Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Da
Roma_ex_Yugoslavia
wsws.org by Elisabeth Zimmermann
19/01/2011 - Il villaggio di Mayen, vicino alla città di Coblenza nello stato
tedesco della Renania-Palatinato, è governato da un'amministrazione
socialdemocratica (SPD). Una famiglia rom originaria del Kosovo viveva a Mayen
dal 1999. Nonostante la grave malattia di una dei suoi componenti, la signora
Borka T., l'intera famiglia è stata deportata in Kosovo in condizioni inumane,
all'inizio di dicembre. Appena un mese dopo, la signora T. è morta di emorragia
cerebrale.
Alle prime ore del 7 dicembre, la polizia ha portato via dalla loro casa a
Mayen la signora Borka T. con suo marito e loro figlio Avdil di 14 anni. Furono
dati loro solo 30 minuti per raccogliere un po' di loro cose personali.
Furono scortati dalla polizia all'aeroporto di Düsseldorf e con altri rifugiati
deportati a Pristina, capitale del Kosovo.
La signora Borka era stata visitata all'aeroporto di Düsseldorf da un dottore
il cui compito era dare l'ok alla sua deportazione. Lo specialista che l'aveva
in cura, le aveva diagnosticato disturbi post-traumatici da stress, depressione
e nevralgie. A causa di questi sintomi, riceveva farmaci e terapie regolari col
supporto della Caritas. Questi fatti erano conosciuti ma sono stati ignorati
dagli incaricati all'aeroporto.
Le condizioni di difficoltà della donna sono state spazzate via
dall'amministrazione locale di Mayen-Coblenza, che ha ordinato la deportazione
della famiglia. Il tribunale amministrativo di Treviri ha poi confermato la
deportazione, ben sapendo che per la donna in Kosovo non esisteva alcuna
possibilità di cura.
L'amministrazione di Mayen-Coblenza da parte sua ha negato ogni
responsabilità anche dopo l'annuncio della morte di Borka T. all'inizio di
quest'anno. Un portavoce ha semplicemente dichiarato che l'autorità si
appoggiava sul giudizio del tribunale amministrativo di Treviri, che affermava
c'erano possibilità di cura in Kosovo. Il portavoce ha smentito qualsiasi
correlazione tra la mancanza di medicine e la morte della donna come assurda,
dichiarando con cinismo: "L'emorragia intercranica è sempre una possibilità".
L'avvocato della famiglia, Jens Dieckmann, ha emesso il 7 gennaio un
comunicato stampa, che descrive la traumatica esperienza in Kosovo della
famiglia e la susseguente brutale deportazione di Borka T. e della sua famiglia:
"Nell'ottobre 1999 la signora T. arrivò in Germania con la sua famiglia.
Precedentemente avevano vissuto a Mitrovica, la città del Kosovo al centro dei
combattimenti (nella guerra jugoslava) che fu divisa (e rimane divisa) tra Serbi
e Albanesi del Kosovo. Assistette alla distruzione della sua casa durante
la guerra e alla morte di molti tra vicini, amici e parenti. La signora T. e la
sua famiglia sono membri del gruppo etnico rom e rimasero intrappolati nella
guerra del fuoco incrociato tra Serbi e Albanesi. Gli Albanesi espulsero da
Mitrovica la famiglia della signora T., assieme ad altri Rom, accusandoli di
collaborazione coi Serbi. In seguito la famiglia fuggì dalle rovine di Mitrovica."
"Dalla fuga da Mitrovica, dove la signora T. fu testimone di case in fiamme
ed innumerevoli morti e feriti, soffriva di stress post-traumatico. Perciò in
Germania era sottoposta a cure specialistiche e col supporto della Caritas
seguiva una terapia specifica per i traumi."
Poi l'avvocato continua descrivendo come il tribunale di Treviri ha deciso
sulla deportazione, anche se era pienamente consapevole della sua condizione.
Ignorando le ragioni umanitarie per negare la deportazione, la corte ha invece
preferito fare affidamento sulle informazioni completamente errate del ministero
degli esteri, secondo cui la donna sarebbe stata seguita da specialisti in
Kosovo e avrebbe avuto cure immediate.
In realtà, le condizioni reali a Pristina erano molto differenti. Qualsiasi
giustificazione da parte delle autorità tedesche di non aver potuto prevedere la
mancanza di strutture sanitarie in Kosovo è completamente insostenibile.
Diversi studi e relazioni di organizzazioni di aiuto ai rifugiati, come Pro
Asyl e l'UNICEF, hanno documentato la disperata situazione politica e sociale in
Kosovo.
Ci sono solo circa 300.000 posti di lavoro per il 1.800.000 di abitanti del
Kosovo, ed il tasso ufficiale di disoccupazione è del 45%. Per le comunità rom e
askali, il tasso varia dal 95 al 100%. Virtualmente non c'è una forma di
sostegno per i disoccupati, e l'assistenza medica è disponibile solo a chi possa
pagare. Anche l'istruzione è correlata al pagamento delle tasse. Il sistema
agricolo della provincia non è competitivo, e non esiste un settore produttivo
significativo. La principale esportazione del Kosovo sono i rottami metallici.
In un rapporto del Consiglio d'Europa, il Kosovo è descritto oggi come una
terra dominata dalle "mafie e dal crimine organizzato". Il comandante dell'ALK
ed attuale primo ministro, Hacim Thaci, è accusato di guidare un cartello
criminale coinvolto in omicidi, prostituzione e traffico di droga. (Cfr. "Washington's
"humanitarian" war and the crimes of the KLA")
Quando la famiglia T. tornò a Pristina non c'erano dottori, impiegati di
lingua tedesca dell'ambasciata o operatori umanitari ad incontrali. Dopo aver
completato le formalità di immigrazione, la famiglia venne completamente
abbandonata. "Potete andare dove volete," fu detto loro. L'unico denaro in loro
possesso erano 220 euro.
All'arrivo, la signora T. subì un attacco di panico e dichiarò che non
sarebbe tornata a Mitrovica. Poi la famiglia si fece due ore di taxi fino ad un
fratello della signora T. nella Serbia meridionale. Là, circa 40 membri della
famiglia vivono in baracche attrezzate poveramente. Ogni unità ha un angolo
cottura ed una stanza dove tutti mangiano e la notte si dorme per terra. Non ci
sono attrezzature adeguate per bagno o doccia.
Il figlio quattordicenne Avdil, che in Germania viveva e frequentava la
scuola dall'età di tre anni, era totalmente scioccato dalla povertà che lo
circondava. Non avendo alcuna conoscenza della lingua, non aveva lì alcuna
possibilità di andare a scuola.
Vistasi negate cure mediche e farmaci, la signora Borka T. collassò
rapidamente dopo Capodanno. Venne portata in una clinica a Kragujevac dove entrò
in coma per poi morire di emorragia cerebrale.
La tragica morte della signora Borka T. è un altro schiacciante atto d'accusa
del sistema tedesco di asilo e deportazione. Ogni anno, migliaia di persone che
soffrono di gravi malattie vengono deportate verso i loro paesi di origine. In
molti casi, hanno vissuto per anni o addirittura decenni in Germania. Dove, è
stato negato loro il diritto di soggiorno permanente e vivono in uno stato di
insicurezza permanente.
Molti di questi deportati sono bambini nati in Germania e cresciuti nel
paese. Questi bambini sono brutalmente strappati dalle loro scuole,
dall'ambiente familiare e dagli amici e deprivati di ogni prospettiva futura.
Anche per queste circostanze, era interamente di competenza
dell'amministrazione di Mayen-Coblenza garantire un permesso di residenza per
motivi umanitari alla famiglia T. Appena due settimane prima della deportazione
di una famiglia, la conferenza dei ministri degli interni aveva emesso un
decreto che rendeva possibili decisioni simili. Tuttavia, lo stato della Renania-Palatinato ha deciso di applicare il regolamento solo il 23 dicembre, a
più di un mese dall'emanazione.
Nella sua lettera del 7 gennaio alla stampa, l'avvocato della famiglia ha
sollevato alcune questioni vitali:
- Perché non ci sono stati esami medici alla signora T. immediatamente
prima della sua deportazione?
- Perché all'aeroporto di Pristina non erano presenti specialisti o
organizzazioni di soccorso, quando le autorità tedesche sapevano che quel
giorno veniva deportata una donna con problemi mentali?
- Perché lo stato della Renania-Palatinato non si è unito al bando della
deportazione di Rom verso il Kosovo, come ad esempio lo stato del Nord
Reno-Westfalia? Il governo di Düsseldorf aveva preso la sua decisione sulla
base primaria del parere del ministro degli esteri e delle informazioni che
descrivevano la catastrofica situazione dei Rom in Kosovo.
- Perché non è stata fermata la pratica delle deportazioni in seguito alla
decisione della conferenza dei ministri degli interni del 19 novembre 2010?
Durante la conferenza, venne concordato che poteva essere rilasciato un
permesso di residenza ai rifugiati che si erano integrati correttamente e
sarebbero stati protetti dalle deportazioni almeno i ragazzi sino a 18 anni.
Avdil ha frequentato per anni la scuola e senza dubbio aveva soddisfatto i
criteri stabiliti.
Secondo il suo insegnante, Avdil era un bravo studente, laborioso e curioso,
popolare tra i suoi compagni. Nondimeno, lui e la sua famiglia furono
brutalmente deportati.
D'altronde, questa crudeltà burocratica è intenzionale. Le deportazioni in
Kosovo sono l'obiettivo dichiarato dell'accordo firmato il 14 aprile 2010, tra
il ministro tedesco degli interni Thomas de
Maiziere (CDU) e la sua controparte kosovara, Bajram Rexhepi. Impegna il Kosovo
ad accettare 14.000 rifugiati dalla Germania. Oltre a più di 10.000 Rom, la
cifra include anche Askali, Egizi kosovari e membri della minoranza serba del
Kosovo.
La maggior parte dei Rom fuggì dal Kosovo nel 1999 durante la guerra NATO
contro la Jugoslavia. Se la dottrina ufficiale della NATO era di proteggere gli
Albanesi kosovari dagli attacchi serbi e dalla "pulizia etnica", la guerra
condotta dalla NATO e dalla UE alimentò i nazionalismi etnici e contribuì alla
campagna di cacciata delle minoranze serbe, rom ed askali dal Kosovo. Alcuni
fuggirono in Serbia, Macedonia e Montenegro, ma molti cercarono asilo
nell'Europa occidentale o sperarono di essere riconosciuti come rifugiati dalle
guerre civili. La maggior parte delle richieste asilo in Germania sono state
respinte.
Ora, molti di quanti hanno fatto ingresso nel paese sono stati deportati,
nonostante il freddo inverno nel Kosovo distrutto e dilaniato dalla guerra. Le
persone di ritorno incontreranno povertà, esclusione sociale e carenza di
alloggi. Molti che mancano di assistenza medica adeguata soffriranno di malattie
e per alcuni, come la signora Borka T., la deportazione significa morte.
Da
Mundo_Gitano
Uno dei gruppi meno conosciuti del nostro paese sono i gitani. Sappiamo di
loro, li abbiamo visti, ma non sappiamo quando arrivarono in Perù né come
vivono, né quali sono i loro costumi. Carlos Pardo-Figueroa laureato alla PCUP e
docente alle Università Ricardo Palma e di Ceprepuc, ha realizzato un'inchiesta
interessante che unisce documentari ed etnografia.
Per conoscere meglio la storia dei gitani in Perù, ripropongo l'intervista
che fece "Punto Edu" alcuni giorni addietro.
Plaza
San Martín (Lima, anni 60)
Qual'è la storia dei gitani in Perù? Ce lo racconta questo ricercatore
dell'Istituto Riva-Aguero e membro della
Gypsy Lore Society, istituzione
internazionale di studi gitani.
A partire di 1951, l'Istituto Riva-Aguero della nostra Università, offre tre
borse di studio per la ricerca, a membri ordinari della suo istituto. Nel 2007,
tra i beneficiari c'era Carlos Pardo-Figueroa Thays, per il suo progetto sui
gitani nel nostro paese. Iniziò a lavorare nel gennaio 2008, raccogliendo
informazioni orali tramite interviste e attingendo ad archivi giornalistici.
Poi, dopo l'elaborazione dei dati di carattere etnografico, sintetizzò i suoi
risultati in un "essai"il quale fu completato con del materiale audiovisivo di
matrimoni, feste d'addio al celibato, il quale rifletteva le tradizioni dei
gitani in Perù.
L'inchiesta si è conclusa nel novembre scorso e si spera di farne un libro.
Quali sono gli obiettivi di questa indagine?
Abbiamo due obiettivi principali. Il primo, storico è di approfondire la
conoscenza di questa etnia così poco conosciuta nel nostro paese: come
arrivarono, si stabilirono e divennero peruviani. Poi, ho proposto
un'inquadratura di carattere etnografico e antropologico: descrivere alcuni
elementi fondamentali della cultura dei gitani (matrimonio, religione, cibi,
musica, parentado). Per questo ho proposto che dei due assistenti di ricerca
concessi dall'IRA, uno sia di storia (Gabriella Adianzén) e l'altro di
antropologia (Maria Elena Gushiken) ambedue provenienti dall'Università.
Da dove proviene questo interesse per i gitani?
Mi sono preoccupato di studiare le
minoranze etniche in Perù, che si inseriscano
in una tendenza storiografica che esiste a partire degli anni ottanta. Ci sono
molte pubblicazioni sui cinesi, giapponesi, italiani, tedeschi... ma c'è stato
poco interesse verso i gitani. A questo si somma un fatto circostanziale: nelle
carte che mia madre conservava in casa, ho trovato un ritaglio di giornale il
quale parlava dell'esistenza di un progetto del 1952, il quale mirava
all'espulsione dei gitani del Perù. Questo destò la mia curiosità. Sarà anche un
terzo elemento, il fatto che vivo nel distretto di La Victoria, nel quale si
concentrano i pochi gitani che si trovano attualmente a Lima.
foto: Parco dell'Esposizione, vicino al Teatro La Cabana – Lima anni 50
Se vogliamo prendere caratteristiche dai gruppi che lei ha menzionato, come si
può definire un gitano?
C'è una miscela enorme di culture dietro ai Gitani, però ci sono dei fili
conduttori. Io li definisco come un'unione di gruppi etnici i quali condividono
alcuni elementi, come abitudini migratorie, lingua o il fatto di essere
organizzati in una società patrilineare, cioè che si organizzano in funzione
dell'autorità maschile. Un quarto elemento è un'intensa endogamia, legata a una
sorte di orgoglio razziale. Loro ci tengono a sposarsi tra di loro, appartenenti
allo stesso gruppo e così a mantenere la consapevolezza del proprio lignaggio e
preservarlo.
Si possono definire come una nazione, un gruppo etnico transnazionale e
multinazionale, perché nei loro spostamenti hanno raccolto le caratteristiche
dei luoghi che li hanno accolti. Prevale anche l'immagine del gitano esoterico,
incluso quella dell'imbroglione. Molte di queste descrizioni provengono dalla
letteratura spagnola. Quando domandiamo loro cosa pensano di quello che si dice
di loro, dicono che a volta "i giusti pagano per i peccatori". Sono consapevoli
di vivere in zone marginali e dello stile di vita che conducono, però bisogna
essere cauti nel generalizzare.
Così come scrivevano i giornali del secolo scorso, le donne gitane erano
impegnate principalmente nella divinazione. Sono ancora , nella maggior parte
dei gruppi, dedite all'esoterismo, questa è l'immagine più diffusa che ne
abbiamo.
A quali conclusioni è arrivato?
Che nel paese ci sono una diversità di gruppi gitani, e che la maggior parte di
loro appartiene al gruppo Rom, dell'Europa dell'est. Riguardo alla storia, ci
sono documenti che indicano che potrebbero essere arrivati nel XVI secolo,
perché poi, ci furono delle normative che cercavano di evitare che continuassero
a venire, a causa dell'immagine negativa che davano, e che veniva rafforzata
dalla letteratura, oltre che per le accuse, come furti e imbrogli. In quanto
all'aspetto etnografico, hanno una serie di particolarità, ma tuttavia almeno
dall'inizio del XX secolo, fanno parte della società peruviana e sono totalmente
integrati. Con questo non significa che abbiano perso le loro tradizioni; così
come non possiamo dubitare che sono gitani, tanto meno possiamo dubitare che
sono peruviani.