di Stefano Pasta -
La città nuova, Milano Corriere
Urlando "mortacci sua" ad una "mangiaterra", il protagonista ci svela che,
nonostante tutto, Roma è anche la sua città. Anche per un ragazzino che vive nel
campo attrezzato di Via Salone, il campo rom più grande d'Europa, posto fuori
dalla città, addirittura oltre il Grande Raccordo Anulare. Qui, come racconta il
documentario "Campososta" di Stefano Liberti e Enrico Parenti, prodotto da ZaLab,
vivono 1200 persone rom di varia nazionalità. Il campo non è collegato con i
mezzi pubblici e non ha alcuno spazio comune. La distanza tra i container dove
vivono le famiglie è di circa due metri. I bambini vanno la mattina a scuola in
istituti molto lontani grazie a un servizio di pulmini e, date le distanze e il
traffico, arrivano sempre in ritardo di almeno un'ora ed escono un'ora prima.
"Qua non ho una vita sociale", spiega una madre ricordando quando nel loro
vecchio quartiere incontrava le mamme dei compagni di suo figlio all'uscita
della scuola, prima che l'amministrazione li trasferisse fuori città.
Il campo è un ghetto, con tutti i problemi sociali del
ghetto.
Così, i ragazzi cresciuti ai margini della città soffrono maggiormente
l'esclusione sociale di cui è vittima il gruppo a cui appartengono. All'interno
del campo, la tensione è alta. Le varie comunità non comunicano, il livello di
istruzione è bassissimo, altissimo quello di disoccupazione. "Campososta" segue
la quotidianità degli abitanti: i bambini che vanno a scuola, gli adolescenti
che trascorrono le giornate a non far nulla (molti, pur essendo nati in Italia
non hanno la cittadinanza, quella di origine l'hanno perduta in seguito
all'implosione dell'ex Jugoslavia); gli adulti, uomini e donne, che tentano di
sbarcare il lunario con lavori di fortuna.
Secondo i registi, "Via Salone è l'emblema della politica di ghettizzazione su
base etnica operata dalle amministrazioni comunali di Roma dal 1994 a oggi".
E anche del ripetersi di una scelta italiana sbagliata, quella dei campi
"nomadi" per famiglie che non sono più nomadi da vari decenni. Una scelta di
politica abitativa fatta dalle città italiane a partire dagli anni Settanta, che
ci ha reso "il Paese dei campi". Ma i campi nomadi non c'entrano nulla con una
presunta "cultura rom".
Del resto, in via Salone i rom sono originari della Romania, Serbia, Montenegro
e Bosnia: in nessuno di questi Paesi esistono campi nomadi.
Ma i ghetti in cui confiniamo i rom delle nostre città non sono solo quelli
fisici, fuori dal Grande Raccordo Anulare. Ci sono anche quelli mentali. Secondo
l'Eurobarometro, solo il 7% degli italiani risponde positivamente alla domanda:
"Sei disponibile ad avere amici rom?". È uno dei valori più bassi in tutta
Europa.
Quando si parla di rom, si è tutti bravi a urlare, a chiedere sgomberi e a
confinare. Si dimentica che sono prima di tutto persone, appena 160mila, non più
nomadi, la metà ragazzini, la metà di tutti italiani. I problemi ci sono. Ma c'è
un dato da cui si potrebbe ripartire: sono un popolo di bambini, il 40% è in età
scolare. Per questo sarebbe bene decidere che una questione di 80mila minorenni
va affrontata con la scolarizzazione per tutti e con un forte impegno sociale e
di monitoraggio. Ci vuole l'attuazione di un progetto di lungo periodo e non
qualche sgombero con grancassa, o il ripetersi di scelte sbagliate come i grandi
ghetti ai margini delle città. Altrimenti, i piccoli rom vanno verso un futuro
simile a quello dei genitori. E il problema non si risolve, come dice la mamma
del protagonista di "Campososta":
"Vorrei qualcosa di meglio per i miei figli, non vorrei che anche loro crescano
così, no".
Campososta (doc, 8', Italia, 2013) di Stefano Liberti e Enrico Parenti;
montaggio: Chiara Russo