Pubblicato: 08/04/2014 17:47,
di Costanza Hermanin Analista
politico, Open Society Foundations. Scritto con Miriam Anati,
responsabile dei progetti sostenuti in Italia da Open Society Initiative for
Europe, l'ala operativa di Open Society Foundations in Europa.
Qualche tempo fa, l'assessore agli affari sociali di una grande città italiana
ci spiegò con malcelato orgoglio come avesse deciso di migliorare sensibilmente
le condizioni di vita dei Rom nella sua città. Era riuscito a convincere il suo
sindaco a includere nel piano di utilizzo dei fondi destinati dal
Fondo Sociale
Europeo alla città una considerevole somma per il miglioramento delle condizioni
socio-sanitarie del campo nomadi. Vi era persino la possibilità che l'attuale
campo fosse distrutto invece che bonificato, e che poco distante se ne
costruisse uno nuovo composto da deliziose casette prefabbricate, in legno, con
tutte le comodità, persino i bagni. Così finalmente i nomadi della sua città
avrebbero vissuto in maniera dignitosa.
Più ci raccontava le sue intenzioni, più eravamo allibite. Questi, uomo di
sinistra e portatore d'idee progressiste si era sì dimostrato disponibile ad un
incontro, suggerito dalle associazioni locali, con noi in quanto rappresentanti
della fondazione che più si è investita nella causa Rom in Europa negli ultimi
vent'anni. Ma la presentazione dell'assessore, in totale buona fede, ci dimostrò
chiaramente perché in Italia esiste un grave problema Rom, e perché, in assenza
di un cambiamento di mentalità, nel quale tutti dovremo impegnarci, il problema
è destinato a perpetuarsi.
La causa principale del problema Rom in Italia sono infatti i cosiddetti campi
nomadi attrezzati, creati e gestiti con denaro del contribuente dalle pubbliche
amministrazione. In molti paesi europei esistono quartieri ghetto, ma in nessun
stato membro dell'UE vi sono villaggi creati dalle istituzioni appositamente per
concentrarvi persone appartenenti a una singola etnia. Questa si chiama
segregazione razziale, e persino la Commissione europea ha recentemente
riconosciuto l'equazione "nomadi-Rom" celata dal linguaggio dell'amministrazione
pubblica italiana. La segregazione è un comportamento vietato da tutte le norme
internazionali del dopo-guerra. Ma in Italia è una pratica corrente.
Campi segregati solo per Rom esistono nella maggior parte delle città italiane.
Li gestiscono cooperative scelte dalle amministrazioni locali, sulla base di
contratti secondo i quali queste si occupano di tutto, dal sostegno alla
scolarizzazione, alla raccolta dei rifiuti, alle telecamere di sorveglianza e
alle guardie private che verificano i documenti di chi entra e chi esce. I campi
sono perlopiù lontani dai centri abitati, senza alcun mezzo pubblico che
permetta ai residenti di raggiungere facilmente una scuola o un posto di lavoro.
Il conto per le amministrazione pubbliche è salato. Una ricerca di
Lunaria ha calcolato che, nella sola città di Roma, la gestione dei campi nomadi
sia costata al contribuente 86 milioni di euro tra il 2005 e il 2011.
Perché abbiamo campi etnicamente segregati in Italia? Tre le risposte più
comuni.
In primo luogo, secondo le amministrazioni pubbliche, perché Rom e Sinti
sarebbero nomadi, e avrebbero quindi bisogno di aree di sosta dove parcheggiare
i caravan e restare temporaneamente, in attesa di partire per altri lidi.
Secondo autorevoli studi scientifici, tuttavia, il nomadismo è oramai un
fenomeno limitato al 3% dei Rom. A parte qualche giostraio - che pur non viaggia
365 giorni l'anno e ha una casa dove torna regolarmente per lunghi periodi - non
c'è quasi nessun Rom o Sinto volontariamente nomade ai giorni nostri in Italia.
I "campi attrezzati" italiani, inoltre, sono luoghi di abitazione permanente. Le
case nei campi sono baracche o container, che nulla hanno a che vedere con
abitazioni amovibili.
Una seconda spiegazione data per l'esistenza dei campi è la 'pericolosità degli
zingari' - convinzione diffusa a tal punto dal determinare, solo pochi anni fa,
l'adozione di un' 'emergenza nomadi'. Utile dunque concentrarli per
sorvegliarli. Ma se viviamo in un paese di diritto, e se la legge è uguale per
tutti, perché non lo è anche per loro? Se un Rom commette un reato deve essere
trattato di conseguenza. Ma dalla fine della shoah e dell'apartheid, è
internazionalmente vietato attribuire a un gruppo il comportamento di singoli.
Una terza e ultima spiegazione è che i Rom avrebbero una cultura diversa:
desidererebbero stare tra loro e non mischiarsi agli altri. Si tratta in questo
caso di pregiudizi belli e buoni, frutto di ignoranza o razzismo, come
dimostrano le storie di tutti quei Rom fedeli alle proprie tradizioni culturali,
che lavorano, pagano regolarmente il mutuo, vivono in appartamenti, e i cui
figli si laureano. Ma che rimangono per la maggior parte invisibili, preferendo
nascondere la propria identità per timore d'insulti e discriminazioni.
Tornando al nostro assessore, il nostro stupore proveniva dall'insistenza a
voler segregare in un 'campo nomadi' persone che nomadi non sono. E anche dalla
convinzione che un campo malsano è vergognoso, ma un campo per soli Rom lucido e
stirato a nuovo va bene. I fondi Europei per il risanamento o la ricostruzione
dei campi Rom della città non sono mai stati stanziati. Un criterio di base per
la spesa dei fondi strutturali dell'UE è infatti la non-discriminazione su base
etnica.
L'Italia ha una delle popolazioni Rom più circoscritte d'Europa, circa 170 000
individui, ossia lo 0,3% della popolazione italiana (in Romania sono 2 milioni e
mezzo e 800 000 in Spagna). Si tratta per la maggior parte di cittadini
italiani, presenti sul territorio a iniziare dal quindicesimo secolo. Oppure di
immigrati in regola, arrivati di recente, in ondate successive, da ex-Jugoslavia,
Romania e Bulgaria. Immigrati irregolari non potrebbero d'altronde stare in
campi attrezzati e ricevere i servizi delle cooperative che li gestiscono.
Nonostante il numero ridotto, le politiche d'inclusione sociale della
popolazione Rom in Italia sono state fallimentari. Con il risultato che la
stragrande maggioranza dei Rom presenti nel territorio vive in condizioni di
estrema emarginazione sociale ed economica, perdendo di conseguenza ogni
interesse a essere parte attiva e costruttiva della società circostante.
E' tempo di proibire la pratica dei campi segregati in Italia. I soldi pubblici
che servono a mantenerli possono essere usati per integrare i residenti dei
campi tramite supporti all'impiego, all'abitazione e alla scolarizzazione, in
vista di un avviamento verso l'autonomia. Vi sono persone che compiono questo
cammino in maniera autonoma. Ma sia tra i Rom che tra i non Rom, non tutti ne
hanno la forza. I fondi pubblici dovrebbero essere usati per questi, non per
discriminare e segregare.
L'otto aprile è la giornata internazionale dei Rom e dei Sinti. Usiamo
quest'occasione per fare un esame di coscienza e aprire un nuovo capitolo nelle
nostre relazioni con i Rom, che faccia onore a tutti. Solo così si renderà
dignità e rispetto ai Rom, e alla società italiana che li ospita al proprio
interno.