Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Premessa:
qualche giorno fa, ricevo una prima mail da Marco Nieli, vicepresidente dell'Opera Nomadi di Napoli. Volentieri la pubblico, e da allora quasi quotidianamente mi ritrovo nella casella di posta una sua mail che mi aggiorna su cosa sta succedendo. Questo, per "rassicurare" i lettori: non è che Mahalla sia diventato un bollettino napoletano, ma questo blog è sempre vissuto grazie soprattutto alle informazioni che raccolgo e che mi mandate.
Esiste poi una questione più strettamente legata ai rapporti tra informazione e potere politico, che chi si occupa di Rom conosce bene: gli sgomberi sono notizie "appetibili" perché "SBATTONO IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA", ma nessuno si interroga sulle conseguenze a breve lungo termine. Ecco allora che l'attenzione che i media hanno dedicato alle vicende di Cusago e di Bologna, si è presto spostata al GOSSIP (se fosse giusto che un sindaco di sinistra rincorresse la politica delle destre, se le case abbattute a Cusago erano rifugi di fortuna o ville hollywodiane). I Rom, come parte in causa, sono immediatamente spariti dalle cronache. Ecco perché nessun giornale nazionale si interroga o semplicemente ha voglia di testimoniare sui tanti casi simili che continuano ad avvenire in giro per l'Italia. Casi piccoli, famiglie e gruppi di massimo una decina di persone, che avvengono ovunque nel massimo silenzio.
Casi, molto più rilevanti, come quelli di Napoli e Casoria, che hanno la sola "sfortuna" di avvenire quando la notizia è già stata data in pasto al pubblico e quindi passano in secondo piano. Eppure, si tratta di 3/400 persone che hanno perso il tetto, quando già di loro avevano poco o nulla, e da qualche parte, in qualche altro inferno, dovranno pur capitare.
In parole povere, quello che manca nell'informazione, è il confronto tra la soluzione politica del problema alloggio e lo sbando generato dalle amministrazioni locali. Ieri, avevo segnalato a un blogger, un articolo di Liberation che ancora non ho fatto in tempo a tradurre, lui a sua volta mi ha risposto segnalando cosa diventa la Francia quando in un paese democratico si interrompe il dialogo.
C'è infine (mi scuso se la premessa si sta prolungando oltre il dovuto) un motivo ancora più importante che mi spinge a ripubblicare i comunicati che arrivano da Napoli e Casoria: chi avrà la pazienza di leggerli noterà che pure nella miseria che (a torto o ragione) i lettori di solito associano al sud, i Rom e le associazioni non solo richiedono di parlare con le istituzioni, ma vogliono DIALOGARE con la città. E... il fatto che i più poveri tra i poveri, mostrino di voler applicare i principi della democrazia, tanto basta ad escluderli dalle cronache nazionali.
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Comunicato post sgombero
Napoli, 3 novembre 2005
Mercoledi’ notte la polizia ha sgomberato con la forza un campo rom in via Lufrano a Casoria non dando neanche il tempo alla povera gente che vi abitava di fare i bagagli per portar via il più possibile. Si trattava di 430 persone mandate allo sbaraglio fra cui donne incinte e molti bambini: ora vagano nelle periferie della nostra città implorando un aiuto.
La maggiore responsabilità di questo inumano, barbaro e crudele sradicamento poliziesco ricade quasi per intero sull’ex-sindaco di Casoria Giosuè De Rosa che per oltre 2 anni non ha mosso un dito per trovare una sistemazione alternativa, o quanto meno per fornire acqua e far rimuovere i rifiuti solidi. Non ha fatto nulla, sapeva solo mostrarsi ipocritamente inorridito per quella situazione di degrado, ma ciò che a lui interessava era cacciar via gli zingari da Casoria a qualunque costo, e nient’altro.
Una grave responsabilità ricade anche sulla regione (retta da un governo di centro-sinistra) e sulla Provincia (anch’essa governata dal centro-sinistra). Il governatore Bassolino si è rifiutato di ricevere una nostra delegazione che fin dal mese di giugno chiese un incontro proprio per risolvere la questione di via Lufrano.
L’esistenza di questo campo Rom degradato e in condizioni igieniche spaventose non aveva nulla a che vedere con il cosiddetto ordine pubblico, si trattava di un problema di carattere squisitamente sociale. Noi che abbiamo assistito stamattina all’alba alla demolizione di questa orrenda “favela” lasciata marcire per circa tre anni (mentre un elicottero inutilmente volteggiava sopra di noi e squadroni di polizia e carabinieri tenevano lontani i curiosi, e le ruspe sradicavano le capanne) abbiamo toccato con mano il vergognoso fallimento dei politici di centro sinistra, del tutto inetti e del tutto incapaci di trovare una soluzione alternativa all’azione militare. Istituzioni quali Regione, Provincia e Comune (di Casoria) hanno vergognosamente lasciato fare alla polizia tradendo, in questa occasione il mandato loro affidato all’elettorato di sinistra: amministrare civilmente, con giustizia e soprattutto con democrazia.
Amedeo Curatoli, Marco Nieli OPERA NOMADI NAPOLI
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La situazione nel napoletano
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Casoria é appena fuori Napoli, sulla circumvallazione esterna, dove si trova anche il campo Nuovo di Secondigliano. Poi ci sono le baraccopoli di Scampia (circa 1000 slavi), diverse baraccopoli di Rumeni e un centro di accoglienza comunale, la scuola G. Deledda a Soccavo (sempre per i Rumeni). In provincia abbiamo un piccolo villaggio attrezzato a Caivano per 20 famiglie di crna gorja musulmani del MOntenegro e aspettiamo il campo a Giugliano. Questa di Casoria era la più grande baraccopoli di Rumeni, circa 400-500, ma piccoli insediamenti sorgono dappertutto in provincia (Ercolano, Pomigliano, Afragola, Casalnuovo).
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PROPOSTA DI COSTITUZIONE DI UN COMITATO CITTADINO SULLA QUESTIONE ROM A NAPOLI
Cari compagni e amici, nell'informarvi che la prima battaglia contro il muretto previsto al campo musulmani di viale della Resistenza di Scampia (per isolare i rom dalla scuola "rosa", il 10° circolo didattico, per questo muro il comune prevedeva di spendere 55.000 euro!!!) è stata dall'assessore Tecce e dall’Opera Nomadi vinta con la sospensione della delibera, cui seguirà la rinegoziazione dell'intervento con accoglimento di alcune richieste minime di vivibilità per i Rom stessi (ormai cittadini napoletani non riconosciuti da circa 15 anni), vorrei rilanciarvi l'idea del comitato cittadino sulla questione Rom, che si potrebbe chiamare COMITATO VIA LUFRANO.
Prendendo spunta dalla drammatica situazione dei rom di Casoria, via Lufrano (circa 400 Rom rumeni sgomberati in maniera barbara a causa dei lavori della TAV e delle infiltrazioni tossiche del sottosuolo; tra l'altro il sindaco gli ha negato anche l'acqua e l’accompagnamento scolastico, con i bambini che muoiono sotto treni e auto), il Comitato dovrebbe essere lo spunto per una mobilitazione della società civile allo scopo di fare pressione sulle istituzioni per avviare politiche di accoglienza sul territorio napoletano di questa minoranza europea senza diritti perché ancora a torto ritenuta nomade, nonché per contrastare le uniche misure in atto, vale a dire quelle repressive (sgomberi di baraccopoli, rastrellamenti di minori, espulsioni, discriminazioni).
Come proposta di piattaforma da discutere collettivamente nella plenaria del comitato, mi sento di avanzare i seguenti punti:
- no a tutte le ipotesi di sgombero coatto delle baraccopoli (esperienze traumatiche e drammatiche per questa gente pacifica e già discriminata in partenza nelle loro patrie di origine; l’esempio di via Lufrano ha costituito la versione napoletana, tragicomica, del cofferatismo, visto che la polizia ha avvisato i Rom di fuggire e questi si sono sparpagliati in giro sul territorio di Napoli e provincia con le donne incinte e i neonati a dormire in mezzo alla strada); al contrario, chiusura delle bidonvilles solo dopo aver preventivato una soluzione di accoglienza anche temporanea (centri di accoglienza, aree attrezzate con roulottes), in attesa di soluzioni di più lungo termine (nell’immediato, gli obiettivi politici da realizzare sono: 1) la pressione su Provincia e Regione per attivare un percorso di accoglienza per i 400 Rom di via Lufrano che sono ancora presenti in mezzo a noi, ma in forma invisibile, dispersi sul territorio e dunque più vulnerabili ancora; 2) l’accelerazione dell’erogazione dei fondi per l’erogazione dei fondi necessari alla ristrutturazione degli appartamenti di Calarasi da destinare ai Rom, secondo il protocollo firmato dai rispettivi comuni e di quelli destinati a Giugliano; 3) la ripresa della mobilitazione dei Rom musulmani e ortodossi di Scampia per ottenere aree o villaggi attrezzati) - differenziazione dei percorsi di inserimento e accoglienza, abitativa e lavorativa (per i Rom rumeni si è sperimentato positivamente a Napoli il centro di prima accoglienza, per poi passare alla seconda accoglienza o anche alla casa; per gli slavi, piccoli villaggi attrezzati e integrati e/o case) - stop al rastrellamento razzista dei minori ai semafori, provvedimenti miopi e controproducenti, che su larga scala si configurano come vero e proprio genocidio culturale di un popolo; loro sostituzione con serie politiche di accoglienza, interventi sulle famiglie, sulla scuola, sul lavoro; - pressione a tutti i livelli, locale, nazionale e internazionale affinché si concordino politiche di accoglienza nei paesi di origine, invece di deportazioni ed espulsioni di massa o individuali (il governo rumeno, che disconosce l'esistenza di una questione rom al proprio interno, non rimuove gli ostacoli a una piena integrazione di questa consistente minoranza nella società rumena, salvo poi sequestrare i passaporti ai Rom clandestini che rientrano, o rendere più difficili le partenze; con tutto ciò, l'Europa è pronta a fare entrare questo paese nella Comunità nel 2007); - resistenza e rifiuto del razzismo e della discriminazione razziale a tutti i livelli: i Rom saranno pure degradati per l'abbandono e le persecuzioni a cui sono sottoposti da secoli, a volte sono dediti ad attività illegali, ma sono l'unico popolo pacifico per inclinazione, senza stato e senza eserciti da sempre e per questo più vulnerabili e indifesi. Sono le persone "per bene", in giacca e cravatta, che lavorano per le impersonali multinazionali in giro per l'Occidente a provocare massacri, terrorismo di stato e non, catastrofi ambientali, fame, miseria e analfabetismo per miliardi di persone sul pianeta...certo non i Rom…A proposito della lotta alla discriminazione e al razzismo, la nostra associazione ha intrapreso una battaglia a livello nazionale per il riconoscimento della lingua Romanés come lingua di minoranza da proteggere (cosa non prevista dalla legge specifica 482 del 1999) e l’inserimento della menzione degli “zingari” nella legge sul 27 Gennaio data della memoria dell’olocausto (legge 211/2000); - rilancio del progetto di legge regionale specifica per i Rom (già approntata dall’Opera Nomadi, ma arenatasi in Consiglio regionale) o di una legge sull’Immigrazione che includa alcuni paragrafi su questa minoranza sempre più numerosa in Campania: la mancanza di questo importante strumento legislativo che potrebbe incentivare l’accoglimento di quote di Rom da parte dei vari comuni si fa sentire specialmente nelle situazioni di emergenza come quella vissuta recentemente a via Lucrano).
Mi piacerebbe discutere questi e altri punti con voi in un incontro specifico sul tema, in vista di una campagna da mettere in piedi e di altre iniziative che si possono concordare insieme.
Dice un proverbio rom: se vuoi rispetto, dai rispetto!!! Cominciamo a dare rispetto a queste persone, con le loro storie, spesso drammatiche, ma ricche di umanità, per le quali si potrebbe fare moltissimo con poco, se solo se ne avesse la volontà politica!!!
Per adesioni e altre proposte, scrivetemi o contattatemi ai miei recapiti: prof. Marco Nieli, vicepresidente Opera Nomadi di Napoli, tel./fax: 081447497 o 3382064347
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CRONACA DI UN QUASI-SGOMBERO ANNUNCIATO
Da Mercoledì sera, quando alcuni poliziotti sono andati sul campo rom di via Lufrano (Casoria) per ingiungere ai circa 400 abitanti di abbandonarlo immediatamente, pena la deportazione di massa verso la Romania (paese in cui i Rom muoiono di fame e sono discriminati razzialmente), numerose famiglie con donne incinte, neonati e vecchi malati si aggirano per la città di Napoli, le campagne circostanti, tutta la Campania e il Meridione. Parecchi non hanno nemmeno avuto il tempo di prendere i soldi e gli effetti personali, che sono poi stati distrutti insieme alle baracche con le ruspe il giorno dopo.
Alcune di queste famiglie, impaurite e stremate, dopo una prima nottata passata a Officina 99, si raccolgono sotto la stazione di Napoli da qualche notte, hanno tentato di entrare in qualche stabile occupato di Granturco, ma sono stati ricacciate in strada dai Marocchini lì presenti. Oggi pomeriggio (5 c.m.), ci è giunta notizia che in circa 50 si sono diretti a Scampia nel campo rom degli Slavi, pensando di poter trovare un rifugio e un nascondiglio in mezzo ai loro connazionali, ormai napoletani d’adozione. In realtà, questi tranquilli e ingenui Rom rumeni non sanno di andare a intaccare dei precarissimi equilibri presenti sul territorio, tra le diverse comunità (musulmana e ortodossa), oltre che con gli abitanti del quartiere e la Circoscrizione. Alcuni di loro sono già stati minacciati di morte e picchiati dagli Slavi, alcuni hanno trovato momentanea accoglienza in due chiese, una evangelica nel campo e l’altra cattolica, quella dei Gesuiti di Scampia. Nei prossimi giorni, ci aspettiamo che questi conflitti riesplodano, magari con conseguenze drammatiche.
Nell’esigere dalla Provincia, dalla Regione e, a questo punto, anche dal Comune di Napoli, che si trovi una sistemazione immediata per queste circa 50 persone rimaste e per le 350 allontanatesi momentaneamente (ma ancora in contatto con l’Opera Nomadi), ribadiamo ancora una volta che questa barbarie, indegna di un paese civile e di amministrazioni di centro-sinistra, poteva essere evitata con un po’ (non molta) di volontà politica, buon senso e un minimo di conoscenza dell’argomento. In realtà, questo sgombero anomalo, quasi versione napoletana, all’acqua di rosa, del cofferatismo, comporta conseguenze ancora più drammatiche per la comunità rom, sospesa nel limbo tra un’invisibilità precaria sul nostro territorio e un rimpatrio mancato in Romania, che li condannerebbe letteralmente a morire di fame. Ma il Prefetto, il Sindaco e il Commissario Prefettizio di Casoria, il Questore di Napoli hanno pensato solo per un momento alle conseguenze del loro modo di agire, che potrebbe scatenare l’ennesima guerra dei poveri a Scampia, si sono resi conto delle donne incinte, dei neonati e dei vecchi che hanno messo in strada o fingono di non vedere quello che è sotto i propri occhi? E queste autorità dovrebbero tutelare l’ordine pubblico nella nostra città? Almeno, quando si decide di espellere in massa dei clandestini (provvedimenti che non ci stancheremo di condannare), la legge Bossi-Fini prevede che si debbano accogliere le donne gravide e i neonati: ma questo forse costa troppo o è troppo complicato per i nostri amministratori?
L’odissea di questi ultimi tra gli ultimi continua intanto, in mezzo a noi, nell’indifferenza generale e soprattutto nella finzione ipocrita, da parte delle istituzioni, che il problema di via Lufrano sia finalmente risolto. Ma noi, che abbiamo sempre combattuto per i diritti di cittadinanza europea di questo popolo da sempre senza diritti e per una seria politica di accoglienza, concertata a livello internazionale, diciamo che non ci sta bene. Nel lanciare l’idea di un’assemblea cittadina a breve e di un comitato civico pro-rom, ci proponiamo di riprendere la mobilitazione politica, con un presidio sotto la Prefettura e la Provincia da costruire insieme alle forze politiche, sociali, sindacali e all’associazionismo, per ottenere il tavolo interistituzionale che ci hanno negato prima dello pseudo-sgombero.
- L’appuntamento, intanto, è Lunedì sera (ore 19) al Teatro Mercadante di Napoli, per la presentazione del film di C. Luglio sui Rom di Scampia, sede in cui potremmo valutare la piattaforma politica da portare avanti insieme per rilanciare la politica accoglienza dei Rom rumeni e slavi sul territorio napoletano.
OPERA NOMADI NAPOLI - RIFONDAZIONE COMUNISTA DI CASORIA
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Novità sul caso di Lety (il campo di concentramento nazista che ora è un salumificio)
Praga, 4. 11. 2005, 07:59, (CTK) - Il governo ha messo a bilancio l'acquisto del famigerato allevamento, posto dove era situato un ex campo di concentramento per Rom, nella città di Lety, Boemia meridionale. Il Primo Ministro Jiri Paroubek lo ha afferma al giornale "Lidove noviny". Da anni le organizzazioni rom chiedevano la rimozione o rilocazione dell'edificio.
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L'uomo scese dall'auto sbattendo lo sportello, con un'aria assonnata e stressata, sbadigliando visibilmente. Non gli andava quello che stava per fare. Non oggi. No, decisamente, non era il momento giusto.
Un odore acre di immondizia bruciata lo assalì, come sempre, all'ingresso del campo. Credeva di averci fatto l'abitudine, dopo tutto ci si abitua a tutto. Ma era poi davvero così? Il ronzio dei cavi dell'alta tensione era un sottile seghetto d'angoscia per il metallo dei suoi nervi compressi, tesi al limite dello spasmo. Come al solito, alcuni bambini si accalcarono intorno all'auto, chiedendo con tono piagnucoloso da attori sperimentati, alcuni:
- Dove andiamo?
Altri:
- So keres?
Davanti al centro sociale, un gruppo di ragazzi e ragazze sedevano tranquilli a parlottare, come se nulla fosse successo in quel nuvoloso giorno di Novembre. Una donna stendeva i panni, un vecchio al tavolo con un certo numero di bottiglie vuote davanti annuiva col capo.
Fuori, lungo l'asse della circumvallazione, il traffico scorreva indifferente ai drammi della vita e della morte, gli stessi di sempre. Eppure l'indifferenza con la quale quella gente recitava i suoi drammi era di segno opposto a quella dei motori sperduti nella no man's land di Secondigliano.
- Ehi, bello, mi offri una sigaretta?
La ragazza sorrideva con uno sguardo da donna decrepita, il dente d'oro bene in vista e gli occhi struccati malamente, come se avesse cent'anni.
Un senso di sgradevole complicità pervase l'uomo, che tirò fuori dalla tasca dell'impermeabile una Marlboro e gliel'accese, svogliato. Percepiva quella ragazza invecchiata precocemente come un pugno nello stomaco. Commiserazione, sensi di colpa, un doloroso senso di solidarietà: al limite, un pizzico di compiaciuta morbosità. C'entrava un po’ di tutto nelle emozioni che lei gli suscitava. La cosa lo disturbava visibilmente. Era nervoso e impacciato, si vedeva lontano un miglio.
Un argomento su cui riflettere. Ma non oggi. Oggi no.
Il ronzio dei cavi continuava, metallico insetto d'angoscia, prolungandosi nel pulsare di un suo capillare nella tempia sinistra. Monotono, aritmico sottofondo della materia inerte alle vicende, ripetute sempre identiche, del trascinare una vita già condannata in partenza. L'opposto del vivere.
L'ubriaco fece di sì col capo, mormorò qualche incomprensibile parola in una lingua incomprensibile e tornò a sprofondare nella abituale catalessi. Tutto sommato, non così ubriaco.
"Ubriaco normale", avrebbe detto il padre di Darko. I vecchi in quelle condizioni a volte vedevano gli spiriti dei morti, i muldré, spaventevoli esseri sanguinari, coi quali si cimentavano in violente guerriglie verbali. A volte avevano anche il coraggio di minacciarli con un bastone. A ogni modo, parlandogli a tu per tu, cosa che non avrebbero mai fatto da sobri.
Forse, in questo momento, il vecchio era l'unico a vedere lo spirito del piccolo Dolar, passato come una meteora ancora giovane, schiantatasi inosservata su questa terra.
L'uomo era venuto per il suo funerale. Ammesso che non fosse già troppo tardi e che il corpo non fosse già via, sulla lunga strada verso la Jugoslavia. Una terra che non aveva mai conosciuto. La sua terra. Sua, in che senso? Almeno, non avevano fatto in tempo ad espellerlo, con la sua famiglia, verso il paese in cui non era nato. Comunque, gli avevano detto tra mezzogiorno e l'una. Si erano fatte quasi le due, non era riuscito a scappare prima. A che pro, in fondo, affrettarsi se tutto era così maledettamente lento in quell'angolo dimenticato di mondo?
-Dov'è? chiese al ragazzo khorakanò, Milan, il primo che riconobbe nel gruppo, a parte la ragazzina dalla sguardo stravissuto.
- Vieni con me, haide.
L'uomo lo seguì fino al numero 38, dove vide una grande folla di persone in piedi, evidentemente in attesa di qualcosa. Sulle tavolate imbandite sotto la veranda, c'erano pronte diverse pietanze, tra cui l'uomo distinse alcune dolma, pita e birra a profusione, oltre a vari tipi di dolci. Una sorta di pranzo di consuolo, usanza antica che era in vigore anche dalle parti di cui era originario lui. Milan si voltò, bofonchiando qualcosa tra i denti, che l'uomo decifrò come:
- Ci vediamo dopo
Lui, di famiglia khorakanì, gruppo in netta minoranza nel campo, non si avvicinava a una cerimonia di quegli "altri", gli ortodossi, che erano solo buoni a ubriacarsi e a fare scoppiare casini. In più, c'erano già stati diversi litigi violenti all'interno del campo tra i due gruppi e questo non aveva certo contribuito a rasserenare gli animi. Neanche la morte riusciva a riunire ciò che gli uomini, chavoré rissosi e presuntuosi, si ostinavano a tenere separato.
L'uomo chiese permesso tra la folla e si avvicinò al gruppo, dove gli sembrava di aver riconosciuto qualcuno. Era Boban Djordjevic, una persona distinta e a modo, vestito con una sahariana azzurra che metteva in risalto il colore violaceo della sua pelle. Dall'alto dei suoi circa due metri, Boban ispirava un senso di intelligenza furba e pacioccona, forse anche a causa dei suoi lunghi baffoni spioventi.
- Brutta storia - disse l'uomo - era tuo parente?
- Quasi parente, sai, io compare di suo zio Dusko.
- Si sa qualcosa di come è successo?
- No, bronchite forse. Ci ganav. Sua famiglia non vuole dicere.
Sulla morte del bambino, l'uomo aveva sentito per lo meno tre versioni differenti: bronchite con complicazioni cardiache, malformazione genetica al cuore, influenza non curata o curata male. La morte, indeterminata come la vita, aveva in mezzo a quella comunità tutti i volti immaginabili e nessuno in particolare. Che importava la diagnosi della malattia, se tanto comunque il bambino, per ignoranza dei genitori o mancanza di mezzi, non sarebbe stato curato come doveva?
E poi, il piccolo, malato lo era stato sempre, per quanto poteva ricordare. Epilessia e rachitismo, malattie croniche e senza cura: Dolar - nelle parole stesse del dottore - era nato sotto una cattiva stella. Almeno, così, si era risparmiato la morte più atroce, la lectospirosi, provocata dai morsi delle zoccole.
A scuola, i ragazzini più grandi l'avevano preso di mira e qualcuno l'aveva anche picchiato. Questo l'aveva allontanato dai banchi scolastici e da allora si aggirava per il campo con quella sua andatura traballante e malferma, come se il suo corpicino gracile non sostenesse gli sforzi eroici di quella vita insensata che gli si agitava dentro.
- Kaj jas? Dove andiamo? l'uomo lo sentiva sempre ripetere, come un motivetto stonato che esce da un giocattolo sul punto di rompersi definitivamente.
E adesso non c'era più. Finalmente andato, partito per l'ultimo viaggio, a conoscere quella sua terra d'origine soltanto immaginata, di cui aveva tanto sentito parlare. Adesso, quella morte assurda, più assurda del solito, ci aveva pensato lei a espellerlo, una volta per tutte.
Dall'interno del prefabbricato, proveniva un pianto soffocato. A un tratto una donna con gli occhi arrossati uscì, i capelli grigi scarmigliati, appoggiata alla comare, lo sguardo perso nel vuoto. Fuori, gli uomini e i ragazzotti tirati a lucido parlavano sommessamente. Il funerale era l'occasione mondana per rincontrare gente di famiglia e sapere le ultime novità. La roba sul tavolo non aveva un aspetto molto florido, pensò l'uomo. Qualche mosca apatica degustava con anticipo le delizie culinarie preparate per consolare gli ospiti e ringraziarli della visita.
Un sole stanco e malato filtrava mollemente attraverso il tendone, rendendo la scena ancora più spettrale.
Si aspettava il Pope. L'ampio stanzone all'interno era illuminato fiocamente da qualche candela ed era gremito di gente. L'uomo si intrufolò tra i presenti, riconoscendo e salutando vari tipi che si accalcavano sulla porta e nella parte prospiciente la bara. L'assenza di luce e l'odore fortissimo dei fiori gli provocarono una lieve sensazione di capogiro. Si guardò attorno, senza riuscire ancora a localizzare se non la forma esteriore del feretro. Il monolocale era stato allestito senza badare a spese per la veglia funebre, che era durata tutta la notte, e per la cerimonia del mattino seguente.
Facce di uomini provati dalla vita, a quarant'anni già sfiancati dal dolore e attenti al rituale arcaico della morte, la sola cosa, insieme alla festa di Gurgevdan, che potesse riunirli, per un momento, attorno a qualcosa di diverso dalla sbornia quotidiana. I ragazzi e i bambini, forse gli unici realmente meravigliati di non vedere più Dolar tra di loro a giocare tra i rottami e i rifiuti della discarica proprio fuori del campo, gli adulti concentrati e rispettosi, ma per nulla sorpresi dall'eventualità di morire a nove anni.
Al centro della stanza, appena adattata la vista al buio illuminato solo dai ceri, l'uomo ebbe la visione irreale del volto del bambino, avvolto in un nastro verde. Come se morendo avesse riacquistato il suo essere androgino, completo. Qualcuno più pio di lui l'avrebbe detto assurto finalmente all'invidiabile condizione di angelo. Ma cos'era un angelo, per lui? Il labbro impercettibilmente leporino tradiva appena lo stupore di quell'esserino implume di stare proprio lì, in quella cassa di legno, circondato da fasci di fiori colorati e da tanta gente vestita di nero.
- Quello è il nonno, non è vero? chiese l'uomo, un po’ in soggezione, come se avesse paura di dovere giustificare la sua presenza lì, in mezzo a loro. Aveva indicato un grassone trasandato e mal sbarbato, dall'occhio strabico e i capelli appiccicaticci, che gli sembrava in qualche modo associato al piccolo scomparso.
- No, quello è compare di padre. Nonno morto.
Finalmente, il Pope fece il suo ingresso nella casetta dei Radosavljevic, con la valigetta in mano. Un ometto tarchiato, con uno sguardo ferino stampato sul volto e l'aria, ma solo l'aria, di chi è al di sopra delle passioni umane. Un che di inquietante, pensò l'uomo, nelle maniere circospette, come di spia al servizio di una qualche Inquisizione celeste. Era qui ufficialmente per giustificare quella morte assurda. Teodicea. Anche a questo livello elementare e primitivo di esistenza si sentiva il bisogno di spiegare l'inspiegabile: si poteva chiamare vita la breve sfortunata parabola di Dolar su questa terra? Il Pope era pagato per dire che Dio voleva questo, che dunque tutto ciò era giusto. Era questo il suo mestiere.
Un mestiere sporco, pensò l'uomo.
L'alito di alcool che diffuse nell'aria al suo passaggio, il colletto sudicio e gli occhiali appannati resero il Pope allo stesso tempo meno venerando e più vicino ai suoi fedeli. A ogni modo, appena entrato, sparì nella stanza da letto per cambiarsi.
Ben presto riapparve, vestito con il tipico copricapo e i paramenti sacri. Aveva una Bibbia bisunta in mano, verosimilmente scritta in caratteri greci. Subito attaccò una litania in quella lingua sconosciuta a tutti eppure familiare. L'atmosfera divenne carica di una sorta di venerazione, l'altro lato dell'indifferenza. Indifferenza verso il mistero del male, di quella vita cattiva, di quel dio cattivo, che stava lì, lontano e impenetrabile, salvo scendere a colpire implacabile quando si ricordava degli uomini.
- Kyrie Eleison…, recitava la litania, monotona.
Il fotografo gagiò scattava in continuazione, con un apparecchio vecchio modello, provocando grossi lampi bianchi nel buio dello stanzone. L'uomo vide a un tratto districarsi dalla folla Milorad, fratello maggiore di Dolar, in preda a una crisi di pianto. Era un ciccione dal carattere piuttosto irascibile. Si era sciolto in lacrime di fronte alla scena straziante del fratellino nella bara.
Al suo passaggio tra la folla, l'uomo gli posò impacciato una mano sul braccio, in segno di solidarietà, ma il ciccione, lo sguardo velato di lacrime, pur guardandolo in viso per un breve lunghissimo istante, sembrò non riconoscerlo. Passò oltre.
- Kyrie Eleison…
Dopo un'ultima benedizione con l'incensiere, il Pope si accomiatò dai familiari baciandoli sulle guance e invitò i presenti a fare lo stesso con Dolar. Uno a uno gli astanti si avvicinarono alla bara e compirono il macabro rituale. Qualcuno fece l'offerta delicata di un fiore porpora, altri misero qualche banconota italiana ai piedi del corpicino, dove già era visibile altro denaro. I più baciarono il cadavere sulla fronte direttamente o con la punta delle dita.
L'uomo chiese il permesso ai genitori e si avvicinò, commosso. Cosa aveva unito quella vita strampalata, breve quanto il volo di un calabrone peloso in una giornata afosa d'estate, alla sua esistenza irrequieta, insoddisfatta, incapace di adattarsi a quello che la sua ragione e la sua passione gli indicavano come il surplus di assurdo regalato al mondo dai suoi consimili? Non sapeva rispondere. Ma un filo c'era, lo sentiva, tenue ma palpabile, ne era sicuro. Altrimenti non sarebbe stato lì, in quel momento, a condividere un dolore che non era il suo. Si chinò sul volto del bambino. Era avvolto nella fascia verde, come se avesse dolore ai denti. Mentre baciava la fronte di Dolar, una fitta lo colpì al fianco. Una sensazione di nausea, forse dovuta al profumo intenso dei fiori, gli fece girare la testa.
Appena fuori, si avvicinò al padre, un ometto tarchiato con il volto stravolto e fece per stringergli la mano. Boban, che lo aveva seguito, gli prese il gomito e lo tirò in disparte:
- Questo tu non fai, gente a funerale non si dà mano…Tu mangia qualcosa, vuoi?
La faccia baffuta e sorridente di Boban sembrò perdere consistenza, liquefarsi sotto i suoi occhi brucianti per l'incenso e la mancanza di ossigeno, che rendevano difficile anche respirare in quella casa. Nel cranio dell'uomo scorrevano e si mescolavano le vibrazioni monotone del cavo ad alta tensione, il profumo dei fiori, i mille volti tutti così uguali eppure diversi l'uno dall'altro. L'uomo si voltò, stava male, forse stava per vomitare. Si allontanò velocemente dal cortile, bofonchiando qualche saluto tra i denti.
Non sarebbe più tornato, giurava a se stesso, mai più. Si pentiva addirittura di avere mai messo piede in un campo Rom. Sarebbe andato nella grande città per ubriacarsi e stordirsi, per cercare di estrarsi quella spina dolorosa dal fianco. Estirpare quel ronzio fastidioso dal cranio. Solo questo gli importava.
No, non sarebbe tornato più. Eppure, in fondo, sapeva che non era vero.
Salì in macchina sbattendo lo sportello, mise in moto imprecando contro il suo destino e, dopo aver sgommato nevroticamente, imboccò il vialetto dell'uscita.
I ragazzi lo videro allontanarsi impassibili, come se niente fosse mai stato.
Se volete rileggere la storia di due giorni fa
Anche se in ritardo, un sereno Eid al Futr! E visto che ci siamo...
Sarajevo, 3. 11. 2005, 14:51, (IRNA) - Per la prima volta il Sacro Corano è stato tradotto nella lingua dei Rom dei Balcani: la notiizia è stata riportata dal Central News Bureau of the Islamic Republic of Iran Broadcasting (IRIB). Secondo la fonte, è il risultato di lunghi anni di lavoro, da parte di Muharem Serbezoski, un Rom che risiede nellla regione
ROMEA (Romani Media Agency), Romano vodi Zitná 49 110 00 Praha 1 Czech Republic tel./fax: +420 - 257 329 667, +420 - 257 322 987 e-mail: romea@romea.cz, romea@rynet.cz http://www.romea.cz
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Napoli, 3 novembre 2005
Mercoledi’ notte la polizia ha sgomberato con la forza un campo rom in via Lufrano a Casoria non dando neanche il tempo alla povera gente che vi abitava di fare i bagagli per portar via il più possibile. Si trattava di 430 persone mandate allo sbaraglio fra cui donne incinte e molti bambini: ora vagano nelle periferie della nostra città implorando un aiuto.
La maggiore responsabilità di questo inumano, barbaro e crudele sradicamento poliziesco ricade quasi per intero sull’ex-sindaco di Casoria Giosuè De Rosa che per oltre 2 anni non ha mosso un dito per trovare una sistemazione alternativa, o quanto meno per fornire acqua e far rimuovere i rifiuti solidi. Non ha fatto nulla, sapeva solo mostrarsi ipocritamente inorridito per quella situazione di degrado, ma ciò che a lui interessava era cacciar via gli zingari da Casoria a qualunque costo, e nient’altro.
Una grave responsabilità ricade anche sulla regione (retta da un governo di centro-sinistra) e sulla Provincia (anch’essa governata dal centro-sinistra). Il governatore Bassolino si è rifiutato di ricevere una nostra delegazione che fin dal mese di giugno chiese un incontro proprio per risolvere la questione di via Lufrano.
L’esistenza di questo campo Rom degradato e in condizioni igieniche spaventose non aveva nulla a che vedere con il cosiddetto ordine pubblico, si trattava di un problema di carattere squisitamente sociale. Noi che abbiamo assistito stamattina all’alba alla demolizione di questa orrenda “favela” lasciata marcire per circa tre anni (mentre un elicottero inutilmente volteggiava sopra di noi e squadroni di polizia e carabinieri tenevano lontani i curiosi, e le ruspe sradicavano le capanne) abbiamo toccato con mano il vergognoso fallimento dei politici di centro sinistra, del tutto inetti e del tutto incapaci di trovare una soluzione alternativa all’azione militare. Istituzioni quali Regione, Provincia e Comune (di Casoria) hanno vergognosamente lasciato fare alla polizia tradendo, in questa occasione il mandato loro affidato all’elettorato di sinistra: amministrare civilmente, con giustizia e soprattutto con democrazia.
Amedeo Curatoli, Marco Nieli
OPERA NOMADI NAPOLI
Di Fabrizio (del 04/11/2005 @ 17:36:41, in Regole, visitato 2222 volte)
segnala Karin Waringo:
IL COMITATO SUI DIRITTI UMANI CONCLUDE L'85^ SESSIONE
(UNHCHR Pressrelease, 3.11.05)
sull'Italia
"Il Comitato è anche preoccupato per le testimonianze di abusi commessi
da membri delle forze dell'ordine contro gruppi vulnerabili, i Rom in
particolare, stranieri e italiani di origine straniera. Il Comitato, nel notare
le iniziative adottate dal corpo statuale per combattere la discriminazione
razziale e l'intolleranza, mantiene la preoccupazione riguardo testimonianze di
discorsi incitanti all'odio, compreso dichiarazioni di esponenti politici,
indirizzati verso stranieri, Arabi e Musulmani, come pure verso i Rom.
All'apparato statale viene richiesto di formare un'istituzione nazionale
indipendente sui diritti umani, in accordo ai Principii di Parigi, che ricordi
regolarmente e pubblicamente che l'incitazione all'odio è proibita dalla legge
e prontamente agisca perché quanti ne siano responsabili siano assicurati alla
giustizia"
Il comunicato-stampa
completo
Di Fabrizio (del 04/11/2005 @ 11:48:40, in Regole, visitato 2003 volte)
Pubblicato ieri su Il
Giornale online
Impiccalo più in alto - di Filippo Facci
Non conosco nessuno che se incontra degli zingari non stia particolarmente attento al portafogli. Se una ragazza scorge una figura nell'ombra di un giardinetto pubblico, così pure, diventerà più guardinga se il tizio si rivelerà un extracomunitario, e un'anziana signora stringerà bene i cordoni della borsa se gli capiterà di viaggiare in metropolitana in mezzo a un gruppo di romeni. Prima che xenofobia, è statistica: la quota di extracomunitari implicati nella criminalità è più alta rispetto a quella degli italiani.
Ciò posto, la frase del ministro guardasigilli «chi giudica deve tener presente il comune senso di giustizia che il popolo avverte» (Giornale di ieri) è ugualmente sbagliata e pericolosa. Il «comune senso di giustizia caro al popolo» è storicamente quello della forca, dei linciaggi, del giudizio sommario, qualcosa che tende a comminare carcerazioni sulla base di approssimazioni mediatiche. Se poi il magistrato che ha scarcerato un rapinatore albanese in Veneto si chiama Carlo Nordio, toga da tutti stimata e non propriamente un giudice sociologo,
personalmente non ho dubbi sul fatto che il medesimo si sia limitato ad applicare la lettera della legge. Stesso discorso valga per la nomade romena accusata di aver tentato di sequestrare un bimbo, poi scarcerata e in parte scagionata. Il garantismo comporta dei rischi. L'assenza di garantismo, molti di più.
Altro parere2 da Paniscus
o da Kelebek
Di Fabrizio (del 04/11/2005 @ 06:49:12, in sport, visitato 2226 volte)
All'inizio dell'autunno, l'UEFA aveva multato la squadra di calcio dello Steaua Bucarest e squalificato il campo di gioco, per far seguire i fatti alle dichiarazioni di combattere il razzismo negli stadi.
I tifosi della Steaua, come quelli di molte altre squadre europee, si distinguono per gli slogan e gli striscioni apertamente razzisti. Sono gli stessi massimi dirigenti della squadra, spesso spalleggiati dai politici locali, piuttosto che dagli annunciatori radio e tv, a fomentare disordini e offendere con epiteti razziali gli avversari.
Mentre nelle coppe europee e negli incontri internazionali, gli slogan sono diretti soprattutto verso giocatori di colore, nelle partite del campionato nazionale, le squadre rumene si apostrofano abitualmente con gli epiteti di "Zingari, Ungheresi, Kosovari"; indipendentemente dal fatto che Rom e Ungheresi giochino in diverse squadre del campionato.
Multe e squalifiche però non sembrano ottenere l'effetto voluto: slogan e striscioni razzisti riappaiono puntualmente ad ogni incontro.
Fabrizio 11.00: L'intervista a Radames Gabrielli sarà condotta dagli amici blogger dell'associazione Sucar Drom di Mantova
Radames 11.03: Ciao a tutti da Bolzano
Fabrizio 11.04: Ciao Radames, piacere di conoscerti
Sucar Drom 11.04: Ciao Radames siamo felici di averti in chat questa mattina. La prima domanda: chi è Radames Gabrielli?
Radames 11.04: Allora Radames Gabrielli è un sinto italiano, di genitori italiani e nato a Bolzano 47 anni fa. Residente a Bolzano, vivo qui con mia moglie e i miei tre figli felicemente sposati. Dalla più grande ho due bellissime nipotine che amo moltissimo. Ho fatto il militare e ho sempre lavorato.
Sucar Drom 11.06: Che lavoro fai?
Radames 11.07: Vengo da una generazione di sinti musicisti. Io sono musicista per tradizione familiare, sin da quando avevo 14 anni ho suonato nel complesso della mia famiglia i "Figli del Vento", però con la musica non si guadagna abbastanza per vivere; allora lavoro come guardiano notturno presso un cantiere edile
Sucar Drom 11.07: avete un gruppo musicale oggi?
Radames 11.08: Sì, oggi il nostro gruppo musicale si chiama "U sinto". Abbiamo fatto anche un cd dal vivo.
Sucar Drom 11.08: Perchè ti sei candidato per il Consiglio Comunale a Bolzano?
Radames 11.09: Perchè anche i sinti possano pensare e decidere per la loro città. Ma non solo per i sinti: a me piacerebbe migliorare la città anche per i gage e lavorare insieme sinti e gage per superare i problemi
Sucar Drom 11.10: che minoranze rom e sinte sono presenti a Bolzano?
Radames 11.11: Intanto i miei sinti sono sinti estrecharia, poi ci sono alcuni sinti taic, alcuni lombardi, mentre i rom sono quasi tutti stranieri e vengono dallla ex jugoslavia - Macedonia - principalmente rom xoraxanè. Ma ci sono anche alcune famiglie di cergari e poche famiglie di rom hrvati, ormai italiani da generazioni.
Fabrizio 11.13: Circa, quanti sarete in tutto tra Rom e Sinti?
Radames 11.14: Ci sono circa 600 persone tra rom e sinti.
Sucar Drom 11.13: Quali sono i problemi che vivono le famiglie rom e sinte a Bolzano?
Radames 11.14: Allora: intanto la discriminazione e l'emarginazione...i problemi sono tanti...
Sucar Drom 11.14: immagino...
Radames 11.15: dicevo la discriminazione è uno , non abbiamo lavoro, molti vivono nei campi sosta che sono dei lager, e chi vive negli alloggi ha problemi con i vicini perchè nessuno li vuole come vicini di casa
Sucar Drom 11.16: A Bolzano tra i sinti e i rom si è parlato di micro aree, cosa ne pensano i sinti e cosa ne pensano i gage?
Radames 11.16: I sinti sono favorevoli al 100%
Sucar Drom 11.16: Quante sono le famiglie in casa e quante nei campi? quanti campi?
Radames 11.17: Bisogna distinguere tra sinti e rom: ci sono un campo per i rom e un campo "lager"per i sinti; mentre poi altri sinti, come la mia famiglia vivono in piccole aree, non sappiamo ancora per quanto tempo. Nel campo sinti attualmente vivono circa 90 persone, mentre nel campo rom sono 117.
Sucar Drom 11.18: Quando i sinti parlano di micro aree cosa immaginano?
Radames 11.19: secondo me una micro area è un posto dove io posso stare tranquillo con decenza con la mia famiglia e non in un campo "lager"; senza essere ammassati ed essere meglio integrati, perchè se sei una sola famiglia c'è un capo che decide per i suoi figli
Sucar Drom 11.20: Ma come deve essere una micro area? Un piccolo campo?
Radames 11.21: Deve essere un posto per 4 5 roulottes, una costruzione pe i bagni o dei prefabbricati di legno al posto della roulotte - non di cemento che ammazza la gente
Sucar Drom 11.22: Quindi un'area per una sola famiglia allargata? e ogni nucleo famigliare deve avere un suo spazio diviso dalle altre famiglie? o un'area senza vincoli?
Radames 11.23: Sì, uno spazio dove possa stare una famiglia al massimo con i fratelli e sorelle. Non parenti più lontani o addirittura altra gente, Non un posto con un guardiano. Gestito dal capo famiglia e basta, cioè il padre con i figli: perchè se è così posso decidere io chi far stare nel mio posto per un paio di giorni
Sucar Drom 11.24: Noi a Guastalla abbiamo relaizzato una micro area per una famiglia allargata, dove ogni famiglia ha una propria casa, un proprio giardino, un proprio cancello. Tu cosa ne pensi?
Radames 11.25: Magari! Avete fatto una bella cosa
Sucar Drom 11.25: Negli anni scorsi i Sinti e i Rom hanno partecipato alla realizzazioni dei progetti per i campi?
Radames 11.26: negli anni scorsi no. Però adesso si parla tanto delle micro aree sia sinti che alcuni politici
Sucar Drom 11.27: Quindi vi hanno costruito una "casa" senza chiedervi come la volevate?
Radames 11.27: Per i campi possiamo dire di si: ci hanno detto "o entrate lì o andate fuori dalla provincia di Bolzano". In pratica eravamo obbligati ad entrare accompagnati dai carabinieri proprio come in tempo di guerra faceva qualcun'altro
Sucar Drom 11.28: A Guastalla i Sinti hanno partecipato a tutta la progettazione, pensi sia possibile anche a Bolzano?
Radames 11.29: Se vince il candidato che sostengo anche io, allora sicuramente potremo parlarne insieme. Se vince la destra allora dovremo scappare da Bolzano
Sucar Drom 11.29: Siamo felici, sperando che vinciate
Radames 11.30: Lo speriamo anche noi, vedremo dopo domenica. Vi sapremo dire come va a finire
Sucar Drom 11.30: Mi dicevi prima che ti candidi non solo per i sinti, cosa senti debba essere fatto per tutti i cittadini di Bolzano?
Fabrizio 11.32: Cosa diresti a un gagio che vive a Bolzano?
Radames 11.32: Bolzano ha bisogno di più solidarietà tra tutti. Ci sono problemi pratici come ad esempio i parcheggi e il traffico, se vinciamo dobbiamo cambiare molte cose in meglio e per tutti
Sucar Drom 11.34: Hai detto che se vince la destra sarà un disastro, non pensi che la tua candidatura abbia scosso gli animi anche della destra? si parla in città della tua candidatura?
Radames 11.35: Purtroppo non mi stanno dando molto spazio, perchè qui c'è soltanto un giornale quotidiano e appoggia di più i partiti di destra. Anche quando hanno parlato di sinti e rom hanno chiamato due poilitici e non me. Adesso stiamo pensando di scrivere una lettera per dire anche noi la nostra
Sucar Drom 11.36: Ci dispiace... è un'occasione persa!!! Qual'è il partito che ti ha candidato?
Radames 11.37: il partito come per Mantova è Rifondazione Comunista: è l'unico partito che da la possibilità anche a chi come me non è iscritto di candidarsi come indipendente e portare avanti le proprie ragioni
Sucar Drom 11.39: Abbiamo partecipato all'incontro per il lancio della tua candidatura e siamo rimasti colpiti dalla voglia che c'era di sostenerti, parlaci delle persone che ti hanno candidato?
Radames 11.40: Luigi Gallo, il segretario di Rifondazione per la provincia di Bolzano con Paola che lavora con noi sinti a Bolzano, mi ha proposto di candidarmi. La serata è stata un successo per noi, c'è stata veramente partecipazione. Anche il candidato sindaco Spagnolli lo conosciamo da tanto, è quasi un amico per i sinti
Sucar Drom 11.41: Come vivono i sinti e i rom la tua candidatura?
Radames 11.42: Certi sinti la vivono bene e certi non si esprimono. Con i rom non saprei perchè loro non votano neanche
Sucar Drom 11.43: Considera che è la prima volta a Bolzano... si discute?
Radames 11.43: Sì è vero è l'inizio
Fabrizio 11.44: Sei il solo che parla per i Sinti? Ci sono altri Sinti che si danno da fare?
Radames 11.44: Al momento no. Ognuno parla per sé
Sucar Drom 11.45: Ti vogliamo fare un'ultima domanda, perchè pensi sia importante che per la seconda volta in Italia, dopo Mantova, a Bolzano un Sinto debba essere eletto in Consiglio Comunale
Fabrizio 11.46: Non hai paura di essere un specie di mosca bianca?
Radames 11.46: Perchè è importante che i sinti diventino partecipi della vita politica, perchè così possono decidere per la loro città. Perchè anche i sinti lavorano vivono, amano, crescono i loro figli in questa città come per le altre città e gli altri sinti, risolvere insieme i problemi di tutti, sia sinti che gage ed essere riconosciuti come parte della città, come parte attiva, della città per costruire insieme per una Bolzano migliore,
Sucar Drom 11.50: sono bellissimi questi tuoi pensieri... in bocca al lupo e ... chiamaci se hai bisogno ma non fermarti...
Radames 11.51: Beh, intanto grazie per essere venuti a sostenerci e crepi il lupo. grazie a tutti
Fabrizio 11.51: Se puoi restare ancor qualche minuto, magari ci sono altri lettori che hanno domande
Radames 11.52: ... volevo dire per una Bolzano migliore con la speranza di una migliore convivenza uguaglianza e fratellanza, per dare ai nostri figli un futuro migliore
Noi rimaniamo diteci fino a quando.
Fabrizio 11.56: Non voglio tenervi troppo in attesa. Facciamo 5 minuti se qualcuno ha domande. In ogni caso, grazie tantissime a te e agli amici di Mantova. Spero di risentirci presto, magari con buone notizie già da settimana prossima
Radames 11.57: Sì, aspettiamo volentieri domande di qualsiasi tipo. Sapete che qui a Bolzano c'è un partito che raccoglie voti facendo una campagna discriminatoria sui sinti e rom, oltre che sugli stranieri: il loro slogan è "basta case a zingari ed extracomunitari" o l'altro "basta soldi agli zingari". Puntano sui problemi della povera gente che magari aspetta da tanti anni una casa, ma non dicono che anche noi sinti siamo itlaliani e abbiamo gli stessi diritti di tutti gli altri.
La cosa più importante per me è che la gente cominci a conoscere i sinti... dicono che siamo tutti ladri: prima di tutto in tutti i popoli ci sono persone che rubano e persone che non lo fanno, al sinto disoccupato nessuno da una opportunità di lavoro perchè c'è sempre la discriminazione, appena vedono un sinto lo timbrano come ladro anche se non lo è, e non lo fanno lavorare perchè manca la fiducia non gliela danno
Adesso basta parlare. Ringraziamo tutti, Fabrizio e gli amici di Mantova. Rimaniamo comunque qui ancora qualche minuto per eventuali domande
Fabrizio 12.07: Entro domani, ripubblico l'intervista. Grazie a tutti voi, e anche a chi si è collegato "in silenzio"
Di Marco Nieli due racconti (o cronache?) per condividere il 2 novembre appena terminato. Il secondo uscirà il 5 novembre
PERCHE' DA SEMPRE CI RUBANO I BAMBINI La piccola Mirjiana Djordjevic fu prelevata dalla Polizia il 2 Novembre al Cimitero di Montesarchio, mentre "caritava" all'entrata, vicino al banchetto di un fioraio. Una solerte cittadina aveva chiamato il 113, perché aveva ravvisato nella bambina una straordinaria somiglianza con Alessandra Musella, una piccola napoletana scomparsa qualche anno prima a Casal di Principe, la cui foto era apparsa qualche sera prima al programma televisivo Chi l'ha visto?
Le volanti partirono a sirene spiegate per prelevare la minore, senza fare accertamenti sulla prossimità o meno dei genitori o di qualche altro parente. In realtà, la madre era in un'altra zona del cimitero quando Mirijana era stata trovata dalle forze dell'ordine. Arrivò mentre le auto blu mettevano in moto sgommando e, appena compreso ciò che era successo, scoppiò in un pianto dirotto. Sua figlia era stata presa dai gagé. Quello che ogni Rom teme di più in fondo al suo cuore, si era infine avverato per Zorica Achmetovic.
La donna svenne per la paura e appena ripresi i sensi sul marciapiedi, circondata da una folla di misericordiosi, non ritrovò più la borsa con il guadagno della giornata.
Quando le volanti parcheggiarono nel cortile del Commissariato di Benevento, un folto gruppo di fotografi e giornalisti già era lì, in pieno assetto di guerra. Si era già diffusa la notizia-bomba del ritrovamento di Alessandra. L'auto dove era Mirijana fu presa letteralmente d'assalto e la piccola cominciò a urlare, a graffiare e a sputare sui suoi accompagnatori e sui fotografi. Furono costretti a coprirle la testa con la giacca di uno degli ispettori e a sollevarla per le braccia e per i piedi, mentre continuava a divincolarsi e a strillare come un'ossessa. Mirijana, come un gatto selvatico nel classico sacco, aveva imparato dalla più tenera età a difendersi da ogni tipo di insidie, ma questa volta il nemico era davvero più forte di lei.
Arrivati al primo piano, la bimba fu affidata alle cure di una giovane e graziosa agente che, essendo anche lei madre, sapeva come prendere i bambini. Dopo un po’, Mirijana dovette per forza calmarsi, se non altro per esaurimento delle sue forze esigue.
-Allora, vediamo un po’, ti piace giocare? - disse la poliziotta, mettendole davanti un puzzle, un album di colori e una bambola. La piccola subito si asciugò le lacrime e dimenticò di trovarsi in un ambiente estraneo, potenzialmente ostile. La poliziotta le fece portare anche una coca-cola, una pizzetta e alcuni panzarotti, che Mirijana smozzicò, ma non finì di mangiare. Appena esaurita la sua attenzione verso i giocattoli che le erano stati offerti, ebbe di nuovo una crisi di pianto, chiedendo della madre. Poco dopo, si addormentò sulle ginocchia della poliziotta, che le accarezzava i capelli, parlandole a bassa voce per tranquillizzarla.
Intanto, gli ispettori si stavano dando da fare. Erano subito arrivati a Benevento alcuni dei responsabili della Scientifica di Napoli, con tutto l'incartamento relativo al caso di Alessandra Musella. L'ispettore capo di Benevento dovette constatare che, sì, effettivamente, la presunta bambina Rom assomigliava come una goccia d'acqua alla piccola scomparsa qualche anno fa dal paese del Napoletano. Determinante apparve soprattutto la ricostruzione al computer di come Alessandra sarebbe stata dopo due anni dal rapimento. Anche l'età poteva coincidere, al limite. C'erano tutti gli estremi per chiedere un test del DNA e quanti altri accertamenti si rendessero mai indispensabili nel prosieguo delle indagini. La bambina sarebbe stata trattenuta tutto il tempo necessario, affidata a un Istituto; nel frattempo, la pratica andava inoltrata al Tribunale dei Minori, perché comunque la bambina era in stato di abbandono all'atto del ritrovamento.
Questa volta, i poliziotti si muovevano sulla base di un'ipotesi di reato ben più grave del solito: il furto di minori finalizzato alla compravendita (prostituzione? sfruttamento? commercio d'organi? pedofilia?).
Finalmente, sarebbe stato possibile dimostrare quello che da sempre sapevano tutti: che gli "zingari" rubano i figli dei gagé per farne cose innominabili. Bisognava, del resto, provare che le istituzioni davano un giro di vite all'osceno spettacolo dei bambini-schiavi costretti per ore a stare ai semafori. Si era sotto elezioni e una serie di inchieste scottanti erano apparse sui più prestigiosi quotidiani locali e regionali.
Alle 15, prima che la bambina fosse trasferita, papà Zivota e la moglie arrivarono in Questura. I due apparivano sensibilmente provati, si vedeva che non avevano dormito per niente. Chiesero di poter vedere la figlia. Gli spiegarono che non era possibile, per ragioni di sicurezza. Con un'aria di cane bastonato, Zivota ebbe il coraggio di farfugliare:
-Io papà di bambina quella Mirijana. Io tenere tutto qua: passaporto mio con foto di bambina, certificato nascita, ecco, vede, nasciuta in Kragujevac di Serbia…Come sta, questa mia figlia? Lei con mamma a caritare, io no capire, perché voi prendere?
Il preposto lo squadrò glacialmente e gli disse:
-Aspetta seduto nel corridoio, per favore, l'ispettore è in riunione: appena si libera, vediamo se può riceverti.
Zivota si sedette timoroso sulla panca nel corridoio, insieme alla moglie, che singhiozzava silenziosamente, con i capelli grigi scarmigliati e le occhiaie profonde. Lui cercava di consolarla, parlandole sommessamente nella lingua materna, ogni tanto le accarezzava i capelli. Sembravano due vecchi, distrutti dal dolore. Nessuno avrebbe detto che insieme non arrivavano a settant'anni.
Lo sguardo spento, rassegnato del papà si concentrò su di un manifesto ammuffito che diceva: Polizia italiana: l'amico di ogni cittadino. Poi ritornò alla moglie, che aveva smesso di piangere e appoggiava la testa stanca al muro. Era proprio vero, non era un incubo. Si era verificato quello che da sempre avevano temuto più di tutto al mondo: la propria figlia in mano ai gagé, per qualche oscuro motivo che neanche loro avevano compreso. Avevano sentito dire che Mirijana era stata scambiata per un'altra, un'Italiana sparita qualche anno fa. Ma com'era possibile una cosa così? Avevano lì i documenti comprovanti l'identità della bambina, bastava dare un'occhiata e l'avrebbero rilasciata subito. Perché il capo della polizia non usciva da quella stramaledetta stanza?
Gente indaffarata andava e veniva tutto il tempo, erano soprattutto agenti in divisa e funzionari dall'aria seria con plichi e incartamenti sotto il braccio. Ogni tanto scortavano qualche tipo in manette, ma di ispettori o commissari non si vedeva nemmeno l'ombra. Zivota tornò al gabbiotto all'entrata e chiese al preposto, che non era lo stesso di prima:
- Scusa, capo questo quando venire?
L'agente rispose distrattamente, annoiato per essere stato distolto di nuovo dalla Settimana Enigmistica:
- L'ispettore Biagi? Adesso controllo.
Dopo aver confabulato alcuni attimi al telefono, giunse la risposta, telegrafica:
- No, è andato via per una questione urgente, però c'è il vice-commissario Martinelli: vuoi parlargli?
- Sì, sì. Io avere qua mio questo certificato di figlia Mirijana, io padre di lei, questa mamma. Così loro dare bambina a noi e andare a casa.
- Bene, aspetta un momento solo.
Finalmente, dopo altri venti minuti di attesa, verso le otto meno venti, arrivò il vice-commissario Martinelli, un giovane dinamico dallo sguardo glaciale, vestito in borghese e dall'espressione di duro, con la pelle abbronzata e il pizzetto. Appena visto chi lo richiedeva, i suoi tratti si irrigidirono e i suoi modi presero un che di brusco:
- Sì? sei tu che mi vuoi?
- Tu commissario? Io papà di bambina quella Mirijana, polizia presa in Montesarchio, bambina nostra figlia, tu vede qua?
Gli porse il passaporto aperto della Repubblica serba con la foto della bambina e il nome stampato a chiare lettere sotto. Il poliziotto lo prese in mano, contemplò qualche minuto la foto, poi alzò gli occhi inespressivi verso il Rom e disse:
- Bene, e allora?
- Tu dare me bambina questa figlia mia?
- Non ti preoccupare, la bambina sta bene. Almeno noi le diamo da mangiare e la trattiamo bene. Perciò deve rimanere ancora un po’ con noi, perché dobbiamo capire se è stata rubata e venduta come schiava.
- No, lei questa figlia mia, no comprata, io c'ha sei bambini, šov chavoré, questo vedere certificato qua, passaporti, tutto…
- Guarda, forse non capisci l'italiano. Per quanto mi riguarda, questo passaporto potrebbe benissimo essere falso: come faccio a credere che quella è tua figlia? Sai quanti passaporti falsi ci capitano a noi? Comunque, la pratica adesso passa al Giudice a Napoli e dovrai dimostrare a lui che è tua figlia, d'accordo?
- Mmmm…Me solo vuole vede, un momento…sì? Mamma piangiuto, piangiuto, dice no mangia più se non vide bambina sua, questa figlia…
- Bene, questo lo deciderà il giudice. Ma voi, a proposito, c'avete il permesso di soggiorno? No? Bene, allora smammate di qui, se no vi faccio subito un ordine di comparizione per identificazione.
Rassegnati a non portare via con sé la loro bambina quella sera, i due uscirono dall'edificio con il morale a pezzi. La donna non si lamentava più, ma aveva lo sguardo assorto, fisso davanti a sé, come perso nel vuoto. Quando la mattina seguente ritornarono, i due appresero che Mirijana era stata portata in un istituto religioso.
Nessuno volle dirgli dove. Papà Zivota mostrò al commissario il passaporto, con tanto di foto della figlia e timbro ufficiale della Repubblica serba. Il funzionario di polizia sospirò con aria di sufficienza. Anche ammesso che il passaporto forse autentico e non falsificato, disse, questo non provava nulla. Lo "zingaro" poteva benissimo aver corrotto qualche impiegato, si sa che queste cose succedono correntemente nei paesi dell'Est Europa. Il documento comunque era scaduto da due mesi. Zivota tentò di spiegare che la sua Ambasciata non glielo rinnovava, perché era fuggito dalla coscrizione obbligatoria. Ma non servì a nulla: per la Polizia, evidentemente, né lui né la moglie esistevano ufficialmente, figuriamoci se potevano essere padre e madre di una bambina! In più, se il test del DNA, come era ragionevolmente lecito supporre, avesse confermato l'identità della bambina con Alessandra Musella, i due Rom erano passibili di denuncia per rapimento di minori e sequestro di persona.
Tornati al campo con la coda tra le gambe, vi trovarono un gagiò amico, Franco Pizzimenti, con alcuni giornali sotto il braccio. Egli mostrò loro la foto di Mirijana accostata a quella di Alessandra, lesse ad alta voce l'articolo, in cui si dava per certo quello che ancora era da dimostrare e li informò anche dell'avvenuta visita in mattinata di Vincenzo Musella, il padre della bambina napoletana scomparsa. Prima che Mirijana fosse portata via, gli era stato permesso di vederla, in presenza degli agenti e con le dovute precauzioni. Vincenzo, col cuore in gola, aveva subito cercato la voglia che Alessandra aveva sul collo. Sarebbe stata la prova più evidente che si trattava di sua figlia. Il gagiò, però, era rimasto deluso: la voglia non c'era, evidentemente quella bambina non era sua figlia.
Nonostante tutto, il giudice aveva disposto la prova del DNA e la piccola era stata trasferita in istituto. Bisognava chiedere subito un appuntamento col giudice e prendere un buon avvocato, disse l'uomo. Purtroppo, anche per vedere semplicemente la bambina, occorreva il permesso del giudice. I Rom si rassegnarono ad aspettare l'incontro. Zorica però scoppiò a piangere e chiese se per lo meno poteva parlare con la figlia telefonicamente.
- Cercheremo di ottenere una visita in istituto, non ti preoccupare. Però adesso devi mangiare, non serve a nulla a Mirijana se tu muori di fame.
- Sì, ma Mirijana, tu sa, problema a cuore, lei da piccola già in spitale, sempre nasvalì. Dottore dice lei ha buco in cuore, non può respira quando paura…Povera figlia…
A questo punto, la donna fu interrotta dai singhiozzi, che rischiarono quasi di soffocarla.
Dopo una quindicina di giorni di angoscia e patimenti indescrivibili, il giudice concesse finalmente il permesso di vedere la bambina, in presenza di un traduttore e di un'assistente sociale, che poi avrebbe relazionato sull'esito dell'incontro. All'ultimo momento, sembrava che il permesso stesse per essere revocato, per la mancanza di un interprete dal Romanés che non fosse di parte, vale a dire dell'associazione. Alla fine, si optò per un interprete dal Serbo-croato, con la condizione che il colloquio si svolgesse rigorosamente in questa lingua. Si era ancora in attesa del test del DNA e il clima era teso fino all'inverosimile.
I due genitori, accompagnati da Franco, arrivarono all'Istituto di Nostra Signora della Salette e si precipitarono su per le scale, tremando per la paura che qualcosa di irreparabile fosse già successo. Il gagiò disse di avere un appuntamento con la Madre Priora e, intanto, fece conoscenza con il traduttore, un biondino slavato e smilzo e con l'assistente sociale, una donnona sciatta dalla pelle macchiata e i capelli rossicci.
A un certo punto, una suora fece capolino attraverso la porta: la madre priora aveva quasi terminato il suo impegno precedente. Ancora qualche minuto di pazienza e li avrebbe ricevuti.
Dopo un'attesa di circa venti minuti, la Madre Priora fece accomodare tutti finalmente nel suo ufficio. Il suo sorriso affettato e le sue maniere garbate non piacquero per nulla a Franco, che, tuttavia, per spirito di diplomazia, sfoggiò anche lui il suo migliore sorriso.
- Sorella, le presento i genitori della piccola Mirijana Achmetovic. Sono qui per incontrarla, la madre è distrutta dal dolore e non mangia quasi più, da circa 15 giorni. Ecco il permesso del giudice, firmato e con tanto di bollo. Come sta la bimba?
- Ah, su questo, lei può dormire tra due guanciali. Qui è senz'altro trattata come non si potrebbe meglio. Almeno mangia bene, gioca con gli altri bambini e viene accudita dalle sorelle. Riguardo alla visita con questi che chiamiamo genitori (ma le ricordo che ancora non abbiamo la prova che lo siano davvero), le disposizioni del Tribunale sono piuttosto severe in merito. Ho parlato stamattina telefonicamente con il giudice Di Palma. Vede, come Lei può certamente immaginare, la bambina è stata portata qui da noi per il suo bene. Il Giudice deve accertare se è davvero figlia di genitori nomadi o, come si sospetta con un ragionevole margine di certezza, si tratta di un'italiana sottratta ai suoi legittimi genitori, qualche anno addietro. Eppure, ciò nonostante, Lei vuole vedere la piccola. Bene, le carte sono in regola. Solamente, La informo, che gli ordini ricevuti dal Tribunale sono chiari. Solo dietro lo specchio e in presenza del traduttore. Colloquio assolutamente in serbo-croato. La Signora Di Rienzo farà poi la relazione che ci ha chiesto il Tribunale.
Ci risiamo, pensò Franco. I soliti vecchi sistemi nazisti di una volta. Tuttavia, era chiaro che una sfuriata in questo momento avrebbe irrigidito ancora di più le posizioni e sarebbe quindi stata del tutto controproducente. Questa suora era evidentemente una vipera e lui avrebbe voluto dirle il fatto suo. Fece comunque buon viso a cattivo gioco e accettò i termini imposti dalle autorità. L'importante adesso era accertarsi che la bambina non avesse subito maltrattamenti e che stesse bene fisicamente.
I tre seguirono la suora lungo gli anonimi corridoi dell'orfanotrofio, finché arrivarono a un androne con una vetrata e un cancello. L'ambiente era decorato squallidamente, con qualche immagine sbiadita di beati e santi dagli occhi rivolti al cielo, che si perdevano su di uno stinto parato verdemarino. Dopo qualche istante, dall'altro lato del cancello apparve, accompagnata da un'altra sorella, Mirijana, visibilmente scossa dagli eventi degli ultimi giorni e con gli occhi arrossati dal pianto. Vestiva l'uniforme rosa dell'istituto e appariva ancora più gracile di quello che era in realtà. Appena la madre la vide, le corse incontro. La suora impedì che la bimba la raggiungesse attraverso le grate e aprì invece la porta di una stanza di lato. Poco dopo, la madre e il traduttore si trovarono nella stanza di fronte alla bambina, mentre l'assistente sociale, Franco e, successivamente, la Madre Priora, osservavano non visti la scena da dietro la parete specchiata.
- Sar san tut? (come stai?) chiese la madre, apprensiva.
- Laces, mama. Mangav te aves ani ker (bene, ma voglio venire a casa.) La bambina era visibilmente commossa e scoppiò improvvisamente a piangere.
La suora richiamò la signora Achmetovic al rispetto delle procedure previste, vale a dire l'uso del serbo, in modo da dare all'interprete la possibilità di tradurre. Altrimenti, avrebbero sospeso subito l'incontro.
Franco notò che Mirijana era un po’ dimagrita, ma il suo viso era tutto sommato ancora paffuto. Gli occhioni neri tradivano tutto lo smarrimento e la confusione che aveva vissuto nelle ultime settimane. Aveva mangiato poco, disse la Direttrice, e chiedeva sempre della mamma. Finiti i dieci minuti concessi per la visita, i tre furono accompagnati all'uscita. Al momento della separazione, la piccola scoppiò di nuovo a piangere e la sorella dovette portarla via a forza.
La visita seguente, otto giorni dopo, fu decisamente più drammatica. Si attendeva ormai a ore il risultato della prova del DNA. I giornali avevano bombardato l'opinione pubblica insistentemente con la notizia che era stata ritrovata Alessandra Musella. Si parlava di fantomatiche organizzazioni criminali dedite alla compravendita di minori, di maltrattamenti osceni, di sfruttamento intensivo dei piccoli schiavi. Il Tribunale dei Minori aveva rifiutato di prendere per buone le prove addotte dai genitori Rom di Mirijana e dall'associazione, che adesso minacciava denunce e querele. Lo stesso padre di Alessandra aveva detto in conferenza stampa di non riconoscere nella piccola sua figlia, ma che comunque avrebbe aspettato l'esito dell'esame. Anche la comunità Rom era in subbuglio. Tutti, Rom e gagé coinvolti in questa sporca faccenda sembravano aspettare con impazienza il responso del test per tirare un sospiro di sollievo.
Quando il padre vide di nuovo sua figlia attraverso le sbarre, si accorse subito che qualcosa non andava. I capelli erano stati pettinati in malo modo, come per nascondere qualche maldestra sforbiciata. La sorella che accompagnava Mirijana confermò che il giorno prima erano venuti gli agenti della Scientifica e avevano prelevato una ciocca dei capelli, oltre a un campione della saliva. Le avevano fatto le treccine proprio per rendere meno visibile la sforbiciata. Avevano inteso tutto a fin di bene: c'era forse qualcosa di sbagliato?
La suora aveva raccontato tutto questo come se fosse la cosa più normale del mondo, senza cedimenti o sfumature di emozione nella voce. Non si sarebbe mai aspettata che la donna Rom, alla traduzione in Romanés fatta dal marito visibilmente alterato in volto, avesse un malore e dovessero sostenerla. La fecero sedere su di una sedia nel corridoio e le portarono un bicchiere di acqua e zucchero. Ma come potevano arrivare a tanto questi diavoli di gagé: strappare così i capelli a una persona viva! Le usanze tramandate dai padri permettevano di farlo solo coi defunti, nel periodo tra il decesso e la cerimonia chiamata pomana, quando l'anima del caro estinto si allontana definitivamente dal focolare domestico. Figurarsi su di una bambina, un essere innocente da pochi anni al mondo!
Il ritorno al campo quel giorno fu più tragico ancora del solito. La madre, caduta in uno stato di profonda catalessi, era ormai palesemente assuefatta all'Aulin consumato in grandi dosi per combattere la depressione e non mangiava quasi più. Zii e parenti più stretti degli Djordjevic, appena saputa la notizia, si strapparono i capelli e inveirono al cielo, proprio come se la piccola fosse morta. I due cugini di Mirijana andavano farfugliando di sequestrare i figli del giudice per fargliela vedere loro che significa, vedersi così sottrarre la propria carne. Oppure, sarebbero andati di notte all'istituto e l'avrebbero rapita. Gli abitanti del campo parlavano solo di quest'argomento, confabulando al buio delle baracche quasi senza luce, commentando gli eventi che avevano toccato la famiglia con la quale magari fino a qualche giorno prima erano stati nemici giurati. Gli antichi vincoli di solidarietà del gruppo si rinsaldavano adesso che la sciagura si abbatteva sulla comunità, ancora una volta come già da sempre.
Una troupe di giornalisti vennero a filmare il campo e a fare interviste in giro. La tipa platinata e con gli occhiali a specchio che sfarfalleggiava in giro con il microfono brandito come un arma fu subito accerchiata da uno sciame di chavoré pidocchiosi e smoccolanti. Diversi maschietti bellocci la individuarono come un bocconcino niente male e la apostrofarono:
- Ehi, bella, chi cerchi?
Uno addirittura le fischiò dietro. Volevano attaccare bottone, ma lei filò dritta col suo cameraman alla baracca degli Djordjevic. La madre non se la sentiva di parlare, era troppo debole e depressa. Il padre uscì fuori e cominciò a vomitare una sfilza di insulti intraducibili contro i giornalisti gagé, il che provò ancora una volta, se ce ne fosse stato bisogno, la proverbiale inciviltà del popolo zingaro. Unico a parlare davanti alla telecamera, un cognato di papà Djordjevic espresse un'opinione bruciante per la sua semplicità:
- Voi sempre dire che Romi rubare bambini taliani, noi rubare per fare lemosina, per fare questo e quell'altro. Ma che pensate, che uno c'ha cinque bambini, sei bambini, va rubare figli degli altri? Chi non c'ha figli, va e ruba figli di altri, non Romi. Gagè che c'ha soldi molti ma senza figli, quelli ruba. Romi c'ha figli, e perché rubare figli di altri?
Alla giornalista che incalzava lo zingaro con domande furbe del tipo perché credeva che Rom e gagé non potessero andare d'accordo, lui rispose con la scarna faccia sorridente:
- Perché? Ma questo essere claro! Perché da sempre loro rubare i nostri bambini!
Prontamente tagliata al Tg regionale (per ragioni di spazio editoriale), la dichiarazione fu montata su di un'altra, sicuramente più moderata, formulata da un esponente dell'associazionismo cattolico. Questi faceva notare come quegli innocenti "angioletti" zingari ai semafori o sui marciapiedi, sporchi, malvestiti e malnutriti, andavano protetti a tutti i costi, se necessario anche dai propri parenti più prossimi. Ma non con intenzione repressiva, si badi bene, solo per amore e spirito caritatevole.
L'avventura di Mirijana ebbe fine improvvisamente, così com'era cominciata, un grigio Lunedì di metà dicembre, dopo esattamente 45 giorni dall'inizio del suo sequestro. La prova del DNA aveva scagionato i Rom beneventani dall'accusa infamante di avere rubato la bambina di una famiglia di gagé. Nessun giornale pubblicò più di un insignificante trafiletto per comunicare il risultato della prova, ma Franco riuscì a fare uscire, su di un importante rotocalco locale, una lettera scritta da lui e firmata da padre Zivota, che suonava pressappoco così:
"Ringrazio tutti quelli che hanno avuto fiducia in noi e non hanno creduto che noi fossimo colpevoli di questo orrendo crimine che è rubare i figli degli altri. A quelli che ci hanno creduto, dico soltanto questo: se si fosse trattato della figlia di un avvocato, di un ingegnere o di un giudice, pensate che sarebbe stato possibile sequestrarla senza nessun motivo se non il puro e semplice pregiudizio? Sono sicuro di no. Io non sapevo nulla della scomparsa di quella bimba napoletana, Alessandra Musella, e sono veramente dispiaciuto per lei e i suoi genitori. Ma che bisogno c'era di portarmi via la mia bambina, impedendomi di dimostrare che era mia figlia? In 45 giorni ho potuto vederla solo due volte e dietro alle sbarre. E nessuno finora ci ha chiesto nemmeno scusa per quello che è successo. Credo che sia una grande vergogna per tutti gli Italiani."
Quando la piccola fece ritorno al campo, furono visti parecchi zingari piangere per la gioia. Il padre di Mirijana decise di comprare una pecora, di sgozzarla e di invitare parenti e amici nella sua baracca per festeggiare. Fu ingaggiata la migliore orchestra zigana della regione. La madre e gli zii erano su di giri e non facevano altro che parlare del pericolo scampato. Mirijana, pallida e seria come sempre, sgranava di nuovo i suoi grandi occhi intelligenti sulle facce di familiari e amici del campo. Si vedeva lontano un miglio che era contenta di non stare più con le suore, mentre badava ai fratellini, aiutava a cucinare e a pulire l'interno della baracca. Soltanto, sembrava avere un'aria un po’ più affaticata del solito, chissà, lo stress del distacco dai genitori, la paura, l'ambiente estraneo dell'istituto… Il Presidente dell'Associazione dichiarò pubblicamente che questa volta la polizia e la magistratura si erano dati la zappa sui piedi, che non l'avrebbero passata liscia, che si sarebbe ricorso alle vie legali per ottenere un risarcimento. Avrebbero chiesto un permesso di soggiorno per i genitori della piccola al Questore di Benevento, poi, poi…
Intanto, bisognava pensare solo a fare festa e a dimenticare.
La banda cominciò a montare gli strumenti dalla cinque del pomeriggio. Papà Zivota scuoiava la pecora insieme ai cognati, mentre Djulian, il fratellino di Mirijana, tagliava la gola a un maialino urlante come un ossesso. Un sangue nero e denso come petrolio uscì da quello che sembrava uno squarcio profondo in un otre ormai floscio. Dentro, le donne preparavano sarme e baklava al caldo della stufa. Mirijana, in verità, verso le quattro aveva chiesto alla madre di fare un piccolo pisolino, perché si sentiva stanca. Le donne commentarono che era comprensibile. Doveva riadattarsi ai ritmi del campo, il lavoro in casa coi fratellini e tutto il resto. Aveva continuato a dormire placidamente nel suo lettino nella kampina per tutto il pomeriggio e nessuno aveva osato disturbarla. Alle sette, quando cominciarono a venire i parenti, Mirijana si alzò e scese in baracca per essere festeggiata. Tutti se la baciavano e stringevano come se fosse una reliquia di Santa Sara la Nera, la dea Kalì che i Rom adorano a Saintes-Maries-de-la-mer in Provenza, la prendevano in braccio e le infilavano biglietti da centomila lire nella scollatura attillata del vestitino. La bimba si sentiva frastornata, nemmeno ai suoi non numerosi compleanni era stata così vezzeggiata e coccolata. Un fotografo gagiò, invitato per l'occasione da papà Zivota, scattò parecchie foto della bambina in posa tra genitori, parenti e amici, dietro alla tavolata imbandita con ogni ben di Dio della cucina zingara. Al centro campeggiava un enorme cero giallo, con un fiocco rosa e rosso, infilato sopra di un pane benedetto, proprio come si faceva a Giurgevdan, in quella ed altre case Rom. Che a San Giorgio dovevano ringraziare, se la loro figlia era tornata da loro, disse Zorica alle comari.
Poi incominciarono tutti a mangiare nel portico della baracca, innaffiando la carne di balò e bakrì con fiumi di birra, raki e whiskey, delle migliori marche. I musicisti fuori attaccarono i primi pezzi e la gente cominciò a ballare. Donnone con i baffi e le trippe sgargianti, cariche di anelli e collane, ancheggiavano sotto gli occhi gelosi dei mariti lustrati a nuovo, fieri della nuova giacca di velluto o magari dell'ultimo dente d'oro. Poi anche questi si lanciarono nel ballo, mentre tra i loro piedi si rotolavano e azzuffavano chavoré ancora quasi senza nome e volto, che battevano la manine o i piedi al ritmo della musica, ignari di tutto. Nel corso di tutta la serata, ai pezzi musicali si alternarono parecchi discorsi di parenti sempre più ubriachi. Si benediceva, si brindava, si esaltavano le qualità dei propri figli e delle proprie mogli. Qualcuno, tra i fumi dell'alcool, si lasciò scappare qualche innocuo improperio verso la moglie del giudice e la Madre Priora dell'Istituto La Salette. Verso l'una, finalmente, Mirijana chiese il permesso di andare a letto, nel bel mezzo della festa. Aveva lo sguardo assonnato e stanco, come se mancasse di un sonno soddisfacente da tempo. La mamma la baciò ancora una volta insieme ai fratellini e le disse che presto li avrebbe raggiunti. Nello spiazzo antistante alla baracca diverse coppie continuavano stancamente a ballare e i gesti scomposti venivano ormai ripetuti in preda al parossismo della sbornia. Qualcuno portò un'altra cassa di Peroni e si ricominciò il giro delle bevute. L'orchestra aveva ormai smontato da un pezzo, ma un uomo con la fisarmonica continuava a improvvisare struggenti ballate serbo-croate e canzoni pop macedoni storpiate in malo modo. Papà Zivota era crollato sbronzo perso sulla panca e la mamma con le sorelle e le cognate rassettavano in giro per la baracca.
L'incendio, seguito a un fracasso di vetri rotti sulla parte posteriore della kampina, divampò in un batter d'occhio. I giornali, incredibilmente, avrebbero parlato di una bombola scoppiata o di una sigaretta non spenta. Le urla di mamma Zorica svegliarono tutti i presenti, alcuni dei quali tentarono di forzare la porta della kampina bloccata dall'interno. Altri si precipitarono fuori, per sfondare i finestrini laterale e posteriore. Dentro si sentivano gridare Mirijana e piangere i fratellini. Quando gli adulti riuscirono finalmente a spaccare uno dei finestrini laterali di plexigas con un mattone di cemento, i due piccoli furono pronti a sgusciare fuori, sospinti dalla sorellina maggiore, la quale però era già stata afferrata dalle fiamme. Appena sottratto alla trappola infernale, il suo corpicino avvolto dal fuoco si dimenò a terra per alcuni minuti, finché qualcuno, tra il panico e la concitazione generale, portò una coperta. La batterono sul corpo e ce l'avvolsero, ma si vedeva lontano un miglio che era troppo tardi. La madre andava avanti e indietro, con le mani nei capelli grigi e unti, gli occhi sbarrati nel vuoto, urlando per il terrore. A un certo punto svenne e dovettero sostenerla. Mirijana giaceva a terra esanime, senza dare segnali di vita, se non un flebile gemito di dolore. Il suo corpicino martoriato dalle fiamme era irriconoscibile.
Papà Zivota fu preso da un accesso di disperazione e ancora mezzo sbronzo, cominciò ad abbaiare per il campo, a quattro zampe, mentre da lontano si sentivano le sirene dei pompieri che si avvicinavano. Batteva con le mani a terra e piangeva come un neonato. Dovettero staccarlo a forza, sei di loro, da quel mucchietto di stracci carbonizzati che era stato sua figlia.
Alle otto di mattina del giorno seguente, il corpo di Mirijana era già in viaggio per la Serbia. Della famiglia Djordjevic dalle nostre parti non si è saputo più nulla.
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