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Di Fabrizio (del 02/12/2007 @ 09:30:58, in Europa, visitato 1980 volte)

Da Osservatorio sui Balcani

26.11.2007 scrive Rando Devole

Un fatto di cronaca che fa partire una dura campagna antirom(ena): indignazione popolare, articoli, trasmissioni televisive, analisi sociologiche e dichiarazioni dei politici. Paradigmi di paure, diversità, integrazione in questo commento scritto per Osservatorio dal sociologo Rando Devole

Alla fine di ottobre un crimine efferato ha scosso l’Italia. Una donna è stata seviziata e uccisa alla periferia di Roma. Il presunto omicida è stato catturato dalle forze dell’ordine. Era romeno, e rom, abitante nelle baracche adiacenti il luogo del delitto. I media hanno dato un enorme risalto alla notizia. È seguita l’indignazione popolare, accompagnata da testimonianze, dichiarazioni, denunce, accuse, articoli, commenti, servizi, sondaggi, trasmissioni televisive ed analisi sociologiche. La politica ha risposto con un acceso dibattito senza esclusione di colpi, per finire con un decreto urgente in materia di espulsione di cittadini comunitari. Il quadro non sarebbe completo se non si ricordassero alcuni atti di xenofobia a danno di cittadini romeni, ovviamente seguiti da condanne unanimi e appelli alla calma; tutto corredato da contatti febbrili bilaterali con la Romania e da battute a distanza con l’Unione Europea.

Per le persone attente si tratta di un episodio già visto. Un déjà vu collettivo. Il caso degli albanesi è ancora fresco, per non dire attuale. Qualche cittadino albanese commetteva un omicidio o altra violenza, seguivano indignazioni e rabbie diffuse, interpretazioni strumentalizzanti, giustificanti e/o asettiche, appelli accorati, dichiarazioni di circostanza, provvedimenti immediati. Non mancavano i via vai di delegazioni ufficiali, le accuse rincorrenti, le chiamate alle ronde, gli inviti al buonsenso; si scomodavano perfino i personaggi dello spettacolo. Per concludere si interpellava, come sempre, l’Europa. Quindi, niente di nuovo sotto il sole.

Per gli amanti dei retroscena e gli appassionati di dietrologie, si tratta di un episodio da manuale. Si aspetta il momento propizio per trovare un caso eclatante: tra tanti delitti c’è sempre uno che si distingue per emblematicità. Dopo averlo scelto, lo si butta nel ciclone mediatico; ciò gli darà forza, facendolo diventare il suo occhio ciclopico per parecchi giorni. Poi si gioca al rialzo con proposte di misure emergenziali, mettendo sulla bilancia la rabbia popolare. L’attenzione dell’opinione pubblica verrà monopolizzata, mentre altre cose finiranno nel dimenticatoio, oppure passeranno in secondo piano. La formula è suggestiva, ma piuttosto inverosimile.

Qualche volta i déjà vu sono pure e semplici illusioni, mentre le interpretazioni cospirative facili fantasie. C’è una certezza sola. Il pregiudizio regna sovrano. Per giunta, aiutato da ovvietà disarmanti, ai confini delle banalità, le quali, spacciate per controargomentazioni efficaci, non riescono a scalfirlo neanche in superficie: ad. es. “non sono tutti cattivi”, “non facciamo di tutta l’erba un fascio”, “sono utili all’economia”, “i rom non sono romeni”, “i romeni non sono tutti rom”, “i romeni sono comunitari”, e così via. I rom passano sotto la radiografia dei media, che enciclopedicamente forniscono dati tra tabelle e grafici colorati: quanti sono, dove sono, ceppi etnici, quali origini, quale delinquenza. Alcuni dati fanno paura, altri meno. Dipende da come li presentano.

I Balcani ed i paesi dell’Est c’entrano sempre; quando si parla di sicurezza e immigrazione non mancano mai dalle pagine dei giornali. Non si comprende se influisce la delinquenza comune dall’immancabile “accento slavo” (ceppo a cui i romeni casualmente non appartengono), la provenienza di molti rom, oppure il lato oscuro di quelle parti, dove regna l’ignoto, dalla cui oscurità emergono vampiri per tormentarci l’immaginario. Se molti riconoscono nei Balcani la polveriera d’Europa, oppure la regione più divisa del continente, pochi sanno che i Paesi balcanici sono legati tra di loro con tanti fili, tra cui spicca quello dei rom, che con l’arte della sopravvivenza, la libertà professata e, soprattutto, la loro musica folcloristica, hanno sempre fatto da sfondo alle storie della regione e alle sue memorabili narrazioni.

Seppur uguale ad altre nella sostanza, la recente campagna antirom(ena) ha presentato elementi nuovi. Innanzi tutto la confusione totale tra rom, romeni e rom romeni. Sarebbe offensivo per il lettore spiegare nuovamente le differenze evidenti. Tuttavia, le assonanze hanno influito poco sul caos cognitivo, unico complice è stata l’ignoranza. D’altronde senza l’humus dell’ignoranza, i pregiudizi stentano a rimanere in vita. Infatti, parte dell’opinione pubblica considera i romeni come extracomunitari, non come membri a pieno titolo dell’UE. Non è un bel segnale per l’Europa allargata, specialmente per gli altri paesi balcanici che sono in sala d’attesa da tempo. Dall’altro lato, per fortuna, la religione non era in discussione questa volta. Del resto la diversità viene ricostruita con i materiali a disposizione, che non sono mai scarsi.

Se le reazioni collettive sono generate da angosce ataviche, se le certezze traballano di fronte alla diversità, se le paure aumentano nell’incontro con l’Altro, se il pregiudizio coalizza e demonizza contemporaneamente, se la propria aggressività non è più riconosciuta, se la sindrome del nemico interno ci perseguita senza sosta, se la violenza viene proiettata sui diversi, se gli stranieri sono percepiti come una minaccia, allora c’è una sola cosa da capire: noi stessi. Perché l’immigrazione è uno specchio che riflette tutto: la paura e il coraggio, la sfiducia e l’ottimismo, i difetti e i pregi. E non possiamo colpevolizzare lo specchio se ciò che riflette non ci piace. Possiamo anche romperlo volendo, ma non abbiamo risolto nulla.

Non solo il delitto di Roma, ma anche quello di Perugia e di Garlasco, con le loro vittime femminili indicano che viviamo in una società culturalmente febbricitante, in prenda alla paura, dove la violenza trova la sua ragion d’essere, perché prevale il concetto della sopraffazione sui deboli. Poco importa il passaporto del carnefice. Invece, risulta importante la cultura della legalità, i doveri che vanno di pari passo con i diritti, la giustizia giusta, il rispetto della persona. In un quadro di regole chiare, dove vige la certezza della pena, ma anche quella del merito, è più facile misurarci sui valori fondamentali inalienabili e non sulle divisioni artificiose tra noi e loro. Che siamo tutti fragili e indifesi lo dimostrano perfino le divisioni acclamate dalle stesse vittime della discriminazione, che vogliono distanziarsi dai soliti rom, come se additare l’altro fosse un atto di purificazione.

Le baraccopoli costituiscono una grande metafora dell’emarginazione. Persone che vivono ai margini della società, nell’isolamento, nella diffidenza verso gli altri, senza integrarsi, nel degrado urbano. In una situazione di paura reciproca, non cambierebbe molto se al posto delle lamiere ci fossero le mura. Neanche un bagno con idromassaggio allontanerebbe lo spettro dell’esclusione sociale. Tante isole non necessariamente fanno un arcipelago.

Lo straniero assoluto non esiste, ha scritto Tahar Ben Jelloun, perché siamo sempre stranieri rispetto agli altri. La storia dei romani, romeni e rom, con la loro somiglianza fonetica, ci insegna proprio questo: siamo uguali nella nostra diversità. Ovviamente, le potenzialità non mancano neanche ai moderni, il cui Dna culturale è fatto principalmente di diversità, forse il loro vero punto di forza. Lo dimostra inoltre il vissuto di ogni giorno, con tanti begli esempi di integrazione, di rispetto reciproco, che, purtroppo, non fanno mai notizia. Certo è che stigmatizzare i diversi, criminalizzare intere comunità, generalizzare il male, significa proiettare verso gli altri il proprio lato oscuro, trasformare le vittime in carnefici e viceversa, ed infine, accumulare macerie valoriali nella nostra anima. Ma ad un certo punto, non ci serviranno né ruspe, né zingare chiromanti, per salvarci dal nostro futuro.

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Di Fabrizio (del 01/12/2007 @ 08:41:00, in blog, visitato 1769 volte)

Da Nazione Indiana

di Laura Nobili e Imma Tuccillo Castaldo

Pochi giorni fa, ai primi di novembre 2007, l’Alto Commissariato dell’Onu per i Diritti Umani ha richiamato l’Italia per il mancato rispetto delle norme internazionali in materia di diritti delle popolazioni rom. In particolare, sono state messe sotto accusa le azioni di sgombero forzato degli insediamenti ‘legali’, oltre che di quelli abusivi, a Roma e in alcune altre città italiane. In questi insediamenti vivevano comunità ‘storiche’ rom, insieme ad altre di più recente immigrazione. Si tratta di una vera e propria ‘ripulitura del territorio’ ai fini del decoro pubblico, come sembra sostenere il sindaco Walter Veltroni. La condanna dell’Onu segue quella dell’aprile 2006, sancita dal Comitato Europeo per i Diritti Sociali (CEDS): con questa l’Italia viene accusata di sistematica violazione del diritto delle popolazioni rom ad un alloggio adeguato, in riferimento all’art. 31 e art. E della Carta Sociale Europea Revisionata .
Il progetto di ‘restauro’ del centro e delle periferie romane depresse è stato inaugurato il 22 febbraio 2007. Le agenzie di stampa hanno battuto la notizia del lancio delle operazioni di sgombero, distruzione indiscriminata e ‘delocalizzazione’ dei cittadini rom. Questa è la conseguenza dell’azione pianificata dal Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica di Roma, l’organo collegiale di consulenza dell’ex Prefetto capitolino, Achille Serra.

Nel marzo 2007, per rafforzare le politiche di eugenetica urbana, il Ministero dell’Interno e l’Associazionie Nazionale dei Comuni Italiani hanno siglato il Patto per la Sicurezza, a cui sono seguiti, pochi mesi dopo, a maggio, i Patti per Roma sicura e per Milano sicura, imitati con poche varianti da altri capoluoghi di provincia.
Il Patto per Roma Sicura, che prevede notevoli contributi finanziari da parte di Regione, Provincia e Comune, oltre che l’indispensabile collaborazione della Prefettura, promuove «interventi risolutivi delle esigenze di contenimento delle popolazioni senza territorio, nonché inclusione sociale, attraverso, rispettivamente: la costruzione di quattro villaggi della solidarietà in aree attrezzate in grado di ospitare circa 1000 persone – ciascuno da realizzare su aree comunali o demaniali – disciplinati da specifici regolamenti di gestione; programmi di abbattimento di insediamenti abusivi, con successiva riqualificazione delle aree liberate».
Il primo risultato conseguito dal varo del Patto per Roma Sicura è stata la legittimazione della sistematica distruzione dei beni materiali, già esigui, di migliaia di persone, confermando la propensione del centro-sinistra veltroniano a spacciare per umanitarismo e solidarietà il mero tentativo di cavalcare la deriva populista dell’Italietta odierna, priva di nerbo e di idee politiche.
Si conferisca pure il beneficio del dubbio e si consideri come fine di questi sgomberi forzati la creazione di una città ‘vivibile e disinfettata’ e un migliore destino per gli sgomberati; ci si interroghi allora sul significato e sull’efficacia dell’integrazione ‘modello Roma’.

Ora, se Veltroni & Co. dovessero spuntarla, I villaggi della solidarietà potrebbe diventare un bellissimo titolo per un film di fantascienza a carattere sociale, e, senza troppi sforzi di immaginazione, Quentin Tarantino potrebbe metterlo in scena: da una parte, villaggi collassati di poveri umani da salvare e, dall’altra, un collegio di saggi che sputa direttive e impartisce ordini all’armata aliena degli operatori cosmici. Allora sì, il film sarebbe perfetto, candidato al festival del cinema perbenista di veltroniana invenzione: una sceneggiatura impeccabile in cui la Società dello Spettacolo e il Circo del Sociale si confermano i più efficaci strumenti di visibilità politica per associazioni, partiti e ominidi portaborse e portatessera. I villaggi della solidarietà non sarebbero nient’altro che dei megacontenitori per merce umana, ora sparpagliata su tutto il territorio romano: un concentrato di esseri umani rigettato su qualche chilometro quadrato. Ecco che ‘Roma città aperta’ si trasfigura in Rom città chiusa (è il titolo di un documentario prodotto nel 2001 da Manfredi, Marchetti e Pasquini) e l’emarginazione sociale si fa topica oltre il Raccordo Anulare, alla faccia della tanto agognata integrazione.

I media non utilizzano tutti i dati che hanno a loro disposizione: per esempio, sono in pochi a ricordare che dei circa 160.000 rom censiti in Italia, il 60% sono in realtà cittadini italiani. La maggior parte dei giovani di terza e quarta generazione sono nati e cresciuti in Italia; se si sono trasformati in cittadini stranieri o in cittadini invisibili, apolidi de facto, è soltanto a causa del bizzarro funzionamento di un preciso dispositivo di legge, quello cioè sulla cittadinanza (Legge n. 91/92). Prima di riuscire a garantire il diritto, questa legge crea infatti delle assurde quanto inestricabili trame burocratiche, in cui restano impigliate le vite di migliaia di persone.

Entrata in vigore nel 1992, con essa si stabiliscono le modalità di naturalizzazione per le persone nate in Italia da cittadini stranieri. Riassumiamo. Lo straniero nato in Italia acquisisce la cittadinanza italiana solo nel caso in cui ‘vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età’ e dichiari di volerla acquisire entro un anno a partire da questa data. Sembrerebbe, quindi, che ‘manifestare la propria volontà’ possa bastare al soggetto richiedente per poter ottenere la cittadinanza. Contrariamente a qualsiasi logica, però, il Decreto di Attuazione (DPR 572 del 1993) relativo a quella disposizione dispone che il soggetto, oltre a dover manifestare questa volontà, debba altresì dimostrare di aver risieduto legalmente sul territorio; ma il soggetto potrà dimostrare di risiedere legalmente sul territorio soltanto se i suoi genitori avranno a loro volta potuto mantenere la propria posizione regolare, vale a dire: permesso di soggiorno e residenza ininterrotta per l’intero periodo dei diciotto anni. Detto in altre parole: se i genitori di un bambino nato in Italia non avevano il permesso di soggiorno al momento della sua nascita, anche se il bambino viene iscritto nel registro dell’ufficio anagrafico, di fatto questa iscrizione non basta. Solo l’iscrizione del bambino nel permesso di soggiorno di uno dei genitori garantisce, infatti, la ‘legalità’ della residenza. Migliaia di quei bambini, oggi ormai adulti, pur avendo frequentato le scuole italiane e pur avendo vissuto tutta la loro esistenza in Italia, sono diventati ‘irregolari’ o apolidi al compimento del loro diciottesimo anno di età. È bastato semplicemente che i genitori al momento della loro nascita non avessero un permesso di soggiorno o che, pur avendolo, non avessero formalizzato l’iscrizione anagrafica con l’inserimento del bambino nel permesso di soggiorno, perché il ‘gap’ legale della residenza, di qualche mese o di un anno, fosse sufficiente al rigetto delle domande di cittadinanza.

Per anni è mancata una legge organica sull’immigrazione che regolasse lo status dei cittadini stranieri in Italia. Il progressivo inasprimento delle procedure di regolarizzazione, legate per lo più al possesso di un lavoro, ha molto rallentato il percorso di regolarizzazione per tutti i migranti stanziali di prima generazione (nati tra la seconda metà degli anni ’70 e la seconda metà degli ’80). Una situazione drammatica per chi avesse scelto di vivere in Italia, ma altrettanto drammatica per quasi tutti bambini che sono nati in Italia alla fine degli anni ’80, quindi prima del varo della legge sulla cittadinanza del 1992.

In uno Stato di diritto non dovrebbero vigere le buone intenzioni, soprattutto quando si devono sanare oltre venti anni di segregazione forzata (in tuguri) di quelli che, per comodità filosofica o politica, siamo soliti definire nomadi.
Se si leggono le delibere e i piani di intervento per l’istituzione dei campi approvati negli ultimi 6/7 anni dalle amministrazioni capitoline, si scopre che lo Stato di diritto è stato praticamente sospeso e trionfano, purtroppo, le buone intenzioni. L’enorme sforzo intellettuale di quelle amministrazioni ha partorito, nei confronti di queste popolazioni, un progetto residenziale fondato su tre livelli di ‘integrazione sociale’:
– i campi sosta, definiti aree di sosta temporanea;
– i villaggi attrezzati, cioè strutture fornite di moduli abitativi prefabbricati;
– gli inserimenti abitativi, vale a dire l’assegnazione di case popolari per tutti i cittadini rom italiani e per i cittadini rom stranieri legalmente soggiornanti sul territorio italiano.
Il primo livello prevede i servizi di base e un tempo massimo di permanenza di 12 mesi. Il secondo prevede l’inserimento nei villaggi attrezzati per una durata massima di 36 mesi, prorogabile, ma sempre in funzione della successiva assegnazione di case.
Infine, l’inserimento e la permanenza nei campi sosta, così come nei villaggi attrezzati, può avvenire soltanto sulla base della provata ‘buona condotta’ dei rom. I rom, essendo nomadi nell’immaginario collettivo dei loro detrattori e di molti untori dei diritti umani, dovrebbero comportarsi secondo norme che le amministrazioni municipali redigono sotto forma di ‘Patti sociali’. In queste strane scritture viene persino prescritta una sorta di codice di condotta della vita privata, a cui le persone dovrebbero attenersi per essere degne di integrazione: è come se il proprietario di casa ci facesse stipulare un contratto d’affitto solo a condizione che i bambini vengano mandati a letto presto, o che la presenza di qualsiasi ospite venga tempestivamente ‘denunciata’ al corpo di Polizia Municipale.

Di solito, nei Patti sociali sono anche accennati i doveri che l’amministrazione assume nei confronti dell’assegnatario di un posto in un campo sosta o di un prefabbricato nei villaggi attrezzati: si tratta di servizi minimi e del rispetto delle più elementari garanzie di sicurezza sociale: acqua potabile, sistemi antincendio, manutenzione straordinaria, ecc., come si addice a luoghi destinati alla pubblica convivenza. Il fatto è che le amministrazioni non assolvono quasi mai a tali espliciti doveri, oppure lo fanno in maniera soltanto parziale, cavalcando e sfruttando la serie dei soliti pregiudizi metropolitani (mascherati da discorsi d’opportunità politica) per giustificare le loro stesse inadempienze.

È importante sottolineare come tutti i progetti di sgombero seguano sempre le stesse modalità e rendano sempre conto degli stessi processi politici e sociali; in essi, ricorrono le stesse tipologie progettuali di allestimento, di gestione e di manutenzione dei campi ‘attrezzati’ per i rom. È tutto un copia e incolla di delibere, regolamenti, piani di intervento, ordinanze, ecc. A cambiare sono solo gli importi che vengono versati per gli appalti di messa in opera, rinnovati continuamente ed aumentati esponenzialmente a fronte di proroghe e autorizzazioni che altro non fanno che rendere di fatto ‘eccezionale’, e perciò ancor più precaria, ogni soluzione prospettata per la ‘sistemazione’ dei rom: una manna(ia) dall’alto.

Era il 2005 quando il campo di Vicolo Savini, dove da quasi trent’anni abitavano 770 persone, viene sgomberato per ‘emergenza sanitaria’. Trent’anni di emarginazione non possono che produrre emergenze sanitarie. Al km 24 della via Pontina, nei pressi di via di Trigoria, fu allestita dalla Protezione Civile una tendopoli: 200 tende, ognuna per gruppi di 4 o 5 persone, 100 gabinetti chimici, 3 serbatoi d’acqua, 2 tendoni per le cucine, e una trentina di docce. Il più grande campo d’Europa fu distrutto e Walter Veltroni, in compagnia dell’Assessore alle Politiche Sociali Raffaella Milano, illustrò alla stampa progetti e prospettive cui sarebbero state destinate quelle vite, sradicate da un terreno di proprietà dell’Università Roma Tre. Dopo due mesi di permanenza, la comunità avrebbe dovuto essere spostata in sistemazioni più confortevoli, composte da moduli abitativi prefabbricati, e presso aree che l’amministrazione comunale avrebbe individuato, garantendo altresì il rimpatrio facilitato nei paesi d’origine per alcuni o l’accesso ai fondi destinati all’emergenza abitativa per altri. Il megacampo di Castel Romano, prototipo dei famosi villaggi della solidarietà, nasce così da un un lancio di dadi sulla Pontina, nell’area di Decima Malafede.

Decima Malafede è una Riserva Naturale, sottoposta a vincolo ambientale; una serie di norme regionali ne garantiscono – o dovrebbero garantirne – l’inviolabilità del territorio, del suolo, delle specie animali e vegetali e delle falde acquifere. Un Ente Autonomo della Regione Lazio (Roma Natura) ha il compito di renderle esecutive. I rom del campo non hanno acqua potabile, ma l’amministrazione comunale, oltre ad aver davvero fornito ai rom dei moduli abitativi prefabbricati installandoli in un’area sottoposta a vincolo ambientale, ha provveduto immediatamente al riequilibrio del disagio idrico: le autobotti riforniscono le persone di acqua nera e maleodorante, che deve bastare a tutti per lavarsi, pulire, cucinare – e per bere. (*1)

Il divieto di utilizzare le acque della riserva naturale (DL n.152 del maggio 1999) ha come conseguenza almeno due altre fondamentali omissioni di gestione che rendono inaccettabile la qualità della vita nel campo: l’impossibilità di allestire un sistema fognario e l’impossibilità di rendere funzionante un impianto antincendio. Le ditte appaltate per la messa in opera del campo hanno provveduto alla fornitura delle attrezzature antincendio; il dubbio potrebbe sorgere qualora si scoprisse che non vi sono schede tecniche di collaudo delle stesse. E il dubbio si rigenererebe da sé se volessimo chiedere di verificare le schede di manutenzione ordinaria che ogni sei mesi vanno compilate dalla ditta che se ne occupa. Per capirci: ci sono le manichette per gli idranti, ma non possono essere collegate alla rete idrica.

E i bambini, tanto cari alle amministrazioni comunali? Per i bambini sono previsti progetti di scolarizzazione e innumerevoli altri progetti e progettini, gestiti da varie associazioni sinistroidi o pseudoumanitarie che inghiottiscono, disperdono e volatilizzano il denaro pubblico senza mai arrivare alla realizzazione degli impegni assunti. Per esempio, i progetti di scolarizzazione prevedono pulmini per portare a scuola i bambini. Ma a scuola i bambini ci andrebbero molto più volentieri se, anziché fare un tragitto di circa un’ora e mezza per raggiungere la scuola assegnata da un Protocollo di Intesa ormai vecchio e non più adeguato alla realtà dei fatti, potessero accedere alla molto più vicina scuola di Pomezia. (*2) Dove sta allora l’origine di quel grave fenomeno che sociologicamente viene chiamato ‘dispersione scolastica’?

Per il campo attrezzato di via dei Gordiani, il Patto sociale firmato nel 2002 dall’ex presidente del VI municipio, il dott. Vincenzo Puro, e dai capofamiglia assegnatari dei moduli abitativi prefabbricati, ribadiva il carattere transitorio della sistemazione in containers per le persone che da quasi 35 anni vivono in Italia. Le tragedie che hanno investito le famiglie residenti in quel campo sono innumerevoli. L’ultima si consuma il 30 ottobre 2007. Appena il giorno prima, agenti della polizia municipale avevano consegnato a cinque capofamiglia, assegnatari di altrettanti containers, un invito ad allontanarsi dal campo. Poche ore dopo, alle 7.30 del mattino, una ruspa agli ordini di Antonio Di Maggio, Comandante del Gruppo Sicurezza Urbana della Polizia Municipale, ha fatto molto più che rendere esecutivo l’invito di allontanamento. Accusati di varie malvivenze, tra le quali il possesso di stupefacenti ai fini di spaccio, uomini, donne e bambini sono stati cacciati dal campo, e i loro averi distrutti. Eppure, in uno Stato di diritto esiste ancora un codice penale e uno civile; il dubbio si insinua: chi ha violato le leggi italiane e chi quelle internazionali? Ad una giovane donna, per esempio, nemmeno è stato notificato l’invito ad allontanarsi dal campo: era in ospedale, affetta da broncopolmonite. Dimessa qualche giorno dopo, si è trovata improvvisamente per strada; lo stesso è successo alla madre, malata di cancro. Suo nipote, cittadino italiano, seguiva un corso di inserimento professionale dopo il diploma di terza media: è costretto ora a ricominciare daccapo e a ricomprarsi i libri, andati tutti distrutti assieme al resto, sotto i colpi di mandibole d’acciaio obbedienti agli ordini impartiti.

Qualche ora dopo, in un altro tugurio della capitale italiana, si consumava l’omicidio Reggiani: la violenza è aberrante, non ha connotazioni etniche. La morte di qualcuno, la sua sofferenza, l’immaginarne il dolore non possono che indurre pudore e rispetto. Le riflessioni sono sempre successive, il pensiero si organizza sì, ma questo avviene sempre un attimo dopo. Invece la razionalità utilitaristica degli uomini che ricoprono alte cariche istituzionali ha dato prova del suo cinico opportunismo: un decreto ad hoc che scuote anche quella minima, irrisoria percezione dell’uguaglianza formale di tutti i cittadini europei davanti alla legge europea. La Sottosegretaria al Ministro dell’Interno, Marcella Lucidi, nella puntata de L’Infedele del 7 novembre, spiega che il Ministero dell’Interno è contro ogni forma di discriminazione e che pertanto è giusto non criminalizzare l’intera comunità romena per l’omicidio Reggiani. Le sue parole, caute ed educate scatenano un altro dubbio: è possibile che sia ignara dell’operazione di polizia e pulizia etnica condotta con perizia e disciplina a Roma, nei campi rom? Il consenso costruito sulle e contro le miserie che la nostra società genera è pericoloso. Chissà se Walter Veltroni e gli uomini del suo gabinetto ricordano di aver studiato la storia italiana, soprattutto quella che va dalla fine della prima guerra mondiale ai giorni nostri. Ma certo, che stupidaggine è mai questa, Veltroni ogni anno va in pellegrinaggio ad Auschwitz. Solo, a questo punto, non è ben chiaro che cosa ci vada a fare.

Note
1. Il manifesto - Riccardo Iori, 4/11/ 2007.
2. Il Messaggero – Claudio Marincola, 7/11/2007.

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