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Campososta, ghetto Rom oltre il Grande Raccordo Anulare
Di Fabrizio (del 30/08/2013 @ 09:00:03, in media, visitato 1642 volte)

di Stefano Pasta - La città nuova, Milano Corriere

Urlando "mortacci sua" ad una "mangiaterra", il protagonista ci svela che, nonostante tutto, Roma è anche la sua città. Anche per un ragazzino che vive nel campo attrezzato di Via Salone, il campo rom più grande d'Europa, posto fuori dalla città, addirittura oltre il Grande Raccordo Anulare. Qui, come racconta il documentario "Campososta" di Stefano Liberti e Enrico Parenti, prodotto da ZaLab, vivono 1200 persone rom di varia nazionalità. Il campo non è collegato con i mezzi pubblici e non ha alcuno spazio comune. La distanza tra i container dove vivono le famiglie è di circa due metri. I bambini vanno la mattina a scuola in istituti molto lontani grazie a un servizio di pulmini e, date le distanze e il traffico, arrivano sempre in ritardo di almeno un'ora ed escono un'ora prima. "Qua non ho una vita sociale", spiega una madre ricordando quando nel loro vecchio quartiere incontrava le mamme dei compagni di suo figlio all'uscita della scuola, prima che l'amministrazione li trasferisse fuori città.

    Il campo è un ghetto, con tutti i problemi sociali del ghetto.

Così, i ragazzi cresciuti ai margini della città soffrono maggiormente l'esclusione sociale di cui è vittima il gruppo a cui appartengono. All'interno del campo, la tensione è alta. Le varie comunità non comunicano, il livello di istruzione è bassissimo, altissimo quello di disoccupazione. "Campososta" segue la quotidianità degli abitanti: i bambini che vanno a scuola, gli adolescenti che trascorrono le giornate a non far nulla (molti, pur essendo nati in Italia non hanno la cittadinanza, quella di origine l'hanno perduta in seguito all'implosione dell'ex Jugoslavia); gli adulti, uomini e donne, che tentano di sbarcare il lunario con lavori di fortuna.

    Secondo i registi, "Via Salone è l'emblema della politica di ghettizzazione su base etnica operata dalle amministrazioni comunali di Roma dal 1994 a oggi".

E anche del ripetersi di una scelta italiana sbagliata, quella dei campi "nomadi" per famiglie che non sono più nomadi da vari decenni. Una scelta di politica abitativa fatta dalle città italiane a partire dagli anni Settanta, che ci ha reso "il Paese dei campi". Ma i campi nomadi non c'entrano nulla con una presunta "cultura rom".

    Del resto, in via Salone i rom sono originari della Romania, Serbia, Montenegro e Bosnia: in nessuno di questi Paesi esistono campi nomadi.

Ma i ghetti in cui confiniamo i rom delle nostre città non sono solo quelli fisici, fuori dal Grande Raccordo Anulare. Ci sono anche quelli mentali. Secondo l'Eurobarometro, solo il 7% degli italiani risponde positivamente alla domanda: "Sei disponibile ad avere amici rom?". È uno dei valori più bassi in tutta Europa.

Quando si parla di rom, si è tutti bravi a urlare, a chiedere sgomberi e a confinare. Si dimentica che sono prima di tutto persone, appena 160mila, non più nomadi, la metà ragazzini, la metà di tutti italiani. I problemi ci sono. Ma c'è un dato da cui si potrebbe ripartire: sono un popolo di bambini, il 40% è in età scolare. Per questo sarebbe bene decidere che una questione di 80mila minorenni va affrontata con la scolarizzazione per tutti e con un forte impegno sociale e di monitoraggio. Ci vuole l'attuazione di un progetto di lungo periodo e non qualche sgombero con grancassa, o il ripetersi di scelte sbagliate come i grandi ghetti ai margini delle città. Altrimenti, i piccoli rom vanno verso un futuro simile a quello dei genitori. E il problema non si risolve, come dice la mamma del protagonista di "Campososta":

    "Vorrei qualcosa di meglio per i miei figli, non vorrei che anche loro crescano così, no".

Campososta (doc, 8', Italia, 2013) di Stefano Liberti e Enrico Parenti; montaggio: Chiara Russo