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Sotto una cattiva stella
Di Marco Nieli (del 05/11/2005 @ 08:12:49, in Kumpanija, visitato 3742 volte)

L'uomo scese dall'auto sbattendo lo sportello, con un'aria assonnata e stressata, sbadigliando visibilmente. Non gli andava quello che stava per fare. Non oggi. No, decisamente, non era il momento giusto.

Un odore acre di immondizia bruciata lo assalì, come sempre, all'ingresso del campo. Credeva di averci fatto l'abitudine, dopo tutto ci si abitua a tutto. Ma era poi davvero così? Il ronzio dei cavi dell'alta tensione era un sottile seghetto d'angoscia per il metallo dei suoi nervi compressi, tesi al limite dello spasmo. Come al solito, alcuni bambini si accalcarono intorno all'auto, chiedendo con tono piagnucoloso da attori sperimentati, alcuni:

- Dove andiamo?

Altri:

- So keres?

Davanti al centro sociale, un gruppo di ragazzi e ragazze sedevano tranquilli a parlottare, come se nulla fosse successo in quel nuvoloso giorno di Novembre. Una donna stendeva i panni, un vecchio al tavolo con un certo numero di bottiglie vuote davanti annuiva col capo.

Fuori, lungo l'asse della circumvallazione, il traffico scorreva indifferente ai drammi della vita e della morte, gli stessi di sempre. Eppure l'indifferenza con la quale quella gente recitava i suoi drammi era di segno opposto a quella dei motori sperduti nella no man's land di Secondigliano.

- Ehi, bello, mi offri una sigaretta?

La ragazza sorrideva con uno sguardo da donna decrepita, il dente d'oro bene in vista e gli occhi struccati malamente, come se avesse cent'anni.

Un senso di sgradevole complicità pervase l'uomo, che tirò fuori dalla tasca dell'impermeabile una Marlboro e gliel'accese, svogliato. Percepiva quella ragazza invecchiata precocemente come un pugno nello stomaco. Commiserazione, sensi di colpa, un doloroso senso di solidarietà: al limite, un pizzico di compiaciuta morbosità. C'entrava un po’ di tutto nelle emozioni che lei gli suscitava. La cosa lo disturbava visibilmente. Era nervoso e impacciato, si vedeva lontano un miglio.

Un argomento su cui riflettere. Ma non oggi. Oggi no.

Il ronzio dei cavi continuava, metallico insetto d'angoscia, prolungandosi nel pulsare di un suo capillare nella tempia sinistra. Monotono, aritmico sottofondo della materia inerte alle vicende, ripetute sempre identiche, del trascinare una vita già condannata in partenza. L'opposto del vivere.

L'ubriaco fece di sì col capo, mormorò qualche incomprensibile parola in una lingua incomprensibile e tornò a sprofondare nella abituale catalessi. Tutto sommato, non così ubriaco.

"Ubriaco normale", avrebbe detto il padre di Darko. I vecchi in quelle condizioni a volte vedevano gli spiriti dei morti, i muldré, spaventevoli esseri sanguinari, coi quali si cimentavano in violente guerriglie verbali. A volte avevano anche il coraggio di minacciarli con un bastone. A ogni modo, parlandogli a tu per tu, cosa che non avrebbero mai fatto da sobri.

Forse, in questo momento, il vecchio era l'unico a vedere lo spirito del piccolo Dolar, passato come una meteora ancora giovane, schiantatasi inosservata su questa terra.

L'uomo era venuto per il suo funerale. Ammesso che non fosse già troppo tardi e che il corpo non fosse già via, sulla lunga strada verso la Jugoslavia. Una terra che non aveva mai conosciuto. La sua terra. Sua, in che senso? Almeno, non avevano fatto in tempo ad espellerlo, con la sua famiglia, verso il paese in cui non era nato.
Comunque, gli avevano detto tra mezzogiorno e l'una. Si erano fatte quasi le due, non era riuscito a scappare prima. A che pro, in fondo, affrettarsi se tutto era così maledettamente lento in quell'angolo dimenticato di mondo?

-Dov'è? chiese al ragazzo khorakanò, Milan, il primo che riconobbe nel gruppo, a parte la ragazzina dalla sguardo stravissuto.

- Vieni con me, haide.

L'uomo lo seguì fino al numero 38, dove vide una grande folla di persone in piedi, evidentemente in attesa di qualcosa. Sulle tavolate imbandite sotto la veranda, c'erano pronte diverse pietanze, tra cui l'uomo distinse alcune dolma, pita e birra a profusione, oltre a vari tipi di dolci. Una sorta di pranzo di consuolo, usanza antica che era in vigore anche dalle parti di cui era originario lui. Milan si voltò, bofonchiando qualcosa tra i denti, che l'uomo decifrò come:

- Ci vediamo dopo

Lui, di famiglia khorakanì, gruppo in netta minoranza nel campo, non si avvicinava a una cerimonia di quegli "altri", gli ortodossi, che erano solo buoni a ubriacarsi e a fare scoppiare casini. In più, c'erano già stati diversi litigi violenti all'interno del campo tra i due gruppi e questo non aveva certo contribuito a rasserenare gli animi. Neanche la morte riusciva a riunire ciò che gli uomini, chavoré rissosi e presuntuosi, si ostinavano a tenere separato.

L'uomo chiese permesso tra la folla e si avvicinò al gruppo, dove gli sembrava di aver riconosciuto qualcuno. Era Boban Djordjevic, una persona distinta e a modo, vestito con una sahariana azzurra che metteva in risalto il colore violaceo della sua pelle. Dall'alto dei suoi circa due metri, Boban ispirava un senso di intelligenza furba e pacioccona, forse anche a causa dei suoi lunghi baffoni spioventi.

- Brutta storia - disse l'uomo - era tuo parente?

- Quasi parente, sai, io compare di suo zio Dusko.

- Si sa qualcosa di come è successo?

- No, bronchite forse. Ci ganav. Sua famiglia non vuole dicere.

Sulla morte del bambino, l'uomo aveva sentito per lo meno tre versioni differenti: bronchite con complicazioni cardiache, malformazione genetica al cuore, influenza non curata o curata male. La morte, indeterminata come la vita, aveva in mezzo a quella comunità tutti i volti immaginabili e nessuno in particolare. Che importava la diagnosi della malattia, se tanto comunque il bambino, per ignoranza dei genitori o mancanza di mezzi, non sarebbe stato curato come doveva?

E poi, il piccolo, malato lo era stato sempre, per quanto poteva ricordare. Epilessia e rachitismo, malattie croniche e senza cura: Dolar - nelle parole stesse del dottore - era nato sotto una cattiva stella. Almeno, così, si era risparmiato la morte più atroce, la lectospirosi, provocata dai morsi delle zoccole.

A scuola, i ragazzini più grandi l'avevano preso di mira e qualcuno l'aveva anche picchiato. Questo l'aveva allontanato dai banchi scolastici e da allora si aggirava per il campo con quella sua andatura traballante e malferma, come se il suo corpicino gracile non sostenesse gli sforzi eroici di quella vita insensata che gli si agitava dentro.


- Kaj jas? Dove andiamo? l'uomo lo sentiva sempre ripetere, come un motivetto stonato che esce da un giocattolo sul punto di rompersi definitivamente.

E adesso non c'era più. Finalmente andato, partito per l'ultimo viaggio, a conoscere quella sua terra d'origine soltanto immaginata, di cui aveva tanto sentito parlare. Adesso, quella morte assurda, più assurda del solito, ci aveva pensato lei a espellerlo, una volta per tutte.

Dall'interno del prefabbricato, proveniva un pianto soffocato. A un tratto una donna con gli occhi arrossati uscì, i capelli grigi scarmigliati, appoggiata alla comare, lo sguardo perso nel vuoto. Fuori, gli uomini e i ragazzotti tirati a lucido parlavano sommessamente. Il funerale era l'occasione mondana per rincontrare gente di famiglia e sapere le ultime novità. La roba sul tavolo non aveva un aspetto molto florido, pensò l'uomo. Qualche mosca apatica degustava con anticipo le delizie culinarie preparate per consolare gli ospiti e ringraziarli della visita.

Un sole stanco e malato filtrava mollemente attraverso il tendone, rendendo la scena ancora più spettrale.

Si aspettava il Pope. L'ampio stanzone all'interno era illuminato fiocamente da qualche candela ed era gremito di gente. L'uomo si intrufolò tra i presenti, riconoscendo e salutando vari tipi che si accalcavano sulla porta e nella parte prospiciente la bara. L'assenza di luce e l'odore fortissimo dei fiori gli provocarono una lieve sensazione di capogiro. Si guardò attorno, senza riuscire ancora a localizzare se non la forma esteriore del feretro. Il monolocale era stato allestito senza badare a spese per la veglia funebre, che era durata tutta la notte, e per la cerimonia del mattino seguente.

Facce di uomini provati dalla vita, a quarant'anni già sfiancati dal dolore e attenti al rituale arcaico della morte, la sola cosa, insieme alla festa di Gurgevdan, che potesse riunirli, per un momento, attorno a qualcosa di diverso dalla sbornia quotidiana. I ragazzi e i bambini, forse gli unici realmente meravigliati di non vedere più Dolar tra di loro a giocare tra i rottami e i rifiuti della discarica proprio fuori del campo, gli adulti concentrati e rispettosi, ma per nulla sorpresi dall'eventualità di morire a nove anni.

Al centro della stanza, appena adattata la vista al buio illuminato solo dai ceri, l'uomo ebbe la visione irreale del volto del bambino, avvolto in un nastro verde. Come se morendo avesse riacquistato il suo essere androgino, completo. Qualcuno più pio di lui l'avrebbe detto assurto finalmente all'invidiabile condizione di angelo. Ma cos'era un angelo, per lui? Il labbro impercettibilmente leporino tradiva appena lo stupore di quell'esserino implume di stare proprio lì, in quella cassa di legno, circondato da fasci di fiori colorati e da tanta gente vestita di nero.

- Quello è il nonno, non è vero? chiese l'uomo, un po’ in soggezione, come se avesse paura di dovere giustificare la sua presenza lì, in mezzo a loro. Aveva indicato un grassone trasandato e mal sbarbato, dall'occhio strabico e i capelli appiccicaticci, che gli sembrava in qualche modo associato al piccolo scomparso.

- No, quello è compare di padre. Nonno morto.

Finalmente, il Pope fece il suo ingresso nella casetta dei Radosavljevic, con la valigetta in mano. Un ometto tarchiato, con uno sguardo ferino stampato sul volto e l'aria, ma solo l'aria, di chi è al di sopra delle passioni umane. Un che di inquietante, pensò l'uomo, nelle maniere circospette, come di spia al servizio di una qualche Inquisizione celeste. Era qui ufficialmente per giustificare quella morte assurda. Teodicea. Anche a questo livello elementare e primitivo di esistenza si sentiva il bisogno di spiegare l'inspiegabile: si poteva chiamare vita la breve sfortunata parabola di Dolar su questa terra? Il Pope era pagato per dire che Dio voleva questo, che dunque tutto ciò era giusto. Era questo il suo mestiere.

Un mestiere sporco, pensò l'uomo.

L'alito di alcool che diffuse nell'aria al suo passaggio, il colletto sudicio e gli occhiali appannati resero il Pope allo stesso tempo meno venerando e più vicino ai suoi fedeli. A ogni modo, appena entrato, sparì nella stanza da letto per cambiarsi.

Ben presto riapparve, vestito con il tipico copricapo e i paramenti sacri. Aveva una Bibbia bisunta in mano, verosimilmente scritta in caratteri greci. Subito attaccò una litania in quella lingua sconosciuta a tutti eppure familiare. L'atmosfera divenne carica di una sorta di venerazione, l'altro lato dell'indifferenza. Indifferenza verso il mistero del male, di quella vita cattiva, di quel dio cattivo, che stava lì, lontano e impenetrabile, salvo scendere a colpire implacabile quando si ricordava degli uomini.

- Kyrie Eleison…, recitava la litania, monotona.

Il fotografo gagiò scattava in continuazione, con un apparecchio vecchio modello, provocando grossi lampi bianchi nel buio dello stanzone. L'uomo vide a un tratto districarsi dalla folla Milorad, fratello maggiore di Dolar, in preda a una crisi di pianto. Era un ciccione dal carattere piuttosto irascibile. Si era sciolto in lacrime di fronte alla scena straziante del fratellino nella bara.

Al suo passaggio tra la folla, l'uomo gli posò impacciato una mano sul braccio, in segno di solidarietà, ma il ciccione, lo sguardo velato di lacrime, pur guardandolo in viso per un breve lunghissimo istante, sembrò non riconoscerlo. Passò oltre.

- Kyrie Eleison…

Dopo un'ultima benedizione con l'incensiere, il Pope si accomiatò dai familiari baciandoli sulle guance e invitò i presenti a fare lo stesso con Dolar. Uno a uno gli astanti si avvicinarono alla bara e compirono il macabro rituale. Qualcuno fece l'offerta delicata di un fiore porpora, altri misero qualche banconota italiana ai piedi del corpicino, dove già era visibile altro denaro. I più baciarono il cadavere sulla fronte direttamente o con la punta delle dita.

L'uomo chiese il permesso ai genitori e si avvicinò, commosso. Cosa aveva unito quella vita strampalata, breve quanto il volo di un calabrone peloso in una giornata afosa d'estate, alla sua esistenza irrequieta, insoddisfatta, incapace di adattarsi a quello che la sua ragione e la sua passione gli indicavano come il surplus di assurdo regalato al mondo dai suoi consimili? Non sapeva rispondere. Ma un filo c'era, lo sentiva, tenue ma palpabile, ne era sicuro. Altrimenti non sarebbe stato lì, in quel momento, a condividere un dolore che non era il suo.
Si chinò sul volto del bambino. Era avvolto nella fascia verde, come se avesse dolore ai denti. Mentre baciava la fronte di Dolar, una fitta lo colpì al fianco. Una sensazione di nausea, forse dovuta al profumo intenso dei fiori, gli fece girare la testa.

Appena fuori, si avvicinò al padre, un ometto tarchiato con il volto stravolto e fece per stringergli la mano. Boban, che lo aveva seguito, gli prese il gomito e lo tirò in disparte:

- Questo tu non fai, gente a funerale non si dà mano…Tu mangia qualcosa, vuoi?

La faccia baffuta e sorridente di Boban sembrò perdere consistenza, liquefarsi sotto i suoi occhi brucianti per l'incenso e la mancanza di ossigeno, che rendevano difficile anche respirare in quella casa. Nel cranio dell'uomo scorrevano e si mescolavano le vibrazioni monotone del cavo ad alta tensione, il profumo dei fiori, i mille volti tutti così uguali eppure diversi l'uno dall'altro. L'uomo si voltò, stava male, forse stava per vomitare. Si allontanò velocemente dal cortile, bofonchiando qualche saluto tra i denti.

Non sarebbe più tornato, giurava a se stesso, mai più. Si pentiva addirittura di avere mai messo piede in un campo Rom. Sarebbe andato nella grande città per ubriacarsi e stordirsi, per cercare di estrarsi quella spina dolorosa dal fianco. Estirpare quel ronzio fastidioso dal cranio. Solo questo gli importava.

No, non sarebbe tornato più. Eppure, in fondo, sapeva che non era vero.

Salì in macchina sbattendo lo sportello, mise in moto imprecando contro il suo destino e, dopo aver sgommato nevroticamente, imboccò il vialetto dell'uscita.

I ragazzi lo videro allontanarsi impassibili, come se niente fosse mai stato.


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