre i macabri ricordi del passato industriale di Trepça si possono vedere
tutt'attorno, oggi l'unico segno di vita sono le case dei residenti rom.
Entrando a Cesmin Lug, sono stato immediatamente colpito dal numero di case
rom attaccate l'una all'altra, i loro vibranti muri colorati quasi interamente
camuffati da una misto di fango e pile d'immondizia.
Prima della mia visita avevo sentito dei gravi problemi di salute sofferti da
molti dei residenti, ma sono rimasto scioccato nel vedere bambini di non più di
quattro o cinque anni, sguazzare in pozze di acqua scura ed arrampicarsi su
attrezzature minerarie abbandonate come fossero un parco giochi locale.
Non oltre qualche centinaio di metri da Cesmin Lug c'è un piccolo pozzo
che sembra una specie di imbocco per una miniera. Qui si dice che questi
ingressi servivano a smaltire i gas tossici delle miniere da anni considerate
insalubri per l'esplorazione umana.
Non ho parlato con nessuno nel campo ed ho lasciato Cesmin Lug in fretta come
ero arrivato, scomodo alla mia macabra osservazione della reale sofferenza
umana.
Tornando a Pristina, anche la più rapida delle conversazioni coi locali
rivelava una conoscenza diffusa dei problemi di salute patiti dai Rom. Le
più comunemente citate sono state le relazioni e le voci di avvelenamento da
piombo, insufficienza renale e deformazioni tra quanti vivono nei campi. Mentre
lo scandalo delle miniere di Trepça può essere praticamente sconosciuto fuori
dal Kosovo, tristemente è linguaggio comune nella provincia.
Il gruppo ambientale Miniere e Comunità, che ha fatto campagne mondiali per far
crescere la consapevolezza del danno ambientale costituito dal settore
minerario, ha offerto le seguenti osservazioni sul tipo di rischi alla salute
posti a quanti vivono nelle immediate vicinanze di miniere come Trepça:
"Il piombo può entrare nel corpo attraverso: inalazione,
ingestione del suolo stesso o di cibo contaminato dal suolo, ed attraverso
la placenta per il feto nel grembo materno. Nutrizione, igiene, rapporto di
grasso corporeo, l'assunzione di fibre, età e in generale la condizione
fisiologica, tutto può influire sulla velocità con la quale il corpo assorbe
il piombo. I bambini sino a sei anni sono i più vulnerabili, in quanto sono
nei primi stadi della crescita e dello sviluppo. L'avvelenamento da piombo
colpisce tutto il corpo con conseguenze sulla salute gravi e permanenti.
Potenziali sintomi dell'esposizione al piombo, anche a bassi livelli,
includono la perdita dell'appetito, letargia, alta pressione sanguigna,
problemi di fertilità per uomini e donne, parti prematuri, difficoltà nella
crescita, danni all'udito e neurologici, convulsioni, dolori e/o paralisi
alle gambe, perdita di coscienza, anemia, aggressività, crampi allo stomaco,
vomito. Gli effetti più significativi ed irreversibili sono al livello di QI.
Un aumento dei livelli del piombo nel sangue da 10 a 20 microgrammi per
decilitro, è stato associato con la decrescita di 2,6 punti di QI, ma
qualsiasi aumento oltre i 20 riduce i livelli di QI"
In misura diversa, ognuno se non tutti questi sintomi sono stati osservati
nei campi dei rifugiati rom nel Kosovo settentrionale.
Nessuno potrebbe ritenere che un posto simile sia desiderabile o appropriato
per ospitare gente a lungo termine. A dire il vero, l'Ufficio dell'Alto
Commissario ONU per i Rifugiati (UNHCR) ha giudicato che questi campi per
rifugiati dovevano essere semplicemente una misura temporanea per garantire a
breve termine la sicurezza dei residenti rom a Mitrovica sud.
Nonostante i pochi sforzi della comunità internazionale per rialloggiare i
rifugiati rom, i campi sono rimasti operativi per oltre un decennio. I
Rom, che hanno ancora terrore dopo la loro esperienza nel conflitto del 1999,
hanno ripetutamente declinato l'opportunità di tornare a Mitrovica sud
controllata dagli Albanesi.
Dovrebbe essere una ragione di vergogna per l'Unione Europea e la più ampia
comunità internazionale che i campi rom di Trepça rimanga operativo ad appena
300 miglia da Budapest e a 75 da Skopje - la capitale di un aspirante stato
membro UE.
I campi per i rifugiati rom adiacenti al complesso minerario di Trepça devono
essere chiuse alla prima opportunità possibile, dopo aver identificato un sito
appropriato dove alloggiare la comunità rom. Purtroppo la lodevole volontà della
comunità internazionale di realizzare comunità etnicamente miste nel settore
albanese a sud del fiume Ibar rimarrà impraticabile per decenni. Le
emozioni sono troppo forti e la memoria troppo viva.
Tale sito dovrebbe essere trovato nelle aree sotto il controllo della Serbia
nella provincia settentrionale della Kosovska Mitrovica. Mentre diversi governi
- incluso quello del Regno Unito - riconoscono solo la sovranità della
Repubblica del Kosovo, anche sulle aree controllate dai Serbi, l'acquisizione di
questo sito richiederebbe la costruttiva cooperazione della Repubblica di Serbia
e e dell'Assemblea della Comunità Serba di Kosovo e Metohija. In pratica,
richiederà l'offerta di un importante incentivo finanziario alle autorità serbe.
La comunità internazionale deve anche riconoscere che, a causa della sua
mancanza di un'azione affermativa, centinaia di persone stanno ora soffrendo
seri problemi di salute che potranno avere conseguenze mortali nei prossimi
anni. Devono essere fornite cure mediche immediate a quanto hanno vissuto nei
campi di Trepça. Attualmente trattamenti specialisti simili non sono disponibili
né in Serbia o in Kosovo e dovranno quindi avvenire in un appropriato paese
terzo, i candidati più prossimi potrebbero essere Romania o Bulgaria.
La storia è piena di esempi tragici sui maltrattamenti della comunità rom;
dall'abbattimento del 25% del loro popolo nelle camere a gas naziste durante la
II guerra mondiale all'onda crescente di attacchi razzisti in Europa centrale.
Non contribuiamo ulteriormente ad un altro tragico capitolo della loro storia
ed agiamo oggi per risolvere questa crisi umanitaria.
Di Fabrizio (del 11/06/2010 @ 09:04:17, in Italia, visitato 1836 volte)
Stefania Cammarata, con la
Svoboda Orchestra,
tra poco suonerà al DADO di Torino, un'esperienza di cui si era scritto in
passato anche qui.
Il DADO è una comunità nella quale vige una regola fondamentale “dare
diritti e pretendere doveri”.
Da un anno a Settimo Torinese accanto alle comunità Rom.
Un anno fa si è realizzato un sogno. Un sogno iniziato nel novembre del 2009
quando una notte è andato a fuoco un campo ROM alle porte di Torino dove
vivevano molte famiglie di origine romena scappate in seguito ad una delle tante
alluvioni che ha martoriato la Romania. In quella notte l’unico contatto che le
famiglie avevano eravamo noi, che in quel campo svolgevamo piccole attività di
mediazione culturale, accompagnavamo i bambini a scuola, mediazione sanitaria e
poco più. Quando il campo ha preso fuoco noi abbiamo accolto le famiglie, che si
sono trovate a perdere i loro pochissimi averi, nei nostri uffici allestiti
insieme alla Croce Rossa con brandine nei corridoi e al posto dei pc. Da quel
momento è iniziato un lungo percorso che ha visto le famiglie prima ospiti di un
campo di emergenza con le tende, poi roulotte. La nostra proposta però fu subito
quella di non gestire solo l’emergenza come spesso accade in Italia, ma provando
a dimostrare che la tematica rom può essere governata in modo diverso,
portandola a sistema. Da questa esigenza è nato il DADO. Una comunità nata
grazie ad una struttura messa a disposizione dal comune di Settimo Torinese,
alle porte di Torino. La struttura è stata ristrutturata completamente dalle
famiglie che oggi ci vivono, questo ha permesso loro di sentire la struttura
come casa loro a tutti gli effetti. Le famiglie hanno vissuto il cantiere, sotto
la guida esperta di professionisti, durante i mesi nel cantiere si sono creati
una professionalità che gli ha permesso di essere inseriti in contesti
lavorativi. Il DADO è una comunità nella quale vige una regola fondamentale
“dare diritti e pretendere doveri”. Le famiglie che stanno al DADO hanno la
possibilità di essere inseriti in contesti lavorativi, i bambini vanno tutti a
scuola, ma vi sono delle regole alle quali non è possibile declinare. Il
quartiere nel quale è inserito il DADO era certamente spaventato dal trovarsi
vicino a casa un gruppo di “zingari” come spesso vengono definiti con aria
dispregiativa. Molte le proteste nelle prime settimane. Dopo i mesi di cantieri,
grazie anche al lavoro svolto dalla parrocchia dalla scuola e da tutto il
territorio, all’inaugurazione un anno fa avevamo più di trecento persone che ne
hanno festeggiato l’apertura. Oggi i bambini giocano nell’oratorio insieme ai
bambini originari di Settimo, vanno nella stessa scuola e sono diventati
compagni di classe e non “zingari”. Al DADO si è bucata la bolla mediatica del
razzismo, siamo riusciti con gesti semplici e concreti a dimostrare che stando
con le persone è possibile uscire dal pregiudizio.
Di Fabrizio (del 10/06/2010 @ 09:52:20, in Italia, visitato 1887 volte)
Triennale - sala teatro Agorà, viale Alemagna 6 Milano Giovedì 17 giugno ore 10.00
Introduce: Riccardo Bonacina, direttore editoriale di "Vita non profit"
Partecipano: Susanna Camusso, segretaria nazionale CGIL
Aldo Bonomi, sociologo, direttore di AASTER
Gianni Tognoni, Fondazione Basso, segretario generale del Tribunale Permanente
dei Popoli
Giovanni Negri, presidente del Circolo della Stampa di Milano
Sergio Segio, curatore del Rapporto, direttore di Associazione
SocietàINformazione
Interviene in video: Moni Ovadia, artista e scrittore
Gli interventi saranno accompagnati dallo spettacolo: Via Padova, Rosarno, Italia
Performance artistiche e musicali di: L'Orchestra di via Padova
Modou Gueye, attore
Dijana Pavlovic, attrice, con i Muzikanti
Immagini e filmati a cura di: Chiara Bellosi, Rosario Cinque e Luca Guarneri
Un progetto promosso da CGIL, ARCI, ActionAid, Antigone, Associazione SocietàINformazione, CNCA,
Fondazione Basso - Sezione Internazionale, Forum Ambientalista, Gruppo Abele,
Legambiente
Qualche settimana fa abbiamo comunicato un progetto editoriale promosso e
deliberato dall’assemblea dei soci della Federazione romanì.
Un progetto ambizioso che si propone di promuovere la costituzione di una
Editoria romanì che, attraverso la valorizzazione delle professionalità rom e
sinte e di un comitato scientifico, diffonda la conoscenza diretta della cultura
e dell’arte romanì con la produzione di saggi di letteratura, antologie
letterarie, libri, storie, racconti, arte e cultura, ecc. fino alla
produzione e distribuzione periodica di una rivista romanì.
Una editoria romanì quale strumento pedagogico, educativo e divulgativo della
cultura e dell’arte romanì.
Lo scorso 28 Maggio l’assemblea dei soci ha definito il logo della Editoria
romanì (allegato), in corso di registrazione.
Il primo lavoro dell’editoria romanì "O romanò gi" (L’anima romanì) è in fase
avanzata di programmazione. Si tratta di un saggio di letteratura romanì per
portare all’attenzione del lettore i commenti, le analisi, le critiche delle
opere di autori rom, sinti, kalè, manousches, romanichels viventi e non. Un
analisi sui testi in lingua romanì nei diversi dialetti in cui si ramifica la
romanì chib o romanès.
L’opera "O romanò gi" è anche una strumento pedagogico che sarà utilizzato per
il corso di lingua romanès che inizierà a settembre 2010.
L’opera sara un formato A5 composta di circa 160 pagine.
Chiediamo agli amici del popolo romanò di sostenere questa iniziativa con un
contributo. I sostenitori saranno menzionati nell’opera che riceveranno copia in
omaggio.
Contributi possono essere inviati al codice IBAN: IT 20 O 05387 03204
000001892874 intestato a Federazione romanì, causale: "O romanò gi"
Di Fabrizio (del 10/06/2010 @ 09:16:18, in casa, visitato 1887 volte)
da
martedì 15 giugno 2010 alle ore 16.30 a
lunedì 21 giugno 2010 alle ore 19.00 Museo delle Arti e Tradizioni Popolari,
Piazza Guglielmo Marconi, 8 (EUR)
Roma, Italy
L’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia (IDEA) / Museo Nazionale delle
Arti e Tradizioni Popolari ospita l'evento Campus Rom, c'era una volta Savorengo
Ker, mostra multimediale che racconta due esperienze di ricerca realizzate dal
collettivo Stalker ON in collaborazione con le comunità Rom della capitale. Due
anni di lavoro, vissuti tra intese e malintesi, che hanno visto nascere progetti
coraggiosi e sogni condivisi, narrati dalla mostra fotografica Campus Rom e dal
documentario, presentato in anteprima assoluta, C'era una volta … Savorengo Ker,
la Casa di Tutti, regia di Fabrizio Boni e Giorgio de Finis, prodotto da In
Iride Sfoggio.
La mostra Campus Rom presenta le fotografie di: Simona Caleo, Giorgio de Finis,
Max Intrisano, Massimo Percossi, Maria Stefanek, Maria Teresa Bovino, Hector
Silva Peralta. Alessandro Imbriaco
Succedono strane cose a Milano, a volte anche piacevoli.
Piccola premessa, ieri mi telefona Ernesto Rossi, dicendo che oggi
(praticamente mentre sto scrivendo) partirà una sorta di
maratona letteraria dedicata a Cent'anni di solitudine. A dare il via, sarà
il sindaco, e questo procurava qualche prurito al buon Ernesto, che ricordava la
figura (totalmente positiva) del quasi immortale zingaro Melquíades.
Qui termino, non prima di consigliarvi una
breve citazione
che scrissi 5 anni fa di quel romanzo.
Anche ieri, nel caso del neonato rapito, si è parlato per ore di una
presunta e inesistente pista rom
Il pregiudizio razzista contro i rom ha già fatto molti danni, e
l'informazione non aiuta a combatterlo
Le cronache di ieri si sono occupate molto del rapimento di un neonato
all'ospedale "Umberto Primo" di Nocera Inferiore: una donna si era travestita da
infermiera e aveva portato via con una scusa Luca Cioffi, nato appena poche
ore prima. Il caso si è concluso bene, fortunatamente, intorno a mezzanotte: i
poliziotti hanno fatto irruzione in un appartamento poco distante dall'ospedale,
hanno ritrovato Luca Cioffi e hanno arrestato la donna responsabile del suo
rapimento. La donna si chiama Annarita Buonocore e fa effettivamente
l'infermiera, ma in altro ospedale di Nocera.
A caso chiuso, neonato al sicuro e colpevole non più in grado di nuocere,
forse è il caso di ragionare su un'altra cosa che è successa ieri, relativamente
al rapimento di Luca Cioffi. Per buona parte del pomeriggio, infatti, diversi
giornali hanno raccontato che la pista sulla quale stavano investigando i
poliziotti portava a una o due donne di etnia rom.
"Caccia a due donne rom su Fiat Verde", ha
scritto l'AGI. "Si cerca una Fiat Punto di colore verde con due donne rom a
bordo", ha
scritto il Tempo. Diversi altri siti di notizie hanno rilanciato la notizia,
e la "caccia a due donne rom" è stata a lungo il titolo degli articoli che
raccontavano la vicenda del rapimento. Oggi sappiamo che la responsabile del
rapimento è una donna bianca (di nazionalità italiana) e poco dopo il
ritrovamento del bambino il questore di Salerno ha detto che "avevamo una
traccia precisa e abbiamo seguito una sola pista". Insomma, secondo la polizia
la pista delle donne rom non è mai esistita. D'altra parte, la madre del bambino
rapito ha detto da subito che l'infermiera parlava italiano molto bene. Resta da
capire perché la "pista rom" sia arrivata sui mezzi di informazione e perché ci
sia rimasta così a lungo.
L'ANSA non ha battuto alcun comunicato scrivendo dell'esistenza di una pista
rom. Questa fa capolino invece in un dispaccio dell'Adnkronos delle 19,22, ma
per essere smentita dalla voce di uno degli investigatori: "Dalle testimonianze
raccolte, riteniamo che la donna che ha portato via il piccolo Luca fosse
italiana e non una rom". E in effetti l'ANSA interviene poco dopo, prima per
dare conto delle ricerche infruttuose dei poliziotti nei campi rom della zona
(ma la pista c'era o no, allora?) e poi per dare la smentita definitiva, poco
prima delle 21.
Qualcuno ha detto che si trattava di donne di etnia rom – controlli,
senza esito, sono stati fatti in campi rom – ma in serata un identikit
diffuso a tutte le forze dell'ordine e su tutto il territorio nazionale ha
fatto chiarezza: si tratta di una donna giovane, di carnagione scura,
capelli ondulati e lunghi, corporatura esile, altezza tra 1,70 e 1,75,
nazionalità italiana perché ha scambiato parole con la mamma e con la nonna
del bambino e ha dimostrato di conoscere bene la lingua.
Salvo poi battere un altro dispaccio intorno alle 22, poche ore prima che
Luca Cioffi venisse ritrovato, con questo testo:
(ANSA) – ROMA, 7 GIU – Un traffico di neonati tra la provincia di Napoli
e l'Agro Sarnese Nocerino venne scoperto due anni fa dai carabinieri della
compagnia di Nocera Inferiore, gli stessi che oggi sono impegnati nelle
ricerche del neonato rapito nell'ospedale della città. In quel caso, però, i
bambini oggetto del traffico non erano stati precedentemente sequestrati, ma
erano gli stessi genitori – dei nomadi rom – a metterli in vendita. I soldi
venivano divisi tra la mediatrice, una donna del posto, che venne arrestata,
e i genitori dei bambini, quattro romeni e due slavi. Nel corso
dell'operazione fu anche recuperata una neonata di 21 giorni che era stata
appena consegnata ad una coppia italiana. Le indagini erano partite da una
denuncia per truffa presentata da una coppia di coniugi del beneventano.
Avevano conosciuto alcuni mesi prima la mediatrice, che si era presentata
come una benefattrice e aveva proposto loro un metodo "alternativo" per
ottenere un figlio senza attendere le lungaggini della procedura per
l'adozione. Alla coppia di Benevento la donna aveva anche rilasciato una
ricevuta per 18 mila euro: "Per la consegna di due bambine", era
specificato.
Insomma, un caso piuttosto diverso da quello di ieri – quello era un
rapimento, questo era invece era un traffico di bambini venduti volontariamente
– ma secondo l'ANSA abbastanza simile da essere messo in relazione coi fatti in
corso.
Non si tratta affatto di un
fenomeno nuovo. C'è il caso di Ponticelli, a
seguito del quale una ragazza fu condannata per tentato sequestro. Un caso
oggetto di
un libro del giornalista del Corriere Marco Imarisio, che lo definì
"una montatura": i giornali
titolarono "rom tenta di rapire neonata", la ragazza
in questione venne quasi linciata, nei giorni successivi diversi campi rom
vennero dati alle fiamme, per
vendetta. Dopo qualche giorno – nel silenzio quasi
assoluto dei giornali, stavolta – in molti espressero
dubbi sul fatto che
si
trattasse davvero di un tentativo di rapimento. In ogni caso, venne fuori che la
ragazza non era nemmeno di etnia rom. Qualche anno prima ci fu
un altro caso
simile a Lecco, qualche tempo dopo accadde la stessa cosa a Catania:
arresti per
rapimento, grandi allarmi e titoloni sugli zingari che rapiscono i bambini, e
poi assoluzioni per mancanza di qualsiasi elemento a carico dell'accusa.
Viviamo in un paese in cui – a causa di una singolare e inquietante
commistione di psicosi collettive, razzismo e mitologia medievale – per ogni
bambino rapito si trova sempre qualcuno pronto a tirar fuori e avvalorare
presunte "piste rom". Un paese in cui una persona di etnia rom che si avvicina a
un bambino è già un "tentativo di rapimento": al quale seguono – nel migliore
dei casi – degli arresti; nel peggiore, dei linciaggi. Ma è molto peggio di
così. Viviamo in un paese in cui dello stesso pregiudizio ignorante sono vittime
a volte le stesse forze dell'ordine, o la magistratura: all'epoca del caso di
Ponticelli il sostituto procuratore Alessandro Piccirillo
disse in aula che "la
Romania è entrata a far parte nella comunità europea, pertanto deve integrarsi
con la nostra cultura. Il rapimento dei neonati non appartiene alla nostra
cultura". Ma è molto peggio di così. Viviamo in un paese in cui – salvo qualche
eccezione – l'informazione e il giornalismo non si lasciano scappare
un'occasione per mettere nello stesso titolo la parola "rapimento" e quella
"rom", anche quando i fatti suggerirebbero maggiore cautela, salvo poi scrivere
lunghi articoloni indignati per gli effetti criminali e perversi delle campagne
d'odio innescate con la loro complicità.
Mentre scriviamo alcuni giornali sono già saltati sul prossimo caso, stavolta
a Prato: l'AGI
scrive che "tre rom cercano di rapire un bambino". L'ANSA
descrive la dinamica dei fatti e racconta quindi quello che oggi, in Italia, è
considerato – dalle persone, dalla stampa, dai carabinieri – un "tentativo di
rapimento".
Secondo quanto ricostruito dai carabinieri, sulla base della
testimonianza di un vicino di casa della famiglia del piccolo, erano circa
le 16 quando un uomo, con i baffi, si sarebbe avvicinato al muretto del
terrazzino dove il bambino stava giocando da solo, mentre i genitori erano
dentro casa. L'estraneo avrebbe teso le braccia al bimbo che avrebbe reagito
immobilizzandosi. A notare tutta la scena il vicino di casa che, preoccupato
anche per aver visto due rom nel posteggio condominiale, ha raggiunto l'uomo
chiedendogli spiegazioni su cosa stava facendo. Lo sconosciuto, senza dire
nulla, si sarebbe allontanato a piedi insieme alle due donne.
sabato 12 giugno 2010 alle ore 22.00 Centro Sociale Sos Fornace
Via San Martino 20 Rho, Milano
Le melodie raminghe del maestro Jovica Jovic tornano a far ballare la Fornace.
Assieme a lui sul palco anche i Gypsy sound System da Ginevra, un progetto
musicale che da più di cinque anni seduce un pubblico universale, da New York a
Melbourne, con musica folk, popolare, tzigana, meticcia e multiculturale.
Tutti Giù Per Terra - 1997 - Walter lavora come obbiettore dell'ufficio
immigrazione col compito di "Regolare la scolarizzazione dei Bambini Nomadi".
Compito tutt'altro che facile. Anche per l'ignoranza delle maestre delle
elementari...
E' di ieri la
notizia
del tentato rapimento di un neonato dall'ospedale di Nocera Inferiore. Tentativo
per fortuna conclusasi col ritrovamento del bambino, e col solito giro di
controllo nei campi nomadi, col solito corollario dei media (immagine).
Perché si sa, anche se tutte le ricerche in tal senso hanno sempre smentito
questa voce, che gli zingari rapiscono i bambini, basta leggere i commenti alle
pagine dei giornali.
Oggi, un altro caso a
Prato, dove addirittura
un gruppetto di 3, forse 4 persone, riesce ad allontanarsi indisturbato.
Naturalmente per i testimoni erano dei Rom, anche se non si capisce in base a
cosa. Intanto i soliti controlli nei vari campi ed i primi riconoscimenti non
hanno portato a nessun risultato. Insomma, il tutto mi sembra un caso tipico di
isteria collettiva.
Nel frattempo. come scrivevo sopra, si è risolto positivamente il precedente
rapimento di Nocera Inferiore. La colpevole è stata colta in flagranza di reato,
non era rom e così si è aperta la gara a trovare tutte le ragioni e le
giustificazioni possibili che l'abbiano condotta a quel gesto. Un trattamento,
umano per carità, che mai verrà riservato a nessun rom.
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