31/03/2012 - Mercoledì 7 marzo, l'attivista rom bosniaco e fotografo
Dervo Sejdic ha posato per una foto durante l'intervista con l'Associated Press
di Sarajevo.
Dervo Sejdic non ha mai voluto essere presidente. Ma irritato perché gli era
impedito di concorrervi in quanto zingaro, ha deciso di battersi per i propri
diritti "per una questione di principio". Sejdic ha chiesto di correre per la
presidenza durante le elezioni del 2005, ma è stato seccamente respinto dalla
commissione elettorale, in quanto non è "Bosniaco, Croato o Serbo". Appellatosi
alla corte costituzionale, ricevette un rifiuto simile. (AP Photo/Amel Emric)
[...] Jakob Finci è ambasciatore bosniaco in Finlandia e ha detenuto diversi
incarichi per il governo. Ma non può partecipare perché Ebreo.
Tutti e due hanno citato la Bosnia di fronte alla Corte Europea per i Diritti
Umani, per obbligare la nazione a cambiare la sua costituzione, che permette
solo ai Bosniaci musulmani, ai Serbi ortodossi ed ai Croati cattolici di correre
per la presidenza o per la camera alta del Parlamento.
La Carta venne redatta a Dayton, Ohio, dai negoziatori di pace nella corsa
per fermare la guerra di Bosnia 1992-95 che opponeva i tre principali gruppi
etnici uno contro l'altro. Per cercare di fermare i combattimenti, i negoziatori
dovettero elaborare un complicato accordo che escludeva le minoranze.
La costituzione cristallizzò la nazione in due ministati - uno per i Serbi e
l'altro condiviso da Bosgnacchi e Croati - uniti da un governo centrale. Vennero
stabiliti tre presidenti, uno per ognuno dei maggiori gruppi etnici.
Nessuno prestò molta attenzione quando nel 2009 Sejdic e Finci vinsero il
processo. Ma quando l'anno scorso la UE ha dichiarato che applicare quella
sentenza era "una delle precondizioni per richiedere l'adesione alla UE" i
leader di Bosnia sono stati obbligati a tenerne conto e da allora la notizia è
al centro del dibattito nazionale.
Nonostante gli sforzi frenetici per trovare una soluzione e salvare l'offerta
di unire la nazione alla UE, è scaduto il mese scorso un altro termine fissato
dalla corte per i diritti umani, senza che il verdetto fosse attuato. Le
controparti, dice Sejdic, rimangono "a chilometri di distanza le une dalle
altre."
I Serbi si oppongono con veemenza ad una significativa modifica della
costituzione, perché temono che diluisca l'autonomia del loro ministato.
I Bosniaci intendono cambiare la costituzione per consentire alle minoranze
di concorrere alle alte cariche, sperando che così si producano riforme che
rimpiazzino il sistema condiviso con una democrazia unificata.
Anche i Croati chiedono cambiamenti, ma nella direzione opposta: un sistema
condiviso più forte che dia loro più poteri, anche se tra i tre i Croati sono il
gruppo più piccolo.
[... Ricorda Sejdic:] "Mi è stato letteralmente risposto che prima dovevo
cambiare la costituzione e poi riprovare. Sino allora, i Rom non saranno una
-categoria costituzionale-".
Questo è ciò che nel 2009 innestò la causa alla Corte Europea per i Diritti
Umani. Ben presto venne informato che un altro bosniaco, Finci, aveva intentato
una causa simile. Il tribunale di Strasburgo, in Francia, combinò le due cause
passandolo in giudizio l'anno stesso.
Sejdic e Finci divennero eroi per i componenti delle 17 minoranze di Bosnia,
come pure dei figli di matrimoni misti, che lamentavano di essere stati
discriminati per due decenni, nel prendere parte all'elezione per la presidenza
o la camera alta.
Per i politici, sono un mal di testa che non passa.
Non solo devono pensare agli interessi dei rispettivi gruppi etnici, ma anche
alla complessa logica che sta dietro alla sentenza del tribunale di Strasburgo.
Si dovrebbe aggiungere un ulteriore presidente di minoranza ai tre inefficaci
e costosi già esistenti? O dovrebbe esserci un solo presidente, eletto
direttamente dai votanti di entrambe i ministati, un passo verso l'unificazione
tanto temuta dai Serbi?
"Vedi, il diavolo è nei dettagli," dice Krstan Simic, il membro serbo della
commissione parlamentare incaricata di trovare una soluzione.
Se la Bosnia non troverà il modo di risolvere il problema entro le prossime
elezioni nel 2014, potrebbe essere espulsa da Consiglio d'Europa, un ulteriore
battuta d'arresto delle sue prospettive UE.
Nel frattempo, Sejdic continua a spingere. "Amo la Bosnia," dice. "Per questo
l'ho citata in giudizio."
Nel 2010 ha fatto un'altra causa, perché la sentenza del 2009 non era
stata raccolta. Ma questa volta ha chiesto un risarcimento: "Quattro anni di
mancati introiti presidenziali", circa 125.000 euro (160.000 dinari).
Se non gli fosse permesso di concorrere alle elezioni del 2014, chiederà un
ulteriore risarcimento pewr altri quattro anni di mandato presidenziale.
Milano, 24 marzo 2012 - Dejan Lazic è un rom nato in Italia ma per il giudice di
pace di Milano deve restare nel Cie di via Corelli.
Si tratta di una decisione opposta a quella presa ieri a Modena dove erano stati
liberati due fratelli bosniaci perchè nati nel nostro paese.
Lazic è nato a Moncallieri 24 anni fa. Ha sempre vissuto in Italia, ha
frequentato la scuola elementare (anche se non l'ha mai terminata). Non ha
chiesto la cittadinanza al compimento del 18 anno perché non sapeva di doverlo
fare. È uno zingaro che vive alla giornata, di espedienti. Ha anche dei
precedenti penali per piccoli furti. Nella stessa situazione sono anche i suoi
familiari. È stato portato a Corelli perché gli hanno notificato un
provvedimento di espulsione all'uscita del carcere (dove è stato detenuto 5 mesi
per scontare un vecchio procedimento definitivo).
Nel provvedimento prefettizio è stato scritto, su una sua presunta
dichiarazione, che si sarebbe sottratto ai controlli di frontiera facendo
ingresso in Italia nel 2005, senza poi richiedere il permesso di soggiorno.
Dejan Lazic è del tutto analfabeta. Davanti al giudice ha negato di aver fatto
tale dichiarazione.
Gli avvocati Eugenio Losco e Mauro Straini affermano di avere i documenti
relativi alla sua storia e di voler preparare al più presto ricorso avverso
l'espulsione avanti al giudice di pace di Milano.
Di Fabrizio (del 26/03/2012 @ 09:47:21, in Regole, visitato 1667 volte)
22 marzo 2012 - L'azienda pubblica Atac e l'Unar hanno sottoscritto un
accordo contro razzismo sui bus.
Autisti e personale di bordo dei mezzi pubblici romani si formeranno per
prevenire e contrastare fenomeni di discriminazione etniche e razziali.
È quanto prevede l'accordo sottoscritto a Roma, in occasione della Giornata
contro il razzismo, dall'azienda Atac e dall'Unar, l'Ufficio nazionale
antidiscriminazioni razziali.
Il protocollo è stato firmato dal direttore dell'Unar, Massimiliano Monnanni,
dall'assessore alla Mobilità di Roma Capitale, Antonello Aurigemma, e dall'Ad di
Atac, Carlo Tosti. L'accordo, in particolare, è destinato al personale dei mezzi
e mira a formare autisti e dipendenti alla prevenzione ed al contrasto delle
discriminazioni etniche e razziali che si potrebbero verificare sui mezzi dell'Atac.
"Questo protocollo – ha spiegato Monnanni – impone le parti a forme di
coordinamento operativo sul tema delle discriminazioni, promuove attività
formative per gli operatori di front line dell'azienda, come gli autisti di tram
ed autobus o gli addetti dei capolinea, e spinge all'organizzazione di convegni
e seminari comuni sull'argomento".
Ibadet Dibrani è una giovane donna rom molta coraggiosa. Un coraggio che in
questo momento le nasce dalla disperazione, ma che le conferisce comunque la
caratteristica di una donna forte e combattiva, non disponibile ad arrendersi
alla logica e al potere di un'amministrazione comunale che da una parte dà e
dall'altra toglie sulla base di logiche e principi che lasciano molti dubbi.
Oggi Ibadet ha 34 anni e con i suoi 5 figli, la cui più piccola ha solo 9 mesi,
è stata sfrattata dalla casa dove viveva da oltre un anno. Da una piccola e
vecchia roulotte sistemata a pochi metri dall'abitazione, senza vestiti per
potersi cambiare e con poche coperte per tutti i bambini, continua a chiedersi
perché ce l'hanno proprio con lei. "È la prima volta che qualcuno della nostra
etnia, arriva fino alla Corte d'Assise" spiega Ibadet. I suoi figli, tutti
minorenni, sono Belen di 9 mesi, Corona di due anni e mezzo, Merema di 12 anni,
Ekrem di 13 e Toni di 15. Tutta la famiglia raggiunge gli onori delle cronache
nel 2010 quando ad appena due mesi dal matrimonio, la moglie di suo figlio Toni
decide di rompere l'unione accusando il marito e tutta la sua famiglia, di
averla rapita, violentata e trattata da schiava. I giornali locali si gettano
sulla storia battezzando il caso come "la sposa bambina" dividendo subito i
protagonisti della vicenda fra buoni e cattivi. Toni ha 15 anni e così sua
moglie, anche se sugli organi d'informazione alla sposa, per essere ancora più
bambina, attribuiscono 13 anni, e le fanno indossare le vesti della giovane
eroina, che denunciando i suoi aguzzini infonde il coraggio per ribellarsi, ad
altre coetanee nelle sue condizioni. Questa la storia letta sulla stampa.
Diversa è invece la vicenda raccontata dai protagonisti che incontriamo al campo
di Coltano in provincia di Pisa dove la famiglia Dibrani vive. A parlare è
Ibadet, che stanca di subire i pregiudizi, le sentenze e i provvedimenti
amministrativi che l'hanno gettata fuori di casa con i suoi figli, decide di
raccontare la sua storia a chi ha voglia di ascoltarla.
"Accetterò la decisione del magistrato -ci dice Ibadet- e se riterrà che la
nostra famiglia è colpevole lascerò spontaneamente la casa che mi ha assegnato
la Società della Salute di Pisa. Ma fino a quel momento ho dei diritti, e
desidero difendere la mia famiglia dalle tante ingiuste bugie che sono state
dette. La prima è quella di aver dato alla moglie di mio figlio 13 anni, quando
in realtà ne hanno entrambi 15, fra loro vi sono solo due mesi di differenza.
Per il nostro popolo sposarsi giovani è una tradizione. Dopo il matrimonio di
mio figlio ci sono state tante altre unioni di questo tipo nel territorio pisano
e italiano, ma nessuno se n'è interessato: perché allora ce l'hanno solo con
noi? Perché il comune di Pisa ha dato ascolto, fin dall'inizio solo ad una
versione dei fatti? Perché non aspetta che sia il Tribunale ad esprimersi?
Perché non rispetta la Costituzione Italiana, dove si dice che la responsabilità
penale è sempre individuale e che non può ricadere mai sui minori?".
Il matrimonio di Toni è stato, secondo tradizione rom, accordato fra le due
famiglie, dopo che i due giovani si erano conosciuti. Infatti i genitori si sono
incontrati due volte in Kosovo, stabilendo la dote e festeggiando con una grande
festa, prima con i genitori della sposa in Kosovo e poi a Coltano con gli altri
parenti e amici del campo. Dopo la denuncia della ragazza sono stati arrestati
Ibadet, suo marito Riza di 35 anni, il figlio Toni, i nonni, lo zio e la zia
dello sposo. "Mio figlio -continua Ibadet- ha fatto sei mesi di carcere dove è
stato anche picchiato dal suo compagno di cella. Io sono stata la prima ad
uscire dopo 26 giorni perché ero incinta, poi mia suocera e successivamente mio
suocero e gli zii di mio figlio". In carcere a Prato resta il marito in attesa
di giudizio, che dovrebbe arrivare dopo il processo iniziato in questi giorni e
che non è prevedibile sapere quanto durerà.
In questo periodo sembrano essere emerse varie contraddizioni nell'accusa e nel
racconto della 'sposa bambina', mentre sono state raccolte prove a favore della
famiglia di Ibadet: nel frattempo la Società della Salute dell'area pisana ha
revocato la concessione amministrativa con la quale aveva assegnato la casa ai
Dibrani e ad altre 13 famiglie Rom, all'interno del progetto chiamato "Città
sottili". Secondo la Società della Salute, la famiglia di Ibadet non ha
rispettato i patti, infrangendo le leggi. "Non abbiamo commesso nessun reato.
Dopo il matrimonio in Kosovo, siamo tornati in Italia e l'abbiamo trattata come
una regina, non le abbiamo mai fatto del male. Non capisco perché non posso
entrare nella mia casa -continua-. Io al momento sono solo un'imputata ed ho
diritto a tre gradi di giudizio. Il Comune ci ha condannati prima del giudice e
ci ha buttato fuori di casa, senza darmi il tempo di prendere le mie cose.
Adesso tramite l'avvocato dovrò fare la richiesta per poter riavere almeno i
vestiti per me e i miei figli".
Ma come si può togliere la casa a dei bambini, nel periodo più freddo dell'anno?
Che colpe hanno loro in tutta questa storia? Il Comune di Pisa ha la risposta
pronta, ed ha invitato Ibadet ad andare a Pontedera dai suoi suoceri, affermando
che hanno una grande casa, ma non dicendo che vi abitano già molte persone, e
non c'è certo lo spazio sufficiente per la famiglia Dibrani. Ma il Comune è
anche disposto a prendersi cura dei bambini di Ibadet, togliendoli alle cure e
all'affetto della madre, usando un metodo molto discutibile e criticato anche da
diversi assistenti sociali e pedagogisti, che non credono assolutamente che
disgregare una famiglia, allontanando i figli dall'affetto dei genitori, sia una
procedura positiva e corretta. Il legame affettivo fra questi bambini e Ibadet è
molto forte, proprio come quello delle madri italiane con i loro figli, l'essere
rom non vuol dire trascurare i bambini, tutt'altro. Basterebbe entrare in un
campo per rendersene conto. Ed i bambini Rom reagiscono come tutti i bambini
italiani, perché non sono diversi da loro: "La scorsa notte -ci spiega Ibadet-
Corona che ha due anni e mezzo ha pianto fino alle due di notte perché voleva il
suo cuscino rimasto dentro casa, voleva andare nel suo letto, abbiamo pianto
insieme perché non sapevo cosa dirgli". Possiamo immaginare quale trauma sarebbe
per lui essere separato anche dalla madre.
Dopo che Ibadet ha rifiutato di andare a Pontedera e di lasciare il figli alle
cure del Comune, pare che neanche la piccola e vecchia roulotte sistemata nel
campo possa rispettare le regole. Idadet non può continuare a stare sul
territorio del Comune di Pisa, perché le sue condizioni sono definite "precarie"
e quindi deve andarsene. Secondo l'amministrazione, Ibadet adesso può
raggiungere i suoceri a Pontedera o i genitori in Belgio, ed il Comune è anche
disposto a pagare il viaggio, naturalmente di sola andata, a lei e alla famiglia
poiché - questo è stato messo in chiaro - anche se Ibadet e la sua famiglia
saranno assolti, non riavranno la casa. Non importa se non potrà essere presente
al processo, non importa se i figli che hanno iniziato un percorso scolastico
dovranno cambiare compagni, non importa se i più piccoli, che hanno già vissuto
lo sfratto dalla casa come un episodio traumatico, dovranno subire anche
l'allontanamento dal campo dove sono nati e la separazione dalle persone che
hanno conosciuto fin dalla nascita. L'unica cosa che conta per l'amministrazione
è che Ibadet vada fuori dal territorio del comune.
Quello dei Rom è uno dei popoli più discriminati della storia dell'umanità, il
loro avere solo una tradizione orale li mette ai margini della società, di loro
nessuno ricorda o forse neanche conosce, le numerose persecuzioni che possiamo
far risalire a molti secoli fa, passando dai lager nazisti, fino alle più
recenti guerre balcaniche. Anche Ibaded è scappata allo scoppio del conflitto in
Kosovo risparmiandosi le violenze che questa etnia ha dovuto subire fino al
culmine delle atrocità compiute nel '99 da Milosevic con le sue operazioni di
pulizia etnica.
Alla discriminazione si aggiunge discriminazione. E' Ibadet stessa che racconta:
"Dopo le notizie pubblicate dai giornali locali non potevamo più salire
sull'autobus che la gente ci sputava; una donna rom del campo è stata aggredita
verbalmente; un medico si è rifiutato di visitarmi quando ero incinta. Perché mi
hanno condannato prima del giudice senza ascoltare quello che avevo da dire?
Perché gli operatori del comune che ci frequentavano, se ne stanno zitti?".
Di Fabrizio (del 08/03/2012 @ 09:22:30, in Regole, visitato 3149 volte)
In un articolo firmatoda Carlo Stasolla, ieri vi avevamo parlato della
campagna
di raccolta firme che l'Associazione 21 luglioha lanciato contro lo sgomberto
forzato e illegale dei cittadini romanì di Roma. Sotto, lo spot che spiega tutti
i motivi dell'iniziativa, che ha due solide basi: la prima è il rispetto dei
diritti umani e delle convenzioni internazionali; la seconda l'applicazione di
una sentenza del Consiglio di Stato, che ha stabilito che il piano per
l'Emergenza Rom è illegale, frutto di pura fantasia propagandistica.
Alla sentenza avrebbe dovuto immediatamente seguire la soppressione del Piano
Nomadi del Comuni di Roma e dunque lo stop immediato agli sgomberi che, invece,
procedono a gonfie vele spinti dal vento della propaganda più becera, razzista e
populista.
L'appello lanciato dall'Associazione 21 Luglio ha in poche ore raccolto
centinaia di firme. Tra gli altri, hanno appoggiato la campagna anche
intellettuali ed artisti: Moni Ovadia, Erri De Luca (autore, tra l'altro, di un
video-appello), Susanna Tamaro, Giorgio Parisi (fisico, premio Boltzmann), Alex
Zanotelli, Valerio Mastandrea e Sabina Guzzanti. Anche il Teatro Valle Occupato
ha aderito all'iniziativa.
Proprio in merito alla campagna dell'Associazione 21 luglio alcuni esponenti
politici della maggioranza hanno pensato di dire la loro. Tra gli altri, spicca
l'onorevole Fabrizio Santori (presidente della Commissione Sicurezza di Roma
Capitale).
"Prendiamo atto con il dovuto rispetto dell'appello lanciato dal mondo della
cultura sottoscritto da molti intellettuali, anche non romani, che si sgolano
lanciando anatemi contro gli sgomberi dei rom. E' dunque questa l'occasione per
rompere finalmente le barriere ideologiche, per non chiudersi dietro frasi fatte
e slogan già detti e trovare finalmente una soluzione al problema. Rilancio la
proposta dell'albo della solidarietà. Chi vuole dare una casa e un lavoro ai rom
si faccia avanti e si iscriva nell'albo che da mesi abbiamo proposto. Invece di
gridare allo scandalo gli intellettuali passino ai fatti e offrano una fattiva
collaborazione ospitando i rom nelle proprie case, seconde e terze abitazioni, e
propongano eventuali offerte di lavoro. Chi invece ha ottenuto in via
privilegiata una casa di enti a prezzi modici, la metta a disposizione dei
bisognosi e ristabilisca così l'uguaglianza sociale che tanto propugna".
(clicca sull'immagine per ingrandirla ndr)
Poi Santori, evidentemente non soddisfatto, ha pensato bene di rincarare la
dose:
"La giunta Alemanno - ha affermato in una nota - è legittimata dal voto popolare
a procedere con gli sgomberi e con l'allontanamento dal territorio dei nomadi
che si accampano illegalmente in città. Invitiamo chi contesta questa volontà a
lasciare il lusso delle proprie abitazioni e dei propri quartieri signorili,
dei
paesaggi incontaminati e dei celesti silenzi, per condividere con migliaia di
romani quello che resta dei loro, di quartieri, in preda alle scorribande dei
rom e al modo tipico della stragrande maggioranza dei nomadi di vivere nel
degrado, nella sporcizia e nell'illegalità".
Ma come è possibile che si permetta a un amministratore pubblico di utilizzare
un linguaggio così razzista e populista? E come è possibile che
l'amministrazione comunale continui, dopo quasi 4 mesi, a ignorare una sentenza
del Consiglio di Stato che vieta espressamente l'applicazione delle iniziative
dell'Emergenza Rom?
Noi l'abbiamo domandato a Moni Ovadia, uno dei primi firmatari dell'Appello
dell'Associazione 21 luglio. Moni Ovadia è attore, drammaturgo, scrittore,
compositore e cantante tra i più impegnati del nostro Paese.
- Signor Ovadia, secondo il presidente della Commissione Sicurezza di Roma
Capitale lei - insieme a tutti gli altri intellettuali - dovrebbe mettersi in
casa i rom, anziché firmare petizioni contro gli sgomberi forzati...
- Guardi, non ho parole. Siamo a livello di "retrobar dello sport". Questo
Santori dovrebbe dimettersi subito perché oltre a utilizzare un linguaggio
offensivo non sa che il 75% dei rom sono cittadini italiani, e che gli altri
sono comunque cittadini comunitari, in quanto tali titolari di dignità e
diritti. Questi politici di destra, questi nostalgici del ventennio
mussoliniano, lo dicano chiaramente se alla Costituzione italiana preferiscono
la legislazione nazista, o quella fascista. Cosa vogliono fare dei rom?
Bruciarli vivi?
- Lei è ebreo, ha narrato più volte lo sterminio e conosce lo stigma, la
discriminazione...
- Facevano così anche con noi ebrei: ci sgomberavano da un luogo all'altro prima
di mandarci nei campi di sterminio. Ora i politici fanno i carini e i simpatici
con noi per aggraziarsi gli Stati Uniti e Israele: chissà se questo Santori
direbbe le cose che ha detto dei rom anche di un ebreo: chissà se avrebbe il
coraggio di dirmi "sporco ebreo". Per i romanì invece si permette di farlo
perché sa che il populismo in Italia paga, anche in termini di consenso
elettorale. Ma guardi, personalmente ho firmato quell'appello ritenendolo un
dovere morale. Noi auspichiamo soluzioni serie, umane, dignitose, non facciamo
propaganda.
- Anche perché gli sgomberi dei rom a Roma sono costati 6 milioni di
euro.
- Con quel denaro avrebbero potuto risolvere seriemente il problema
dell'emergenza abitativa. Ma le dico anche altro: il prossimo anno a Roma si
eleggerà il nuovo sindaco e sicuramente assisteremo ad altre dichiarazioni come
quella di Santori.
- Nella sua orchestra suonano musicisti rom...
- Non solo: io ospito abitualmente i miei musicisti a casa, come ha suggerito il
presidente della Commissione Sicurezza. I miei musicisti sono rom rumeni, sono
artisti eccezionali. Mi permetta di consigliare a Santori un libro: si intitola
"Rom Genti Libere", l'ha scritto il mio amico Santino Spinelli, docente
universitario, intellettuale e rom.
Di Fabrizio (del 20/02/2012 @ 09:40:12, in Regole, visitato 2057 volte)
Giornalismi.info L'avvocato del ragazzo italiano: "rispetto per la vittima,
ma va fatta giustizia, è competente il tribunale dei minori". Hanno puntato il dito contro Rom, Slavi, Nomadi e "Zingari": ma l'arrestato
e' italiano, come anche suo padre. Hanno detto che il ragazzo e' maggiorenne
basandosi sull'approssimazione di un esame radiologico, ma il test del DNA e i
certificati di nascita dicono il contrario. Quando la sete di giustizia si
trasforma in voglia di vendetta e "caccia allo straniero". 18 febbraio 2012
-
Carlo Gubitosa
(clicca per ingrandire)
Rom, rom di etnia sinti, zingaro, nomade di origine slava, slavo nato in
Germania. Sul ragazzo recluso a San Vittore per l'omicidio del vigile urbano
Nicolò Savarino è stato detto di tutto, ma ora sappiamo che Remi Nikolić è un
cittadino italiano nato a Parigi il 15 maggio 1994, fratello di Gojko Jovanović
(cittadino italiano nato ad Hamm, Germania), figlio di Snežana Nikolić
(cittadina serba nata a Rašanac) e di Zoran Jovanović (che nonostante il suo
nome straniero è un cittadino italiano nato a Busnago, nel cuore brianzolo della
Padania).
Mentre la comunità Rom di Milano attende invano delle scuse per il trattamento
da "caccia allo zingaro" riservatole dalla stampa quotidiana nel corso di questa
vicenda, la procura di Milano sarà chiamata nelle prossime ore a misurarsi con
questi dati, che oggi noi possiamo confermare in esclusiva dopo aver esaminato i
documenti del nucleo familiare e Il test forense del DNA datato 10 febbraio 2012
che ne certifica gli effettivi legami di sangue.
Dati che sembrano consegnare alla cronaca un ulteriore dramma che si aggiunge al
lutto della famiglia Savarino: la possibilità molto concreta che un ragazzo
minorenne sia recluso in un carcere per adulti tra i più "duri" d'Italia, con la
giustizia che si trasforma in vendetta negando quel supporto educativo,
psicologico e assistenziale che la legge prevede anche per gli assassini, quando
hanno meno di 18 anni.
Un pasticcio aggravato dalle false generalità fornite dal ragazzo, che
attualmente è registrato a San Vittore con il nome del fratello ventiquattrenne
Gojko, a cui si aggiunge l'ondata di sdegno che ha attraversato il paese in
seguito all'omicidio Savarino, aumentando il "peso" sul tavolo del Gip
dell'esame radiologico che attribuiva al ragazzo una età approssimativa di
diciotto anni.
In assenza dei riscontri che oggi il test del DNA è in grado di fornire,
la
competenza del caso è stata quindi attribuita al tribunale ordinario, e sono
serviti a poco il certificato di nascita rilasciato dalla quarta circoscrizione
del comune di Parigi (dichiarato inammissibile in quanto prodotto in copia) e il
documento d'identità rilasciato al ragazzo dal comune di Albignasego, che a sua
volta aveva provveduto alle opportune verifiche con le autorità francesi.
(clicca per ingrandire)
Per confermare la competenza del tribunale dei minori sul caso del vigile ucciso
a Milano, l'avvocato David Russo, che assiste il minore Remi Nikolić, ha
richiesto e ottenuto che si procedesse ad un test del DNA per verificare gli
effettivi legami di parentela tra le persone coinvolte nella vicenda. Dai
risultati delle analisi forensi effettuate dalla sezione dipartimentale di
Medicina Legale dell'Università degli studi di Milano, il ragazzo arrestato
risulta figlio della signora Nikolić con una probabilità del 99,999% il che
dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio che è proprio lui quel ragazzo nato
a Parigi "domenica quindici maggio 1994, alle ore ventuno e trentacinque minuti,
in rue D'Arcole n.2" e registrato dalle autorità francesi diciassette anni e
nove mesi fa come figlio di Snežana Nikolić.
Anche il legame di paternità risulta confermato dalle analisi con valori che
"consentono di ritenere i rapporti di maternità, paternità e genitura come
praticamente provati".
Le prove sono state presentate nel corso dell'udienza che si e' svolta il
15
febbraio presso il tribunale del riesame di Milano, dove David Russo, l'avvocato
del ragazzo, ha invocato ancora una volta la competenza del tribunale dei minori
per questo caso.
"Siamo ben consapevoli che è stata stroncata una vita umana - ha dichiarato
l'avvocato Russo - e non possiamo che essere vicini al dolore dei familiari.
Ma
quello che chiediamo è che venga fatta giustizia, e non possiamo condannare
questo ragazzo se prima la giustizia non accerta chi è e quanti anni ha. E'
prioritario effettuare questo accertamento - prosegue Russo - perché c'è il
rischio che tutti gli atti processuali raccolti finora possano essere
considerati nulli in quanto prodotti da un tribunale incompetente".
Analisi di maternita' e paternita'
(clicca per ingrandire)
Ma il 17 febbraio il tribunale del riesame di Milano ha deciso: al collegio
giudicante basta un semplice esame radiografico (e non una perizia legale) per
determinare che quel ragazzo è maggiorenne con assoluta certezza, e valgono a
poco certificati di nascita e test del DNA, di cui potete visionare degli
estratti in questa pagina.
Le motivazioni di questa maggiore età "assegnata d'ufficio" sono piuttosto
kafkiane. Di fronte a quell'unico esame radiografico, a detta dei giudici Martorelli, Taccone e Corte il dubbio sull'età del nomade "sfuma, ed appare
evidentemente superfluo, foriero di inutili costi per la collettività".
E qui l'interpretazione si fa difficile: il dubbio sfuma o è
superfluo? Perché
se sfuma bisogna capire cosa lo fa sfumare, e quali documenti di prova lo fanno
sfumare perfino di fronte ad un test del DNA eseguito dall'Università di Milano.
Se invece il dubbio sembra superfluo, allora state violando i diritti di un
minore perché il codice penale prevede che in caso di dubbio si facciano degli
accertamenti affidando il soggetto al tribunale dei minori fino alla
determinazione della sua età, e quindi il dubbio sarà superfluo per il collegio
giudicante, ma è fondamentale per il codice penale.
Alle motivazioni incomprensibili si aggiungono quelle risibili: per il tribunale
del riesame il ragazzo "in più occasioni, ha dichiarato date di nascita che ne
attestano la maggiore età", e poco importa che poi sia stato indagato con
l'accusa di false generalità.
Per il collegio giudicante i documenti prodotti dalla difesa si basano su
"dichiarazioni di sedicenti parenti e testi", ma la parentela "sedicente" è in
realtà biologica, visto che i giudici non hanno in alcun modo confutato il test
del DNA eseguito dalla sezione dipartimentale di Medicina Legale dell'Università
degli studi di Milano. Semplicemente non lo hanno preso in considerazione.
Inquietante poi l'affermazione in base alla quale sarebbero "costi inutili"
quelli sostenuti dalla collettività per la tutela legale dei minori o dei "non
certamente maggiorenni", anche quando sono assassini. Chi se ne frega se ha 17
anni e 9 mesi o 18? Lo buttiamo in galera, gettiamo la chiave e risparmiamo
anche dei soldi.
Ma la vera motivazione di questa negazione dell'evidenza documentale sembra
trasparire da un'altra frase del collegio giudicante, che attribuisce al ragazzo
"assoluto spregio per la vita umana", e probabilmente è questa la ragione per
cui "si merita" di stare a San Vittore, indipendentemente dalla sua età e da
quello che prevede la legge per ragazzi della sua età.
Ma questo non è diritto, è vendetta. Una vendetta che a qualcuno potrà dare una
forma di macabra soddisfazione, appagamento o sollievo, ma che di fatto aggiunge
una nuova vittima a questa tragedia: lo stato di diritto. Se abbandoneremo la
giustizia per passare al giustizialismo, all'elenco delle vittime di questo
dramma umano, familiare, cittadino e sociale andrà aggiunta anche la nostra
civiltà democratica, che si manifesta anche anche in quel rispetto della persona
umana e dei suoi diritti riconosciuto dal codice penale e dalla costituzione
anche ai criminali.
Se cederemo all'odio, alla vendetta e alle reazioni di pancia che portano alla
negazione dell'evidenza documentale perfino quelli che indossano una toga, su
quel maledetto asfalto non avremo perso solo la vita di un vigile, ma anche lo
stato di diritto, che un tempo nel nostro paese veniva fatto valere anche per
capimafia come Riina e Provenzano, senza processi sommari e con un puntiglioso
esame delle carte. E questo nonostante l'"odiosità dei crimini commessi" e il
più che assoluto disprezzo per la vita umana attribuito agli imputati.
Oggi questo stato di diritto sembra sospeso per questo ragazzo a cui le carte
rifiutate dal tribunale attribuiscono 17 anni e 9 mesi, un ragazzo che possiamo
odiare quanto ci pare in quanto assassino o presunto tale, ma che almeno in
teoria non possiamo privare di quei diritti che lo stato riconosce "perfino"
agli assassini minorenni, a meno di non voler sostituire il codice penale con
l'"occhio per occhio".
E noi adulti non dovremmo essere migliori dei ragazzi a cui pretendiamo di
insegnare la morale e la giustizia? Vogliamo davvero che l'omicidio che ha
portato in galera questo ragazzo trascini a fondo anche noi, in un sonno della
ragione che porta i tribunali ad azioni che negano la realtà documentale e il
diritto penale? Cedere alla giustizia sommaria non è in fin dei conti una
sconfitta per chi cede alla tentazione della barbarie e della vendetta? La
giustizia chiara, limpida e cristallina al di sopra di ogni dubbio o sospetto
sui diritti negati all'imputato non è anche un dovere di rispetto verso la
famiglia della vittima?
Domande, queste, destinate a perdersi nei corridoi del palazzo di Giustizia di
Milano, dove il ventennale di "Mani Pulite" verrà macchiato da una grave
ingiustizia che nega elementi chiave di fatto e di diritto. Ma questa macchia la
vedrà soltanto chi avrà la mente abbastanza aperta da capire la differenza tra
la tolleranza verso un omicidio e l'intolleranza verso l'ingiustizia.
La famiglia di questo ragazzo se ne faccia una ragione: la civilissima Italia ha
deciso che non merita gli stessi percorsi di recupero riconosciuti agli
assassini minorenni, l'ha fatta troppo grossa, ha dato troppo scandalo.
E'
"maggiorenne ad honorem", perché Milano ha deciso che il Beccaria è un carcere
troppo leggero per lui. Che rimanga pure a San Vittore.
La "caccia al Rom" sui media italiani
L'omicidio dell'agente di polizia municipale Nicolò Savarino e' stato arricchito
nella cronaca da molti particolari "etnici", con la comunita' Rom di Milano nel
mirino dei titoli di giornale.
"Vigile ucciso, è caccia a due slavi" (La Repubblica),
"Incastrati dal cellulare:
sarebbero due rom sinti" (Corriere della Sera), "I Rom finiscono sotto torchio"
(Il Giornale), "Blitz nel campo rom ma gli assassini erano appena fuggiti" (Il
Giornale), "Basta fare favori ai Rom" (Libero): E' stato questo il tenore dei
titoli apparsi nei giorni immediatamente successivi all'uccisione del vigile.
A partire da questi titoli, l'ondata di intolleranza si e' propagata, con
articoli a sostegno della pena di morte e vere e proprie istigazioni al
linciaggio che hanno attraversato per giorni i blog e i social network.
Ma ora la cittadinanza italiana di Remi Nikolic, attualmente recluso a San
Vittore, e' un dato consegnato alla cronaca, come le origini "padane" del padre Zoran Jovanović, che nonostante il suo nome straniero è un cittadino italiano
nato a Busnago, nel cuore della Brianza.
Di fronte al trattamento riservato dalla stampa alla comunità rom in occasione
dell'omicidio del vigile Savarino, c'e' chi ha chiesto ragione di quello che a
posteriori appare come un "accanimento mediatico". Tra questi c'è
Dijana
Pavlovic, membro della "Consulta Rom" del Comune di Milano e vicepresidente
della Federazione "Rom e Sinti Insieme", che ha stigmatizzato il ruolo giocato
dai media e dalla politica in questa vicenda.
"E' l'ennesima volta che si strumentalizzano fatti di cronaca - afferma la
Pavlovic - con vere e proprie istigazioni all'odio razziale che hanno portato a
situazioni violente come quelle che si sono verificate a Torino. Sin da subito
abbiamo invocato il rispetto della carta di Roma, chiedendo che la vicenda di
Milano non venisse cavalcata politicamente e mediaticamente, ma questo e'
avvenuto nonostante i nostri inviti".
Dopo essere stata trascinata suo malgrado sulle prime pagine dei giornali, la comunita' Rom di Milano adesso presenta il conto della disinformazione. "Di
fronte alla provata falsita' di tutte le etichettature etniche dell'omicidio
Savarino - ha dichiarato Dijana Pavlovic - valuteremo con l'Osservatorio sulla
discriminazione la possibilita' di intraprendere opportune azioni legali a
tutela della comunita' Rom di Milano".
Di Fabrizio (del 17/02/2012 @ 09:20:00, in Regole, visitato 1521 volte)
Convegno sulle politiche nazionali d'integrazione della comunità Rom 22 Febbraio 2011
ore 15.00
Fabbrica delle e
Corso Trapani 91
Torino
La sentenza di novembre 2011 ha dichiarato inesistente lo stato d'emergenza
rispetto alla questione rom sollevata con il Piano Maroni nel 2008. Il decreto
emanato dall'ex- Ministro dell'Interno prevedeva la realizzazione di progetti
volti a controllare la presenza e l'esistenza dei Rom sui territori delle città
italiane maggiormente colpite dal fenomeno: Milano, Roma e Napoli e subito dopo
Torino e Venezia; censimenti, commissari speciali, campi con video sorveglianza
le misure previste per ridurre il pericolo e dare sicurezza ai cittadini
italiani all'alba delle elezioni.
Ora è il momento di porre la vera questione di emergenza per le comunità Rom.
Noi crediamo che sia l'inclusione sociale, sia ridare dignità a donne, bambini e
uomini che vivono in campi nomadi senza servizi igienici, a rischio alluvione e
senza i più diritti elementari. Vogliamo mettere insieme forze e idee per
garantire lo studio ai bambini, per l'inclusione abitativa delle famiglie e per
l'inserimento lavorativo degli adulti.
Abbiamo vissuto l'esperienza del Dado a Settimo, non solo una comunità di
accoglienza, ma un più ampio percorso sociale.
Oggi, anche in seguito alla recente visita al Dado del Ministro Fornero,
vogliamo confrontarci con le altre realtà, in particolare con le esperienze
delle città oggetto del decreto per scambiare buone pratiche, con la politica
locale e con la società civile, discutendo con chi vive con la comunità Rom
tutti i giorni, siano essi insegnanti, operatori sociali o mediatori, per capire
come andare avanti.
Dibattito moderano i giornalisti Gianluca Gobbi e Sara
Strippoli
Quali proposte per il futuro?
Interverranno: Antonio Ardolino, Progetto Controcampo e Cooperativa Berenice
di Roma Sergio Bontempelli di Africa Insieme di Pisa Don Massimo Mapelli per Casa di Carità di Milano Pietro Cingolani, FIERI Arch. Guido Lagana Ex docente Politecnico Torino Oliviero Alotto per Terra del Fuoco Aldo Corgiat, Sindaco di Settimo Torinese Elide Tisi, Comune di Torino
L'Autorità per l'energia e per il gas con Delibera 38/2012 ha sospeso la
Delibera 67/2010 che abrogava la possibilità di stipulare contratti a forfait a
favore delle famiglie sinte, rom, giostraie e circensi.
Dal 9 febbraio 2012 è possibile stipulare contratti annuali a forfait in media e
bassa tensione, sulla base della potenza richiesta e di una durata di utilizzo
pari a 6 ore/giorno.
In queste ore abbiamo verificato che molti gestori, a partire dall'ENEL, non si
sono ancora adeguati alle nuove disposizioni e per questo li invitiamo al
rispetto della Delibera 38/2012. La Federazione ha attivato uno sportello
segnalazioni (telefono 0376 360643, orario ufficio) che si occuperà di fornire
le informazioni esatte ed eventualmente segnalare alla stessa Autorità i
disservizi che si potessero creare nei prossimi giorni.
Un ringraziamento anche all'Ufficio Nazionale Antidiscriminazione Razziale ed
Etnica (UNAR), in particolare ringraziamo il Direttore Massimiliano Monnanni, e
il Punto di contatto nazionale per la strategia nazionale rom e sinti per il
supporto offerto alla Federazione Rom e Sinti Insieme.
Di Fabrizio (del 14/02/2012 @ 09:20:17, in Regole, visitato 2479 volte)
La notizia mi era sfuggita, grazie a Daniele Mezzana per
la segnalazione
ultimo aggiornamento: 31 gennaio, ore 15:28
Roma, 31 gen. (Adnkronos) - Mai più foto che ritraggono i volti dei
mendicanti. Lo intima la Cassazione, sottolineando che "non è possibile negare
l'oggettiva valenza diffamatoria" alla pubblicazione di uno scatto di chi chiede
la carità: "la coscienza comune - spiega la Quinta sezione penale - pone questi
soggetti in uno dei gradini più bassi della cosiddetta scala sociale ed è allora
naturale che chi sia costretto dalla necessità a praticare la mendicità e venga
additato come tale si sentirà mortificato e gravemente ferito nella sua
onorabilità".
Se si vuole denunciare il dilagare di un fenomeno, dice la Cassazione, è
necessario "coprire i volti delle persone coinvolte in fenomeni sui quali grava
un pesante giudizio negativo della collettività".
La vicenda analizzata dalla Suprema Corte nasce dalla querela sporta da una
rumena ultratrentenne, Ciurar C., comparsa in una fotografia pubblicata a
corredo di un articolo di un giornale di Trento nel quale venivano riportate le
reazioni e i commenti dei cittadini, pure loro rappresentati fotograficamente,
nell'ambito di una tavola rotonda sul 'pacchetto sicurezza' e sull'istituzione
delle ronde. A corredo del servizio, la foto della rumena accompagnata dalla
didascalia 'una questuante all'opera nel centro storico di Trento'. Il gip di
Trento, il 31 gennaio 2011, aveva dichiarato il non luogo a procedere "perché il
fatto non sussiste" nei confronti del direttore e dell'autore dell'articolo,
ritenendo non diffamatorio l'articolo e le foto improntati a scoraggiare
"fenomeni quali la prostituzione, il vandalismo e l'accattonaggio diffuso". La
Cassazione è stata di tutt'altro avviso.
La rumena fotografata a mendicare ha fatto ricorso in Cassazione, facendo notare
che era l'unica delle persone ritratte a rappresentare il problema che il
'pacchetto sicurezza' avrebbe voluto affrontare e che, nel testo, si parlava di
'accattonaggio diffuso legato ad organizzazioni criminali'. Piazza Cavour -
sentenza 3721 - ha accolto la tesi difensiva della rumena e ha osservato che "la
fotografia di Ciurar C., indicata come questuante all'opera, posta a corredo
dell'articolo non può essere considerata neutra, dal momento che il lettore è
portato ad identificare la persona rappresentata con uno dei mali da combattere
- l'accattonaggio diffuso - e l'ipotizzato collegamento con ambienti malavitosi
- ed uno dei problemi da eliminare per garantire una pacifica vita cittadina".
La Cassazione fa notare che "quando per esigenze di cronaca si mostrano immagini
di persone in qualche modo coinvolte in fenomeni sui quali grava un pesante
giudizio negativo della collettività - al fine di evitare che si crei un preciso
collegamento tra un fenomeno generale e una specifica e individuabile persona
fisica ed evitare quindi la conseguente e inutile carica di disdoro personale,
si usa sgranare o comunque coprire il volto della persona ritratta per renderla
non identificabile".
Il 31 Gennaio, in piena emergenza freddo, il Comune ha sfrattato una donna
con cinque bambini al villaggio rom di Coltano: questa drammatica verità è stata
occultata da una sequela impressionante di dicerie, diffuse prima dagli
amministratori, poi dal principale partito della città. Una vera e propria
"macchina del fango" mobilitata per screditare un'intera famiglia.
A casa della donna, si è detto, si sarebbero trovati gioielli per centinaia di
migliaia di euro, frutto di attività criminose; i parenti sarebbero proprietari
di una villa e di attività commerciali confiscate dalla magistratura; infine, la
donna sarebbe tra le protagoniste del rapimento della "sposa bambina". Nessuna
di queste informazioni corrisponde a verità.
Per il sequestro dei "gioielli", la signora non è neanche imputata: è stata
giudicata estranea ai fatti, ed è un'altra la persona che andrà a processo.
Quanto alla "villa" dei parenti, il 12 Novembre 2011 la Corte d'Appello ne ha
annullato la confisca, mentre il procedimento di sequestro delle attività
commerciali è stato archiviato dal GIP il 10 Ottobre. Resta l'accusa della
"sposa bambina", su cui permangono molti dubbi che - si spera - verranno
chiariti nel processo.
La realtà dei fatti è molto semplice. La signora è stata sfrattata perché
imputata in un processo. Il Comune la considera colpevole a prescindere dalla
sentenza, violando così la Costituzione, la Dichiarazione dei diritti umani e i
principi più elementari del diritto ("l'imputato è innocente finché una sentenza
non abbia accertato la sua colpevolezza"). Con ammirevole candore, il Partito
Democratico afferma che il Consiglio Comunale avrebbe chiesto di "superare, in
questo caso, la cosiddetta presunzione di innocenza". Un principio basilare
dello stato di diritto verrebbe dunque "superato" (sic) dalla delibera di un
Comune! Quando si tratta di rom si sospendono tutte le regole, salvo poi
richiamare gli stessi rom al "rispetto delle regole".
Il PD afferma che in questa vicenda le autorità locali "non hanno nulla di cui
vergognarsi". Perché allora lo sfratto è stato eseguito lontano dagli occhi
indiscreti dei giornalisti? Cosa c'era da nascondere, se tutto era "secondo le
regole"? Si voleva occultare lo spettacolo di una donna e cinque bambini
lasciati al gelo? Si voleva mostrare che la signora aveva "rifiutato le proposte
di accoglienza", nascondendo il fatto che si volevano dividere i piccoli dalla
loro mamma? Lo stesso comunicato del PD indica come soluzione l'affido a terzi
dei bambini (temporaneo, ma per quanto?): l'unica "salvezza" dei figli
consisterebbe dunque nel levarli alla madre… A Pisa quando si parla di rom la responsabilità personale sancita dalla
costituzione svanisce: si accusano intere famiglie, bambini compresi.
Ci pare che il senso vero di questa operazione sia più che trasparente. Il
Comune ha smantellato il programma Città Sottili, sostituendolo con una politica
sistematica di sgomberi. Lo sfratto di Coltano è solo uno dei tasselli di questa
politica, a cui si accompagnano velenose campagne di stampa: si pensi alle
continue esternazioni del Sindaco sulla presenza eccessiva di rom (come se un
gruppo fosse di per sé portatore di problemi). Pisa non è affatto
"all'avanguardia" nelle politiche sociali: le scelte di questa amministrazione
vengono al contrario seguite con crescente inquietudine dalle organizzazioni per
i diritti umani, come dimostra il recente rapporto del Consiglio d'Europa. La nostra città è diventata il teatro di una vera e propria "emergenza diritti
umani": è questa l'amara verità che ricaviamo dalla vicenda dello sfratto di Coltano.
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